Le sale cinematografiche di Bergamo e la loro storia

Come abbiamo già visto qui, nell’agosto del 1896, durante il periodo della festa patronale e a pochi mesi dalla scoperta dei fratelli Lumière, anche a Bergamo comparve per la prima volta il cinematografo, allestito sotto una tenda, fra le tante sistemate ai lati della Fiera.

Il baraccone del “Cinematografo Moderno”, che agli inizi del Novecento ospitava le prime proiezioni “stupefacenti” in Piazza Baroni, presso l’antica Fiera di Bergamo. Il primo Cinematografo comparso a Bergamo il 25 agosto 1896 consisteva in una tenda, alcune panche in legno, un proiettore Lumière di legno con una manovella cigolante e un lenzuolo sulla parete di fondo. La scoperta dei fratelli Lumière fu un fenomeno “primario” della belle époque (Domenico Lucchetti, Fotografi pionieri a Bergamo. Foto di Aristide Dragoni)

Dalla pellicola si effondevano su di un lenzuolo le immagini tremule e sfuocate delle ”fotografie in movimento”, suscitando grande entusiasmo per “l’ultima meraviglia del secolo”.

Tipi di visitatori alla Fiera

Nei primi anni del Novecento, nel cuore della belle époque, il cinematografo cominciò a uscire dagli spazi provvisori della Fiera e ad entrare nei teatri popolari cittadini, seppur associato al varietà, al cabaret e al music-hall: al Givoli di Piazza Baroni, al Politeama Novelli sul viale della stazione per poi approdare nel tempio dei melomani, il “Donizetti”, dove suscitò grave disapprovazione fra i benpensanti. E poi al Nuovo appena inaugurato, dove il vulcanico impresario Pilade Frattini diede al cinema una patente di nobiltà. A proiettare film erano gli impresari-nomadi che giravano le città con confortevoli carrozzoni, pronti a montare e a smontare in teatro i loro impianti. Nel 1908, la progressiva decadenza della Fiera, sempre più malfamata e fatiscente, portò il cinema anche al Sociale e al Rubini, per poi approdare allo scomparso bar Concordia, sul viale della Stazione, fino al primo locale permanente della città appositamente adibito agli spettacoli cinematografici: il “Cinema-salone Radium”, un baraccone tipo saloon da film western, sorto nel 1909 di fronte al boschetto di Santa Marta, avvolto in un’atmosfera da pionieri. Se nel frattempo la qualità delle proiezioni e il livello delle programmazioni erano in costante miglioramento, per i tipici spettacoli popolari come il circo, l’opera, il teatro leggero ed ogni forma di spettacolo di piazza, si avviava un lento ma inesorabile processo di decadenza.

Il Cinema Salone Radium era sorto nel 1909 di fronte al boschetto di Santa Marta, sul Sentierone (nella foto)

Di lì a poco, al Radium – destinato a vita breve – si affiancarono altre due sale cinematografiche: l’Universale, in via Torquato Tasso, e il Cinema Orobico, in piazza Santo Spirito (inaugurato il 23 luglio 1910) e, dagli anni Venti, oltre ai teatri votati al cinema (lo stesso Donizetti, il Nuovo, il Sociale, il Rubini e l’Augusteo in Borgo Palazzo), sorsero altre sale cinematografiche, molte delle quali accompagnarono per decenni i nostri sogni.

Nel frattempo le produzioni si allontanavano dal documentarismo (un fenomeno tipico degli inizi) e arrivavano i primi kolossal: da Quo Vadis? (1913) a Cabiria (1914). Nasceva così anche il divismo, quello dei grandi protagonisti del cimema “muto” e, dagli anni Trenta, del sonoro.

L’APERTURA DI NUOVE SALE NEGLI GLI ANNI VENTI  

Negli anni Venti sorsero in città ben nove sale cinematografiche, la maggior parte delle quali ebbe lunga vita: il Sant’Orsola nell’omonima via (divenuta poi la “via dei cinema”); l’Acquarium in via Verdi (chiamato il “cinema dai mille nomi”, l’ultimo dei quali fu Ritz); il Centrale, aperto nella vecchia Fiera e riconfermato nei locali del nuovo centro (quadriportico del Sentierone); il Diana, in via Borfuro; il Vittoria (ex Cinema Orobico) in piazzetta Santo Spirito; l’Olympia in via Torquato Tasso (futuro Capitol); una sala chiamata “I topi grigi” in via Moroni e il “Roncalina” vicino all’Accademia Carrara (entrambi dalla vita breve); infine, l’Odeon in via Sant’Orsola (futuro Quill).

Il Sant’Orsola (che aveva preso il posto del Cinema Roma e che più tardi si trasformò in Delle Arti) era sorto sulle ceneri di un magazzino per il cappellificio dei fratelli Moratti ed era stato inaugurato nel 1926. Era un locale lungo e stretto, più simile a un corridoio che ad una sala cinematografica. Ed era una sala decisamente popolare, tanto da essere soprannominata ol piogì – nel senso di pidocchio – perché si presumeva vi fosse poca pulizia fra i frequentatori. In realtà c’era sempre tanfo e lo schermo era ingiallito dal fumo delle sigarette.

Negli anni Trenta offriva due film (di Terza o Quarta visione) al prezzo di uno (un’usanza durata a lungo) e faceva “proiezioni speciali” mattutine, affollate di studenti che marinavano la scuola. L’edificio che lo ospitava non esiste più.

Inaugurato nel 1926, il Cinema Sant’Orsola, nella via omonima, aveva preso il posto del Cinema Roma e più tardi si trasformò in Delle Arti. L’edificio che lo ospitava non esiste più

L’Acquarium, in via Verdi, il cinema noto anche come quello dei “mille nomi”, divenne in seguito Verdi, poi Mignon, poi Ritz-Cinema d’essai ed infine infimo locale a luci rosse.

L’Acquarium era sorto nel 1921 nella palazzina di via Verdi, sulle ceneri della tipografia Isnenghi. La palazzina è sempre stata la stessa dopo che Edoardo Isnenghi l’aveva fatta trasformare in cinematografo.

Annotava Ermanno Comuzio che “sia Edoardo Isnenghi sia il figlio erano patiti di pesci e della pesca per cui, lungo tutto il corridoio del nuovo cinema che dall’ingresso portava alla platea, avevano fatto sistemare delle vasche popolate di pesci, illuminate di luce verde artificiale, a formare un fantastico acquario. Di qui il nome originale del locale”. Ma se da un lato le vasche dell’Acquarium caratterizzavano il locale ed attiravano il pubblico, l’impianto, con una fauna ittica molto casalinga, consumava acqua e soldi, spesa extra per il povero gestore del cinematografo, Guido De Poli”. Questi, “seguendo i voleri di Edoardo Isnenghi, che era sentimentalmente attaccato al ‘muto’, cercò di tenere duro con i film muti finché poté, utilizzando orchestrine in sala; ma poi, buon ultimo, dovette cedere alla nuova tecnologia del sonoro. Resse comunque poco, perché nel 1935 lasciò la direzione del cinematografo”.

L’Acquarium era comunque, per lo più, un cinematografo squisitamente popolare, sia per la programmazione di ampia attrattiva, sia per la modicità dei prezzi d’ingresso.

Prima di ospitare una sala cinematografica, la palazzina di via Verdi, ospitò Ia tipografia Isnenghi (dove si stampava anche la “Gazzetta Provinciale” diretta da Giovanni Banfi), poi trasformata in Cinema Acquarium e successivamente in Verdi (così si chiamava alla fine degli anni Trenta), poi Mignon, poi Ritz-Cinema d’essai ed infine infimo locale a luci rosse 

Il Centrale, nato sulle ceneri del Caffè Centrale, aperto nella vecchia Fiera, venne inaugurato il 15 agosto 1914. Era una sala in stile floreale, divisa in tre parti da colonnati con cariatidi, la volta decorata da stucchi e pitture, un loggiato sullo sfondo e il palcoscenico affiancato da due piccoli palchetti. La denominazione sopravvisse, all’angolo del Quadriportico del Sentierone, più o meno nella stessa posizione del precedente.

Alla vecchia Fiera, in primo piano è visibile il Caffè Nazionale, immediatamente seguito dal Caffè Centrale. E fu proprio sulle ceneri di quest’ultimo che nacque il Cinema Centrale, la cui denominazione sopravvisse nel nuovo centro progettato da Piacentini, all’angolo del Quadriportico del Sentierone, dove la nuova sala fu realizzata nella medesima posizione della precedente

 

Inserzioni pubblicitarie alla Fiera di Bergamo del 1920

 

Il Cinema Centrale, nei locali del nuovo centro piacentiniano, prima della ristrutturazione effettuata nei primi anni Cinquanta. Il Cinema aveva preso il posto del primitivo Centrale, che era sorto nei locali della vecchia Fiera, iniziando  le proiezioni il 15 agosto 1914 (per gentile concessione della signora Antonella Ripamonti)

Il nuovo cinematografo, aperto nel centro piacentiniano, era sorto per iniziativa del cavaliere di Gran Croce Lamberto Sala, titolare di una fiorente impresa di trasporti, che chiamò a dirigere il locale un suo dipendente, Giulio Consonno (che più tardi rileverà il Teatro Nuovo ed edificherà il Teatro Duse).

Il Centrale, particolarmente attento al fenomeno del ‘divismo’(da Francesca Bertini a Lyda Borelli e Pina Menichelli), diventò subito un locale molto frequentato, potremmo dire preferito: moderno ed elegante, vi si davano spettacoli di richiamo.

Il pianino che singhiozzava nel buio ben presto non bastò più per un locale di tali ambizioni; e i film cominciarono a essere accompagnati da una orchestra stabile formata da un piano, un violino (suonato dal signor Marigliani), un violoncello (suonato dal signor Tiraboschi, che poi fondò la Bottega della musica) e da un contrabbasso. I musicanti non si accontentavano di improvvisare, ma vedevano scrupolosamente il film prima del pubblico e insieme facevano delle piccole prove. L’effetto era davvero accattivante (1). Il Centrale venne restaurato nei primi anni Cinquanta.

Il Diana, in via Borfuro, uno dei più antichi della città, è stato tra quelli che a Bergamo hanno fatto la storia.

Da una guida del 1927

Era una sala non grande, di forma quadrata, in precedenza usata come magazzino-deposito di macchinari e apparecchiature da una casa tedesca. Venne inaugurato il 27 agosto 1922, con il film di Rex Ingram I Quattro cavalieri dell’Apocalisse interpretato da Rodolfo Valentino, un grande successo dell’epoca.

Scorcio di via Borfuro

Portato avanti con grande passione e intelligenza dall’ing. Arturo Scanzi, che ne era il proprietario, il Diana conobbe epoche di splendore (fu il primo, tra l’altro, a presentare il primo film sonoro-parlato e il primo film sonorizzato col sistema Movietone). Venne rinnovato negli anni Trenta e negli anni Sessanta e nel Dopoguerra divenne “Grande cinema Diana”.

Tesserini del Diana, gestito dall’E.C.I. Il primo rilasciato dal rag. Ripamonti e il secondo dall’ing Scanzi, proprietario del locale

 

La famiglia Scanzi al completo, con l’ing. Arturo Scanzi, la moglie Maria Paganoni e i figli Marialuisa (nata nel 1920) e Claudio. Sin dalla sua apertura, nel 1922, Scanzi  detenne la proprietà del Cinema Diana, le cui locandine per un certo periodo rivestirono interamente la facciata del palazzo che ospitava il Teatro Duse, gestito (o diretto) dallo stesso Scanzi, che vi risiedeva. Uomo poliedrico ed estremamente attivo, fu anche costruttore e dopo la guerra aprì una libreria (Foto A. Taramelli. Per gentile concessione di Antonella Ripamonti)

 

Per un certo periodo, le locandine del Cinema Diana rivestirono interamente la facciata del palazzo che ospitava il Teatro Duse, gestito (o diretto) dall’ing. Arturo Scanzi, proprietario del Cinema Diana. La pubblicità dei film programmati al Diana, in fotografia, risale al 1949

Il Vittoria, nato dalla trasformazione della bottega di un sellaio, in piazza Santo Spirito era sorto il 23 luglio 1910 (2) col nome di Cinema Orobico e fu definitivamente chiuso nel 1927 (3). La piccola sala era sorta per iniziativa dell’avvocato Sebastiano Carnazzi (vicedirettore della Banca Popolare) e del notaio Renzo Carnazzi, che affidò la gestione del locale al figlio Nino (futuro famoso avvocato).

In piazzetta Santo Spirito sorgeva il cinematografo Vittoria (ex Cinema Orobico). Divenne in breve il ritrovo principale della città in quanto le case distributrici, per spezzare il monopolio de facto del Centrale, cominciarono a offrire al Vittoria i film più importanti (che si fregiavano dei nomi di maggior richiamo come Gustavo Serena, Leda Gys, Lyda Borelli, Alberto Collo, ecc.). Ogni film aveva era accompagnato da un’orchestrina, cui a volte si aggiungeva il canto (ne “La canzone del cuore”, si vedeva un tenore cantare alcune romanze; un cantante nascosto interpretava i vari pezzi in sincronismo con i movimenti del tenore sullo schermo, suscitando un’enorme impressione

L’Olympia (futuro Capitol), era nato nel 1921 in via Torquato Tasso, ancora per iniziativa dell’avvocato Sebastiano Carnazzi e del notaio Renzo Carnazzi, affiancati da un socio, un certo Rossi, industriale della cera. Aveva l’esclusiva di importanti case americane (es. Fox e United Artists). Definito dai proprietari “il locale più signorile e famigliare della città”, disponeva di mille posti a sedere, un bel palcoscenico, un gruppo elettrogeno autonomo a petrolio e porte di sicurezza. In certe occasioni accoglieva anche spettacoli di varietà e persino opere liriche, preferibilmente del Settecento. Agiva un’orchestra fissa di sette elementi che, quando non suonava per il teatro, accompagnava la proiezione dei film. Fra gli ospiti di richiamo del teatro ci fu Anna Fougez, la splendente vedette del varietà, che però si esibì solo pochi giorni perché il primo dicembre 1923 il crollo della diga del Gleno bloccò tutti gli spettacoli.

Ceduto nel 1931 al Gruppo Leoni, l’Olympia divenne Cinema Italia, e solo in seguito Studio Capitol.

Il Cinema Italia, in via Torquato Tasso, nacque come Olympia nel 1921 per divenire Italia nel 1931 e successivamente Studio Capitol

Un cinema senza nome, chiamato dalla gente “I topi grigi” aveva aperto i battenti nel 1926 in via Giovambattista Moroni. Era così nominato perché per mesi vi si proiettarono i film dell’omonima serie interpretati da Emilio Ghigne detto “Za la Mort”. La sala ebbe vita breve.

Il Cinematografo Roncalina, dal nome del proprietario, il cavalier Lino Roncalli, era stato aperto nei primi anni Venti. Era una piccola sala vicino all’Accademia Carrara e allo skating, la pista di pattinaggio a rotelle del tempo. Anche questa ebbe vita piuttosto breve.

Il sabato e la domenica alla Roncalina di via San Tomaso si rappresentavano anche scassatissimi spettacoli di varietà. Il Roncalli aveva impiantato il suo locale per investire il primo premio vinto a una lotteria nazionale e tra il 1925 e il 1926 lanciò in via San Tomaso un supermercato ante litteram, dove si vendeva letteralmente di tutto (persino automobili)

Il Cinema Odeon (più tardi trasformato in Quill) fu inaugurato il 16 novembre 1931 con un film musicale, Amore gitano, interpretato da un famoso baritono americano, Lawrence Tibbet, una gran voce, potente e virtuosa.

Il Cinema Odeon in via Sant’Orsola (futuro Cinema Quill)

Il raffinato e spazioso locale, di cui si scriveva fosse la sala cinematografica più elegante e à la page di Bergamo, era dotato di una cupola apribile per permettere il ricambio dell’aria (non dimentichiamo che nei cinema fu a lungo permesso fumare). Alla fine delle proiezioni sullo schermo si chiudeva un velario, come a teatro.

Vi venivano proiettati solo film di prima visione: tutti quelli americani, compresi i primi film a colori, le comiche di Stanlio e Ollio, Greta Garbo, Shirley Temple, le dive platinate fasciate negli abiti di lamé, gli eroi dell’epopea del West e tutto ciò che, arrivato da Hollywood, contribuì a creare il “sogno americano”.

Negli ultimi anni Venti (quelli degli ultimi colossi del muto), Ben Hur fece fare lunghissime code a centinaia di spettatori impazienti soprattutto di vedere la corsa delle bighe (peraltro presa di sana pianta dalla Messalina opera girata da Guzzoni nel 1923).

SUL FINIRE DEGLI ANNI TRENTA, L’ARRIVO DEL SONORO

Negli anni Trenta il cinema a Bergamo era lo spettacolo più seguito e in centro funzionavano regolarmente sei sale: il Diana in via Borfuro, l’Olympia in via T. Tasso (futuro Capitol), il Sant’Orsola nella via omonima, il Giuseppe Verdi nella via omonima (ex Acquarium e futuro Ritz), il Centrale sul Sentierone, l’Odeon in via Sant’Orsola (futuro Quill). Tra le sale rionali invece, il cine-teatro Augusteo, in via Anghinelli, Borgo Palazzo.

Le sale del centro aprivano tutti i giorni alle 14.30 e c’era la possibilità di accedervi in qualsiasi momento (una cattiva abitudine durata a lungo). I posti a sedere più comodi erano in fondo alla sala, dove la visione era più nitida; a metà stavano i secondi mentre i terzi avevano scomode seggiole collocate proprio davanti allo schermo (4).

Finalmente, dopo gli ultimi film del muto (Greta Garbo in Anna Karenina e Rodolfo Valentino nei panni del Figlio dello sceicco), verso la fine degli anni Venti vi fu anche a Bergamo l’esordio del cinema sonoro, allora chiamato ‘cinematografo parlato e cantato.

Secondo un vecchio articolo rinvenuto dalla scrivente, sicuramente tratto da un quotidiano locale (non datato, a firma f. col.), il primo film sonoro-parlato venne presentato al Diana nel 1929: Il cantante di jazz con Al Jolson, realizzato col sistema di registrazione su dischi Vitaphone (produzione Warner Bros del 1927); e fu ancora sullo schermo del Diana che apparve il primo film sonorizzato col sistema Movietone (registrazione del suono sulla pellicola stessa, ancora in uso per tutti gli anni Sessanta), Le luci di New York.

Il Diana negli anni Trenta  divenne un cinema popolare, molto frequentato; vi si proiettava il “doppio programma”, cioè due film di cui uno solitamente era un western (allora chiamati sciopetì), seguiti quasi sempre dalla “comica finale” (con Ridolini, Harold Lloyd, Chaplin).

Il Cinema Diana, in via Borfuro, nel 1969. La gestione del Diana dalla fine degli anni Sessanta passò all’ECI (Esercizi Cinematografici Italiani), sino alla definitiva chiusura nel 1977. La consorte dell’ingegner Scanzi, Maria Paganoni, essendo fervente cattolica e molto vicina ai Padri Domenicani non voleva che il Cinema Diana funzionasse il venerdì Santo e fece in modo che per quel giorno restasse sempre chiuso per permettere anche al personale di seguire le funzioni religiose (da una conversazione con la signora Antonella Ripamonti)

Il 3 ottobre 1930 davanti al Sant’Orsola c’era la coda per assistere alla proiezione di Vendetta d’Oriente, la prima produzione sonora della grande casa Metro Goldwin Mayer, in pubblicità presentato come “vero primo film sonoro”. La sonorizzazione fu molto apprezzata, grazie anche alla resa perfetta data dagli impianti Eufon (5).

Invece, il primo film sonoro di produzione e regia italiane distribuito nelle sale (La canzone dell’amore) a Bergamo fu proiettato il 7 dicembre successivo al Cinema Italia (futuro Capitol); il film meritò un articolo entusiasta su “La Voce di Bergamo”, nonostante inizialmente fosse osteggiato da una certa critica, che temeva il declino del teatro.

Cinema Italia, in via Torquato Tasso (futuro Capitol)

Con l’avvento del sonoro in città (in provincia arrivò molto più tardi), il cinema era ormai inarrestabile e nel giro di un anno tutti gli spettatori ne furono totalmente conquistati: all’inizio sembrava una magia, il pubblico non si capacitava di come quei personaggi potessero parlare o cantare come nella vita vera; c’era addirittura chi pensava che dietro lo schermo ci fossero attori a dare le voci.

Ermanno Comuzio annotava che specialmente nelle valli, il pubblico aveva l’abitudine di leggere in coro le didascalie pronunciandole ad alta voce e producendo effetti esilaranti; quando il pubblico non faceva in tempo a leggerle, le proteste costringevano a volte gli operatori a far tornare indietro la pellicola. In alcuni paesi della Valle Seriana, più di un locale istituì addirittura una signorina che leggesse le didascalie ad alta voce, mentre tutti gli altri dovevano osservare un religioso silenzio.

Tra i film di quegli anni – in cui furoreggiava Shirley Temple, la bambina dai riccioli d’oro – si ricordano in particolare quelli con Greta Garbo (Grand Hotel e Mata Hari), l’avventuroso L’isola del tesoro, King Kong (il primo film “fantascientifico”), Io sono un evaso, film americano molto realista.

Negli anni Trenta fu effettuato anche fu il primo esperimento di film stereoscopico, da guardare con occhiali rossi e verdi. La trovata suscitò scalpore ma poi non ebbe seguito.

Dopo il sonoro arrivò il colore. Scontato il successo de Il sentiero del pino solitario, con una lunga serie di “esterni”.

GLI ANNI DEL DOPOGUERRA

Fu subito dopo la seconda guerra mondiale che a Bergamo si cominciò a fare scorpacciate di film: nel 1947, nelle nove sale cittadine (quasi tutte dipendenti da direzioni di Milano) la media giornaliera di spettatori era su cifre alte, malgrado l’handicap – anche nell’immediato dopoguerra – dell’energia elettrica, che quando mancava costringeva a sospendere lo spettacolo (tranne al Diana, che trovò modo di funzionare con energia propria mediante l’installazione di gruppi elettrogeni che fornivano la necessaria energia alla cabina di proiezione).

Nel giugno del 1945 all’Odeon arrivò, sulla jeep degli Alleati, il primo, attesissimo film americano, Serenata a Vallechiara con la campionessa di pattinaggio Sonja Henie e l’indimenticabile motivo di Chattanooga-Choo-Choo eseguito dall’orchestra di Glenn Miller.

L’Odeon tentò poi di sopravvivere trasformandosi in Quill, ma non riuscì a evitare di finire nella strage dei cinema.

L’interno del Cinema Odeon

Fu proprio in questi anni che Il Diana modificò il nome in “Grande cinema Diana”, gareggiando con l’Odeon nella presentazione di ghiotte “prime visioni”. Nel gennaio del ‘47 diede fiato alle trombe per presentare Il figlio dello sceicco, l’ultimo film di Rodolfo Valentino, con una grande novità a vent’anni dalla morte dell’idolatrato attore: “Valentino parla! Gli hanno dato una voce calda, carezzevole, quale si addice a chi ama con temperamento virile, proprio della gente del Sud”. Il 27 febbraio successivo proiettò in prima visione Da quando te ne andasti, presentato, con manifesti ovunque, come “il gigante della cinematografia mondiale”, anche grazie ai sette assi hollywoodiani, Claudette Colbert, Jennifer Jones, Joseph Cotten, Shirley Temple, Marty Wooley, Lionel Barrymore e Robert Walzer (6). Altri “filmoni”, sempre al Diana, Figlio figlio mio! con Brian Aherne, Sangue e arena e Jess il bandito con Tyrone Power. Faceva pubblicità addirittura sulla rete nazionale della radio.

Il locale, rinnovato una prima volta nel 1937, venne rimesso completamente a nuovo nel 1963. Ma non riuscì a evitare la chiusura, avvenuta il 23 luglio 1979.

Cinema Diana via Borfuro (1949). La locandina in primo piano a destra è del film “Il bacio di una morta” del 1949. Inaugurato il 27 agosto 1922 – tra i cinema più antichi della città -, il Diana venne rinnovato 1937 e nel 1963, divenendo nell’immediato Dopoguerra “Grande cinema Diana”. Chiuse i battenti il 23 luglio 1979

Le cronache ricordano in particolare un primo storico “pienone” di pubblico nel 1947 con Prigionieri del passato, film strappalacrime con Ronald Colman e Greer Garson; l’anno seguente fu la volta di Delitti senza castigo; tale e tanta la folla, che fracassò le vetrine del Cinema Centrale.

L’atrio del Cinema Centrale prima della ristrutturazione dei primi anni Cinquanta (per gentile concessione della signora Antonella Ripamonti)

Le sale di Bergamo sul finire degli anni Quaranta erano indecorose, trascurate ed esageratamente affollate; l’areazione era insufficiente, le poltrone scomode e sgangherate. Erano contenitori senza stile, con le pareti screpolate. L’illuminazione era antiquata e gli impianti di legno, scricchiolanti ed antigienici. Lontane anni luce, insomma, dall’eleganza dell’Arlecchino di Milano o dalla raffinatezza del Fiamma di Roma.

Si salvavano solo il Nuovo e il Duse, che essendo più teatri che cinematografi, avevano le diverse esigenze dell’opera, dell’operetta, della rivista e della prosa (7).

LE SALE CINEMATOGRAFICHE NEI FAVOLOSI ANNI CINQUANTA

Fino a tutti gli anni Sessanta il cinema è stato a Bergamo lo spettacolo principe, il più diffuso e popolare; spesso agli ingressi si formavano le code, specialmente il sabato e la domenica invernali, e non di rado bisognava assistere a tutta la proiezione di un film restando in piedi.

Nel 1951 Il Giuseppe Verdi (ex Acquarium e futuro Ritz) mise a segno il “colpo del secolo”: presentò in grande pompa, bagnando il naso a tutti i concorrenti, il capolavoro cinematografico del Novecento “Via col vento”. Il film in America era uscito nel 1939, ma in Italia era stato tenuto in naftalina a causa degli eventi bellici, e per la prima volta si dovette prenotare il posto al cinema

Il pubblico frequentava numeroso le sale anche nei pomeriggi dei giorni feriali: si trattava soprattutto di studenti (per i quali il Sant’Orsola offriva spettacoli anche al mattino), turnisti in attesa dell’orario di lavoro, disoccupati, buontemponi, signore e signorine e – a metà prezzo – militari e ragazzi.

Sopra la cassa campeggiavano le scritte luminose che annunciavano il primo tempo, l’intervallo, il secondo tempo e l’attualità” (cinegiornale e i provini delle prossime programmazioni).

Al cinema c’è stato a lungo il rito del cinegiornale, proiettato prima del film in programma. Dapprima il Luce (“L’unione Cinematografica Educativa”), fatta nascere dal fascismo nel 1924 con il compito di realizzare cinegiornali che diffondessero al pubblico che frequentava i cinematografi notizie educative e propaganda politica. Dopo il Luce arrivò la Settimana Incom e poi il Cinemondo. Abbandonata la pura informazione, i cinegiornali passarono a uno stile rotocalco (il futuro gossip) ed infine a un umorismo un po’ retorico, e mai volgare. Oggi i cinegiornali di quel tempo hanno un valore storico e sociale enorme

E quando ormai stava nascendo la tivù (gennaio del 1954), il cinema le studiò tutte per scongiurare il pericolo; ed ecco il cinerama (con lo schermo ingrandito anche più di dieci volte), l’esperimento del 3D, il cinema a tre dimensioni (con speciali occhialini distribuiti alla cassa), diavolerie come il cinema odoroso (Polyester all’Italia nel 1981) e il sensurround (Terremoto, con le poltrone che vibravano), ma soprattutto il cinemascope con il suono stereofonico: una delle più importanti invenzioni del cinema, la prima di una serie che è arrivata ai nostri giorni.

Si può quindi affermare che il 1953 sia stato l’ultimo anno dell’era non televisiva, l’ultim del cinema puro, senza condizionamenti. Il critico Mario Guidorizzi, forse con un pizzico di paradosso, nel saggio introduttivo del suo Hollywood afferma proprio che il cinema finisce nel 1953. Vale la pena ricordare i cinque titoli finalisti per gli Oscar di quell’anno: Da qui all’eternità (vincitore), Giulio CesareIl cavaliere della valle solitariaVacanze romane e, appunto, La tunica. Se era la fine di un’epoca, era uno splendido canto del cigno.

Un successone, al San Marco, il film “La tunica” con Richard Burton, che doveva rappresentare la prima, vera, concreta risposta del cinema a quello che stava diventando lo strapotere della televisione. Così il film venne fotografato in cinemascope e il vecchio schermo quadrato venne praticamente moltiplicato per tre

Nei primi anni Cinquanta fu completamente rinnovato il Centrale, locale che, non a torto, ha sempre avuto pretese di eleganza. L’architetto Nestorio Sacchi scrisse di “quella sala che eravamo abituati a vedere con le sue rose di lampadine al soffitto, ricordo di uno stile decorativo passato da trent’anni. In particolare l’arch. Pinetti ha trasformato l’atrio e il vaso, conferendo loro un aspetto coerente con i moderni criteri estetici e chiamando a dare la loro opera, nella parte decorativa, due artisti dotati come Domenico Rossi ed Erminio Maffioletti”.

L’atrio del Centrale, sul Sentierone, dopo il rinnovamento dei primi anni Cinquanta (per gentile concessione della signora Antonella Ripamonti)

Ci fu tra l’altro un periodo, in quegli anni Cinquanta, in cui il Centrale, nelle sere estive, proiettava i “prossimamente” dei film direttamente sul Sentierone su un maxischermo piazzato sulla balconata soprastante il Quadriportico; e il Grand Hotel Moderno allietava i clienti del suo ristorante, accomodati per la cena sul piazzale adiacente, con la proiezione di cartoni animati: era la Bergamo by night – completamente dimenticata alla fine del Novecento -, con i teatri, i cinema, i numerosi bar sul Sentierone (il Moka Efti con l’orchestrina swing) che con le loro insegne luminose e i cartelloni pubblicitari mandavano luce, colore, allegria su tutto il centro cittadino.

Il caffè Moka Efti sul Sentierone, nel 1945, con l’orchestra di Aldo Sala

 

Alla fine degli spettacoli al teatro Donizetti, fosse anche mezzanotte, c’erano i servizi dell’Azienda tranviaria che accompagnavano a casa gli spettatori; pochissime le automobili. Nei borghi circolavano ancora di meno e si poteva tranquillamente giocare in mezzo alla strada.

Città, Bergamo negli anni Cinquanta, che si piccava di essere “scenograficamente elegante”.

In quei tempi c’erano a Bergamo tredici cinematografi di Prima e di Seconda visione ed erano per lo più nella zona del centro, tenendo conto che nel ‘53 fu inaugurato l’Astra in via Sant’Orsola e tra il 1952 e il 1955 fu realizzato il complesso di edifici di piazza della Repubblica, destinato ad ospitare, nonostante la grande crisi annunciata alle porte, ben due sale cinematografiche: il San Marco e l’Arlecchino: i mitici anni di queste due sale furono anche gli anni  del Cinema Apollo, sorto nel 1971 sulle ceneri del Teatro Duse.

IL CINEMA ASTRA

Nel 1953 fu inaugurato l’Astra, l’ultimo della serie di via Sant’Orsola. In quel periodo, la marcia delle sale cinematografiche di Bergamo sembrava inarrestabile.

Il Cinema Astra, sorto nel 1953 in via Sant’Orsola, a lungo familiarmente chiamata “la via dei cinema”. Una via di borgo, piuttosto stretta e neppure tanto lunga. La via ha visto nascere e morire, nel raggio di cento metri, tre cinematografi, due dei quali con diverse denominazioni. L’Astra venne chiuso alla fine del Novecento

La vasta sala dell’Astra era stata ricavata ingegnosamente in uno spazio che non si sarebbe stimato sufficiente ad accoglierla; con la sua ampia balconata, dava una sensazione di grandiosità, facilitata anche dal confronto con l’angustia della strada in cui il cinema era ubicato. E l’ampio ingresso, con il bar contiguo, formava nella via un complesso vivace e interessante (8). Venne sottoposto a rilevanti lavori di ammodernamento nel 1973.

Nel 1954 il “Grande cinema Diana” era stato tra l’altro soprannominato “il cinema delle lacrime”, avendo a lungo proiettato “la lacrimosa istoria” de “I figli di nessuno” con un eccezionale afflusso di spettatori: quarantacinquemila in ventinove giorni tra gennaio e febbraio

 

Il garage demolito per dare spazio al complesso di edifici realizzati in piazza della Repubblica tra il 1952 e il 1955, destinato ad ospitare il San Marco e l’Arlecchino, oltre che appartamenti, uffici e un albergo, oggi denominato Hotel Excelsior San Marco

IL SAN MARCO E L’ARLECCHINO

Tra il 1952 e il 1955 fu realizzato il complesso di edifici di piazza della Repubblica, progettato e costruito dagli architetti Nestorio Sacchi ed Enrico Sesti, destinato a ospitare ben due sale cinematografiche, il San Marco e l’Arlecchino, oltre che d appartamenti, uffici e un albergo, oggi denominato Hotel Excelsior San Marco.

Il complesso di edifici di piazza della Repubblica, progettato e costruito dagli architetti Nestorio Sacchi ed Enrico Sesti tra il 1952 e il 1955, era destinato a ospitare appartamenti, uffici, due sale spettacoli (cinema San Marco e cinema Arlecchino) e un albergo (oggi denominato Hotel Excelsior San Marco). La ricchezza di elementi decorativi per gli interni del cinema San Marco, che ospita affreschi a stucco lucido realizzati da Achille Funi, Erminio Maffioletti e Silvio Rossi lungo la tromba delle scale di accesso

Le due sale furono realizzate l’una sopra l’altra: solo platea per l’Arlecchino (capace di ospitare 500 posti), platea e galleria per il San Marco (capace di ospitare 1150 posti), nonché un unico atrio d’ingresso. Più tardi, nel 1971, verrà realizzato il Cinema Apollo, sulle ceneri del Teatro Duse.

Fin da subito, il San Marco e l’Arlecchino furono considerati i cinema più chic di Bergamo, data anche la nota artistica degli affreschi dei soffitti e dell’atrio d’ingresso – opera di Elia Ajolfi – e degli affreschi a stucco lucido realizzati da Achille Funi, Erminio Maffioletti e Silvio Rossi lungo la tromba delle scale di accesso al San Marco, il tutto impreziosito dalla profusione di velluti rossi nella sala.

Mentre l’Arlecchino disponeva anche di un piccolo palcoscenico (in spettacoli di prosa vi recitarono anche Andreina Pagnani, Olga Villi, Paolo Ferrari, Mario Scaccia, Lydia Alfonsi, Walter Chiari, Piero Mazzarella), è del San Marco che le descrizioni si sprecano.

Progettato dall’architetto Enrico Sesti, poteva ospitare fino a 1150 persone nella platea e nell’ampia galleria; Sesti concepì la sala “con larghezza di vedute e con tale signorilità da fare onore a Bergamo”, risolvendo “il complesso tema con una chiarezza pianistica e una linearità strutturale esemplari”.

Il San Marco era dotato dei più moderni impianti e fu costruito secondo i più recenti accorgimenti della tecnica; la sua resa acustica era ottima, grazie all’uso di speciali materiali fonoassorbenti.

La sera dell’inaugurazione del San Marco, il poeta Alfonso Gatto tenne una brillante conferenza per introdurre il film Europa 51 di Roberto Rossellini: “Prima di venire a Bergamo mi hanno detto: “Fa da angelo custode a una Musa così giovane, il cinema, mostrale i giardini del Tasso, accompagnala come un innamorato per le strade di Città Alta, ricordale che qui, in questa città carica di segrete armonie, eppure aperta ai traffici della vita, l’arte ci sta bene di casa, sempre fra amici fedeli e discreti”.

Piazza della Repubblica, con il complesso di edifici che ospitava il San Marco e l’Arlecchino

Al San Marco le “maschere” si aggiravano per la sala con livree bordate di galloni d’oro e guanti bianchi, e nelle serate di gala, per gli uomini era di rigore lo smoking mentre per le signore, gli abiti di firma.

A pochi passi dal San Marco, il mitico ristorante Manarini

Raccontava un’ex cassiera del San Marco che alle prime, cui seguivano sempre i favolosi rinfreschi del Bar Borsa, si assisteva solo su invito e si facevano carte false pur di non mancare.

Negli altri giorni il boom era il sabato e la domenica, quando si staccavano anche quattromila biglietti al giorno. Comunque si lavorava anche nelle altre giornate, dalle 14 fino a mezzanotte ininterrottamente. Andare al cinema al pomeriggio, in quegli anni, era una consuetudine per molti.

Piazza della Repubblica, con il complesso di edifici che ospitava il San Marco e l’Arlecchino

Alain Delon e la sua troupe utilizzarono più volte la sala del San Marco per proiettare e giudicare gli spezzoni girati poche ore prima (9).

Il gestore di queste due bellissime sale era il romano (ma residente a Milano) Giuseppe Spiaggia. Figura di spicco dal tratto signorile e brillante, fu per molti anni presidente dell’Agis lombarda, e tra Milano, Bergamo e altre città della Lombardia, a un certo punto giunse ad avere in gestione oltre venticinque sale cinematografiche.

A Bergamo, dopo qualche anno, aggiunse al San Marco e all’Arlecchino il Cinema Teatro Nuovo – che spinse la proprietà a rinnovare nell’intera sua struttura, attraverso l’incarico dato all’architetto Alziro Bergonzo, di cui era amico – e, più o meno nello stesso tempo, acquistò la proprietà del Cinema Teatro Enal di via G.M. Scotti (dove c’era la vecchia Mutua), cui attribuì il nome di Cinema Ariston, divenuto poi, nel ricordo del giovanissimo figlio Alessandro, morto in moto sul circuito di Vallelunga, Cinema Alexander. Giuseppe Spiaggia morì ancora relativamente giovane, agli inizi degli anni Ottanta e ad esso succedette l’altro figlio Lamberto, cui spettò la triste incombenza di chiudere le varie sale del gruppi familiare ormai travolte da una crisi inarrestabile.

LA RISTRUTTURAZIONE DELLE SALE NEGLI ANNI SESSANTA

E’ stato soprattutto negli anni Sessanta che a Bergamo si è provveduto alle trasformazioni e alle ristrutturazioni delle sale cinematografiche. Il successo della televisione – e, per contro, i primi scricchiolii del “terremoto” che avrebbe travolto il cinema -, aveva reso non più procrastinabile il riammodernamento e l’abbellimento delle sale, che vennero “dotate di impianti perfezionati e rifornite di film selezionati con maggior cura”. Il cliente – facevano notare le cronache locali a metà degli anni Sessanta -, andava conquistato “…con spettacoli consistenti e acconciamente presentati”. Altrimenti sarebbe rimasto a casa a vedere la televisione che, bene o male, propinava tutte le sere “uno spettacolino” e per giunta gratis (32 lire contro le 500-600 che occorrevano in media per recarsi al cinema).

Tra la fine dei Sessanta e l’inizio dei Settanta in città si contavano ben quindici cinematografi che tutti i giorni aprivano alle 14 offrendo spettacoli continuati (l’ultimo film veniva proiettato alle 22.30, ma ci fu un periodo con proiezioni anche dopo la mezzanotte).

Il Diana venne rimesso completamente a nuovo nel 1963 e intorno al ’68  il Sant’Orsola fu ristrutturato per essere rinominato Delle Arti.

Il Diana, in via Borfuro, nel 1969. Fu rimesso completamente a nuovo nel 1963

1971: SULLE CENERI DEL “DUSE” NASCE IL CINEMA APOLLO

A Bergamo come altrove, parecchie sale avevano la “A” come iniziale (Ariston, Astra, Arlecchino…), perché ogni cinema cercava di stare in cima alla lista per accalappiare gli spettatori più impazienti nella lettura sui giornali dei tamburini (gli annunci dei cinema). E anche l’Apollo non fu da meno.

Un tamburino del 1961

Ultimo cinema ad essere realizzato, nel 1971, l’Apollo era sorto sulle ceneri del glorioso Teatro Duse, ma a pochi passi di distanza, in via Piccinini.

Il Teatro Duse, che si ergeva alla rotonda dei Mille, fu un bellissimo teatro dalla pregevole, imponente facciata in stile neoclassico, ricca di fregi e statue. Era stato inaugurato nel 1927 e per ben quarant’anni aveva funzionato egregiamente da politeama (adatto cioè ad ospitare ogni tipo di rappresentazione artistica), ma anche, soprattutto negli ultimi decenni, da cinema (suggestiva, nel ricordo de “L’Eco”, la prima visione del film “Help” dei Beatles, che fece affluire nella piazza centinaia di fan invasati). Fu chiuso e demolito nel 1968 per dare spazio all’edificio polifunzionale di stile brutalista, che ospitò il Cinema Apollo

Si trovava nel seminterrato dell’edificio in stile brutalista progettato in luogo del teatro, e quando venne inaugurato, i bergamaschi si stupirono non poco perché per accedervi si doveva scendere una scala; perché, come informava il “Giornale di Bergamo”, “questo nuovo cinema è dotato di un allestimento fra i più funzionali e tecnicamente avanzati”; perché, pur essendo sotterraneo, aveva sia la platea che la galleria. Inoltre tra una fila e l’altra delle poltrone c’era abbondante spazio e la visibilità era perfetta in ogni ordine di posti. Infine il locale era dotato di un modernissimo impianto di ventilazione e di condizionamento”. Secondo la pubblicità, questo era il cinema più moderno d’Italia. Ampio e molto frequentato.

Rotonda dei Mille: l’edificio polifunzionale in stile brutalista, che ha ospitato il Cinema Apollo

Nel 1973 l’Astra venne sottoposto a rilevanti lavori di ammodernamento su progetto dell’architetto Oscar della Torre. Venne tra l’altro abbassato il soffitto di un metro e quando fu riaperto al pubblico, la pubblicità sui due quotidiani cittadini affermava che si trattava della più moderna sala cinematografica di Bergamo.

Cinema Astra, in via Sant’Orsola

Da notare che, tra gli anni Settanta e gli Ottanta, a livello nazionale, Bergamo aveva la percentuale più alta di spettatori in rapporto alla popolazione e i cinema costituivano ancora una voce importante del tempo libero e della vita culturale cittadina. Negli anni Settanta il biglietto d’ingresso costava 500 lire, per aumentare negli anni Ottanta. Tra l’altro, fino al 1975 nelle sale era ancora permesso fumare.

LA CHIUSURA DEI CINEMATOGRAFI

Alla fine degli anni Sessanta s’incominciarono a intravvedere le prime crepe che avrebbero portato a quella lenta ma inesorabile crisi delle sale cinematografiche, culminata nel crollo degli anni Novanta e protrattasi sino agli inizi del nuovo millennio. Le cause? Diverse: l’avvento della televisione e di svaghi alternativi e, a seguire, la vendita di videocassette, la concorrenza delle multisala, dello streaming e dei download, per non parlare della difficoltà di parcheggiare in centro, dove si concentravano tutti i cinema.

Anche se tra gli anni Settanta e gli Ottanta in città si potevano ancora contare una quindicina di sale (al netto di quelle parrocchiali), i cinema cominciarono a cadere uno dopo l’altro come birilli: il Sant’Orsola nel 1968, l’Odeon nel 1973, il Diana e l’Ariston (poi Alexander) nel 1979, il Delle Arti e l’Excelsior nel 1980, il Quill nel 1983. Infine l’Astra, il Centrale e l’Apollo.

Il Capitol di via Torquato Tasso era – ed è – ancora attivo (come non ricordare Blade Runner, Il Tempo delle Mele con Sophie Marceau e Noi i Ragazzi dello Zoo di Berlino, con la musica di David Bowie).

Notturno, 1961

Aveva ormai i giorni contati il cinema di via Verdi che aveva esordito come Acquarium (il Ritz, per intenderci), negli ultimi tempi divenuto un santuario a oltranza del porno, dopo che, negli anni Ottanta, l’altro locale a luci rosse della zona, il Nuovo, aveva cambiato indirizzo.  Pare tra l’altro che la demolizione della “storica” palazzina – oggi occupata da una banca – fosse nei piani all’alba del terzo millennio.

Il Ritz di via Verdi era sorto nel 1921 come Acquarium, sulle ceneri della tipografia Isnenghi. Noto anche come quello dei “mille nomi”, dopo Acquarium divenne Verdi alla fine degli anni Trenta, poi Mignon, poi Ritz-Cinema d’essai ed infine infimo locale a luci rosse

 

Cine-teatro Nuovo, in largo Belotti. Sorto come bellissimo e grande teatro nel 1901, fu convertito a cinematografo nel 1965-’67, mantenendo l’originario involucro in stile neoclassico. Era gestito da Giuseppe Spiaggia (presidente dell’Agis lombarda, e che già deteneva la gestione del San Marco e dell’Arlecchino), che spinse appunto la proprietà a rinnovare il teatro attraverso l’incarico dato all’architetto Alziro Bergonzo, di cui era amico. Negli anni Sessanta divenne una sala da Prime Visioni – tenendo il cartellone per settimane – proponendo anche qualche spettacolo musicale o di cabaret. Dopo decenni di continuo rinnovamento, sia nell’aspetto che nella programmazione. Dal 1978, nel disperato tentativo di risalire un po’ la china si diede ai film a luci rosse. Nel corso degli anni Ottanta fu rilevato dai gestori del Lab80 “e una delle cose più difficili, all’inizio, fu dissuadere certi personaggi che al Nuovo entravano alle due e uscivano a mezzanotte, allignando più alle toilette che in sala..” (10). Chiuso nel 2005, è ancora oggi privo di una nuova destinazione

Ricordare le sale scomparse “è come recarsi al cimitero della memoria, una Spoon River della celluloide” (11).

Inaugurato nel 1926, il Sant’Orsola, quasi all’ingresso dell’omonima via, fu definitivamente chiuso il 2 giugno 1968 lasciando il posto, ristrutturato, al Delle Arti, demolito nel 1980 con tutto l’edificio che lo ospitava.

In via Sant’Orsola sorgevano addirittura tre sale cinematografiche, a pochi metri di distanza l’una dall’altra: quasi all’ingresso della via c’era il Sant’Orsola, che aveva in programma le Terze Visioni. Piccolo, un po’ trasandato e costantemente pieno di fumo, era aperto già dalle undici del mattino e vi bazzicavano sfaccendati o studenti che impiccavano la scuola. Fu definitivamente chiuso il 2 giugno 1968 lasciando il posto, ristrutturato, al Delle Arti, locale con pretesa d’eleganza e dalla vita breve, demolito nel 1980 con tutto l’edificio che lo ospitava

Il ‘68 fu pure l’anno della chiusura del Teatro Duse, che da tempo funzionava anche da cinematografo. Come già osservato, venne demolito per dare spazio a un edificio in stile brutalista, all’interno del quale, sorse, nel ‘71, il Cinema Apollo.

Nel 1973 fu l’Odeon di via Sant’Orsola a chiudere. Si trovava di fronte all’Astra, ma nonostante la vicinanza le sale di entrambi erano sempre gremite. Aveva una grande capienza e vantava ottime proiezioni, ma col tempo aveva perso lo smalto fino a ridursi a cinema pornografico. Chiusi i battenti, venne ribattezzato Quill, in omaggio alla moda anglofona. Il Quill chiuse i battenti nel 1983 e il palazzo che lo ospitava fu demolito.

Il Cinema Odeon, inaugurato il 16 novembre 1931 venne chiuso nel 1973, ormai ridotto a cinema luci rosse. Venne quindi trasformato in Quill, per chiudere nel 1983, demolito insieme al palazzo che lo ospitava (fotografia di Giuseppe Preianò)

 

Davanti al Cinema Odeon (fotografia di Giuseppe Preianò)

Poi fu la volta del Centrale, che si trovava all’angolo del Quadriportico del Sentierone, accanto al Caffè Nazionale. Chiuse i battenti per sempre nell’estate del 1997 e fu salutato come il cinema più antico (era stato ristrutturato nella sua originaria struttura) che ancora resisteva a Bergamo.

Quadriportico del Sentierone: è ancora presente l’insegna del Cinema Centrale

La sua chiusura, preludio alla grande crisi che travagliava il cinema, segnò il tramonto di un’epoca.

Nato sulle ceneri dell’omonimo Caffè, aperto nella vecchia Fiera, il Centrale era stato inaugurato il 15 agosto 1914 e la denominazione sopravvisse, all’angolo del Quadriportico del Sentierone, più o meno nella stessa posizione del precedente, così come l’attiguo Caffè Nazionale. Piccolo ma strategico ed elegante, nel cuore del centro progettato da Piacentini, era il cinema perfetto per la passeggiata nel salotto dei bergamaschi e dopo il film era categorico l’aperitivo al Balzer

Il Diana, in via Borfuro e l’Ariston, in via Gianmaria Scotti (poi divenuto Cinema Alexander), chiusero i battenti nel 1979. Quest’ultimo dava le Seconde e Terze Visioni; al suo posto fu realizzato il parcheggio del condominio attiguo.

Il glorioso Diana, il primo in cui vi era stato l’esordio del sonoro a Bergamo, era negli ultimi tempi notevolmente decaduto, specializzandosi in Seconde e Terze Visioni nonché in repliche (vi si riuscivano comunque a vedere film d’autore che – come allora capitava – mischiavano arte e sesso, come Ultimo tango a Parigi, proiettato prima che la censura lo mandasse al rogo). Chiuse i battenti il 23 luglio 1979 (12).

Al momento della chiusura il Diana era gestito dall’Eci (Esercizi cinematografici italiani). Unitamente al cinema Centrale (in odore di imminente chiusura), il Diana era passato da poco, come tutta la catena dell’Eci, in proprietà dell’antica casa francese Gaumont (un colosso dell’esercizio nonché della produzione e della distribuzione di film) diretta in Italia da Renzo Rossellini. La chiusura arrivò in un momento in cui gli esercizi del settore stavano ridimensionando il numero delle sale, per conservare solo le sale più produttive, cioè quelle delle grandi città (per gentile concessione della signora Antonella Ripamonti)

 

Il Diana, in via Borfuro, nel 1969. Inaugurato il 27 agosto 1922 fu tra i cinema che a Bergamo fecero la storia; era una sala non grande, di forma quadrata, in precedenza usata come magazzino-deposito di macchinari e apparecchiature da una casa tedesca. Nell’immediato Dopoguerra era diventato “Grande cinema Diana”

Nel 1980 chiusero il Delle Arti (ex Cinema Sant’Orsola, nella via omonima) e l’Excelsior, mentre nell’83, sempre in via Sant’Orsola chiuse il Quill (ex Odeon).

Nel 1986 scomparve anche lo storico cine-teatro Rubini, per lasciare il posto a un Centro Congressi. Nato come teatro e cinematografo, negli ultimi decenni diede film di Seconda visione, mantenendo pur sempre la fama di “cattedrale” del cinema. Con il nome di Rubini 2000 (1974) era divenuto frequentatissimo negli anni ‘70 anche per una serie di importanti concerti rock e pop. Ancor oggi il Cinema Rubini è rimasto nell’immaginario collettivo della città

Il Rubini, in via Paleocapa, era uno storico cine-teatro. Inaugurato nel 1907, scomparve nel 1986 per lasciare il posto a un Centro Congressi. Con i suoi 1.600 posti a sedere aveva offerto per decenni film per famiglie, le anteprime dei western di Sergio Leone e tutti i film di Disney

Altra “cattedrale” che non riuscì a sottrarsi alla chiusura era l’Astra, l’ultimo della serie di via Sant’Orsola, ribattezzata “la via dei cinema”. Localone in stile anni Sessanta, si trovava a metà della via, all’altezza dei portici. La ristrutturazione aveva fatto scomparire il gigantesco atrio d’ingresso col pavimento di marmo, chiuso in fondo dalle lunghissime vetrate che accoglievano frotte di spettatori. Fino agli anni Settanta era l’unico cinema con il bar nell’ingresso. In quegli anni, alcuni ragazzi riuscivano ad entrarvi di straforo, utilizzando una porta di emergenza che dava su un cortile di via XX Settembre, che veniva aperta dall’interno dall’unico del gruppo che aveva pagato il biglietto.

L’Astra, l’ultimo della serie di via Sant’Orsola, era stato inaugurato nel 1953, nello stesso periodo in cui venivano aperti il San Marco e l’Arlecchino

All’alba del terzo millennio sopravvivevano, nel centro di Bergamo, solo due sale cinematografiche: il Capitol in via Tasso (ex Cinema Italia fino agli anni Sessanta) e il San Marco (l’Arlecchino era già stato smantellato e il suo spazio destinato a un’altra attività).

In più c’erano tre sale rionali: Alba, Del Borgo, Conca Verde. Ormai gli spettacoli erano ridotti all’osso.

Il San Marco e l’Arlecchino, in piazza Della Repubblica, erano costruiti uno sopra l’altro. Data la loro eleganza, erano considerati una sorta di salotto cinematografico cittadino. Posto al piano superiore, il San Marco, era dedito alla programmazione popolare, mentre l’Arlecchino, al di sotto, era per film più di qualità. Tra i due, l’Arlecchino fu il primo a chiudere: venne smantellato e il suo spazio destinato a un’altra attività, mentre il San Marco fu inizialmente ridotto in una piccola e anonima e sala, per chiudere definitivamente i battenti nel 2020

 

Il Capitol, in via Torquato Tasso, era nato nel 1921 come Olympia. Ceduto nel 1931 al Gruppo Leoni, era diventato Cinema Italia (così denominato fino agli anni Sessanta, quando la via era ancora a doppio senso e ci si poteva parcheggiare proprio davanti) e successivamente Studio Capitol; venne trasformato in multisala alla fine del Novecento

L’Alba a Valtesse, in Via Biava, proponeva film di qualità, pochi campioni d’incassi e invece pellicole ricercate e per intenditori. Cercò di rifarsi il look cambiando anche nome e diventando Blob House ma alla fine non resse l’urto delle multisale e chiuse definitivamente nel giugno 2011.

Il Cinema Alba di Valtesse, divenuto Blob House e chiuso  nel giugno 2011

Ai primi di marzo del 2020 i proprietari del San Marco, da qualche tempo ridotto ad una piccola e anonima e sala, ne hanno annunciato la chiusura definitiva. “Il gestore, Michele Nolli, nipote del Piercarlo che tutti i cinefili bergamaschi ricordano con affetto, aveva pensato, con la collaborazione del Meeting, a una chiusura alla grande. Magari con una proiezione di Arancia meccanica alla presenza di Malcolm McDowell, ospite d’onore del Bfm. Invece il destino (e l’emergenza Covid 19) hanno mandato tutto all’aria” (13).

Il San Marco aveva riaperto dopo i lavori di ristrutturazione nel dicembre del  2006,  cancellando la vecchia insegna dell’Arlecchino. Nell’agosto di quell’anno era stato aperto il caffè ristorante “Ai Giardini-San Marco”, andato a occupare gli spazi su due piani che in precedenza erano del negozio di abbigliamento “Cristiano”. Nella primavera 2007, poi, aprì il Centro San Marco: palestra, centro benessere, piscina e centro fitness oltre a spazio commerciale

Il San Marco se n’è andato così in silenzio, senza il gran finale, nei giorni segnati dall’emergenza per il Coronavirus e negli stessi giorni in cui anche lo storico negozio di abbigliamento Petronio, sotto i portici tra le vie Petrarca e Locatelli, avviava una liquidazione totale, in vista della chiusura dopo 66 anni della storica attività che aveva ospitato nei suoi camerini migliaia di clienti, sempre con un occhio alla moda e l’altro al classico e all’eleganza.

Infine l’Apollo, la sala più “giovane” della città, che chiuse definitivamente nel 2005 – l’annus horribilis per i cinema di Bergamo –, diventando un parcheggio dopo anni di degrado. E pensare che a suo tempo, era stato definito “il cinema più moderno d’Italia”.

La triste fine del Cinema Apollo, che si trovava in via Piccinini nel seminterrato dell’edificio in stile brutalista progettato in luogo del teatro Duse (Foto L’Eco di Bergamo, 31 marzo 2009)

 

L’interno del cinema Nuovo prima dello smantellamento della sala (chiuso nel 2005)

LE ULTIME (POCHE) “RESISTENZE”

Come segnalato anche dai giornali locali, resistono al passare del tempo il Capitol in via Tasso – che alla fine del Novecento aveva aperto anche un’altra sala, sempre puntando su pellicole di qualità, con una programmazione più incentrata sui film di nicchia – e il Conca Verde, nel quartiere di Longuelo.

Nato come Olympia nel 1921, divenuto Italia nel ‘31 e così denominato fino agli anni Sessanta (quando la via era ancora a doppio senso e ci si poteva parcheggiare proprio davanti), il Capitol di via Torquato Tasso ha resistito a lungo, fino ad essere trasformato in multisala alla fine del Novecento. E’ gestito dalla Siec, fondata nel 1983 da Piercarlo Nolli, ex gestore del San Marco

Il Conca Verde di Longuelo è sopravvissuto allo tsunami dell’attualità ipertecnologica, con due sale, una gigante usata anche per eventi vari e una più piccola e raccolta. La qualità delle pellicole è ottima e vengono proposte diverse rassegne.

Interno Cinema Conca Verde, a Longuelo

L’Auditorium in Piazza della Libertà, sempre legato alla coraggiosamente attiva associazione cinefila Lab80, può contare sulla sua super sala, perfetta anche come teatro.

L’Auditorium in Piazza della Libertà

Del Borgo in Piazza Sant’Anna, che trasmette anche pellicole ricercati ed organizza rassegne.

L’ERA DELLE MULTISALA

Le multisala cominciarono a spopolare nell’hinterland, in nuove strutture dotate di ampi parcheggi, come a Curno, dove nel 1999 sorse la più grande multisala della Bergamasca, aperta dalla Uci-Paramount Universal Company: un complesso di seimila metri quadrati (costato trenta miliardi e costruito in sei mesi) con nove sale per duemilacinquecento spettatori (di cui la più grande, in grado di ospitarne 433), spazi ricreativi, snack bar, pizzeria e un ristorante-tavola calda sormontato da una gigantesca e scenografica cupola a vetri. Il tutto allo scopo di offrire un intrattenimento “a largo raggio”, che funzionasse da attrattiva per i clienti, avvantaggiati dalla possibilità di prenotare il biglietto per telefono, di assistere alle proiezioni seduti in poltrone ergonomiche distribuite in file ben distanziate; di potersi gustare un film proiettato su schermi giganti (venti metri il più grande), adattati ai vari tipi di pellicola grazie a sistemi computerizzati, oltre che fruire di ben tre sistemi sonori ultrasofisticati.

Alla vigilia dell’inaugurazione, “Bergamo 15” faceva comunque notare che il megacinema avrebbe posto in particolare il grosso problema dovuto all’alto numero di autovetture che si sarebbero – almeno potenzialmente – riversate ogni giorno sulle strade già superaffollate della zona, dal pomeriggio fin dopo la mezzanotte (14).

Con l’arrivo del 2025 anche l’Uci ha deciso di chiudere a causa della sempre più scarsa affluenza di pubblico, unitamente agli elevati costi di gestione. Le ultime proiezioni sono programmate tra la fine del 2024  e il 10 gennaio 2025.

§ § §

Altre e più circostanziate notizie sulle prime sale cinematografiche bergamasche possono essere attinte da una serie di articoli pubblicati da Ermanno Comuzio sul “Giornale di Bergamo” fra il 1970 e il 1971: lo studio, notevole per l’amore e la documentazione, meriterebbe di essere organicamente riunito in volume.

Note

(1) Ermanno Comuzio per il “Giornale di Bergamo” del 23 luglio 1962.

(2) Comuzio riporta, come data d’inaugurazione, il 1911 (“Bergamo-oggi” del 22 giugno 1986).

(3) Ermanno Comuzio per “Bergamo-oggi” del 22 giugno 1986.

(4) Franco Colombo per “L’Eco di Bergamo” del 12 agosto 1997.

(5) “L’Eco di Bergamo”, 4 ottobre 1930.

(6) “Il film, secondo la pubblicità, aveva stabilito diversi record mondiali durante la lavorazione per aver impiegato contemporaneamente duecento riflettori; per i centoventisette giorni per girare le varie scene; per le trecento pagine di copione e una ‘pizza’ di centoventisette chili per una proiezione di due ore e mezza; per le cinquemilatrentacinque comparse” (Pilade Frattini e Renato Ravanelli, “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. A cura di Ornella Bramani – Vol. II. UTET. Anno 2013).

(7) Ermanno Bersani per “La Rivista di Bergamo”, novembre-dicembre 1949.

(8) Nestorio Sacchi per “La Rivista di Bergamo”, in Pilade Frattini e Renato Ravanelli, “Il Novecento a Bergamo. Ibidem.

(9) Dai ricordi di Rosanna Boggi, una delle cassiere del S. Marco, in Pilade Frattini e Renato Ravanelli, “Il Novecento a Bergamo. Ibidem.

(10) Corriere della sera, 7 marzo 2020. “Bergamo, c’era una volta il cinema: viaggio tra le sale scomparse”. Di Davide Ferrario.

(11) Corriere della sera, 7 marzo 2020. “Bergamo, c’era una volta il cinema: viaggio tra le sale scomparse”. Di Davide Ferrario.

(12) “Al momento della chiusura era gestito dall’Eci (Esercizi cinematografici italiani) – ente sorto dalla liquidazione dell’Enic, circuito statale di sale cinematografiche – unitamente al cinema Centrale (in odore di imminente chiusura), il Diana era passato da poco, come tutta la catena dell’Eci, una sessantina di sale in tutta Italia, in proprietà dell’antica casa francese Gaumont, che ha creato la sua filiale italiana, la Gaumont-Italia, direttore Renzo Rossellini. L’Eci era sull’orlo del fallimento (si parla di dieci milioni di deficit). Evidentemente anche la Gaumont – un colosso dell’esercizio nonché della produzione e della distribuzione di film – sta ridimensionando il numero delle sale che conviene tenere. Si dice che la nuova proprietaria dell’Eci intenda conservare soltanto le sale più produttive, cioè quelle delle grandi città, sacrificando le più piccole, cioè quelle della provincia” (articolo tratto da un quotidiano locale, non datato, a firma f. col.).

(13) Corriere della sera, 7 marzo 2020. “Bergamo, c’era una volta il cinema: viaggio tra le sale scomparse”. Di Davide Ferrario.

(14) “Bergamo 15”, 30 novembre 1999.

Riferimenti principali

In primis: Pilade Frattini e Renato Ravanelli, “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. A cura di Ornella Bramani – Vol. II. UTET. Anno 2013.

Corriere della sera, 7 marzo 2020. “Bergamo, c’era una volta il cinema: viaggio tra le sale scomparse”. Di Davide Ferrario

L’Eco di bg 6 mag 2021. “La nostalgia senza tempo dei cinema a Bergamo negli Anni Ottanta”.

Ultima modifica: 01/12/2024

Bergamo agli albori del cinematografo

Se volessimo rintracciare il primo cinematografo di Bergamo, dovremmo aggirarci fra le tresande dell’antica Fiera durante il periodo della festa patronale: è qui che nel 1896 compare per la prima volta fra le tende sistemate ai lati della Fiera.

A passeggio negli spazi della Fiera

Ed è proprio in questo spazio, punto di confluenza della maggioranza dei “forestieri”, che dalla fine del Settecento, ma ancor di più durante l’Ottocento, al teatro “regolare” (le stagioni operistiche estive e gli spettacoli delle compagnie di attori professionisti) si affianca quello “minore” composto dai teatri dei burattini, presenti insieme ad acrobati, ciarlatani, ammaestratori di animali, giostre ed ambulanti con i loro apparecchi proto-cinematografici.

Il padiglione di Fotografia alla Fiera di Bergamo

 

Giostra in piazza Baroni, accanto alla Fiera

E se nel 1864, per la Fiera di Sant’Alessandro arriva a Bergamo il “Salon Parisien”, un’incantevole esposizione d’immagini stereoscopiche delle località più note del mondo (vedute della Torre di Pisa e della Marina di Capri), è nel 1895 che approda alla Fiera il “Teatro Ottico”, nel quale “piccoli fantocci agiscono per mezzo d’illusioni ottiche”. I visitatori si commuovono alla piagnucolosa vicenda del povero Pierrot, il quale, nel volgere di dieci minuti – tanto dura la proiezione del nastro -, viene respinto da Colombina e preso a bastonate da Arlecchino (1).

Una curiosa “stereoscopia” (fotografia tridimensionale), eseguita nel 1898 dal Dr.  Prof. Emilio Tiraboschi: un genere che ebbe larghissima diffusione sin dalla dine dell’Ottocento (Raccolta D. Lucchetti)

Nel grande recinto della Fiera il pubblico s’incanta anche davanti alla “lanterna magica”, alle pantomime delle “ombre cinesi”, agli specchi deformanti, alle marionette meccaniche, al serraglio-acquario, alla donna senza braccia che scrive con la bocca, alla Strabiliante Scoperta Fotografica (lo studio fotografico che fa il ritratto in cinque minuti), alle cuffie auricolari per ascoltare una canzone incisa su di un cilindro e al “gabinetto riservato”, nel quale gli allocchi e i perdigiorno si fanno alleggerire il borsello per poter contemplare nientemeno che alcune immagini invereconde (2).

Giostre alla Fiera di Bergamo: si noti il cartello con la scritta “SOLO PER UOMINI”

 

Alla Fiera di Sant’Alessandro

Non mancano il vitello a due teste, la donna barbuta, il cannibale della foresta e qualche altro specchietto per le allodole (3). E ancora, il Labirinto, l’Esposizione Mondiale, l’Oracolo, il Bersaglio Umoristico Meccanico, il Teatro Egiziano, il Tiro ad anelli, il padiglione della Divina Commedia (4).

La vecchia lanterna magica era un apparecchio davanti al quale si faceva girare con una manovella una pellicola saldata ad anello che proiettava un brevissimo film. Le lanterne magiche erano vendute dall’ottico e profumiere Pietro Vanoli, con negozio in via XX Settembre 41 (18 lire per le lanterne e1 lira e 25 centesimi per le pellicole), ed erano ancora pubblicizzate nel 1904 da “Isnenghi e fratello” con negozio di ottica e di orologeria in piazza Cavour (5)

E così, anche il primo antidiluviano cinematografo si annuncia come fenomeno “fieraiolo”, facendo la sua prima comparsa, nella nostra città, il 25 agosto 1896, a pochi mesi dalla scoperta dei fratelli Lumière, avvenuta il 28 dicembre 1895 a Parigi (in realtà, sulla questione si intrecciò una polemica, che si risolse in parità tra i fratelli Lumière e Edison). Fra le tante tende sistemate ai lati della Fiera, una inalberava il gran nome: ‘Cinematografo’. Era un padiglione modesto, impiantato da certo Gambari; lo spettacolo comprendeva dodici “vedute” (cioè dodici brevi film) che presumibilmente erano costituite dai primissimi film dei Lumière e da alcune riprese ‘dal vero’ dei pionieri italiani Calcina e Pacchioni (6).

I baracconi di piazza Baroni in tempo di Fiera

Le “vedute” interessarono enormemente il semplice pubblico della Fiera e il Cinematografo fece un pienone ogni giorno. “Ci si estasiava al treno che entrava in stazione muovendo ruote e stantuffi: sembrava di averlo davanti, anzi c’era chi si scostava per non farsi investire! Quel pubblico poi apprezzava il movimento degli operai e delle operaie che uscivano da una fabbrica, si divertiva a vedere bambini giocare in un prato, rideva a crepapelle alle disavventure di un giardiniere che innaffiava i fiori e restava vittima dello scherzo di un monello. Il ragazzino interrompeva il getto d’acqua mettendo un piede sul tubo di gomma e, quando il giardiniere guardava dentro l’imboccatura per rendersi conto del supposto guasto, toglieva di colpo il piede e il getto d’acqua inondava il viso del malcapitato”(7).

Il baraccone del “Cinematografo Moderno”, che agli inizi del Novecento ospitava le prime proiezioni “stupefacenti” in Piazza Baroni, presso l’antica Fiera di Bergamo. Il primo Cinematografo comparso a Bergamo il 25 agosto 1896 consisteva in una tenda, alcune panche in legno, un proiettore Lumière di legno con una manovella cigolante e un lenzuolo sulla parete di fondo. Dalla pellicola si effondevano su di un lenzuolo le immagini tremule e sfuocate. La scoperta dei fratelli Lumière fu un fenomeno “primario” della belle époque; non mancò neppure una diatriba “filologica”: cinematografo, oppure cinetografo? (Domenico Lucchetti, Fotografi pionieri a Bergamo. Foto di Aristide Dragoni)

Lo spettacolo durava “venticinque minuti. Le pellicole erano lunghe sedici metri ciascuna per una proiezione di due minuti. Un intervallo, al termine dello spettacolo, permetteva all’operatore-proprietario di riposarsi il braccio che faceva girare la manovella, di vuotare il locale e richiamare a gran voce, assistito da un aiutante, nuovo pubblico”. Il classico ‘Venghino, venghino signore e signori, l’ultima meraviglia del secolo. Non potrete dimenticare il cinematografo, nuova sbalorditiva invenzione scientifica! Fotografie in movimento, grandiose vedute di vita reale, scene magiche che danno l’impressione del vero!” (8).

Non mancavano però anche coloro che non si entusiasmarono per niente, riscontrando nel nuovo ritrovato nessuna differenza sostanziale dagli altri strombazzati e frequentati spettacoli della Fiera.

In quei primi anni del Novecento i cinematografi diventarono sempre più numerosi (il “Novecento a Bergamo” cita per esempio, l’Ideal e il Museo) e le proiezioni non avvenivano più soltanto in tempo di fiera e in Piazza Baroni.

IL PADIGLIONE DEL CINEMATOGRAFO FRANZ KUHLMANN E GLI ALTRI

Fra coloro che in particolare imposero il cinematografo a Bergamo, un ruolo di rilievo spetta a un tedesco, Franz Kuhlmann, un intraprendente impresario nomade, presente annualmente in Fiera almeno dall’anno 1900.

Prima dell’invenzione dei Lumière portava in giro per il Nord Italia serragli e giocolieri, ma seppe adeguarsi ai tempi: stabilitosi a Monza con la sua famiglia, investì i suoi risparmi in un grande telone smontabile, in una macchina da proiezione e nell’acquisto di tutti i film che poté reperire, specialmente sul mercato francese; poi si mise a girare per fiere, trovando in quella di Bergamo una delle piazze più proficue.

Kullmann, un omone imponente dai capelli rossi, con una pittoresca uniforme, redingote e tanto di cilindro, si presentava già all’esterno con un grande, meraviglioso organo meccanico, a cartoni forati, che riproduceva gli strumenti dell’orchestra (9). Nei paesi anglosassoni, in effetti, gli organi erano di gran moda nell’intrattenere gli spettatori durante gli intervalli e nel commentare le proiezioni.

Secondo le parole di un testimone, Luigi Caglio, questo organo “deliziava orecchi e vista del pubblico con una sequela doviziosa di musiche e con tutta una struttura e un’ornamentazione piuttosto pletoriche che facevano sgranare tanto d’occhi per lo stupore. In quei tempi i concerti della banda non erano frequentati e non c’era la radio che oggidì appaga ad esuberanza i bisogni dei musicofili. L’organo dei signori Kullmann era quindi una manna per gli amici della musica squattrinati, e per di più offriva il commento visivo dei motivi che diffondeva sulla piazza grazie al movimento della statuina che faceva tinnire un campanello o dei tamburini che a tratti sottolineavano coi loro movimenti lo scandire dei ritmi”.

La statuina che dominava tutte le altre era quella del direttore d’orchestra (10).

Adulti e ragazzini stavano ad osservarlo per ore prima che Herr Kuhlmann riuscisse a muoverli e a farli entrare sotto il tendone. Prima delle proiezioni chiamava il pubblico a gran voce e a proiezione iniziata annunciava i titoli dei film e ne spiegava il contenuto.

Il Cinematografo Kuhlmann era uno spettacolo nello spettacolo. Nonostante il fracasso infernale, la macchina a vapore che produceva l’energia elettrica per l’illuminazione e la proiezione brillava ai riflessi del sole e della luna, la cassa era luccicante di lustrini e nel bel mezzo vi troneggiava la moglie di Franz Kuhlmann. Per attirare maggiormente gli spettatori si fece ricorso anche all’esposizione di pupazzi di gomma riempiti d’aria, che si libravano nel cielo sopra il tendone, nonché di complicate macchine automatiche, a forma di locomotiva, per distribuire arachidi. Era un impianto ricco e costoso, di conseguenza i prezzi d’ingresso erano un po’ salati.

I primi posti, in fondo al tendone con seggiole mobili, costavano sessanta centesimi; i secondi, nel mezzo, con panche rivestite di velluto, quaranta; i terzi, sotto lo schermo e con nude panche, venti. Nonostante i prezzi il Cinematografo Kuhlmann mantenne sempre la supremazia sugli altri imprenditori del settore presenti negli anni sulla piazza a Bergamo. Questo soprattutto perché, come sosteneva la pubblicità, era il più perfezionato “per la naturalezza delle proiezioni”; l’unico che poteva “disporre di pellicole fino a 250 metri di lunghezza”.

Tra i titoli in proiezione: Nel fondo dell’oceano, Don Chisciotte della Mancia, Cent’anni di sonno, Ladri moderni….e offriva anche “proiezioni di attualità con gli ultimi avvenimenti e fatti del giorno, tra cui alcuni magnifici episodi della guerra russo-giapponese”.

Eccezionale una serata nel 1905, quando, oltre a varie proiezioni, il Cinematografo Kuhlmann mostrò “Un dramma dello sciopero, una splendida proiezione, tratta dalla vita sociale, divisa in sei quadri: 1) l’eroina; 2) il gabinetto del direttore della fabbrica; 3) tumulto e uccisione del padrone; 4) l’arresto del colpevole; 5) alla Corte d’Assise; 6) l’avvenire: davanti all’altare della pace il capitale e il lavoro si trovano uniti” (11).

Luigi Pelandi lo ricordava ancora attivo in Fiera nel settembre del 1909, quando assistette ad una “grandiosa” serata cinematografica a totale beneficio dell’Associazione Studentesca “Pro Italia irredenta”, nonché a due novità: “Gli ultimi scavi di Pompei” e “Torquato Tasso” (12).

La Fiera dell’agosto 1908

In quei primi anni del Novecento, fra i concorrenti di Franz Kuhlmann un posto di primo piano fu occupato da Filippo Leilich, che in Piazza Baroni portò il suo Cinematografo Edison. Egli, per combattere la concorrenza del più fastoso Kuhlmann offriva un programma allettante comprendente proiezioni colorate (i singoli fotogrammi venivano colorati uno per uno da esperti e pazienti pennelli) ed altre novità di richiamo, come la proiezione di un film con una vera trama, Cendrillon (Cenerentola) (13).

Un altro concorrente era il baraccone Zamperla (fondato dal proprietario di un circo minore e diretto dalla vedova, la signora Laura Del Pozzo), che di quando in quando faceva la sua apparizione in Fiera o negl’immediati dintorni, lavorando anche per il Teatro Nuovo. Impresario del settore, lo Zamperla girava le città con un carrozzone, pronto a montare e a smontare i suoi spettacoli; disponeva anche di pellicole pornografiche ufficialmente propagandate come tali. Il baraccone si presentava con un grande organo meccanico tutto luccicante e risonante delle arie operistiche e leggere più in voga. Così era annunciato dalla stampa locale: “È arrivato a Bergamo ed ha piantato le sue tende in Piazza Baroni il Grande Cinematografo Zamperla. Egli ha con sé I’officina elettrica della forza di 40 cavalli e lunedì prossimo inaugurerà un grandioso organo testé arrivato da Parigi…” (14).

Non tutti gli impresari foranei si potevano permettere organi meccanici, qualcuno ricorreva al buon vecchio organetto di Barberia. Come nel caso di quel baraccone (probabilmente il “Cinematografo deal”) di cui parla lo studioso bergamasco Sereno Locatelli Milesi. Non sappiamo, piuttosto, se l’organo serviva anche per le proiezioni (15).

LA SVOLTA 

La scoperta e il lancio di queste ”fotografie in movimento” ebbe presto fortuna; il pubblico ormai non si accontentava più delle vecchie lanterne magiche. I giornali cittadini cominciarono a scriverne un po’ più diffusamente nel 1903 (persino a spiegare cos’era il cinema e come funzionava) e fra il 1904 e il 1905, da fenomeno esclusivamente nomade e fieristico, il cinematografo cominciò ad assumere un tono decisamente più ambizioso, a mollare gli ormeggi e ad entrare nei teatri cittadini, seppur associato al varietà, al cabaret e al music-hall.

Entrò dapprima alla palestra dell’attuale Palazzo de’ Tre Passi, poi al “Givoli” di Piazza Baroni (16), al politeama “Novelli” di Viale della Stazione e, con grave disapprovazione dei benpensanti, addirittura (1899) nel nuovissimo “Donizetti”, erede del vetusto ‘Riccardi” (17), dove pare che, inizialmente, la “vergogna modernista” apparisse come una profanazione (18).

A Bergamo, il cinema entrò per la prima volta in un teatro di tradizione il 5 novembre 1899, quando il “Cinematografo Lumière” presentò al “Donizetti” un programma composto da svariate “vedute”, che occuparono da sole un’intera serata (vi ritroviamo i sopracitati) “Arrivo di un treno ferroviario” e “Uscita dalla fabbrica”). Si trattava ancora di film primitivi, girati dagli operatori dei fratelli Lumière e portati al teatro dall’impresario Terzi: un avvenimento del tutto raro in un’epoca in cui gli spettacoli cinematografici erano mostrati nei baracconi delle fiere o nei caffè-concerto. Probabilmente anzi si tratta di un primato poiché non si ha notizia che il cinema sia stato ospite, prima d’allora, di teatri. Gli intermezzi e il quadro rappresentante la Danza russa dovevano essere accompagnati non da una vera e propria orchestra (a fine secolo ancora non si usava), ma da una delle orchestrine che agivano nei locali al chiuso (non nei tendoni di fiera) per rallegrare il pubblico nelle attese, prima dello spettacolo e negli intervalli. Il cinema tornerà poi diverse volte al “Donizetti”

Subito dopo, nel teatro Nuovo appena inaugurato (19), dove ebbe una successiva brillante vita grazie al dinamico impresario Pilade Frattini, che diede una patente di nobiltà al cinema avendo compreso che ormai la prosa e gli spettacoli del circo non bastavano più (anche al Nazionale, il caffè-ristorante gestito da Pilade Frattini, nel 1906 arriverà il Cinematografo Ungari, che proietterà “vedute modernissime, riflettenti fatti seri di attualità, educativi, istruttivi, nonché aneddoti umoristici”).

Il Teatro Nuovo, in Largo Belotti, inaugurato il 23 marzo 1901

A proiettare film erano gli impresari del settore che giravano le città con confortevoli carrozzoni, pronti a montare e a smontare in teatro i loro impianti. Vanno ricordati in particolare lo Zamperla, il Roatto, i fratelli Marcenaro e il Pettini. Durante gli spettacoli proiettati al Nuovo, i titoli dei film non venivano annunciati, ma il nome dell’impresario sì. E così i manifesti dicevano: ‘Al teatro Nuovo il Cinematografo Roatto’. Alcuni impresari però davano al loro spettacolo il classico nome di fantasia (ad esempio, “Cinematografo Universal”) (20).

Le prime proiezioni erano sistematicamente abbinate a spettacoli di varietà: veniva cioè presentato all’interno dei vari programmi delle sale da spettacolo musical-popolare (come il Politeama Givoli o il Teatro Nuovo), in abbinamento al cabaret e al music-hall. Proprio per le sue modalità di presentazione, il cinema degli inizi è strettamente legato alla musica, che fin dalla fine del secolo scorso è un forte elemento di richiamo (fuori dei baracconi gli impresari nomadi – ad esempio, i già citati Franz Kullmann e Zamperla – collocavano i loro organi meccanici) (21).

La progressiva decadenza della Fiera, sempre più malfamata e fatiscente, portò il cinema in altri teatri: nel marzo del 1908 il glorioso Sociale ospitò proiezioni all’insegna del “Cinematografo Sicsim” (sigla di una compagnia di imprenditori che a maggio assunse il nome di “Cinematografo Excelsior” su iniziativa della società milanese “Industria Cinematografi”). Erano film di prima scelta, proiettati con macchinario d’ultimo modello, perfezionatissimo, veramente importante per la grande fissità delle immagini; eliminando cioè l’inconveniente principale delle proiezioni dell’epoca, il tremolio delle immagini (22).

La stampa locale ammetteva ora – e per motivi a noi noti – che “questo nuovo divertimento, alla portata di tutte le tasche, di tutte le età e condizioni, sostituisce oggi il teatro, specialmente il teatro di prosa”: un processo inesorabile, che diede il via, seppur molto lentamente, alla decadenza dei tipici intrattenimenti popolari (il circo, l’opera, il teatro leggero, ogni forma di spettacolo di piazza).

Fu poi la volta del Rubini, che il 4 agosto 1908 ospitò le proiezioni del “Grandioso Cinematografo Parlante Roosvelt American Cinematograph” (esperimento ante litteram del futuro parlato), che consisteva in un meccanismo che assicurava un approssimativo sincronismo fra proiettore e grammofono (un brevetto del francese Georges Mendel). Non mancava un “grazioso regalo” a tutti i bambini presenti in sala e si permetteva di assistere a più rappresentazioni ”senza ulteriore pagamento. I prezzi: sessanta centesimi in platea; cinquanta nella prima loggia; trenta nella seconda. Molto pubblicizzato il film “dal vero”: Due chinesi a Bergamo. Visitano le nostre antichità e fanno colazione all’hotel Moderno, un film girato in città da Giovanni Vitrotti, il miglior operatore dell’Amrosio di Torino.

L’interno del Teatro Rubini nel 1908

Il cinema arrivò quindi nel retro del bar Concordia, sul viale della Stazione, fino al primo locale permanente della città appositamente adibito agli spettacoli cinematografici: il “Cinema-salone Radium” (23).

CINEMA SALONE RADIUM: IL PRIMO VERO CINEMATOGRAFO

Il “Cinema-salone Radium”, inaugurato il 6 maggio 1909, era un capannone in legno “appositamente” costruito da una ditta di Lovere e si trovava all’incirca dove sorge ora il Credito Italiano (piazza Vittorio Veneto), di fronte al boschetto di Santa Marta (24). Era capace di ben 300 posti a sedere.

Primi del Novecento: la chiesa e il Boschetto di S. Marta, con  il busto eretto alla memoria di Lorenzo Mascheroni, inaugurato nel settembre del 1897. La chiesa, consacrata nel 1357, fu pietosamente abbattuta insieme a parte del monastero a partire dal 1915, per l’edificazione del Centro piacentiniano (Raccolta D. Lucchetti)

Decantato da una pubblicità come “il re dei cinematografi” e un “locale di prim’ordine”, era un baraccone tipo saloon da film western, con alcuni gradini da superare, un ballatoio, colonne di legno, con sala d’aspetto e bar. Vi si respirava un’atmosfera da pionieri. La pubblicità informava che il Radium era l’unico a rappresentare “costantemente le prime novità mondiali, morali, istruttive e ricreative” (25), offrendo tutti i lunedì, mercoledì e sabato un cambiamento di programma. Nei giorni feriali le proiezioni andavano dalle 19.30 in avanti, mentre nei giorni festivi iniziavano alle 14.30. L’ideatore del Radium era il vulcanico Pilade Frattini. (26), in quel periodo impresario del Teatro Nuovo e proprietario-mattatore del Caffè Nazionale.

Il Caffè Nazionale di Pilade Frattini, aperto nella vecchia Fiera

Ma non passò qualche mese che il Radium si trovò ad affrontare la concorrenza di altre due sale cinematografiche: l’Universale, in via Torquato Tasso, e il Cinema Orobico, in piazza Santo Spirito (inaugurato il 23 luglio 1910). Un incendio scoppiato nel marzo 1911 consigliò in gran fretta il trasferimento del Radium in un ambiente in muratura, presso la Società di Mutuo Soccorso. Ma la sala era disagevole e il Radium chiuse il battenti.

Nel ricordo di Luigi Pelandi, al “Radium” si tenevano i maggiori comizi sovversivi capitanati dal gruppo Rocchi, Piccinini, Marcassoli e che durante una mattinata domenicale Filippo Corridoni, presentato da Alfonso Vajana, vi tenne un comizio. Pelandi ricorda anche alcune proiezioni (“La maschera di ferro”, “I misteri di Parigi”, il colossale film “La mano nera”, che ottenne un successo strepitoso) e il prezzo d’ingresso: trenta centesimi per i primi posti (sedie) e venti per i secondi (panche); i manifesti apposti sulla porta a vetri avvertivano che “i militari di bassa forza” e i bambini pagavano la metà (27).

LE PRIME PROIEZIONI: IL CINEMA E’ ABBINATO AGLI SPETTACOLI “NAZIONAL-POPOLARI” E ALLA MUSICA

Anche al “Radium”, così come nei teatri “minori” le proiezioni erano sistematicamente abbinate a spettacoli di varietà, caratteristica fissa del “Radium”, dove sfilavano i più tipici rappresentanti del café-chantant: i loro “numeri” erano talmente apprezzati che il più delle volte il locale faceva la pubblicità non ai film, ma agli ‘intermezzi di varietà’ (28). Anche Umberto Zanetti conferma che al “Radium” le varie sequenze erano accompagnate e commentate da un pianoforte suonato da Pietro Airoldi, uno dei proprietari del locale (29).

Anche Rodolfo Paris, autore di poesie in dialetto bergamasco con lo pseudonimo “Alegher”, nonché primo duca del Ducato di Piazza Pontida, accompagnava al piano alcune proiezioni cinematografiche al Teatro Donizetti e pare fosse bravissimo nell’alternare i vari pezzi da eseguire in sincronia con le immagini (Archivio storico-fotografico Domenico Lucchetti)

Talvolta erano invece i burattini a gareggiare con le attrattive dello schermo, come nel settembre 1899 alla Scuola dei Tre Passi di Via Torquato Tasso, con un “Concerto musicale, cinematografico e trattenimento burattini”; e come nel 1909 al Caffe Concordia sul Viale della Stazione, che per tutto l’anno, sotto l’etichetta “Cinematografo e Fantocci”, proponeva spettacoli gioppinori nutriti di proiezioni di film. Mentre di questi ultimi non erano mai annunciati i titoli, degli spettacoli delle “teste di legno” figuravano sempre, ed assai circostanziati, titoli e sommari (dove Gioppino vi faceva la parte del leone: La caccia di Luigi XI con Gioppino soldato valoroso; i fulmini di Giove ovvero il debito dei’ generale, con Gioppino sentinella; i quattro simili con Gioppino servo; Le risorse per non lavorare, ossia Gioppino finto Sansone; e simili).

Decisamente più bizzarri gli abbinamenti fra il cinema e i fuochi d’artificio (come avvenne il 15 settembre 1899 nel recinto della Fiera, in occasione della ricorrenza del santo patrono), e fra il cinema e la gastronomia. Come avvenne il 4 giugno 1911 nel Salone dell‘Albergo Moderno, in cui si offriva al prezzo di lire 4 tutto compreso una ‘Festa delle rose’ con concerto, film e pranzo, con un menu tutto dedicato alle rose: Potage Rosa Gloria di Bergamo – Controfiletto di bue alla Rosa Eglantine – Polli novelli alla Rosa Lombarda – Insalatina alla Rosa d’Italia – Fragole alla Rosa Rosarum, con biscottini, più mezza bottiglia di Cimarone e mezza bottiglia di Champagne (rosé, probabilmente) (30).

Festa all’Hotel Moderno

Dopo il Cinema Salone Radium si aprirono a Bergamo altre sale. Nel frattempo era nato il divismo (prima, le produzioni non si allontanavano dal documentarismo) e arrivarono i primi kolossal: da Quo Vadis? (1913) a Cabiria (1914) (31).

Dagli anni Venti, oltre ai teatri votati al cinema sorsero altre sale cinematografiche, molte delle quali accompagnarono per decenni i sogni dei bergamaschi. E lo vedremo nel prossimo post.

Note

(1) Umberto Zanetti, “Bergamo d’una volta”. Ed. Il conventino, 1983.

(2) Umberto Zanetti, “Bergamo d’una volta”. Ibidem.

(3) Umberto Zanetti, “Bergamo d’una volta”. Ibidem.

(4) Ermanno Comuzio, “Giornale di Bergamo” del 17 agosto 1962.

(5) Pilade Frattini e Renato Ravanelli, “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. A cura di Ornella Bramani – Vol. II. UTET. Anno 2013.

(6) Ermanno Comuzio, “Giornale di Bergamo”. Ibidem.

(7) Ermanno Comuzio, “Giornale di Bergamo”. Ibidem.

(8) Ermanno Comuzio, “Giornale di Bergamo”. Ibidem.

(9) Pilade Frattini e Renato Ravanelli, “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. Ibidem.

(10) “Giornale di Bergamo”, Bergamo 5 aprile 1970.

(11) Pilade Frattini e Renato Ravanelli, “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. Ibidem.

(12) Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa. II. La strada Ferdinandea”. Banca Popolare di Bergamo. Co-Editore: Edizioni Bolis. Bergamo, 1963 (Collana di studi bergamaschi).

(13) Pilade Frattini e Renato Ravanelli, “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. Ibidem.

(14) “L’Eco di Bergamo”, Bergamo 10 luglio 1906.

(15) Musica dentro e attorno le proiezioni degli inizi. Di Ermanno Comuzio (Primavera 1992). In: Immagini note di storia del cinema. Nuova serie N. 20. Associazione Italiana per le Ricerche di Storia del Cinema.

(16) Nel maggio del 1897 si erano avute al Politeama Givoli, in Piazza Baroni rappresentazioni del ‘Reale Cinematografo Lumière’ di proprietà di Giuseppe Filippi, in cui il cinema aveva il compito di concludere lo spettacolo della ‘Compagnia Eccentrica di Varietà’ composta di cantanti, clowns femminili e ‘monologhisti’ (Musica dentro e attorno le proiezioni degli inizi. Di Ermanno Comuzio (Primavera 1992). In: Immagini note di storia del cinema. Nuova serie N. 20. Associazione Italiana per le Ricerche di Storia del Cinema).

(17) Il cinema tornerà poi diverse volte al “Donizetti”, come quando nel 1906 si proiettano pellicole sotto la complicata etichetta di Electro-Chrono-Projecteur; o nel 1907, quando sul telone del teatro si mostrano scene girate a Bergamo, per le strade; o nel 1913 quando si presenta il kolossal storico Quo Vadis? accompagnato dalla musica di un’orchestra sinfonica (il cinema era muto, a quei tempi); o nel 1914, anno in cui arriva il film italiano più famoso del periodo, Cabiria. Nel 1919 venne proiettato Christus. I tre film ottennero un successo clamoroso, sicuramente anche per l’ottimo adattamento musicale del maestro Tironi, che con Cabiria seppe adeguare le musiche a quanto accadeva sullo schermo, precorrendo così le moderne soluzioni del sempre più stretto rapporto sonoro-immagine (Pilade Frattini e Renato Ravanelli, “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. Ibidem).

(18) Quando fu la volta del Donizetti, si scatenarono polemiche perché la “vergogna modernista” appariva come una profanazione. Si stabilì quindi di allestire cinematografo e sala di proiezione nell’atrio, e ciò a partire dall’aprile del 1908 sotto l’etichetta “Cinematografo Centrale” o anche “Cinematografo Permanente”. Curiosamente, durante la stagione della Fiera, mentre dentro il teatro si rappresentavano le opere, le proiezioni nel foyer erano perlopiù “accompagnate da un sonoro estemporaneo composto dagli acuti del tenore e dai pieni dell’orchestra che passavano le pareti”. Finalmente, nel 1912 le proiezioni trovarono posto anche all’interno del teatro per durare diversi anni (Pilade Frattini e Renato Ravanelli, “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. Ibidem).

(19) Nel maggio 1901 nel Teatro Nuovo da poco inaugurato si ha uno «Svariato spettacolo per l’artista Oreste Donnini, oltre al Cinematografo Lumière ed intermezzo di prosa e di canto per Ada Mancinelli». Il film proiettato in questa occasione, frammezzo alle altre esibizioni, è Le petit Poucet, fiaba in 20 quadri tratta da Perrault (Pathé) – (Musica dentro e attorno le proiezioni degli inizi. Di Ermanno Comuzio (Primavera 1992). In: Immagini note di storia del cinema. Nuova serie N. 20. Associazione Italiana per le Ricerche di Storia del Cinema).

(20) Pilade Frattini e Renato Ravanelli, “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. Ibidem.

(21) Musica dentro e attorno le proiezioni degli inizi. Di Ermanno Comuzio (Primavera 1992). In: Immagini note di storia del cinema. Nuova serie N. 20. Associazione Italiana per le Ricerche di Storia del Cinema.

(22) Dal programma della prima serata: “Parte prima: Giuramento bretone (dramma commoventissimo); I lunatici (cinematografia fantastica a colori); Amore di bandito (dramma commoventissimo); Buon occhio di gendarme (comicissimo)” (Pilade Frattini e Renato Ravanelli, “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. Ibidem)

(23) Pilade Frattini e Renato Ravanelli, “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. Ibidem.

(24) Alcuni autori, ad es. Umberto Zanetti, che forse ha ripreso la notizia dal Pelandi (citati in “Riferimenti”), scrivono che “Il 6 maggio 1909 accanto al Bramati, all’interno del recinto della Fiera, s’inaugurava il primo cinematografo della città, il Salone Radium”. Per questo motivo, altrove si legge che il Cinema Salone Radium fu l’antenato del futuro Centrale, sul Sentierone, chiuso nel 1997).

(25) All’inizio del 1910 i giornali annunciavano che “d’intesa con la Lega Navale Italiana, al Cinematografo Salone Radium, di fronte al boschetto di Santa Marta, ogni venerdì avverrà la proiezione di uno speciale programma: rappresentazioni dal vero di soggetti nautici, vita nelle colonie, vedute marine panoramiche ecc. Scopo dell’iniziativa è di dare intrattenimenti divertenti e istruttivi cercando di seguire possibilmente un ordine metodico nei programmi delle proiezioni. Alle proiezioni potranno assistere gratuitamente gli alunni delle scuole comunali”. L’utile era “destinato ad aumentare il fondo per il terzo viaggio d’istruzione per mare al quale sono iscritti anche alcuni bergamaschi” (Ermanno Comuzio per il “Giornale di Bergamo” del 14 luglio 1962).

(26) Pilade Frattini e Renato Ravanelli, “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. Ibidem. Con inserti di Ermanno Comuzio per il “Giornale di Bergamo” del 14 luglio 1962.

(27) Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa. II. La strada Ferdinandea”. Ibidem.

(28) Ecco un programma tipico [10 febbraio 1912): Parte I – Triste valzer, straordinarie scene drammatiche passionali; Visioni alpestri, interessante cinematografia dal vero. Parte II ­ Intermezzo artistico di varietà. Les Del Cigno, trio artistico-comico di canto, continuo grande successo. Parte III – Il dito del destino, nuovo dramma emozionantissimo; Viaggio di nozze a tre, comica. Prezzi d’ingresso: Primi Posti cent. 40, Secondi Posti cent. 20, Soldati e bambini pagano la metà (Musica dentro e attorno le proiezioni degli inizi. Di Ermanno Comuzio (Primavera 1992). In: Immagini note di storia del cinema. Nuova serie N. 20. Associazione Italiana per le Ricerche di Storia del Cinema).

(29) Umberto Zanetti, “Bergamo d’una volta”. Ibidem.

(30) Musica dentro e attorno le proiezioni degli inizi. Di Ermanno Comuzio (Primavera 1992). In: Immagini note di storia del cinema. Nuova serie N. 20. Associazione Italiana per le Ricerche di Storia del Cinema.

(31) L’Eco di Bergamo, 13 febbraio 1985. All’Ateneo La conversazione di Ermanno Comuzio sulla nascita del cinema a Bergamo.

Riferimenti principali

Pilade Frattini e Renato Ravanelli, “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. A cura di Ornella Bramani – Vol. II. UTET. Anno 2013.

Immagini note di storia del cinema. Nuova serie N. 20. Associazione Italiana per le Ricerche di Storia del Cinema. Il capitolo: Musica dentro e attorno le proiezioni degli inizi. Di Ermanno Comuzio (Primavera 1992).

L’Eco di Bergamo, 13 febbraio 1985. All’Ateneo La conversazione di Ermanno Comuzio sulla nascita del cinema a Bergamo.

Umberto Zanetti, “Bergamo d’una volta”. Ed. Il conventino, 1983.

Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa. II. La strada Ferdinandea”.  Banca Popolare di Bergamo. Co-Editore: Edizioni Bolis. Bergamo, 1963 (Collana di studi bergamaschi).

Il Teatro Rubini

Quello che tutti conosciamo come cinema Rubini è sorto come teatro agli inizi del secolo scorso, ricavato all’interno della Casa del Popolo, inaugurata nel maggio del 1908.

Tra viale Papa Giovanni XXIII e via Paleocapa: la Casa del Popolo, oggi Palazzo Rezzara

Il grande edificio, progettato su incarico del Consiglio direttivo dell’Unione delle Istituzioni Sociali Cattoliche Bergamasche, presieduto da Nicolò Rezzara, si estende su una vasta area compresa tra viale Papa Giovanni XXII, via Paleocapa e via Novelli; un’area  caratterizzata da una nutrita sequenza di palazzi in stile liberty ed eclettico. Oltre al teatro, l’edificio comprendeva le istituzioni cattoliche, un albergo, un ristorante, negozi, appartamenti, la Banca Piccolo Credito, la cappella, sale di lettura, sala biliardo e, allora come oggi, la redazione de “L’Eco di Bergamo”.

La Casa del Popolo (oggi Palazzo Rezzara) è situata in prossimità della stazione ferroviaria di Bergamo e occupa un’area di circa 3.500 mq, già occupata parzialmente dal Politeama Novelli, un teatro dalla vita breve. L’architetto Virginio Muzio vi eseguì gli scavi e la posa della prima pietra (1904), ma l’edificio venne variamente realizzato da Ernesto Pirovano e completato nel 1908, anno della sua inaugurazione. Il palazzo, di gusto “eclettico” (stile frequente in quel periodo per i palazzi istituzionali), riprende elementi dell’arte classica, anche se ai piani superiori si individuano motivi floreali più vicini allo stile Liberty

Dedicato a Giovambattista Rubini (Romano di Lombardia, 7 aprile 1794 – 3 marzo 1854), celebre tenore romanese, il teatro fu inaugurato nel 1907 e restò in attività per quasi 80 anni, guadagnando un posto d’onore nell’immaginario collettivo soprattutto grazie al cinematografo, presente e molto attivo sin dagli esordi del locale.

L’esterno del teatro, ricavato all’interno della  Casa del Popolo, con ingresso su via Paleocapa. Dal 1987 è stato trasformato in Centro Congressi Giovanni XXIII (ripresa del 1959)

L’INAUGURAZIONE

L’inaugurazione avvenne la sera del 16 novembre 1907 con l’opera Poliuto di Gaetano Donizetti (1), in una platea stipata, con molte signore fra il pubblico. La luce calda delle lampade a incandescenza fondeva in un insieme armonico le tonalità delle decorazioni e della pittura, e si ripercuoteva nelle dorature della sala.

Ricorda Ermanno Comuzio che l’orchestra fu da subito interrotta da schiamazzi di studenti che pretendevano a gran voce, prima dell’opera, l’esecuzione dell’Inno di Garibaldi: inno patriottico, ma non certo cattolico; e il teatro era stato realizzato per ospitare, nella Casa del Popolo, sede anche de “L’Eco di Bergamo”, quotidiano della Curia, le manifestazioni artistiche di maggior portata per il mondo cattolico. Alle ragioni idealistiche si erano mescolate quelle derivate dalle istigazioni di impresari concorrenti disturbati dalla nascita del nuovo teatro.

Interno del Teatro Rubini. L’inaugurazione avvenne il 16 novembre 1907 con l’opera “Poliuto” di Gaetano Donizetti

Quella sera, una rappresentanza di Romano depose ai piedi del busto di Giovambattista Rubini, posto nell’atrio del teatro, due splendide corone con nastri: una a nome del Municipio, l’altra a nome dei Luoghi Pii fondati dal celebre tenore romanese.

Dopo lo spettacolo, la direzione del Rubini offrì, nei locali di ritrovo della Casa del Popolo, un banchetto servito egregiamente dal signor Carminati dell’attiguo Albergo Moderno; il ridotto del teatro era infatti in comoda comunicazione con una sala da caffè annessa all’albergo, che ad ogni spettacolo faceva servizio da buffet.

Una strepitosa testimonianza d’epoca dell’Albergo Moderno, ricavato nella Casa del Popolo

COM’ERA L’ANTICO TEATRO

Il teatro, tutto in muratura, cemento e ferro – per scongiurare ogni pericolo d’incendio -, aveva una vasta platea di forma esagonale, che si estendeva anche sotto le due grandi logge che la circondavano; un palcoscenico piuttosto ristretto e tre ordini di palchi con sei palchetti di proscenio; le logge erano sostenute da una serie di graziose colonnine di ghisa, difese da robuste ed eleganti balaustre di ferro battuto, graziosamente disegnate. Purtroppo le colonnine disturbavano un po’ la visibilità.

La sala del Teatro Rubini aveva una grande platea e tre ordini di palchi; le logge erano sostenute da una serie di graziose colonnine, le balaustre erano di ferro battuto e le decorazioni, di stile floreale. Un teatro moderno, comodo, elegante, capiente e, grazie alla buona acustica, adatto a spettacoli di musica e prosa (Archivio Luciano Galmozzi)

Le decorazioni, di stile floreale seicentesco modernizzato, avevano figure e medaglioni allegorici. Le molte dorature in platea e nelle logge rendevano ancor più prezioso il teatro, riccamente illuminato a luce elettrica con graziosi lampadari e con un grandioso ed elegante lucernario sostenuto da tralicci di ferro, innalzato al centro della platea e circondato da una vetrata graziosamente decorata (2).

Come appariva l’interno del Teatro Rubini nel 1908, all’inaugurazione della Casa del Popolo (dalla pubblicazione del 1956 “Nicolò Rezzara”, di Giuseppe Belotti. Edizioni S.E.S.A.). Definito un locale per famiglie piuttosto confortevole, poteva ospitare sino a 1500 persone: 750 posti a sedere nelle logge, 250 in platea, oltre ai 500 posti in piedi. La pubblicità lo definiva arieggiato e fresco d’estate e riscaldato d’inverno

Nel teatro, eleganza, comfort, solidità, capienza e modernità erano coniugati con sapienza ed equilibrio, grazie alla presenza di impianti moderni, quali caloriferi centrali, fonti di energia indipendenti, aspiratori, ventilatori, estintori automatici, apparecchi meccanici per gli scenari. Era dotato di parecchie bocche d’acqua per l’estinzione di incendi, nonché di numerose uscite di sicurezza. E, grazie alla buona acustica (favorita dal vuoto lasciato sotto la platea e sotto il palcoscenico), era adatto a spettacoli di musica e prosa.

Moderni i camerini per gli artisti (posti su un fianco del palcoscenico), così come i locali per i coristi e le comparse, che si trovavano sotto il palcoscenico.

SPETTACOLI PER TUTTI, MA IL CINEMATOGRAFO PRIMEGGIAVA

Nel periodo che seguì l’inaugurazione, vi fu un breve ma frequentatissimo corso di recite di Ermete Novelli, e a un mese di distanza in teatro approdarono spettacoli d’ogni tipo, dalla prosa al varietà, dalla commedia dialettale ai concerti: ma il cinematografo fu comunque l’attività più sistematica, risultando in certi anni il locale più attivo della città, l’unico a permettersi a Bergamo pubblicità in grande stile sui giornali.

Fu il Rubini ad offrire al pubblico i primi Kolossal come Gli ultimi giorni di Pompei, diretto da Luigi Maggi (la “prima” si tenne il 21 febbraio 1909): il primo film muto storico-epico del cinema italiano ricordato da Ermanno Comuzio (3) come “una rivoluzione spettacolosa nelle convenzioni del trattenimento cinematografico nella prima decade del Novecento […] Giorni indimenticabili in particolare per la cassiera del teatro, Diana Barberini, che non ancora ventenne era stata ingaggiata dai gestori della Casa del Popolo (tra cui l’onorevole Gavazzeni, padre del maestro Gianandrea) per insediarsi al botteghino…. che aveva accettato l’incarico più per la passione del cinema che per la retribuzione”.

Come appariva l’interno del Teatro Rubini nel 1908, all’inaugurazione della Casa del Popolo (dalla pubblicazione del 1956 “Nicolò Rezzara”, di Giuseppe Belotti. Edizioni S.E.S.A.)

E’ interessante notare che Gli ultimi giorni di Pompei (stesso titolo di quello muto del 1908) fu anche il primo film diretto da Sergio Leone (1959).

Altro grosso successo di pubblico ottenne nel 1910 La Gerusalemme liberata, un film diretto da Guazzoni che, per meglio documentarsi, compì anche diverse ricerche alla Civica Biblioteca A. Mai. Altri kolossal dell’epoca, Il conte Ugolino e Napoléon, presentati come “colossali capolavori storici istruttivi”: un pallino di diversi locali per dare più che altro una patina culturale a spettacoli che il più delle volte avevano poco da spartire con la cultura.

A quel tempo, le proiezioni al Rubini erano “accompagnate da un pianoforte suonato da un certo signor Martina, che aveva carta bianca nell’eseguire pezzi di diversa natura a seconda del carattere delle singole sequenze che si svolgevano sullo schermo”.

Su una delle pagine pubblicitarie, pubblicata domenica 16 agosto 1914, si annunciava che dalle 16 alle 23 si sarebbe tenuto un programma straordinario con due film: Squadra navale francese nel Nord Mediterraneo e Destino vendicatore, “emozionantissimo dramma in tre parti”.

E fu proprio in quel 1914 che il teatro fu attivo come sala cinematografica per tutto l’anno, “con programmi di prim’ordine e un afflusso di pubblico sempre sostenuto”. Capitava che a volte gli intermezzi fossero rallegrati da intrattenimenti musicali, con un repertorio che variava dal drammatico allo storico, dal poliziesco al romanzo d’appendice. E non mancava mai la comica finale.

La serie di film che riscosse maggior successo fu Fantomas.

Anche se il Rubini ebbe per anni una compagnia stabile di prosa, fu comunque il cinema a riempire il teatro. Un particolare successo di pubblico ebbe nel 1938 il film Il segno della croce con Fredric March e Charles Laughton, imponendosi su tutti gli altri film storici “per la meraviglia della sintesi drammatica, lo splendore delle immagini, la tumultuosa potenza dei sentimenti”. La sontuosa messinscena mostrava “una Roma superba, dal palazzo dell’imperatore alle case dei patrizi, alle scalee immense del Circo, ai sotterranei dove sono rinchiusi i cristiani. Una visione superba per potenzialità di mezzi impiegati nella lavorazione, per la grandiosità di linee veramente imponenti, per il gusto e le proporzioni concordi dell’insieme. Un film sonoro perfetto. Incantato il pubblico”.

E’ sempre l’immancabile e poderoso “Il Novecento a Bergamo” a ricordare un evento memorabile nella storia del teatro: un’iniziativa benefica riservata ai poveri delle Conferenze di San Vincenzo per assistere al film Monsieur Vincent. Ricordando quella serata, don Andrea Spada (4) scrisse che l’invito era stato rivolto ai più poveri: umilissime donnette, poveri del dormitorio popolare, dei refettori, povera gente che abitava sulle soffitte, nei sottoscala, che d’estate dormiva all’aperto. Il locale era colmo e soffocante. Si dovette sbarrare il teatro tanta era ancora l’umile gente che attendeva di fuori. “Al buio pareva vuoto tanto era il silenzio, tanta la partecipazione accorata al film di tutta quella gente”. E a un certo punto non mancarono i singhiozzi in sala.

Talmente vario il repertorio che nell’ottobre del 1963 vi fu allestito uno spettacolo “sconvolgente”: un’edizione, voluta dal Circolo Artistico Bergamasco, in forma di “oratorio”, dell’opera Roberto Devereux di Gaetano Donizetti, diretta dal maestro bergamasco Giulio Lorandi. E dato che in città mai si era assistito a delle pagine melodrammatiche non in costume, l’esibizione suscitò grande stupore, tanto che i patiti della lirica fecero di tutto perché la rappresentazione fosse ripetuta più volte; cosa però impossibile a causa del risicato bilancio del Circolo, che non permetteva ripetizioni costose.

DUE RINNOVAMENTI IN VENT’ANNI… E POI LA FINE

La sala del Rubini fu letteralmente trasformata nel 1954 con un radicale intervento, eseguito su progetto dell’architetto Luciano Galmozzi, che ne cancellò l’impronta stilistica originaria. Logge e colonne furono sacrificate a favore di una moderna soluzione architettonica: platea e una loggia a vasta curva senza bisogno di pilastri in vista.

L’atrio del cine-teatro Rubini nel settembre del 1959, con tanto di locandina (“Un condannato a morte è fuggito”)

La capienza venne aumentata; si guadagnò da una parte in visibilità e praticità, dall’altra si perse per sempre un caratteristico esempio di architettura teatrale d’epoca, come una decina d’anni dopo avvenne per il Teatro Nuovo.

Interno del cine-teatro Rubini negli anni Sessanta

Con i suoi 1.600 (?) posti a sedere fra platea e galleria, offrì per decenni film per famiglie, le anteprime dei western di Sergio Leone e tutti i cartoni animati di Disney, restando però sempre aperto ad eventi di varia natura.

Il cinema teatro Rubini  negli anni Sessanta. La fotografia fu scattata in occasione del film “Questo pazzo, pazzo, pazzo, pazzo mondo”, pellicola americana del 1963. Erano gli anni in cui le sale cinematografiche andavano ancora forte in Italia, ma negli anni Settanta cominciò il declino che portò a una progressiva riduzione del numero di sale. Nella foto si vede anche la bottega del barbiere Algeri, aperta nel 1936 e ancora oggi in attività

 

Jazz Al Rubini. Bergamo (1956). Un concerto jazz al teatro Rubini in via Paleocapa di Bergamo nel 1956. Organizzato dal Jazz Club Ponte San Pietro e da Gioventù Studentesca presentava il Quartetto Glauco Masetti. Nella fotografia, di GIANNI CARDANI, Glauco Masetti al sassofono contralto, Gianfranco Intra al pianoforte, Al King al contrabbasso e Rodolfo Bonetto alla batteria (foto e info Riccardo Schwamenthal)

 

Volantino Di Un Concerto Jazz. Bergamo (1957). E’ il volantino di uno dei primi concerti organizzati dal Jazz Club Bergamo con la collaborazione di Gioventù Studentesca e del Jazz Club Ponte San Pietro. Il concerto, nei suoi tre tempi, faceva ascoltare tre forme del jazz classico: il jazz tradizionale con il gruppo milanese Riverside Jazz Band in cui suonava Lino Patruno che sarebbe diventato famoso, lo swing, la musica ballabile portata alla celebrità da Benny Goodman con il Quintetto Swing di Glauco Masetti e il jazz allora attuale con il Sestetto Jazz Moderno. Come si può vedere il gruppo swing e quello che faceva jazz moderno era formato sostanzialmente dagli stessi musicisti alcuni dei quali cambiavano strumenti e si adeguavano allo stile. Alcuni di questi musicisti hanno fatto la storia del jazz italiano e anche della musica leggera italiana. Per esempio il Maestro Giulio Libano, che suonava tromba e vibrafono, è stato il direttore d’orchestra che diresse e curò gli arrangiamenti del primo LP di Adriano Celentano e della maggior parte dei primi dischi di Mina. Bisogna anche ricordare che i concerti jazz al Teatro Rubini, che era all’inizio di via Paleocapa, ebbero l’aiuto e il sostegno di un grande personaggio della vita religiosa e culturale bergamasca di quegli anni: Don Tito Ravasio (foto e info Riccardo Schwamenthal)

 

La Giuria Del Concorso Orchestrine. Bergamo (1958), Al cinema teatro Rubini veniva organizzata da Gioventù Studentesca il Concorso Orchestrine a cui partecipavano gruppi musicali formati da studenti delle scuole della bergamasca. Il tifo era fortissimo in particolare quando si presentava sul palco il complesso musicale che rappresentava l’Esperia. Questo il tavolo della giuria con in primo piano a destra Guido Dietrich che sarebbe diventato un giornalista di importanza nazionale, non ricordo il nome delle due ragazze e nemmeno della terza persona, ma anche lui diventò un importante giornalista dell’Eco di Bergamo, poi c’ero io e infine, con gli occhiali, Luciano Volpi (foto e info Riccardo Schwamenthal)

Il locale fu rinnovato anche nel 1974, quando divenne “Rubini 2000”, nome col quale per un certo periodo divenne frequentatissimo, anche grazie a una serie di importanti concerti, come la prima uscita ufficiale della Premiata Forneria Marconi in veste di supporto dei Procol Harum.

Il cine-teatro ai tempi in cui era denominato “Rubini 2000”

Vi si esibirono inoltre gli Area, il Banco del Mutuo Soccorso, Arthur Brown, i Pooh più volte e molti altri.

Austerity 1973: davanti al Teatro Rubini

Tirò avanti negli ultimi anni cercando di sopravvivere all’imminente tramonto delle sale cinematografiche, sostituendo agli inizi degli anni ‘80 il Donizetti per la prosa nel periodo dei lavori di restauro e facendo cinema per ragazzi promosso dal Comune.

Alla fine, la chiusura definitiva, a causa sia della ben nota crisi delle sale cinematografiche a Bergamo e sia della crisi stessa del cinema, che diede un ulteriore colpo alla disaffezione del pubblico decretando il declino delle sale cinematografiche: la trasformazione, nel 1987, in Centro Congressi Giovanni XXIII (un centro diocesano di convegni, congressi, conferenze e attività culturali), rientra perfettamente nelle finalità per le quali il Rubini era nato nel 1907.

La bella sala teatrale dedicata al tenore Giovanni Battista Rubini, completa di tre livelli di palchi, è stata trasformata nel 1897 in un centro congressi e da un’autorimessa interrata, su progetto degli architetti Vito (1924) e Laura (1956) Sonzogni, con l’inserimento di un soffitto vetrato dell’artista Gino Motta (1935)

IL RUBINI NEI VOSTRI RICORDI

Per i film, dagli anni ‘40 agli anni ‘60 sono ricordati: Bernadette (film del 1943), Quo Vadis (film del 1951), I 10 comandamenti (film del 1956), Ben Hur (film del 1959), I magnifici 7 (film del 1960), Un dollaro d’onore (visto nel ‘60), West side story (film del 1961), Il Laureato (visto nel 1967).

Per gli anni ‘70: Rocky (la prima serie risale al 1976), La febbre del sabato sera (film del 1977), Guerre Stellari (visto nel 1977), Grease (film del 1978).

Per gli anni ‘80: Il Tempo delle mele (film del 1980), E.T. l’extra-terrestre (film del 1982), I Goonies (film del 1985).

I vostri film Disney: Biancaneve e i sette nani, Bianca e Bernie, Red e Toby nemiciamici, Gli Aristogatti, Mary Poppins, con in regalo, nei primi anni ‘6o, la spilla di Mary Poppins (un altro regalo di cui ci si ricorda era la Coca-Cola distribuita gratis la domenica mattina per lanciare il prodotto).

Dopo il film era usanza andare a mangiare un cono di panna (o meglio, lattemiele) alla latteria Valseriana in viale Papa Giovanni: “Io ricordo la domenica pomeriggio….si entrava alle 14, si vedeva il film due volte e mezzo, si usciva verso le 18, babbo e mamma ci aspettavano fuori. Se era appena passato il 27 del mese, si andava tutti alla Valseriana a mangiare la panna montata con la cannella sopra. E queste erano le nostre domeniche, peccato che, avendo dei fratelli, ero costretta ai film di cow boy con tanto di urla partecipate quando ‘arrivavano i nostri!’ Erano gli anni ‘50″.

C’è anche chi ricorda che sul muro esterno del “Valseriana”, all’angolo con via Guglielmo D’Alzano c’era una bacheca che pubblicizzava il film che in quel momento si proiettavano al Rubini.

Ma c’era anche chi preferiva il cono di panna dell’altrettanto mitico De Zordo, in S. Orsola.

La gelateria De Zordo, in via S. Orsola, negli anni Cinquanta

In ogni caso, negli anni 70 a due passi dal Rubini c’era il forno Nessi, “che sfornava ‘certe’ pizzette…”. Proprio in quegli anni il Rubini ospitava anche le assemblee che si tenevano durante le manifestazioni studentesche (quelle dell’Esperia sicuramente).

Sono solo alcuni dei tanti ricordi legati alle vicende di un teatro che per qualche decennio ha accompagnato le nostre generazioni, conquistando di diritto un posto speciale nei nostri cuori.

NOTE

(1) Tra i principali interpreti del Poliuto, Elvira Magliulo (Paolina), una delle migliori allieve del maestro Beniamino Carelli al Conservatorio di Napoli; a fare da tenore lo spagnolo José Garcia, mentre il baritono era un ventisettenne Riccardo Togni. Direttore d’orchestra, il cavalier Gino Marinuzzi, già noto a Bergamo essendosi esibito più volte al nostro teatro Donizetti.

(2) Come riportano le cronache del tempo, il teatro occupava un’area di 700 mq, misurando m. 32X23; il palcoscenico era profondo m. 9; le colonnine che sostenevano le logge erano fornite dalla ditta Mancini di Bergamo e pesavano complessivamente 200 quintali; le balaustre in ferro battuto erano state lavorate dalla ditta Scalori Leali di Milano; le decorazioni, con figure e medaglioni allegorici erano opera dei fratelli Zappettini di Bergamo, autori anche del telone-sipario. Lampadari e braccioli erano forniti dalla ditta Radaelli di Milano. L’impianto comprendeva 600 lampade e due potenti fari di sicurezza, opera della ditta cittadina Limonta, mentre il grandioso lucernario sostenuto da tralicci in ferro, posto al centro della platea, era della ditta Lorini di Milano; i caloriferi erano forniti dalla ditta cittadina Giacomo Rusconi e figli; la vetrata, graziosamente decorata, era opera della ditta concittadina Fratelli Piatti.

(3) Giornale di Bergamo del 17 luglio 1962.

(4) L’Eco di Bergamo del 1° ottobre 1948.

Riferimenti

Pilade Frattini e Renato Ravanelli, “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. A cura di Ornella Bramani – Vol. II. UTET. Anno 2013.

Il glorioso Cine-Teatro Nuovo: dai fasti alla decadenza

Inaugurato nel 1901, nell’epoca d’oro del teatro, il Politeama Nuovo ha avuto una non ingloriosa storia per tutta la prima metà del Novecento venendo considerato, ancora negli anni Trenta, “l’unico teatro popolare di Bergamo”. Sul suo palcoscenico si sono avvicendati a ritmo quasi vertiginoso spettacoli di ogni genere, e si può dire che nel primo quarto di secolo ne abbia davvero viste di tutti i colori: le cronache ricordano esperimenti scientifici, veri e propri spettacoli circensi (i “magnifici stalloni ammaestrati” di Guillaume o il record d’incasso ottenuto dal Circo Gatti, sempre con non meno di 2500 spettatori); esibizioni di giocoleria (uno per tutti: Enrico Rastelli, con il pubblico in delirio) e incontri di pugilato; corride con tori, esibizioni di celebri illusionisti e trasformisti (il grande Fregoli e Tiberio Alba, trasformista, caricaturista, equilibrista, violinista); cani “commediografi”, musei di anatomia, esperimenti di telepatia (celebri quelli di autosuggestione e magia del professor Majeroni); tornei di lotta femminile, giochi di prestigio, contorsionismo e persino l’esibizione di un fachiro (le cronache riportano quella del “fachiro indiano” Abdul Rahman).

Teatro Nuovo (Museo delle Storie di Bergamo – Archivio Fotografico Sestini – Archivio Domenico Lucchetti)

E non mancarono certo le opere liriche (tra gli spettacoli memorabili del primo quarto di secolo, una Traviata, “con una autentica parigina, la Daugerville, che prima non aveva mai cantato in italiano”; una Lucia di Lammermoor con una Graziella Pareto sommersa d’applausi e da fiori, e in onore della quale fu addirittura fatta coniare una medaglia d’oro); la prosa con le migliori compagnie di cartello (di Ermete Novelli, di Virginia Talli, di Ruggero Ruggeri, di Ermete Zacconi: sempre serate di “tutto esaurito”), il cabaret, l’avanspettacolo e le immancabili operette brillanti, che ebbero il potere di colmare la cassa del teatro grazie alle vedette e agli esilaranti comici più in voga.

In questo teatro di così nobili tradizioni si esibirono tra gli altri il celebre direttore d’orchestra Pietro Mascagni, i tenori Tito Schipa e Toti dal Monte, la diva Gea della Garisenda; ospitò Luigi Pirandello, vi si avvicendarono i più noti personaggi della commedia (dalla Duse a Emma Gramatica, da Tina di Lorenzo a Maria Melato, da Marta Abba all’indimenticabile Ettore Petrolini) e vi si tennero spontanee manifestazioni cittadine: da quelle “vibranti di amor patrio” a importanti comizi politici. Non mancarono quindi le conferenze con personalità come Gabriele D’Annunzio, Mussolini (ai tempi direttore dell’”Avanti!”) e Tommaso Marinetti nonché illustri studiosi e grandi patrioti come il martire Cesare Battisti: l’elenco potrebbe continuare all’infinito, in quello che per lustri è stato l’unico teatro popolare della Città, solo più tardi affiancato dal glorioso “Duse”.

Nel corso del tempo il teatro ha subito diverse modifiche, determinate dalle necessità che di volta in volta emergevano nel mondo dello spettacolo e nella vita sociale e culturale della città: costruito agli albori del Novecento su progetto degli architetti Gattemayer e Albini e sul modello del Del Verme di Milano, venne ampliato nel 1929 da Cesare Ghisalberti e Camillo Galizzi e massicciamente ristrutturato a metà degli anni Sessanta, quando venne definitivamente adibito a cinematografo dall’architetto Alziro Bergonzo: sparirono allora le storiche quinte, i palchetti, le gallerie a ferro di cavallo e il grande palcoscenico, che tanto aveva dato ai bergamaschi. Nel tempo l’edificio si è quindi progressivamente ridotto, perdendo quell’assetto tipico dei teatri di fine Ottocento/primi Novecento, di cui ai giorni nostri si ravvisa solo la facciata. Dopo aver attraversato un periodo di decadenza e dopo ripetuti tentativi di riqualificare il locale con programmazioni cinematografiche di livello, nell’estate del 2005  il cinema Nuovo ha chiuso i battenti e ancor oggi è alla ricerca di una nuova rinascita.

L’attuale Largo Belotti (ex via Masone) con la vecchia Fiera prima della costruzione del Teatro Nuovo

 

Il teatro Nuovo appena costruito (1901)

LA NASCITA DEL “NUOVO”

Nel giugno del 1897 Innocente Carnazzi e Giovanni Givoli, impresari dello spettacolo, affidavano a due capomastri milanesi, Felice Taccani e Angelo Locatelli, la costruzione del Politeama Nuovo da edificarsi su progetto degli architetti Gattermayer e Albini (1). I due impresari – nel resoconto di Luigi Pelandi – avevano acquistato alcuni mesi prima un migliaio di metri quadrati di terreno dal dottor Giovanni Piccinelli, spinti dal miraggio di certa fortuna nell’esercizio di un teatro moderno a Bergamo dopo la soppressione del Teatro Rossi e la demolizione del Politeama Givoli, che sorgevano in Piazza Baroni: il “Duse” infatti era di là da venire e in Città Bassa funzionava solo il Donizetti, il teatro massimo della città.

Teatro Nuovo

Mentre si abbatteva il Givoli (una “mostruosità” secondo le cronache del tempo), al di là della roggia Nuova aveva già messo le fondamenta il Nuovo Politeama, così chiamato perché come il suo predecessore avrebbe dovuto rappresentare un po’ di tutto.

Un singolare documento del 1897 mostra l’abbattimento del Politeama Givoli e la costruzione del Teatro Nuovo (il Teatro Rossi era stato demolito tre anni prima) – (Raccolta D. Lucchetti)

Il Nuovo venne su fra mille difficoltà, soprattutto di carattere economico: la costruzione, iniziata nel giugno del 1897, andò per le lunghe a causa di diverse inadempienze degli appaltatori. Gli impresari appaltanti, Giovanni Givoli e Innocente Carnazzi, dopo aver ricorso a giudizio, furono felici di liberarsi del fabbricato, cedendolo a Carlo Ceresa, che ai primi di marzo del 1901 fece portare a termine la costruzione (2).

Da un vecchio numero de La Rivista di Bergamo (da sinistra a destra): Innocente Carnazzi (ideatore del Teatro Nuovo), Carlo Ceresa (il primo proprietario del Nuovo), Ernesto Terzi (il primo imprersario del Nuovo)

Ma anche il Ceresa ebbe le sue grane; infatti la commissione tecnica non era convinta della stabilità delle gallerie, forse perché prevenuta da un imprevedibile incidente mortale occorso durante l’abbattimento delle gallerie del Givoli. Ma il Ceresa non si perse d’animo: con una lunga fila di carretti fece portare dai suoi coloni di Stezzano una grande quantità di sacchi di frumento, tanti da stipare le gallerie. Poi, dopo aver acceso tutte le luci ed aver affisso per beffa il cartello “tutto esaurito”, chiamò la commissione tecnica, la quale ovviamente diede il benestare (3).

Il Teatro Nuovo, sorto sull’area del giardino del dottor Giovanni Piccinelli (attuale angolo via Verdi/ Largo Belotti), fu terminato nel 1901 su progetto degli architetti Gattemayer e Albini (1897) e sul modello del Del Verme di Milano. Venne inaugurato il 23 marzo dello stesso anno, con la gestione Regazzoni – Givoli – Terzi. La facciata era molto diversa da quella attuale

 

E’ il 17 gennaio 1900. Carlo Ceresa – che ha rilevato il Teatro Nuovo, in corso di costruzione, da Giovanni Givoli e Innocente Carnazzi, – scrive alla contessa Felicita Murari Bra di Verona: “Signorina, Le invio la cartolina del Nuovo Teatro che ho fatto costruire testé qui a Bergamo, e che è stato la causa diretta di assorbire completamente il mio individuo, in modo tale di farmi anche dimenticare nella fausta occasione del principio del secolo le amicizie le più care e più preziose” (da Pilade Frattini e Renato Ravanelli, “Il Novecento a Bergamo. Cronache di un secolo”, Cit. in Riferimenti)

 

Anche la copertura è stata privata della caratteristica cupola. Per costruire il teatro fu sacrificato un migliaio di metri quadrati di terreno; il cancello posto a sinistra del teatro immetteva in un quartiere di villini immersi nel verde. Le macerie che si vedono sono un residuo della della vecchia Fiera in demolizione

L’ASPETTO DEL TEATRO DELLE ORIGINI

La struttura dell’originario “modernissimo Politeama” non presentava il tradizionale giro di palchetti, ma una triplice fila di gallerie, le due inferiori disposte ad anfiteatro e sorrette da un doppio ordine di colonne in acciaio e in ghisa.

Così si presentava il Teatro Nuovo al suo interno poco dopo l’inaugurazione. Un vero e proprio teatro “d’eccellenza”. Il progetto risale fine dell’Ottocento sulla base del gemello milanese, il Dal Verme; era impostato su tre gallerie e una platea (da D. Lucchetti, “Bergamo nelle vecchie fotografie”)

 

Teatro Nuovo nel 1901 (Foto Ogliari, dalla Rivista di Bergamo n. 6, Giugno 1926)

Luigi Pelandi annotava che il teatro era stato costruito sopra una intelaiatura di ferro, stimando il peso dei metalli usati in 24.000 chili di poutrelles, 6.600 di piombo per la copertura della cupola, 1300 di colonne in acciaio, 22.000 di colonne in ghisa, 16.000 di ferramenta.

La sala poteva contenere almeno 1800 persone.

Teatro Nuovo (annullo postale 12 settembre 1905 – Raccolta D. Lucchetti)

Denunciava inoltre il Pelandi, agli esordi del teatro, il poco sfondo del palcoscenico e l’acustica che non rispondeva in modo confortevole a causa della soverchia elevazione della prima galleria; inoltre, l’alto basamento che cingeva la platea troppo al di sopra del piano (4).

L’INAUGURAZIONE E I PRIMI SPETTACOLI

Il Nuovo fu inaugurato il 23 marzo 1901 con una rappresentazione de La sonnambula di Vincenzo Bellini, replicata quattro volte, e malgrado lo spettacolo cadesse in tempo di Quaresima e durante la settimana di Passione, sia per la novità e sia per la bontà dello spettacolo il teatro fece cinque serate di buona cassetta. Nell’occasione fu scritturata la spagnola Giuseppina Huguet, e il soprano dette vita a una deliziosa Amina con un canto di una grazia e di una sensibilità davvero indimenticabili. Vi furono un’infinità di chiamate ed un interminabile lancio di fiori. Fu, quella, una settimana di grandi piogge a Bergamo e in qualche punto la Morla minacciò di straripare.

L’interno del Teatro Nuovo da poco inaugurato (Raccolta D. Lucchetti)

Subito dopo la Sonnambula andarono in scena i primi spettacoli di prosa: Edipo re, La bisbetica domata, Amleto, Kean e Nerone. Protagonista principale Gustavo Salvini che era al massimo del suo fulgore: il pubblico, elettrizzato e fremente, lo acclamò a sazietà.

Medaglione ad alto rilievo collocato al centro del timpano triangolare che sovrasta la facciata principale (da “Comune di Bergamo, Piano di recupero ex teatro cinema Nuovo, angolo via Verdi/Largo Belotti”, Cit. nei Riferimenti)

Quell’anno – ricorda Luigi Pelandi – arrivò anche il circo, che fece fare affari d’oro al botteghino. Era il famoso Guillaume, “che tenne occupata la platea con i suoi cavalli ammaestrati, con impressionanti acrobatismi e con i suoi clown, più o meno spiritosi”. Il 1901 si chiuse con gli spettacoli della Compagnia di prosa di Alfredo De Sanctis, prima attrice Emma Gramatica.

Alla Fiera nel  1902, con Il Teatro Nuovo sullo sfondo

Al Nuovo avvenne persino la prima storica “rivolta” contro le spettatrici che prendevano posto con vistosi cappelli piumati dando luogo a curiose guerricciole terminate solo dopo che la moglie dell’impresario inaugurò la moda di entrare a teatro a capo scoperto sfoggiando una chioma d’oro indimenticabile. Da quel momento i cappelli furono lasciati nel guardaroba del teatro.

IL NUOVO CON PILADE FRATTINI

Nel 1904 il Nuovo divenne comproprietà di Carlo e Giovanni Ceresa, Italio Bissolaro e il geniale e temerario Pilade Frattini (5), che tenne l’impresa teatrale fino al 1915.

Il torresino delle Vettovaglie, che guarda verso Porta Nuova, occupato dal Caffè Ristorante Nazionale, nel 1889, due anni prima dell’arrivo di Pilade Frattini. In fondo, sulla destra, si riconosce la mole del Teatro Givoli, abbattuto nel novembre del 1897 (Raccolta D. Lucchetti)

Caffettiere elegante ed impresario infaticabile, Frattini si era stabilito a Bergamo nell’anno 1900 ed aveva acquistato il Caffè Nazionale, che apriva le sue vetrine sul Sentierone, facendone un ritrovo alla moda ed impiantandovi all’interno un piccolo teatro di varietà, nel quale si esibì per una quindicina d’anni il fiore dei cantanti famosi, dei musici, delle soubrettes, delle ballerine, dei comici e dei giocolieri dell’epoca.

Era il Frattini di una attività fenomenale, sempre in moto fra Bergamo e Milano. Ebbe in gestione anche il Casinò di San Pellegrino Terme (dove troneggiava alla roulette), frequentato al suo tempo da editori, musicisti, artisti, giornalisti e scrittori famosi (Luigi Pirandello, Arnaldo Fraccaroli, Marco Praga, Pompeo Molmenti, Sabatino Lopez). Fu anche animatore del Teatro Donizetti, dove seppe portare delle vere primizie, tra cui (1906) la prima assoluta de l’Amica,  scritta e diretta dallo stesso Pietro Mascagni. Nelle varie stagioni d’opera fece venire a Bergamo Umberto Giordano, Francesco Cilea e Giacomo Puccini e per ciascuno preparò accoglienze fastose e ricevimenti lussuosi. Ma fu al Nuovo che scaricò tutto il suo estro, portando sul palcoscenico spettacoli di grido ed esibizioni tra le più stravaganti.

Pilade Frattini (Milano, 1872 – Bergamo, 1920), comproprietario del Teatro Nuovo dal 1904 al 1915. Impresario infaticabile, dotato di tanta originalità ed inventiva, fu stroncato nel pieno della sua frenetica e inesauribile attività da un colpo apoplettico

 

Il caffè Nazionale, sulla fine dell’800 subentrò alla Trattoria della Speranza, situata nei medesimi locali. Il Caffè occupava parte del torresino ed altre botteghe fino al primo cancello della Fiera. Ciò che Frattini riuscì a fare e ad organizzare ha dell’incredibile: nel suo caffè erano  frequenti gli spettacoli (aveva allestito un teatrino con camerini). vi arrivò il cinematografo Ungari e pure frequenti erano le più varie riunioni culturali

Da buon impresario teatrale (suo a Roma il teatro Frattini), gestì il Nuovo in prima persona, facendone uno dei teatri italiani più vivi e à la page. In pratica lo trasformò in un vero e proprio centro d’attrazione per ogni genere di spettacoli e grazie a lui il teatro divenne la sala più polivalente della città: fu sede di opere liriche, operette, commedie e drammi, balletti, conferenze, comizi, eventi sportivi, esperimenti scientifici, illusionismo, giochi popolari, spettacoli circensi (il cosiddetto bal di caài).

Gli anni ai primi del Novecento furono memorabili. Per la prima volta a Bergamo si esibì una compagnia di “danzatori negri africani”; talmente giganteschi che terrorizzarono quanti incontrarono per strada prima dello spettacolo. Sul palcoscenico del Nuovo si esibì anche il “lottatore più forte del mondo”, il triestino Raicevich, che affrontò un colosso di colore che si chiamava Anglio e si diceva fosse un mezzo cannibale. In quegli anni fu persino organizzata, in teatro, un’autentica corrida, ma l’uccisione del toro fu proibita.

I famosi fratelli Raicevich ritratti intorno al 1910. I lottatori operavano negli spettacoli della Fiera (Raccolta D. Lucchetti)

Frattini era pure dotato di un grande intuito musicale e di buon fiuto: a lui si deve la straordinaria scoperta di quel genio musicale che fu il violinista Vasha Prioda: lo prelevò da un’orchestrina di un caffè milanese e lo fece debuttare al Nuovo, dove tenne un concerto anche il virtuoso pianista polacco Miecio Horszowski: “Dopo tanti anni questi nomi non diranno più niente alle nuove generazioni, abbruttite dalle stramberie assordanti e sgraziate dei cantautori e dalla zotiche e insulse balordaggini della musica leggera di massa, divenuta spregevole oggetto di consumo, e tuttavia basterà ascoltare qualche vecchia incisione riversata dai gloriosi cilindri di Edison o dai fruscianti dischi a settantotto giri per rendersi conto dell’eccellenza di quei virtuosi solisti”, scrisse Umberto Zanetti nella sua “Bergamo d’una volta”.

Con Frattini, arrivarono al Nuovo gli artisti più prestigiosi, come il mitico giocoliere internazionale Enrico Rastelli con i prodigi di equilibrio nonché l’imbattibile trasformista Leopoldo Fregoli, inventore del trasformismo teatrale e trasformista per antonomasia, che nei suoi spettacoli comprendeva anche alcuni brevi film da lui stesso interpretati. A costoro vanno aggiunti Ferravilla, gli illusionisti Mister Tomba e Elsa Barocas. Vi declamarono inoltre  le loro poesie Trilussa, Barbarani, Pascarella, Lino Selvatico.

In cartellone anche le compagnie di prosa fra le più famose e compagnie di operette fra le maggiori. Frattini portò sulle scene del Nuovo Tommaso Salvini (che insieme a Ernesto Rossi e Adelaide Ristori formava la triade dei principali attori del teatro italiano di metà Ottocento) col suo grave repertorio greco, shakespeariano e alfieriano; l’indimenticabile quartetto Galli, Guasti, Sichel, Ciarli con le sue commedie francesi; Tani, con le sue operette; “La Nave” di D’Annunzio in forma di dramma, il meglio delle compagnie dialettali (Ferravilla, Zugo, Musco); gli attori più famosi, come Gandusio, Falconi, Monaldi con la moglie, la bellissima Fernanda Battiferri. Cantanti lirici come il baritono emiliano Riccardo Stracciari, che in pieno clima verista, dopo il tramonto di Battistini, costituì un esempio vivente della scuola italiana di canto dell’Ottocento.

Frattini fece recitare le compagnie di Ermete Novelli, di Virginio Talli, di Ruggeri e Borelli, organizzò una celebrazione dell’impresa dei Mille con una conferenza d’Innocenzo Cappi e la partecipazione di ventotto reduci garibaldini.

Sempre prodigo di sorprese, nel 1904 chiamò sul palcoscenico la Compagnia comica del Gran Togo Mandrigos, un’autentica, scatenata e numerosissima tribù africana, che eseguì dei numeri sbalorditivi divertendo moltissimo il folto pubblico.

Dopo i primi abbattimenti del 1909, si evidenziano la Chiesa e l’Ospedale di San Marco. Sulla destra, il Teatro Nuovo (Raccolta D. Lucchetti)

 

La foto-cartolina (annullo postale del 25 aprile 1916) mostra la Piazza Baroni dopo i primi abbattimenti della Fiera, con a destra il Teatro Nuovo e sulla sinistra, la Chiesa e l’Ospedale di San Marco. La Piazza Baroni fu il luogo dove si effettuava la “Fiera mobile”, con mercatini e spettacoli viaggianti (sino al 1897 vi fu anche il Teatro Givoli) – (Raccolta D. Lucchetti)

Ancora al Nuovo diede un concerto nel 1908 il maestro Enrico Toselli, autore di una celeberrima serenata, cavallo di battaglia di tutti i soprani da salotto. Presente la principessa di Sassonia di cui in quel tempo si era fatto un gran parlare.

Nel 1910, il 26 e 27 febbraio, si tenne un torneo internazionale di lotta, con in palio un premio di mille lire. Tra i partecipanti, il campione del mondo Paul Pos, il campione russo Romanoff, quello italiano Masetti, quello francese Aimable de la Calmette e, con molti altri lottatori di fama, il campione dei campioni Pedersen.

Il 10 ottobre 1910 al Teatro Nuovo la Compagnia di Emma Gramatica tenne la prima delle due recite straordinarie sulla Reginetta di Saba, un lavoro di Ettore Maschino. Un giornale dell’epoca ne annunciava l’evento informando sui prezzi d’ingresso: platea una lira; prima loggia una lira e cinquanta; seconda loggia sessanta centesimi; loggione quaranta centesimi- poltrone due lire e posti numerati di prima loggia una lira oltre l’ingresso alla prima loggia.

Nel 1911, sotto l’egida del comitato bergamasco della Società Dante Alighieri, si proiettò il film L’Inferno; in una breve orazione introduttiva Innocenzo Cappi inneggò alla nuova conquista della cinematografia nazionale: la pellicola era lunga mille metri.

Ne mancarono conferenze con studiosi illustri, dicitori di fama e grandi patrioti: da Cesare Battisti a Gabriele D’Annunzio. A quest’ultimo, Frattini corrispose una notevole somma per venti “conferenze aviatorie” (“Per il dominio dei cieli”) che dovevano svolgersi in prestigiosi teatri italiani: il poeta, preteso anticipatamente e intascato graziosamente il compenso, onorò parzialmente l’impegno tenendone prima a Milano, quindi a Torino con esito entusiastico, poi a Bergamo al Teatro Nuovo intorno al 1910, interrompendo la tourneé per dissapori con lo stesso Frattini e riparando poi a Parigi. Ma aggiunge Umberto Zanetti che “Il caffettiere-impresario salutò senza rancore la proiezione di “Cabiria” al Donizetti nel 1914, ben sapendo che il poeta, ancora squattrinato e indebitatissimo sebbene in suolo francese, aveva ceduto la fama del suo nome unicamente per coniare il titolo del film. Frattini fu degno ancora una volta del suo stile e dei suoi mezzi facendo propagandare lo spettacolo – cosa mai veduta prima di allora – con un lancio di volantini da un aeroplano. In teatro, durante la proiezione, un’orchestra suonò la “Sinfonia del fuoco” di Ildebrando Pizzetti”.

Sempre in tema di conferenze, sono ricordate anche quelle (brillanti) di Innocenzo Cappa, Fradeletto, Barzilai e Pastonchi.

Presso il Nuovo è apposta una lapide con corona metallica commemorativa dedicata al patriota martire Cesare Battisti, “che prima della guerra mondiale 1915-18 vaticinò la vittoria delle nostre armi ed una più grande Italia con Trento e Trieste (da Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa. II. La strada Ferdinandea”, Cit. nei Riferimenti)

Nel maggio del 1911, accompagnati dalla fama di “violenti rivoluzionari” arrivarono al Nuovo i Futuristi. La coraggiosa e sprezzante Compagnia Futuristica Marinetti & Co. (Filippo Tomaso Marinetti, Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Giovanni Acquaviva, Luigi Russolo e Giacomo Balla) sconcertò il pubblico suscitando polemiche a non finire con lo spettacolo Intonarumori: si ripeterono in sala le stesse indignate proteste che avevano accolto l’esibizione futurista a Milano.

Lotta femminile al Teatro Nuovo, 1911

Nel 1913 intervenne anche Benito Mussolini (allora direttore dell’ “Avanti!”), acclamatissimo. Scriveva L’Eco di Bergamo che “Mentre il proletariato affollava il circo equestre in piazza Baroni, un discreto numero di borghesi ha versato 50 centesimi a beneficio dell’Avanti! e ha raggiunto il teatro Nuovo; tutti però sono rimasti prudentemente vicini il più vicino possibile alla porta a sentire e a vedere Benito Mussolini. Il direttore dell’Avanti! ha parlato del socialismo; più precisamente del suo socialismo”.

Sempre nel 1913 vi si organizzò il primo incontro di Boxe, in una serata d’accademia di ginnastica e scherma (disciplina che il Teatro Duse iniziò ad ospitare dal novembre del ‘28).

Nel 1915 il teatro ospitò Luigi Pirandello in veste di direttore artistico della compagnia teatrale che si esibiva in Sei personaggi in cerca d’autore e con in platea l’avvocato Alfonso Vajana nelle vesti di critico teatrale. Per il giugno dello stesso anno è ricordato anche un Barbiere di Siviglia con cantanti tutte femminili.

Ricorda Luigi Pelandi che Frattini ingaggiò anche molte cantanti di cartello. Fra queste, un successo personale ottenne in particolare la bella e agilissima Gea della Garisenda (autrice di successi come l’inno patriottico A Tripoli), che cantò ne La vedova allegra e nel Sogno di un valzer, con un teatro stipato all’inverosimile e il proscenio subissato da una pioggia di garofani e rose. Umberto Zanetti scrisse che “Sotto le finestre della diva, che alloggiava all’Albergo Concordia, le ovazioni dopo lo spettacolo continuarono fino alle ore piccole”. La diva si esibì anche presso café chantant di Pilade Frattini.

UN CENNO AGLI SPETTACOLI DOPO FRATTINI

Anche in seguito, e probabilmente sul solco lasciato da Pilade Frattini, il Nuovo non si fece mancare niente. Nel febbraio del 1916 ospitò Pietro Mascagni; nel 1917 vi tornò la Compagnia di Emma Gramatica. Quell’anno fu in realtà un susseguirsi di Compagnie teatrali comiche e operettistiche, lirica, varietà, illusionismo, lotta. Sempre nello stesso anno, e per diversi anni, il teatro ospitò anche esibizioni circensi, in coincidenza con la Fiera.

La satira negli anni Venti (da “Comune di Bergamo, Piano di recupero ex teatro cinema Nuovo, angolo via Verdi/Largo Belotti”, Cit. nei Riferimenti)

Con un ritmo ben regolato e a scadenza fissa, vi erano al Nuovo dai venti ai trenta cambiamenti di spettacoli annuali, saliti a 40 nel 1923.

Nel febbraio del 1918 il Teatro Nuovo veniva requisito per quattro mesi per ospitare i soldati delle terre invase: “i cittadini fecero a gara per rendere ai disgraziati fratelli meno dolorosi i loro cupi pensieri”. Il teatro riaprì nel 1918 con la Compagnia teatrale Zago /Compagnia Veneziana e vi si esibì Fregoli con grande successo e visibilio del pubblico.

Con la Grande Guerra, l’epidemia di Spagnola colpì anche la nostra città e con il 15 ottobre del 1918 il teatro dovette chiudere per 5 mesi. A fine anno, il sig. Ceresa vendeva il teatro ai sigg. Resta e Bonfiglio di Milano, che nel 1927 cedevano l’impresa teatrale al sig. Giulio Consonno. Quest’ultimo, che per anni aveva gestito il Donizetti, iniziò l’attività al Nuovo l’11 maggio e sempre in quell’anno iniziò a gestire il Teatro Duse, appena costruito.

La satira negli anni Venti (da “Comune di Bergamo, Piano di recupero ex teatro cinema Nuovo, angolo via Verdi/Largo Belotti”, Cit. nei Riferimenti)

Se per il 1920 si registrò la presenza a teatro della Compagnia drammatica Riva-Lotti-Fortis, quello successivo fu l’anno d’oro per l’impresario e per il locale: la fine della guerra scatenava frenesia e una gran voglia di divertimento e in città i cinematografi si raddoppiarono. Si diradò la programmazione di prosa e prese campo l’operetta con grandi pienoni di pubblico: fra le tante, si distinsero le soubrette Odette Marion e Alda Borelli, che vi arrivò a luglio.

Per il ‘23 si ricorda l’esibizione (musica e balletto) del coro dei “Cosacchi del Kuban” (1923), corpo corale cosacco che si era formato dopo lo scoppio della rivoluzione del 1917 e prendeva il nome da uno dei migliori e più antichi collettivi artistici russi (il Coro dell’esercito dei Cosacchi del Kuban, risalente al 1811).

Il 24 febbraio 1924 al Nuovo si tenne il primo comizio fascista. La cronaca de “L’Eco di Bergamo” riportava: “Ha parlato per circa un’ora e mezzo l’onorevole Ezio Maria Gray esaltando il fascismo e i fascisti che, ha detto, si sono imposti il compito di valorizzare le energie nazionali e di fare da correttivo fra le classi sociali e quindi da potenti pacificatori sociali”.

Nella aerofotografia del 1924 è ben visibile il Teatro Nuovo (nel tondo), con la caratteristica cupola che sovrasta la sala. I lavori per il nuovo Centro si stanno avviando a compimento: sono costruite la Banca d’Italia e la Torre dei Caduti (di Marcello Piacentini), la Camera di Commercio (di Luigi Angelini); nel 1925 sarà aperto il blocco di edifici sul Sentierone (di Marcello Piacentini). E’ in costruzione il Palazzo di Giustizia (di Marcello Piacentini, con la direzione di Ernesto Suardo). Accanto al Palazzo di Giustizia, di fronte al Teatro Nuovo, tra il 1927 e il 1928, sarà costruito quello che doveva essere il Palazzo delle Poste e Telegrafi (di Marcello Piacentini)

Quello seguente fu un anno di calma per il teatro, con spettacoli prevalentemente lirici di buon livello, mentre nel maggio del ‘27 vi si esibì la Compagnia Nazionale delle grandi attrazioni, attirando, in alcune sere, fino a 2500 spettatori. Fra le attrazioni maggiori si distinse il grande giocoliere bergamasco Enrico Rastelli, mentre per la gioia dei piccoli spettatori arrivò il “nano Bagonghi” personalità indimenticabile. Ma la cronaca del periodo ricorda per quell’anno anche Ettore Petrolini.

L’AMPLIAMENTO DEL NUOVO NEL 1929

Le nuove tecniche teatrali imposero nuove esigenze ambientali e sceniche, tali da portare, nel 1929, a un rifacimento e a un ampliamento – grazie all’acquisto di terreni circostanti -, che investirono tutto il grande edificio.

Il progetto era degli architetti Cesare Galimberti e Camillo Galizzi, mentre la ristrutturazione fu decisa con la consulenza tecnica dell’ingegner Cesare Albertini della Scala di Milano.

Fu deciso l’ampliamento del palcoscenico – di oltre otto metri -, che venne dotato dei più recenti meccanismi. Vennero sistemate la platea, le gallerie e le logge, prevedendo 600 posti a sedere in più; ampliata anche la sala d’accesso e l’attiguo caffè, formate nuove sale per il pubblico, camerini per gli artisti, ideati nuovi impianti per l’illuminazione e il riscaldamento.

Il Teatro Nuovo dopo il rifacimento del 1929 (Foto Wells, 14 dicembre 1955 – Per gentile concessione di Antonella Ripamonti)

L’ingrandimento, così come la decorazione di severo gusto artistico, dovevano rendere il teatro degno del nuovo centro cittadino.

Interno del Teatro Nuovo (Archivio D. Lucchetti)

 

Il Nuovo e il palazzo delle Poste in costruzione (1931)

Le cronache ricordano in particolare il 1944, perché a calcare le scene del Nuovo furono i memorabili Tito Schipa e Toti dal Monte, grandi cantanti lirici dell’epoca, ricordati da Nino Filippini Fantoni come voci meravigliose, capaci di rapire e portare in atmosfere paradisiache nel tempo buio, terribile e disumano della guerra.

Il Nuovo – sulla destra – era ancora teatro nell’attesa di essere trasformato in cinematografo. Sulla sinistra, all’angolo con via Petrarca, c’è il bar Anselmo, storico ritrovo nerazzurro. Immancabile l’esposizione della bandiera quando l’Atalanta vinceva. Prima del restauro piacentiniano, la via si chiamava Masone (che allora iniziava alla Torresina, di fronte alla chiesa di San Bartolomeo), poi assunse il nome di via Adua e infine di largo Belotti (da “C’era una volta…” di Pino Cappellini, Ferruccio Arnoldi Editore)

TEATRO NUOVO E DINTORNI NEGLI ANNI ’50, IN IMMAGINI

Largo Belotti e Teatro Nuovo nel 1950

 

Largo Belotti e Teatro Nuovo nel 1950.  Le “due città” a confronto (Foto Wells)

 

 

Largo Belotti, 1954 il Teatro Nuovo con il lato sud completamente a vista in seguito all’abbattimento dell’edificio che ne celava una parte

 

 

Largo Belotti: l’edificio della Cariplo in costruzione, 1957

 

Il Teatro Nuovo intorno al 1957, con a lato l’edificio della Cariplo in costruzione

 

Largo Belotti: l’edificio della Cariplo ormai ultimato, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta

 

Il Teatro Nuovo nel 1959. E’ visibile all’angolo il negozio di articoli sportivi “Cominelli Sport”, gestito da Severo Cominelli, campione dell’Atalanta e cannoniere principe della storia della squadra (superato in seguito da Doni)

LA CONVERSIONE A CINEMATOGRAFO

Nel 1965 si mise nuovamente in atto una ristrutturazione massiccia, che trasformò definitivamente il teatro in una grande e modernissima sala cinematografica e decretò la fine dei fasti vissuti all’inizio del XX secolo. Per la verità, la funzione esclusiva di cinematografo doveva essere attiva ancor prima della ristrutturazione del ‘65, come si evince da un articolo de “L’Eco” nel quale si legge che nell’ottobre del ‘51 il Nuovo era già totalmente adibito a cinema (6). E’ dunque plausibile pensare che in un primo momento il cinematografo fosse affiancato all’attività teatrale.

Scompariva così, inghiottito dalle ruspe, il vecchio e glorioso teatro (del quale restava ormai solo la facciata verso Largo Belotti), per far posto a una moderna sala attrezzata quasi come un Cinerama: riaperti i battenti il 2 dicembre del 1967, il primo film proiettato nel nuovo assetto fu l’americano “La battaglia dei giganti” in 70 mm. Technicolor, ultra-vision e con suono stereofonico, che poteva ora rivaleggiare con le migliori sale d’Italia. Il tutto, a sessant’anni anni dai primi tremolanti e grigi film muti.

Ricordata dalla Rivista di Bergamo come “una sala costruita ex novo dopo la completa demolizione di quella esistente: nulla più è rimasto, tranne la facciata verso largo Belotti, del vecchio e glorioso teatro che l’anziana generazione, baldanzosa nel primo triennio del secolo, nostalgicamente ricorda come “IL TEATRO” per antonomasia”. I lavori furono eseguiti dall’impresa edile Colleoni, su progetto dell’arch, Alziro Bergonzo, in collaborazione con il geometra Luciano Carzaniga. “Fautrice del rinnovamento, che ha dotato Bergamo di una sala moderna, la Società Teatro Nuovo” (l’immagine è tratta da La Rivista di Bergamo n. 12 – Dicembre 1966, pag. 17-19)

Il progettista della ristrutturazione interna fu il ben noto architetto bergamasco Alziro Bergonzo, che forte della progettazione del Manzoni di Milano, poté attenersi alle tecniche più aggiornate in materia di costruzione di sale cinematografiche.

Al tempo di tale radicale ristrutturazione, la gestione del Nuovo era affidata al comm. Giuseppe Spiaggia, figura di spicco in un settore che, dopo i fasti degli anni Cinquanta e in parte Sessanta, aveva già iniziato un cammino di fatale e drastico ridimensionamento.

La sala aveva ora milletrecento posti a sedere (980 in platea e 320 in galleria, successivamente ridotti a 900 per motivi di sicurezza) ed uno schermo di metri 13×6; da ogni poltroncina (tutte imbottite e ricoperte di stoffa blu, come quelle del Manzoni di Milano), la visibilità veniva favorita dalla platea ascendente verso lo schermo.

Sopra le pareti, anch’esse imbottite e ricoperte di stoffa, spiccavano appliques a più bracci che diffondevano un’illuminazione calda e confortevole; gli altoparlanti alle pareti assicuravano una perfetta stereofonia, favorita anche dalla spessa imbottitura di materiale acustico (ed ignifugo) delle pareti e dai pannelli assorbenti del soffitto, riflettenti il suono.

Gli impianti di proiezione, installati dalla Prevost, fornivano una proiezione limpida con fedelissima audizione del suono. Lo spazioso atrio d’ingresso era ricoperto in stucco lucido venato di tinta bluette. Altrettanto ampi i disimpegni (scale e servizi).

LA DECADENZA 

Dopo essere stato trasformato in cinematografo (indimenticabili, negli anni Settanta le Prime Visioni di Rocky e Jesus Christ Superstar, che tennero il cartellone per settimane), e dopo un periodo in cui aveva ospitato numerose compagnie di riviste, il Nuovo decadde sempre di più e, a partire dal ‘78, nel disperato tentativo di risalire un po’ la china si diede ai film a luci rosse. All’indomani dell’inaugurazione del “nuovo corso” la cassiera faceva sapere a un cronista del “Giornale di Bergamo” che “la morale e il prestigio sono una cosa, i guadagni un’altra; e non vi sono dubbi che i guadagni si fanno con i film porno, tanto che ora l’incasso quotidiano è superiore a tutte le più rosee previsioni”.

Locandina di ieri e di oggi (da “Comune di Bergamo, Piano di recupero ex teatro cinema Nuovo, angolo via Verdi/Largo Belotti”, Cit. nei Riferimenti)

In questi anni vi furono continue proteste, denunce e prese di posizione anche violente contro il dilagare dei film a luci rosse, che aveva contagiato anche altre sale della città (7). Anche il Ducato di Piazza Pontida non perse occasione, al “rasgamento della vecchia”, per bruciare sul rogo in piazza il cinema e la pornografia.

Nel 1983 i giornali annunciavano che presto si sarebbero spente le ‘luci rosse’ che fino ad ora avevano “fatto precipitare un teatro di fama come il Nuovo”. Ma la specie di stagione teatrale dedicata soprattutto a vedettes della canzone e del cabaret non servì a rianimare il locale, che nell’85 fu il primo a lanciare a Bergamo il noleggio di film in Vhs, seguito solo più tardi dai negozi “specializzati”: l’ennesimo fendente per le sale cinematografiche che, come quella del Nuovo, erano da tempo in agonia.

Nel luglio 2017 è stata avviata la dismissione delle poltroncine mediante un’operazione che prevedeva la vendita a fronte di un’offerta economica a beneficio dei Frati minori Cappuccini di Bergamo per la mensa dei Poveri; operazione che ha riscosso un notevole gradimento oltre ad aver generato una cospicua somma devoluta in beneficenza (da L’Eco di Bergamo, martedì 4 luglio 2017)

Dopo ripetuti tentativi di riqualificare il locale con programmazioni cinematografiche di livello, coinciso con la gestioni Nolli-Signorelli, nell’estate del 2005 il cinema Nuovo ha chiuso definitivamente i battenti. Col tempo le condizioni dell’edificio sono andate peggiorando ed anche il progetto, annunciato nel lontano 2017, di aprire al suo interno uno spazio dedicato alla gastronomia d’eccellenza, non è andato in porto anche a causa dell’elevato costo dei materiali edili necessari per la ristrutturazione.

NOTE

(1) “Il progetto che gli architetti Gattemayer e Albini avevano elaborato fu approvato da una commissione artistica presieduta dall’architetto Camillo Boito. Direttori dei lavori furono designati l’ingegner Caccia e il professor architetto Odoni”. (Luigi Pelandi, “La Rivista di Bergamo”, numero di giugno del 1926). Un’altra fonte indica, per quanto riguarda la gestione del teatro nel 1901, i nomi di Regazzoni – Givoli – Terzi (Comune di Bergamo, Piano di recupero ex teatro cinema Nuovo, angolo via Verdi/Largo Belotti. Relazione illustrativa generale, ottobre 2018. Progettista: Arch. Domenico Egizi).

(2) Nel resoconto di Luigi Pelandi, “I due impresari avevano acquistato alcuni mesi prima un migliaio di metri quadrati di terreno dal dottor Giovanni Piccinelli, spinti dal miraggio di certa fortuna nell’esercizio di un teatro moderno a Bergamo, dopo la soppressione del Teatro Rossi e la demolizione del Teatro Givoli, l’ordine contrattuale disponeva che il teatro fosse completamente finito per essere aperto al pubblico sei mesi dopo. Gli appaltatori dovevano a varie rate pagare L. 86 mila. Il conte Gabriele Camozzi ne assumeva la garanzia del pagamento. Ma il lavoro non era al secondo mese che già subiva soste impressionanti e da lì diffide e controdiffide causate da varie ragioni. Al febbraio del 1898 i lavori erano di ben poco proseguiti e già gli appaltanti avevano dato in anticipo poco meno della metà della somma dovuta! Del febbraio di quell’anno è un primo atto di citazione; il mese dopo la prima sentenza, e poi perizie e contro perizie e sentenze e ricorsi fino al giugno del 1899, senza che nel frattempo si procedesse gran che nella costruzione. Finalmente, in seguito a una vigorosa azione spiegata dai signori Carnazzi e Givoli, il Teribunale di Bergamo autorizzava i medesimi a condurre a termine la costruzione del Politeama e condannava i due appaltatori nei danni e nelle spese. Ricorrevano questi in Appello e poi in Cassazione, ma in tutti i giudizi rimanevano soccombenti. Carlo Ceresa rilevava il teatro; pochi anni dopo lo faceva portare finalmente a termine ai primi del marzo 1901..” (Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa. II. La strada Ferdinandea”.  Banca Popolare di Bergamo. Co-Editore: Edizioni Bolis. Bergamo, 1963. Collana di studi bergamaschi).

(3) Luigi Pelandi,La Strada Ferdinandea, Ibidem.

(4) Luigi Pelandi,La Strada Ferdinandea, Ibidem.

(5) Domenico Lucchetti, “Bergamo nelle vecchie fotografie”. Grafica Gutemberg, 1976.

(6) Un articolo de “L’Eco di Bergamo” datato 6 Ottobre 1951 informa che già a quella data il Nuovo era totalmente adibito a cinema. “…inavvertita è passata da breve tempo la ricorrenza cinquantenaria di un teatro cittadino che ha avuto una non ingloriosa storia nella vita cittadina per tutta la prima metà del nostro secolo. Ci riferiamo al “Teatro Nuovo”, ora totalmente adibito a cinema”.

(7) “Le proiezioni avevano suscitato un mare di polemiche. In particolare nel 1976 c’erano state non poche pubbliche proteste per la proiezione al Capitol di Mondo porno oggi, un lungometraggio “a sensazione su quel che si fa nel mondo quanto a sesso e perversioni sessuali”. Lettere di cittadini indignati ai giornali, anche una sfilata per le vie della città. Su un grande cartello la scritta ‘Basta con le donne oggetto di film pornografici’. Un anno più tardi il Nuovo fu denunciato per l’esposizione di una locandina oscena (Erotic sex Orgasm, il titolo del film)…” (Pilade Frattini e Renato Ravanelli, “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. A cura di Ornella Bramani – Vol. II. UTET. Anno 2013).

Riferimenti principali

Pilade Frattini e Renato Ravanelli, “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. A cura di Ornella Bramani – Vol. II. UTET. Anno 2013.

La Rivista di Bergamo n. 6 – Giugno 1926.

La Rivista di Bergamo n. 12 – Dicembre 1966.

Umberto Zanetti, “Bergamo d’una volta”. Ed. Il conventino, 1983.

Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa. II. La strada Ferdinandea”.  Banca Popolare di Bergamo. Co-Editore: Edizioni Bolis. Bergamo, 1963 (Collana di studi bergamaschi).

Comune di Bergamo, Piano di recupero ex teatro cinema Nuovo, angolo via Verdi/Largo Belotti. Relazione illustrativa generale, ottobre 2018. Progettista: Arch. Domenico Egizi.

Ultima modifica 26/02/2023

Il Teatro Sociale

Il Teatro della Società (questo il suo nome originario) nacque sull’onda della competizione tra la Città e i Borghi, come iniziativa secessionista da parte della costola aristocratica del Teatro Riccardi, con il preciso intento di restituire alla Città quella supremazia che il nuovo teatro le insidiava.

L’ANTEFATTO

Nel 1790, per finanziare la costruzione del “suo” teatro, nella Città Bassa, il costruttore Bortolo Riccardi fu costretto (con atto notarile del 30 giugno 1790) a vendere la proprietà dei palchi, esigendo che il canone normalmente pagato per il solo periodo della Fiera, fosse corrisposto tutto l’anno. In cambio assicurava ai palchettisti che del teatro ne avrebbero beneficiato in futuro. Gli acquirenti del tempo erano i membri delle grandi famiglie nobili, talvolta dell’alta borghesia. Ma arrivò il momento in cui, stanchi di pagare per le stagioni fuori dalla fiera, il Bortolo dovette scontrarsi con le loro pretese : nel 1802 ne scaturì un contenzioso, che portò molte famiglie nobili ad abbandonare il progetto del Riccardi e ad unirsi per erigere in autonomia un proprio teatro in Città Alta, a pochi passi dalle loro dimore. Promotori dell’iniziativa, il conte Luigi Vailetti di Salvagno e 53 esponenti delle più importanti casate nobiliari della città, una ventina almeno dei quali, proprietarî di palchi al Riccardi.

Vi erano anche ragioni socio-politiche che stavano favorendo questo processo: il territorio orobico era appena entrato a far parte della seconda Repubblica Cisalpina, e con la dominazione napoleonica, superate le ricorrenti contese interne al cosiddetto “corpo nobiliare” per il possesso dei palchetti, i tempi erano maturi per portare a compimento il progetto di un teatro a conduzione collettiva, “il primo nella storia della città, per la quale tale progetto era rimasto per quasi un secolo una semplice chimera” (1).

Presto la Città Alta sarebbe rimasta senza un edificio consono agli spettacoli del Carnevale, perché il  Cerri, l’unico teatro esistente sul colle – una struttura lignea provvisionale eretta nella Sala Maggiore del Palazzo della Ragione – di lì a qualche anno avrebbe dovuto essere smantellato (2). Dalla fine del Settecento infatti, era andata consolidandosi, all’interno dei bastioni, la consuetudine di assicurare l’intrattenimento carnevalesco per i nobili, i patrizi e i borghesi della Città, che prendeva avvio il 26 dicembre di ogni anno: la Città non poteva certo rinunciare a un suo teatro, che anche a Bergamo, come in altre città italiane nell’Ottocento, era il cuore pulsante dell’attività ricreativa e sociale, oltre che, naturalmente, un luogo di rappresentanza sociale e politica (anche al Sociale passeranno autorità, personaggi noti, star nazionali e internazionali, soprattutto i cantanti d’opera: i veri divi dell’epoca). C’era un altro buon motivo, seppur secondario, per costruire il teatro nel cuore di Città Alta, a un passo da piazza Vecchia: era infatti scomodo scendere, sia pure in carrozza, a Bergamo bassa per assistere a qualche spettacolo teatrale; ancor più scomodo e faticoso poi risalire. E soprattutto, con la pioggia o con la neve era anche pericoloso.

Tra il 1806 e il 1809, in Bergamo alta venne costruito il Teatro della Società, su progetto di L. Pollack, Di pregevole architettura, questo teatro, sorto per iniziativa di un gruppo di nobili, fu soprattutto un segno dell’ormai consolidata destinazione della Città Alta a residenza della nobiltà terriera. Per molti anni, il Teatro della Società assicurò l’intrattenimento carnevalesco per i nobili, i patrizi e i borghesi della Città, rappresentando per molte generazioni il cuore pulsante della vita artistica e culturale entro le mura

Seguendo la consuetudine, il Teatro della Società fu dunque inaugurato il 26 dicembre 1808, con l’avvio della stagione di Carnevale.

Liti, da allora, per questioni di priorità e di prestigio. Dispute al limite del duello, persino: nelle stagioni di punta, le sale del Sociale e del Riccardi entrarono immediatamente in concorrenza sul terreno dell’opera (tra il 1810 e il 1814), alimentando e rispecchiando al tempo stesso quella situazione di conflitto esistente fra gli abitanti di Città e quelli del Borgo. Tuttavia, sostanzialmente, a parte alcune deroghe, non venne messo in discussione l’avvicendamento gerarchico tra i due teatri: il Carnevale apparteneva al Sociale e ovviamente la Fiera al Riccardi (3) e per assicurarsene, il Sociale fece addirittura in modo che tale tregua venisse imposta d’ufficio (1819), evitando quantomeno la gara operistica nei periodi suddetti (in più limitando la propria offerta concorrenziale al teatro parlato, reputato di rango inferiore), ed evitando quindi un enorme dispendio economico che il Sociale non poteva sostenere.

Il 3 marzo del 1803 si procedette alla stesura di un documento a cura del notaio Tiraboschi, nulla fu lasciato al caso e tutto fu messo su carta bollata. Ciascun sottoscrittore depositò la somma di cinquemila lire: quota che, moltiplicata per 54 soci, arrivava a 270.000 lire, da pagarsi in due rate.

Una deputazione teatrale eletta dalla neonata società si occupò della scelta del luogo, dell’acquisizione e predisposizione del terreno e della commissione di un progetto all’architetto prescelto (Pollack, che lo data 7 dicembre 1803); progetto che prevedeva tre ordini di palchi e un loggione; ci sarebbero stati anche una biglietteria, una sala da caffè, una stanza delle riunioni dei soci, una o due sale di Ridotto utili all’accoglienza del pubblico nelle pause degli spettacoli.

Per costruire il teatro, fu ricavato un sito apposito nell’edificatissima Città alta, perseguendo con determinazione una frettolosa politica di acquisti, demolizioni dei fabbricati preesistenti e costruzioni, non sempre suggellata dalle necessarie autorizzazioni governative.

Il Teatro Sociale (edificio a destra) nacque in un luogo centralissimo di Città Alta, compreso tra la Corsarola (via Colleoni), vicolo Ghiacciaia e l’ex Palazzo del Podestà Veneto, che allora ospitava il Tribunale Giudiziario. L’area occupata da botteghe e vecchie e “malsane” case di proprietà pubblica e privata fu acquistata dai deputati. L’acquisto e l’abbattimento di queste, non privo di irregolarità amministrative, lasciò spazio al nuovo edificio

Pochi mesi dopo, e cioè alla fine del 1804, iniziarono i lavori, che si conclusero nel 1808 sotto l’egida di Antonio Bottani, il quale aveva sostituito il Pollack dopo la sua morte, avvenuta nel 1806. Il 16 aprile 1808 vi fu la stesura e l’approvazione del regolamento per l’estrazione dei palchi, effettuata il 30 luglio; il 26 dicembre 1808, vi fu l’inaugurazione del Teatro della Società, il primo teatro di Città Alta costruito interamente in muratura.

Il progetto per il nuovo teatro era stato dunque affidato a Leopoldo Pollack che, tra gli architetti più celebri del periodo Neoclassico, era già esperto di costruzioni teatrali, forte sia del bagaglio accumulato con Piermarini (il progettista della Scala di Milano), di cui era stato allievo, e sia per la sua esperienza diretta (progetto per il Teatro di Vienna, dei Filodrammatici a Milano). Era inoltre ben conosciuto a Bergamo per aver realizzato il palazzo Agosti Grumelli di via Salvecchio e Ia villa Pesenti Agliardi di Sombreno (committente Pietro Pesenti, che aveva ricoperto, tra il febbraio e l’aprile del 1798, la carica di Presidente dell’Amministrazione del Dipartimento del Serio, la maggior carica politica locale). La scelta di un progettista così raffinato e prestigioso, era indicativa di quanto la competizione con il “Riccardi” si palesasse, oltre che sul piano musicale, anche su quello architettonico.

Il 22 maggio 1808 venne stilato lo Statuto della Società. L’assegnazione dei palchi fu effettuata, come detto, il 30 luglio 1808. Palchi che appartenevano ai 54 nobili bergamaschi che si erano associati per costruire il Teatro, e ai quali vennero assegnati attraverso un sorteggio, contrariamente a quanto avvenuto al Teatro Riccardi: una scelta frutto delle correnti repubblicane giunte a Bergamo con i francesi a fine Settecento dopo la Rivoluzione. Qualora la posizione estratta per il palco di I o II ordine non si fosse ritenuta soddisfacente, si sarebbe potuto optare per un palco di III fila, o per uno rifiutato da altri in I e II ordine.

L’INAUGURAZIONE

L’inaugurazione ufficiale avvenne il 26 dicembre 1808 con un’opera d’eccezione per quei tempi: Ippolita regina delle Amazzoni, commissionata appositamente a Stefano Pavesi; direttore d’orchestra e primo violino fu Antonio Capuzzi accompagnato da un ottimo cast d’interpreti, tra cui il celebre soprano Adelaide Malanotte e il grande tenore bergamasco Domenico Donzelli.

L’avvenimento ebbe un grande successo di pubblico e registrò il tutto esaurito, fatto rilevante considerando che agli inizi dell’Ottocento Bergamo contava circa 30.000 abitanti ed il nuovo teatro era, per capienza, uno dei maggiori d’Italia.

Qualche giorno dopo sarebbe stata la volta di Ginevra di Scozia di Giovanni Simone Mayr. Un bel cartellone che, naturalmente, alimentava la rivalità con il Teatro Riccardi.

Sia Ippolita regina delle Amazzoni che Alfredo il Grande di Mayr (quest’ultima un’opera del 1820), furono commissionati dal Sociale, prestigio non comune ad altri teatri di pari livello nel corso dell’Ottocento.

A memoria di quella serata resta ancora un manifesto con decreto prefettizio emesso per l’occasione, in cui si ordinava che le carrozze, sia provenienti dai borghi che da Città Alta, compissero un percorso ben preciso per evitare ingorghi. Si decise inoltre che il portico del Palazzo della Ragione restasse a disposizione dei mezzi per la sosta temporanea fino a fine spettacolo. Quella sera centinaia di candele misero in risalto le decorazioni.

Nel marzo del 1816 Bergamo ricevette per la prima volta un imperatore, Francesco I d’Austria (reduce da Milano dove si era recato nel dicembre precedente per essere incoronato Re), accompagnato dall’impetratrice Maria Ludovica. I sovrani furono a Bergamo dall’11 al 15 marzo e godettero dell’ospitalità dei marchesi Terzi, nel sontuoso palazzo di Città Alta. La sera del 14 l’imperatore si recò al teatro Sociale ad ascoltare una cantata appositamente scritta da Mayr. Dato che il teatro, così come il “Riccardi”, era sprovvisto di un palco reale (progettato ma mai realizzato), per accogliere l’augusto ospite era stato costruito un palco nuovo di zecca, ricavato dai palchi centrali del II ordine sopra la porta. All’interno era stata messa una grande specchiera. Con spesa notevole, il Sociale si illuminò a giorno. Tutto contribuì ad accogliere con gioia l’imperatore

UN LENTO MA INESORABILE DECLINO

Dopo i primi anni di brillante attività, arrivarono periodi difficili. Tutto si complicò quando nel 1856, a causa delle difficoltà economiche dovute alle vicende belliche e politiche di quegli anni, il Comune di Bergamo decise di tagliare un contributo annuale utile al sostentamento del teatro (la famosa dote). Realizzare gli spettacoli era, infatti, oneroso e le sole quote dei proprietari di palco non bastavano. Cominciò dunque un lento e inesorabile declino, che costrinse il teatro a ripiegare sulla prosa (il teatro parlato era reputato di rango inferiore), o su eventi di secondaria importanza (già nel 1864 si tenne solo qualche concerto di studenti del Conservatorio di Milano). Il tutto però, nonostante le sporadiche aperture dell’ultimo ventennio, non impedì al Sociale di mettere in campo qualche rappresentazione operistica di grande rilievo.

Verso la fine dell’Ottocento, le difficoltà del Sociale erano ormai divenute l’emblema di quelle della Città Alta. Già durante gli anni austriaci la costruzione dei Propilei di Porta Nuova (1837) e della strada Ferdinandea (1838), ma soprattutto della stazione e del relativo collegamento ferroviario con Milano (1857), costituivano altrettante tappe dell’emancipazione della Città Bassa, coronate nel 1874 col trasferimento del Municipio.

Via Torquato Tasso con in primo piano il palazzo della Prefettura (ripresa del 1908). Nell’ultimo quarto dell’800, la Città Bassa si fa sempre più attrattiva, accelerando il trasferimento degli edifici pubblici, costruiti in stile tardo-neoclassico lungo il corso del Sentierone: tra il 1864 e il 1871 vengono edificati il Palazzo della Prefettura e quello della Provincia, mentre nel 1874 il Municipio lascia la sede di Piazza Vecchia per il nuovo centro, che dopo l’Unità d’Italia comincia ad essere popolato da banche. Nel frattempo, anche la stessa nobiltà tende a spostare le proprie abitazioni verso la città bassa, dove, come in via Torquato Tasso, si innalzano nuovi gruppi di edifici. La stessa sorte riguarda la via XX Settembre e tutta l’area a sud delle Muraine

E nonostante l’apertura della funicolare (1887), avesse migliorato i rapporti tra le due parti di città, le fortune del Sociale continuarono ugualmente a declinare. Emblematico in questo senso fu la sostanziale marginalità del Sociale alle celebrazioni donizettiane del 1897, che ebbero invece nel Riccardi e Città Bassa centro e sfondo.

Anche l’apertura intorno al 1890 di due nuovi locali nel centro della città, il Rossi e il Givoli, che offrivano spettacoli definiti dagli intenditori del tempo “profanazioni artistiche”, ma di facile successo, certamente non giovò alle fortune del Sociale.

Verso la fine dell’800 e nel primo decennio del secolo successivo la sala (sottoposta a restauri nel 1902, visibili nella stagione 1903; poi nel 1907, per il 1908) aprì anche a generi nuovi come l’operetta (1898, dal 1908), o addirittura a esibizioni di moderna tecnologia quali il grammofono (1898) e il cinematografo (dal 1908) che, se in altre condizioni potrebbero essere segnali d’apertura alle novità, in quel contesto di vita sempre più difficoltosa appaiono come ripieghi su repertorî meno impegnativi finanziariamente.

Si può dire che il Sociale fu attivo, seppur con alterne fortune, fino agli anni Venti del Novecento: a parte qualche glorioso sussulto nelle stagioni 1915, 1921, ’22 e ’24, le aperture del Sociale si fecero sempre più sporadiche: l’ultimo allestimento operistico si tenne nel 1929, con Il barbiere di Siviglia di Rossini, mentre gli ultimi spettacoli risalgono al 1932 (anno della chiusura definitiva), dopodiché venne abbandonato a un inesorabile degrado, una sorta di riflesso del declino di Città alta come centro propulsore della vita sociale e culturale di Bergamo.

Il Teatro Sociale prima dei lavori di restauro del 2006

La storia successiva fu segnata soltanto da progetti di demolizione, avventuristiche intenzioni di riuso e continui passaggi di proprietà (4). Questo mentre l’abbandono e il degrado si facevano sempre più preoccupanti, almeno fino all’acquisizione dell’immobile da parte del Comune di Bergamo (1976) e ai lavori di manutenzione straordinaria e messa in sicurezza compiuti tra il 1978 e il 1981 (spostata la mensa universitaria in precedenza collocata al primo piano, venne eseguito il rifacimento del tetto, ormai prossimo al crollo, ed in seguito il restauro delle facciate esterne e di parte dei locali interni).

Il degrado delle decorazioni dei palchi

Da allora, lo spazio ha ospitato soprattutto esposizioni (mostre d’arte e varie manifestazioni culturali), sino all’inizio dell’intervento di restauro, intrapreso per iniziativa congiunta del Comune e della Sovrintendenza a partire dal 2006.

Grazie  al recupero dell’edificio alla destinazione originaria (2006-2009) il teatro è rinato, ospitando lirica, prosa, festival jazz ed altri spettacoli. La sua vitalità attesta oggi una nuova centralità di Città Alta, e l’ormai raggiunta integrazione di entrambe le entità cittadine: la città antica e i borghi cresciuti alle sue falde.

LE ATTIVITA’ DEL SOCIALE NELL’OTTOCENTO

Sull’onda della competizione con il Teatro Riccardi di Città bassa, il Sociale fu memorabile sede di rappresentazioni operistiche di autori di grande levatura musicale, quali Rossini, Verdi, Ricci, Ponchielli, Mayr e del suo allievo Gaetano Donizetti, sovente accompagnate da interpreti di fama (a tal proposito si ricordano le buone stagioni tra il 1809 e il 1840).
Importanti furono le rappresentazioni di opere inedite per Bergamo: nel primo anno di attività del Sociale, Mayr con l’Oratorio di Haydn Die Schöpfung, del 1798; nel 1860, Pacini con Stella di Napoli.

Nel 1809, grazie al suo Maestro Simone Mayr (che dal 1806 aveva fondato le Lezioni Caritatevoli rivolte a ragazzi indigenti dotati di talento musicale) un giovanissimo Gaetano Donizetti calcò il palcoscenico del Sociale in qualità di corista, nell’Oratorio di Franz Joseph Haydn La Creazione del mondo, mentre nel 1814 subentrò come secondo basso buffo ad un certo punto della stagione di Carnevale. Nel 1830 il palco del Sociale fu il primo a Bergamo ad ospitare un’opera di Gaetano Donizetti: L’Ajo nell’imbarazzo. Non ebbe un gran successo, ma Gaetano non ci restò male, perché forte del consenso ottenuto in tutta Italia (Gaetano Donizetti – Autoritratto)

La sala del Sociale condivise inoltre col teatro Filarmonico di Verona l’onore di tenere a battesimo la ‘prima’ italiana dei Masnadieri di Verdi, dati simultaneamente in entrambe le sale a partire dal 26 dicembre 1847, un privilegio concesso alla ‘piazza’ bergamasca, in cui si pensa abbia giocato un qualche ruolo Alfredo Piatti (che non solo aveva preso parte alla ‘prima’ londinese dell’opera, il 22 luglio 1847, ma per il quale Verdi aveva concepito il Preludio come pagina per violoncello concertante).

Va ricordato, tra i tanti che si esibirono al Sociale, anche il violoncellista Alfredo Piatti (1822-1901), che nel 1831 suonò come solista e che, nonostante fosse chiamato in tutta Europa, negli anni sarebbe tornato più volte a Bergamo

Anche i balletti e la prosa ricoprirono un ruolo rilevante grazie alla presenza di importanti compagnie, tra gli spettacoli di teatro parlato, va menzionata (1816) la farsa del grande Farinelli, L’effetto naturale.

Grande figura di spicco nel corso di quegli anni al Sociale, fu il grande compositore bavarese Johann Simon Mayr, coinvolto fin dalla stagione inaugurale nelle attività del Sociale, che fece da cornice a un’iniziativa straordinaria: l’esecuzione, da parte di Mayr, di una partitura molto impegnativa, il già citato Oratorio di Haydn Die Schöpfung (1798), nella traduzione italiana di Giuseppe Carpani (La creazione del mondo), iniziativa che ebbe risvolti importanti per la realtà musicale bergamasca di quegli anni.

Si trattava di una delle sue prime esecuzioni italiane, se non della prima integrale; era accompagnata da un vero e proprio ‘programma di sala’, così come lo intendiamo oggi; vedeva la collaborazione tra professionisti, l’orchestra, (più o meno la medesima delle funzioni più importanti di S. Maria Maggiore) e studenti della neonata scuola di musica fondata e diretta da Mayr, e aperta nel 1806, compresi i ragazzi del Conservatorio, tra i quali Gaetano Donizetti. Con la sua iniziativa, Mayr si proponeva finalità didattiche (era un’ opera dotata di grande valore formativo) e filantropiche (la costituzione di un fondo di solidarietà per musicisti, il Pio Istituto Musicale), nell’ottica dell’ex allievo del collegio gesuitico di Ingolstadt e illuminato propugnatore di ideali educativi, che nel Regno napoleonico d’Italia trovavano terreno fertile.

Fra le altre iniziative vi fu anche la riproposta di un titolo recente ma ormai ‘classico’ del suo catalogo come Ginevra di Scozia, che Mayr aveva riveduto con la sostituzione o l’aggiunta di nuovi ‘numeri’.
Anche negli anni seguenti Mayr partecipò direttamente ad alcune stagioni carnevalesche, come accadde, ad esempio, nel 1819, quando la sua Lodoiska fu ripresa arricchita di nuovi brani da lui scritti per la circostanza. L’anno dopo debuttava addirittura una sua opera nuova appositamente commissionata, Alfredo il Grande re degli Anglo-Sassoni, per la quale nel febbraio 1820 riceveva i complimenti dell’amica Adelaide Malanotte.

Tra gli ospiti illustri va ricordato anche Niccolò Paganini, che calcò il palco del teatro per ben tre volte: funambolico, geniale e sorprendente con il suo violino, regalò al Sociale un grande spettacolo. Nel 1876 vi si esibirono anche Le dame Viennesi, un’orchestra di sole donne che richiamò a teatro molte signore eleganti incuriosite dall’evento.

Il 12 settembre 1885 si organizzò un concerto per l’inaugurazione del monumento a Giuseppe Garibaldi, appena posizionato in Piazza Vecchia (dove era stato posto il 15 settembre). Per l’occasione, sul palco del Sociale venne posto un busto dell’eroe contornato di trofei di bandiere e molti fiori. Il monumento verrà poi trasferito alla Rotonda dei Mille, il 20 settembre del 1922, perché non piaceva ai bergamaschi

IL PROGETTO DEL SOCIALE, UN TEATRO ALL’ITALIANA 

Leopoldo Pollack, Progetto del Teatro Sociale, sezione longitudinale (Bergamo, Biblioteca Civica Angelo Mai e Archivi storici). Il progetto originale di L. Pollack si compone di dieci tavole acquerellate

Pollack poté solo in parte adottare le nuove strategie che si andavano diffondendo in quegli anni: impossibilitato dalla strettezza di via Corsarola a corredare l’edificio di facciata monumentale, portico, colonnato o quant’altro avrebbe permesso di identificare un teatro a colpo d’occhio – come fu per la Scala di Piermarini – egli dovette accontentarsi di una facciata elegante sì, ma senza soluzione di continuità con i palazzi limitrofi. Solo gli elementi decorativi, attinenti al mondo delle arti teatrali, attestavano la sua natura di luogo deputato a pubblici spettacoli.

Il Teatro Sociale è un complesso di eccezionale qualità architettonica e occupa Ia maggior parte del grande isolato che ha il fronte maggiore su piazza Vecchia e che comprende anche il Palazzo del Podestà e il Palazzo dei Giuristi. Ha l’ingresso principale sulla via Colleoni e accessi dai due Iati di piazza Vecchia e vicolo Ghiacciaia. La conformazione della strada ha fatto sì che il teatro non avesse una facciata o, meglio, ne ha una molto semplice, visto che la Corsarola è, ed è sempre stata, una strada troppo stretta per costruirne una imponente. E dato che non c’era un portico per accogliere il pubblico, le carrozze si dirigevano verso il secondo ingresso posizionato sul lato sinistro raggiungibile da Piazza Vecchia, affacciato su un cortile dal quale si raggiungeva il foyer attraverso un corridoio

Nonostante ciò, col suo prospetto elegante e decorato, il Sociale si presentava all’esterno con tratti di dignità ben diversi dal Riccardi che, visto da fuori, dava l’idea di un pachiderma goffo e sgraziato. Inoltre, rispetto al Teatro alla Scala, alla Canobbiana di Milano, al Teatro di Monza e al Riccardi (attuale Teatro Donizetti) era il quarto per grandezza in Lombardia.

Leopoldo Pollack, Progetto del Teatro Sociale, facciata (Bergamo, Biblioteca Civica Angelo Mai e Archivi storici)

L’INTERNO

Pollack decise per un teatro all’italiana, con più ordini di palchi, che realizzava l’esigenza di visibilità pubblica delle classi aristocratiche e dei loro rapporti gerarchici.

Leopoldo Pollack, Progetto del Teatro Sociale, sezione trasversale (Bergamo, Biblioteca Civica Angelo Mai e Archivi storici). Vi sono collocati tre ordini di palchi, una grande galleria e una spaziosa platea, per una capienza complessiva di circa 1300 spettatori

Quanto all’impianto della platea, Pollack scelse di non ripetere la pianta a forma di cavallo dominante a quel tempo, optando invece per una più ricercata ed elegante forma ovale probabilmente di ispirazione francese. L’abbinamento di questa forma con lo sviluppo verticale dei palchi costituisce forse l’aspetto più originale del progetto.

Leopoldo Pollack, Progetto del Teatro Sociale, pianta (Bergamo, Biblioteca Civica Angelo Mai e Archivi storici)

Ottima l’acustica, grazie anche alle strutture costruite totalmente in legno.

I PALCHI

Gli 82 palchi sono distribuiti su tre ordini sovrapposti, sui quali insiste un quarto ordine di loggione.

Dietro ad ogni palco (di proprietà di una famiglia nobile) c’erano anche i camerini, piccoli ambienti di servizio, uno spazio privato a disposizione della famiglia

 

Come per il Teatro Donizetti, anche qui non c’è il palco reale, o palchettone, grande il doppio rispetto agli altri e tradizionalmente utilizzato per ospitare le autorità. Venne progettato ma mai realizzato

Pollack progettò i parapetti lignei dei palchi secondo una linea continua, come Piermarini aveva fatto per la Scala; essa dà risalto alla dimensione orizzontale degli ordini di palchi (rispetto a quella verticale evidente invece nella sezionatura a balconcino derivata dal modello del Bibiena), e conferisce alla forma complessiva della sala una armoniosa uniformità di impronta classica.
I parapetti lignei erano ricchi di decorazioni policrome, spesso sgargianti, come i colori delle pareti interne ornate talvolta anche con finti marmi, e in contrasto con i materiali poveri della pavimentazioni e delle volte a calce.

Le finestre del Ridotto si affacciano sulla Corsarola, la strada principale di Città Alta, nata sul decumano romano e ricca di notevoli resti archeologici. Lo spazio del Ridotto è oggi dedicato a incontri, eventi e conferenze stampa. Gli ambienti attuali sono il frutto del massiccio intervento di restauro avviato nel 2006

L’APPARATO DECORATIVO

Cospicue furono le spese per la decorazione: le decorazioni del soffitto e i parapetti furono eseguite da Vincenzo Bonomini e Francesco Pirovani. Bonomini, decoratore e figurista di talento, aveva anche proposto un progetto per la decorazione della volta, poi non approvato perché gli fu preferita quella a carattere figurativo di Lattanzio Querena, autore anche della medaglia della volta.

Il sipario fu dipinto da Carlo Rota con una veduta di piazza Vecchia e in collaborazione con altri artisti, come Francesco Pirovani e Domenico Minozzi; gli addobbi, sontuosi perché si voleva che la sala fosse una delle migliori esistenti

I RESTAURI DEL 1830

Nel 1830 i fondatori vollero perseguire un progetto di rinnovamento del teatro. L’operazione fu affidata ad Alessandro Sanquirico, celebre scenografo della Scala, che ridipinse sia i fregi dei parapetti dei palchi, che le decorazioni del loggione. La sala, inoltre, fu illuminata da una “ricca lumiera”, una nuova luce che permetteva agli spettatori di vedere meglio le scenografie, i costumi, il trucco degli artisti. Sarebbe così diventato più facile apprezzare il nuovo sipario dipinto da Cesare Maironi Da Ponte, che aveva studiato all’Accademia Carrara, oppure le scene di Luigi Deleidi o Pietro Ronzoni.

I RESTAURI DEL 2006-2009

L’intervento di restauro, completato nel maggio del 2009, ha consegnato alla città un teatro storico completamente recuperato alla sua originaria vocazione teatrale, attraverso un rinnovamento dei luoghi e degli apparati decorativi nonché un consolidamento generale delle strutture.

Prima dell’inizio dei lavori, il complesso architettonico del Teatro versava in una condizione di degrado molto avanzato: le file dei palchi, ormai pericolanti per l’incuria del tempo, erano inagibili; la zona della platea ed i locali del teatro avevano subito rimaneggiamenti e non rispondevano alle normative attuali. Lo stato di abbandono seguito alla chiusura del teatro fu però  anche la sua fortuna perché non furono eseguiti i tipici interventi distruttivi degli anni Sessanta

Direttore dei lavori, nonché progettista del recupero è stato l’Architetto Nicola Berlucchi, che ha improntato l’intero progetto ad un’armonica mediazione tra storico e moderno, con il preciso intento di mantenere le caratteristiche storiche e culturali del Teatro, comprese quindi tutte le decorazioni originali e le funzionalità previste nell’800.

Il Teatro Sociale prima dei lavori di restauro del 2006

Allo stesso tempo è stato garantito il rispetto delle normative di sicurezza, anche attraverso la realizzazione di nuovi vani scala non visibili dall’interno del teatro, o installando sotto la platea una vasca da 110 mila litri d’acqua come strumento antincendio.

Restituire il Sociale alla sua originaria vocazione teatrale ha significato anche l’allestimento di una moderna macchina scenica, con un nuovo palcoscenico in cui è stata inserita una struttura in acciaio (graticcia) composta da arcate del peso di 35 tonnellate, a rinforzo di quella esistente in legno.

La fossa orchestrale è stata dotata di una piattaforma meccanica elevabile su tre livelli.

Si è proceduto al rifacimento delle pavimentazioni del foyer, al restauro delle pareti, dei soffitti e delle finiture superstiti, e del nuovo portone di accesso.

Si sono attuati il ripristino dei primi tre ordini di palchi (per un totale di circa 550 posti), sezionati mediante nuove pareti divisorie, secondo il disegno originale.

S’è provveduto inoltre al rinforzo dei parapetti lignei dei palchi, cui sono stati apportati discreti ritocchi integrativi mediante un lavoro di ebanisteria, fissaggio e protezione delle decorazioni e ripresa delle lacune.
Anche per i pilastri e i controsoffitti s’è proceduto con un restauro ligneo e pittorico.

Per il quarto ordine, il loggione, è stato previsto il consolidamento statico, al fine di renderlo in futuro, tramite semplici operazioni di completamento, facilmente disponibile all’accesso del pubblico.

Al posto della vecchia cupola, che era crollata a causa delle intemperie, si è optato per una copertura a capriate di legno, che permette un’acustica migliore ed è peraltro più affascinante di un coperchione sul quale avrebbero dovuto correre pitture e decori finti.

Infine, da annoverare la realizzazione degli impianti di riscaldamento e raffreddamento, il rifacimento dell’impianto elettrico e di illuminazione, la predisposizione di adeguati servizi igienici ed infine la realizzazione di tre nuovi livelli di camerini, alla destra del palcoscenico.

Oggi il Teatro Sociale è utilizzato dalla Fondazione Teatro Donizetti per la messinscena di alcuni spettacoli di prosa e di opere liriche e per lo svolgimento di concerti jazz. È, inoltre, la location principale per la rassegna di Altri Percorsi.

NOTE

(1) Spiega Francesca Fantappiè che “Tali discordie, nel caso in cui veniva proposta la realizzazione di un teatro stabile si palesavano regolarmente al momento della distribuzione dei palchetti (…) Il possesso di un palchetto era sinonimo di uno status sociale e le contestazioni relative alla sua assegnazione erano comuni, come dimostra il caso veneziano meglio noto come «guerra dei palchi». Nel corso dei dieci anni in cui il Teatro Cerri “rimase attivo, nuove e più coese istanze sociali portarono al compimento del Teatro Sociale, un teatro a conduzione collettiva” (Francesca Fantappiè, «Per teatri non è Bergamo sito». La società bergamasca e l’organizzazione dei teatri pubblici tra ’600 e ’700. Copyright © 2010 by Fondazione per la Storia Economica e Sociale di Bergamo).

(2) Il Teatro Cerri era staro costruito nella Sala Maggiore del Palazzo della Ragione per sostituire il distrutto Teatro di Cittadella (anch’esso provvisionale) con la riserva che restasse attivo per soli dieci anni: 1797-1807 (Francesca Fantappiè, «Per teatri non è Bergamo sito», Ibidem).

(3) L’attività scenica si distribuiva su periodi precisi, che dalla fine del Settecento coinvolse principalmente due stagioni: quella di Carnevale, che si svolgeva tra dicembre e febbraio, e quella della Fiera, che si svolgeva invece tra agosto e settembre. Per l’esattezza, l’inizio della stagione del Carnevale cadeva il 26 dicembre, per cui ad esempio la dizione ‘carnevale 1810’ significava che i suoi spettacoli potevano principiare a partire dal 26 dicembre 1809.

(4) Nel ‘38 lo acquistò il Partito Nazionale Fascista ma le cose non migliorarono. Il Sociale rischiò più volte di essere abbattuto: ben due progetti proposero di abbattere tutto tranne la parte del foyer e delle sale nobili. Fortunatamente il progetto non si concretizzò; con l’inizio della II Guerra Mondiale non ci furono più fondi a disposizione. Passò poi al Demanio dello Stato, ma la situazione continuò ad essere critica per il teatro: nel 1947 e nel 1961 altri due progetti proposero di trasformarlo in un cinema. Nel 1963 venne comprato dalla Parrocchia del Duomo e nel 1976 dal Comune di Bergamo (www.teatrodonizetti.it).

Riferimenti

Paolo Fabbri, Le due città (tratto da Il Teatro Sociale di Bergamo. Vita e opere, di Luigi Pilon).

www.teatrodonizetti.it

Vanni Zanella, Bergamo città, seconda edizione, Azienda Autonoma di Turismo, Bergamo, 1977, pag. 67.

Leopoldo Pollack architetto 1751 – 1806: Le vicende del Teatro Sociale 1803 – 1978, Grafica Gutemberg, Gorle (Bg), 1978, pagg. Da 43 a 44.