Posto all’estremo sud delle Prealpi orobiche il monte Ubione è la prima cima che si incontra salendo la Val Brembana, segnando il confine tra questa e la Valle Imagna, di cui rappresenta la “porta d’ingresso”. Nonostante la modesta altitudine (895 metri), la cima offre uno spettacolare panorama sulle valli Imagna e Brembana e verso le pianure. Lungo il suo percorso, che si diparte dall’abitato di Clanezzo, si intersecano due itinerari: il percorso ciclo-pedonale del Chitò, che si snoda lungo il sedime di un canale che trasportava le acque dell’Imagna alla Centrale elettrica di Clanezzo, e termina nei pressi di Capizzone (ne abbiamo parlato quie qui), e un percorso escursionistico, il Sentiero del Partigiano “Angelo Gotti”, che inizialmente ricalca il sentiero per il monte Ubione.
La modesta quota non toglie nulla al fascino di cui si gode da questa cima, che oltre ad ospitare un bivacco e comode attrezzature per rifocillarsi in plein air, offre all’escursionista la possibilità di osservare da vicino i resti della leggendaria rocca risalente al X secolo, disposti sul pianoro che ospita la croce di vetta.
Inserito in un sistema difensivo che comprendeva anche il Castello di Clanezzo, il fortilizio fu fatto edificare da Attone di Guiberto, ultimo dei Conti di Lecco a possedere la Corte di Almenno, per contrastare qualunque assalto dalla pianura o dalle montagne e assicurarsi il controllo di tutta la zona: nel contempo, il millenario ponte di Clanezzo avrebbe consentito una via di comunicazione privilegiata con le fortezze di Clanezzo e del monte Ubione.
Ampliata successivamente, divenne nel ‘300 il covo dei temuti ghibellini della Val Brembilla capitanati dai Dalmasoni di Clanezzo e dai Carminati di Ubiale, che, fedeli ai ghibellini Visconti e ostili alla guelfa Venezia, da “questo nido di umani avvoltoi” scendevano a valle a depredare i paesi di fede guelfa, compiendo le più crudeli rappresaglie. Per porre fine alle angherie compiute nei confronti della popolazione locale, tutte le case e le fortezze della Val Brembilla, compresa quella sul monte Ubione, vennero rase al suolo dai Veneziani nel gennaio del 1443, nel corso della campagna militare contro i ribelli Brembillesi, che vennero cacciati dalle loro terre e confinati oltre l’Adda. Da allora il bosco coprì tutta la montagna; sulla vetta, scomparse le vestigia dell’antico passato, non salirono che cacciatori e boscaioli.
Nel 1819 sulle pendici del monte se ne vedevano ancora le rovine, ammassate e rotolate a valle, mentre – si dice -, gli scavi eseguiti nel 1841, portarono alla luce armi (verrettoni, pugnali, e picche, e chiovi a larghe capocchie), che vennero portate al Castello di Clanezzo, di cui a quei tempi Paolo Beltrami era il signore (1).
Pochi decenni or sono, i lavori compiuti per ospitare la croce di vetta hanno portato alla luce alcuni reperti e i resti delle antiche strutture che creano oggi una sorta di museo a cielo aperto, a disposizione di chiunque lo voglia visitare.
IL PERCORSO PER IL MONTE UBIONE
Il percorso, che si sviluppa quasi completamente nel bosco, è sicuro e ben segnalato, richiedendo un certo sforzo solo nel tratto ripido in prossimità della cima. La salita richiede circa un’oretta e mezza di cammino, presentando un dislivello di 550 metri. E’ ideale per escursioni durante tutto il corso dell’anno, grazie alla felice esposizione del sentiero, che si sviluppa lungo il versante meridionale del monte.
La partenza avviene da Clanezzo, dove vi sono numerosi parcheggi liberi (inizio di via Belvedere o in prossimità del cimitero). Seguendo la strada asfaltata dietro il Castello, si imbocca la via Belvedere ed in breve si raggiunge l’agriturismo Cascina Belvedì, da cui si intraprende il sentiero CAI 571 noto anche come “Periplo della Valle Imagna”: un tracciato che sale gradualmente fra i boschi di castagno e che inizialmente ricalca il Sentiero del Partigiano “Angelo Gotti”, che si abbandona una volta giunti al bivio piegando a destra.
Si affronta quindi la prima parte della ripida ascesa che conduce alla vetta, tra boschi di castagni, carpini neri e rare betulle, fino a raggiungere in circa mezz’ora il pianoro situato a metà costa del monte Ubione, che consente all’escursionista di riprendere fiato prima di raggiungere il Passo della Regina (744 metri) e intraprendere l’ultimo strappo.
Da quest’ampia radura, lo sguardo può vagare in lontananza, godendo di un primo panorama verso Val Brembana, con bella vista sull’Arera, e verso il Canto Alto, dove si nota il solco della Valle del Giongo: grazie all’ampia veduta offerta da questa cima, anche qui sorgeva un’antica torre presidiaria edificata ai tempi delle lotte tra guelfi e ghibellini, dalla quale si scrutava ogni spostamento di armati, che veniva prontamente segnalato con fuochi e fumate alle scolte alleate sul monte Ubione e di Cà Eminente. Sui resti della bastia in legno, arsa durante un assalto, fu eretto unmaniero ghibellino, detto di Pizzidente, che fu assalito e raso al suolo dai guelfi di Sorisole e di Ponteranica nel 1404. Attorno a questa zona, nel periodo delle lotte di fazione facevano parte di un sistema fortificato anche un castello ghibellino a Petosino (dove tuttora esiste una località “Castello”), e un munitissimo fortilizio guelfo a Ponteranica, attorno alle mura della Moretta, che fu teatro degli scontri nel 1437 con Nicolò Piccinino, che, al soldo dei milanesi, tentò di strappare Bergamo a Venezia. Oltre ovviamente ai fortilizi della Val Brembilla, cui apparteneva anche quello eretto sul monte Ubione (come già osservato qui).
Il pianoro ospita i ruderi delle strutture dell’ex bacino idrico ENEL (due grandi vasche semi-interrate e un edificio ancora in buono stato), costruite all’inizio del ‘900 a servizio della Centrale di Clanezzo, posta sul sottostante fiume Brembo e da tempo in disuso: la prima vera e propria centrale della Valle Brembana ed una delle prime in Italia a sfruttare il sistema di generazione e pompaggio (2): il dislivello di ben 400 metri tra i bacini e la Centrale e la notevole capacità dei bacini (10.000 metri cubi) facevano sì che durante la notte, quando il consumo di energia elettrica è minimo, si potesse pompare fin lassù con l’energia elettrica in esubero l’acqua usata di giorno e raccolta in un bacino accanto alla centrale. Da questo grande invaso l’acqua per caduta poteva di nuovo essere sfruttata il giorno dopo o nei periodi di magra del Brembo. In pratica era il primo esempio di energia rinnovabile quasi totalmente e a basso costo.
Questo invaso tuttavia non poté essere costruito subito per alcuni contrasti col comune di Ubiale-Clanezzo legati anche all’apparente pericolosità di questo lago artificiale posto quasi in cima a un monte, per cui fu completato solo nel 1903. L’invaso, concepito sin dall’inizio, testimonia la lungimiranza economica e strategica dei fondatori di questa azienda (3).
Dopo aver attraversato un folto “tunnel” di agrifogli, si raggiunge un altro dosso panoramico proteso verso la vetta e culminante nel Passo della Regina, che anticipa lo strappo finale.
Il nome della Regina fa riferimento alla regina longobarda Teotperga o Teuperga, moglie ripudiata di Lotari, e ricorre frequentemente in questi luoghi intrecciandosi con la leggenda: il ponte romano ad Almenno, la strada della Regina, la via militare romana in prossimità del ponte, Castel Regina e, da queste parti, una fonte “sana” di cui non si è rinvenuto nessun documento; è però vero che lungo le pendici del monte Ubione, a quota 750 metri, c’è un’antica sorgente che ancor oggi gli abitanti di Strozza chiamano “fontana della regina”: la permanenza della regina sul monte Ubione non è suffragata da riscontri oggettivi. E’ inevitabile allora chiedersi se sul monte vi fosse un eremo: può darsi, ma è difficile immaginarlo.
Il Passo della Regina in realtà non scollina da nessuna parte, ma presenta un bivio che permette andando a destra di tagliare quasi in piano verso i roccoli della Passata (valico dove convergono numerosi itinerari, tra cui il sentiero Angelo Gotti): a metà di questo traverso ecco staccarsi il sentiero meno ripido che porta sull’Ubione dal versante est, aggirando dunque la ripida e faticosa “direttissima” dal versante sud.
Al Passo della Regina vi sono i ruderi delle due cascine che un tempo presidiavano un grande pascolo ormai scomparso, che abbiamo osservato nella vecchia foto in cui compariva la condotta della Centrale.
Dal Passo della Regina si intraprende l’ultimo strappo che nel volgere di un quarto d’ora consente di raggiungere la cima, dove è posta la grande croce che svetta sopra i comuni di Ubiale-Clanezzo e Strozza, offrendo alla vista un panorama a 360° verso Bergamo e la pianura, la bassa Val Brembana e la Valle Imagna.
La poderosa croce è stata realizzata nel 1972 dal Gruppo Alpini di Clanezzo-Ubiale e da altri Ubialesi riuniti in seguito nel “Gruppo Amici Monte Ubione” (G.A.M.U.), a ricordo dei Caduti di tutte le guerre. Il pesante braccio orizzontale, lungo 9 metri, è stato trasportato a spalle fin sulla vetta, in un sol pezzo.
Per rendere più fruibile il sito, sulla sommità del monte i componenti del G.A.M.U. hanno creato un pianoro che si presenta come una grande ed accogliente balconata, e costruito un accogliente bivacco, dove poter cucinare e ripararsi dal maltempo, arricchendo il luogo con tavoli e panche per accogliere gli amici escursionisti che salgono in occasione di ricorrenze e feste locali (ricordiamo che la prima domenica di agosto vi si svolge la tradizionale festa della montagna, che attira sulla vetta centinaia di appassionati). Il tutto è ben gestito dal Gruppo Amici Monte Ubione.
ALLA RICERCA DEI RESTI DEL CASTELLO
Prima dei lavori del 1972/’73 la vetta era un sottile crinale di roccette, una sorta di muretto composto da grossi sassi: ciò che restava di un muro perimetrale del Castello. Osservando l’immagine sottostante, alla base del terrapieno della grande spianata di vetta, verso nord, si vede infatti fuoriuscire un frammento di muro medioevale.
Ai tempi dell’aspra contesa tra guelfi e ghibellini, l’antica rocca sull’Ubione era ormai divenuta un imponente maniero, di proprietà della potente famiglia ghibellina dei Carminati, che da questo luogo terrorizzava i guelfi dei vicini paesi. Isolato e minaccioso sul culmine del monte, a cavaliere delle due valli, appariva a chi lo contemplava da lontano come un inviolabile nido di umani avvoltoi, dal quale gli armigeri piombavano inaspettati e in cui riparavano con la preda. Nelle “Effemeridi” del Calvi, al 31 gennaio del 1360 si ricorda che Bernabò Visconti vi manteneva un castellano, diciassette soldati e due cani, mentre le cronache del 1395 narrano l’uccisione di un balestriere ad opera dei guelfi d’Imagna.
Ma com’era il Castello? Era un massiccio quadrato irregolarecon il vertice merlato. Sul lato orientale si sollevava una torre di una solidità straordinaria, come dimostrano le muraglie grosse sei piedi. Sulla facciata nord-est si apriva l’ingresso chiuso a saracinesca con un ponte levatoio, e – si dice – era così sicuro che solo le donne sarebbero state sufficienti a difenderlo e a tener fuori un grande e numeroso esercito.
Qua e là, intorno al vasto pianoro che ospita la croce e le moderne strutture, ne affiorano porzioni di muro, e per facilitare l’individuazione dei resti, visibili e non, il G.A.M.U. ha posizionato sotto la tettoia un pannello raffigurante la planimetria della spianata di vetta, con indicata la posizione dei diversi manufatti medioevali rinvenuti negli scavi del 1973. Ha inoltre reso percorribili dei passaggi che permettono di visitare i punti di interesse, corredando il tutto di apposite targhette esplicative.
Esternamente ed internamente al magazzino, sono presenti murature in pietra posate con malta a base di calce. Lo spessore notevole, circa 1.40 mt, fa supporre siano i resti delle fondamenta di una costruzione alta, probabilmente una torre di avvistamento.
Come ogni castello che si rispetti, anche quello sul monte Ubione aveva un bel portale, di cui si è rinvenuta, seppur fuori contesto, la chiave di chiusura scalpellata ad arte. E’ stata posta a fianco del bivacco.
Vi era inoltre una cisterna di raccolta dell’acqua piovana sulle cui rovine (ancora visibili), è stata costruita la cantina-deposito del G.A.M.U. L’acqua della cisterna, capace di 15 mc, era l’unica risorsa possibile per la guarnigione del Castello, dato che la “fontana della Regina” era un po’ troppo lontana e inutilizzabile in caso di assedio.
La cisterna, che si trova a una decina di metri dalla vetta, raccoglieva le acque provenienti dalle coperture poste a monte tramite una condotta sotterranea, di cui si è rinvenuto un tratto composto da pietre disposte a formare una canaletta.
A fianco della cantina, che anche esternamente mostra le tracce dell’antica cisterna, corre il muro perimetrale del Castello.
Contestualmente, si sono rinvenuti alcuni oggetti tra cui resti di vasi in ceramica, punte di frecce di balestra e proiettili in pietra e ferro ora conservati presso il Museo della Valle di Zogno.
Doveva esistere almeno un locale sotterraneo, in quanto il plinto di fondazione per l’ancoraggio della croce metallica è stato ricavato in un locale preesistente, interrato rispetto alla quota di sommità, dunque non visibile.
Più a valle della spianata di vetta, a sud-est della cisterna vi erano probabilmente la fornace e la fossa per produrre la calce spenta dalle pietre calcaree locali, mentre a sud, poco più a valle, probabilmente vi era la cava per l’estrazione delle pietre da costruzione.
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Sappiamo che in epoca Veneta, dopo la costruzione della Strada Priula alla fine del Cinquecento, la cima del monte Ubione continuò a svolgere l’importante funzione di controllo all’imbocco della Val Brembana, allo scopo di proteggere la più importante delle vie mercantili della Bergamo veneziana.
La Strada, tracciata sul fondovalle per ottimizzare i traffici da Bergamo a Mezzoldo, doveva garantire attraverso il passo di S. Marco un passaggio comodo e sicuro verso la Valtellina e i Grigioni Svizzeri, porta d’accesso ai mercati centro-europei, con cui Venezia intratteneva intensi scambi commerciali, compensando degnamente le perdite subite nel Levante.
La sicurezza di questa importante strada mercantile era garantita da una capillare rete difensiva, che dalle postazioni di Ca’ S. Marco e del monte Ubione controllava l’accesso nemico dalle valli, potendo contare anche sul sostegno amico dei Grigioni Svizzeri, serbatoi di truppe mercenarie pronte a dar man forte in caso di assalto degli Spagnoli, che minacciavano i nostri confini meridionali e occidentali.
Ma questa è un’altra affascinante storia (e la racconteremo).
Note
(1) Giovan Battista Bazzoni nell’ottobre del 1883 visitò Clanezzo, vi rimase ospite per qualche tempo e con ogni probabilità vi concepì il romanzo “I Guelfi d’Imagna o Il Castello di Clanezzo”, un libro che conteneva poca verità e molta fantasia, a detta di Bortolo Belotti. Tuttavia ebbe successo, cosa che non dovette dispiacere ai coniugi Beltrami, che in quegli anni, in cui erano divenute famose le Terme di San Pellegrino, vedevano arrivare a Clanezzo molte persone desiderose di visitare i luoghi descritti nel libro e di trascorrervi qualche momento sereno. Giunti alle chiavi della Botta scendevano dalla carrozza e, affascinati dalla visione di Clanezzo attraversavano il Brembo sulla passerella e andavano a visitare i Beltrami. Scrive il Bazzoni all’inizio del suo libro che i visitatori, dall’altra parte del fiume scrutavano il bel poggio con un amenissimo giardino attorniato da alberi pittorescamente aggruppati, con fiori, viottoli, un elegante belvedere e, al di là, un’ampia casa (il Castello). Nel giardino, “dove un tempo vi era il gheffo per le scolte sorge ora un grazioso caffehaus: chi lo eresse, amatore della natura e della storia, vi depose verrettoni, pugnali, e picche, e chiovi a larghe capocchie, ch’egli stesso raccolse tra le rovine dell’antica rocca d’Ubione, di cui sull’alta vetta del monte tutte scoprì le fondamenta”. Probabilmente Bazzoni si riferisce a Paolo Beltrami (1792-1853) – (Umberto Gamba, “Ubiale Clanezzo. Storia di una comunità”. Ferrari Editrice, Anno 2000).
(2) Per realizzare questo progetto fu costruito a partire dal 1897 dalla società tedesca Schuckert un grande canale, lungo circa quattro chilometri, sulla destra orografica del Brembo la cui origine era poco a valle dei cosidetti Ponti di Sedrina con lo scopo di raccogliere tutta l’acqua proveniente da Zogno ma anche tutta l’acqua, non trascurabile, della valle di Brembilla. Questi lavori finirono nel 1900 e la nuova centrale idroelettrica, la prima in Valle Brembana che potesse definirsi correttamente in questo modo, dotata di 5 gruppi (insieme di turbina e alternatore) da 600 HP ciascuno della tedesca Siemens, entrò in funzione agli inizi del 1901 (a cura del Centro Storico Culturale Valle Brembana, “Il sogno Brembano”. Corponove editrice, 2006).
(3) Per comprendere quanto fosse fondamentale in quegli anni non sprecare alcuna goccia di acqua che potesse trasformarsi in energia elettrica basterà ricordare che dopo poco tempo, essendo stata distrutta la presa d’acqua del canale di Clanezzo poco a valle dei Ponti di Sedrina da una forte piena del Brembo, la stessa diga fu ricostruita più a monte in corrispondenza delle Grotte delle Meraviglie in territorio di Zogno. Le acque della valle di Brembilla, non potendo più essere raccolte in modo naturale, furono allora recuperate per mezzo di una piccola presa, ancora oggi visibile, nei pressi dell’antico ponte a schiena di mulo che collegava Ubiale con Zogno. Da questo luogo attraverso un canale sotterraneo interamente scavato nella roccia le acque della Brembilla furono riversate nel nuovo tratto di canale per Clanezzo che scorreva e scorre ad una quota più alta rispetto a prima. (Il sogno Brembano, op. cit.)
Gli abitanti di Clanezzo la chiamavano la “Fucina del Diavolo” per via dei bagliori infernali sprigionati dalla fucina annerita dalla fuliggine e per il tonfo cupo del martello che colpiva ritmicamente il metallo, che venne utilizzato anche per forgiare armi destinate alla Repubblica di Venezia.
Più recentemente la fucina era tenuta attiva da numerosi “maestri” artigiani che si dedicavano alla produzione di attrezzi agricoli come vanghe, pale ed altro ancora.
fino a qualche decennio fa capitava ancora di sentir rimbombare nella valle il ritmato rumore del maglio. Il signor Giuseppe Personeni, ultimo magliaro, ogni tanto tornava, per passione, nei luoghi dove aveva trascorso una vita e dove aveva sapientemente lavorato il ferro, dando alla luce gli ormai ultimi attrezzi di una lunga e proficua serie.
Mastro Personeni portò avanti l’attività fino alla metà degli anni ’80 e della sua fucina è rimasta testimonianza nel film datato 1965 “E venne un uomo”, dedicato alla vita di Papa Giovanni XXIII, del famoso regista bergamasco Ermanno Olmi che qui girò alcune scene, probabilmente affascinato dalla bellezza e dalla “integrità storica” del luogo, rimasto quasi inalterato nei secoli.
Grazie alle riprese di questo film, ma anche grazie ad alcune foto d’epoca, possiamo ancora oggi fare un tuffo nel passato e vedere come si lavorava nella fucina di Clanezzo nel cuore degli anni Sessanta (1).
Anche se oggi non c’è più il rumore del maglio e le grandi ruote sono a pezzi, la suggestione del luogo è immutata, benché sia estremamente pericoloso anche solo avvicinarsi all’edificio, ormai cadente e pericolante.
Quando il maglio ancora era in funzione, all’ultima curva del sentiero l’incanto veniva rotto dallo stridore delle mole e dal cupo battito del maglio: un rumore antico, interrotto dal battito sonoro di un martello sull’incudine.
L’ultimo ostacolo, il fiume, veniva superato su un secolare passaggio elastico, incerto, dall’aria provvisoria: quattro cavi d’acciaio, sui quali erano gettate piccole assi, la metà delle quali rotte o addirittura mancanti.
Effettuato il pericolante passaggio, al rumore che aveva segnalato la presenza dell’officina si aggiungeva quello delle acque impiegate per muovere le grandi ruote, sistemate sul lato lungo della costruzione. L’acqua dell’Imagna, guidata da canaletti e scivoli, veniva adoperata dall’officina e restituita al fiume, poco più avanti.
L’interno sembrava la fucina di Vulcano: stretto, piccolo, basso e nero l’ingresso. Poi, una stanza adibita a magazzino e poi ancora il camerone e cioè la fucina, dove trionfava il nero del carbone accumulatosi da sempre. Alta fino al soffitto, con un lucernario e due alte finestrelle, invasa da ogni sorta di macchine, con un ballatoio che percorreva tre lati della costruzione.
I raggi del sole che penetrano dalle aperture scoprivano angoli che avevano dell’incredibile e particolari della meccanica senza età, che sembravano nati con il ferro, come se fra quelle pietre il tempo non fosse passato e l’acqua fosse il solo motore possibile.
Ogni macchina riceveva energia dall’acqua attraverso due grandi ruote a pale, una collegata ai ruotismi delle mole e di una sega circolare, la seconda ad un enorme maglio.
Un terzo impianto idrico con un complicato quanto semplice principio a sifone forniva un violento soffio d’aria per alimentare la forgia, che in antico serviva anche per fondere i materiali ferrosi provenienti da Valnegra.
Il pezzo forte era senz’altro il maglio, che la leggenda fa risalire a tempi lontanissimi. Si componeva di un forte albero di grosso fusto, lungo circa due metri, che a un terzo della lunghezza portava un anello “claudicante” con due perni che la Bibbia descrive fedelmente chiamandolo “boga”.
Nella parte anteriore il blocco di ferro, dalla caratteristica forma a testa d’asino, che batteva su un piedistallo anch’esso in ferro. Dietro il maglio terminava in una rastrematura che in posizione di riposo appoggiava su delle sporgenze metalliche infisse in un grosso albero posto trasversalmente, direttamente collegato con la ruota ad acqua. Quando questo secondo albero cominciava a ruotare le sporgenze sollevavano la testa del maglio lasciandola poi sfuggire. A seconda della quantità d’acqua che veniva rovesciata sulle pale della ruota si determinava la velocità di battuta del maglio, non la potenza, che era sempre uguale.
Il cupo e rapido battito del pesante maglio era un suono caratteristico e inimitabile. Ad ogni colpo le vecchie pietre vibravano (2).
IL MAGLIO OGGI
Se fino a qualche decennio fa, il maglio e i suoi dintorni erano caratterizzati dalla presenza di manufatti che evidenziavano l’utilizzo continuo della fucina, dopo la cessazione delle attività si sono verificati deterioramenti e atti vandalici, sia alle attrezzature che all’edificio stesso.
Oggi, come mostrato dalle immagini, il caseggiato che per secoli ha ospitato il maglio di Clanezzo è completamente rovinato e abbandonato: tutti i precedenti tentativi di preservare questa importante realtà storica sono stati inefficaci; il comune non può intervenire perché l’immobile è di proprietà privata e un recupero pare improbabile. Immutata è invece la suggestione del luogo.
LE ORIGINI DEL MAGLIO
L’edificio del maglio, con le sue grosse pietre squadrate ha un’origine molto antica, risalente al XIII secolo: la fucina infatti era stata impiantata in una costruzione precedentemente utilizzata come mulino, come si evince da un un documento del 1296, redatto nel periodo in cui il latifondo di Clanezzo era appannaggio del vescovo di Bergamo (3).
La lavorazione del ferro ebbe invece inizio nel 1548 ad opera di Magistrum Alexandrum Venturini di Villa d’Ogna, come si evince da un documento rivenuto presso l’Archivio di Stato di Bergamo (4), nel quale si legge che l’edificio necessitava già di tante cure manutentive.
A quei tempi il proprietario del maglio era Gian Giacomo Buscoloni, figlio di quel Bernardino, originario di Almenno, che nel 1539 aveva acquistato la tenuta di Clanezzo dall’Istituto della Pietà (quest’ultimo, l’aveva venduta per le gravi difficoltà economiche causate dalle guerre del Cinquecento). Gian Giacomo subentrava al padre nella conduzione degli affari e con ogni probabilità si districava bene in quanto riuscì ad acquistare nuove terre nel circondario. Egli, il 28 giugno del 1551 aveva ottenuto con decreto ducale il privilegio dell’esenzione dal dazio per la condotta del ferro crudo, di rottami, scaglie e carboni. I dazi per il ferro infatti erano così alti che molti abbandonavano la professione, ed essendo la montagna molto povera, dovevano lasciare le terre ed emigrare nel Milanese (5) .
CARLO CAMOZZI, PRODUTTORE DI CANNONI
Ma fu nel Settecento che dalla fucina di Clanezzo uscirono armi in gran quantità, che venivano trasportate a Venezia per essere utilizzate per la difesa di terra e per armare le navi della flotta. Oltre alle armi, la fucina produceva anche molto ferro lavorato.
A produrre le armi per conto di Venezia era Carlo Camozzi di Bordogna (6), figlio di quel Marco che nel 1701 aveva preso in affitto, dal conte Leopardo Martinengo da Barco, la tenuta di Clanezzo, compresi il castello, il porto e l’edificio della fucina, cui era tenuto a provvedere, ad esclusione dei muri e del tetto.
Nel 1711 Carlo, da tempo instradato dalla sua famiglia nell’arte della lavorazione del ferro, aveva rilevato dal padre la gestione della fucina di Clanezzo e di quella di Strozza, avviando nel 1712 una fabbrica di cannoni a Lizzone, presso la Ventolosa di Villa d’Almè: numerosi atti notarili pubblicati nel libro di Diego e Osvaldo Gimondi (7), attestano che per decenni, nella fucina di Lizzone vennero fabbricati numerosi cannoni e rispettive munizioni per conto di Venezia – impegnata in quel periodo nella guerra contro il “nemico turco” -, e che nei periodi di scarsa produzione, Carlo Camozzi era autorizzato a fabbricare armi anche per il Ducato di Milano (8).
Data la cospicua ed eccellente produzione, alla fonderia della Ventolosa (9) si attribuì una forte rilevanza militare, ma d’altro canto non mancano testimonianze che attestano una vivace attività anche presso il maglio di Clanezzo, dove, se dobbiamo credere alle parole di G. Rosa, la produzione di cannoni e di proiettili era iniziata nel 1706 (10), ed era ancora in atto nel 1749, nel periodo in cui anche la fabbrica di armi di Gromo produceva spade e altre armi da punta e taglio, come risulta dalle relazioni inviate a Venezia dai Rettori (11).
Anche l’abate G. Battista Angelini, nativo di Strozza, dove risiedette nel periodo dell’attività svolta dal Camozzi, nella sua celebre opera “Bergamo descritta a mosaico”, descrisse in versi la fucina di Clanezzo. Dalla sua opera apprendiamo che la fucina produceva molto ferro che, in verghe, piastre e cerchi veniva venduto alla fiera di Almenno, e che la fabbricazione di armi era molto fruttuosa, considerati i continui venti di guerra che spazzavano la Repubblica.
Dalla fucina uscivano palle da bombarde, colubrine e cannoni (12), di cui l’Angelini descrive i passaggi che della fusione portano allo stampaggio e alla successiva prova del fuoco.
Prima di essere venduti, i pezzi venivano collaudati sul posto, quindi per la valle spesso si udivano i rimbombi prodotti dagli scoppi: “Di palle da bombarde, e colubrine/Si fa qui sotto ‘l getto, e ‘l getto de cannoni”. Solo uno dei tanti operai rimase vittima durante questi esperimenti (13).
OLTRE ALLE ARMI, LA PIETRA FOCAIA
Nel territorio di Ubiale, polo di monte dell’attuale comune di Ubiale Clanezzo, si cavava tra l’altro una pietra utilizzata come focaia, che battendola faceva spruzzi e faville. Veniva venduta alla fiera a caro prezzo, perché era pregevole e si poteva paragonare alla pietra di Calcedonia: nelle case serviva da “accendino”, ma era molto usata anche in ambito militare perché perfetta per l’archibugio, un antenato del fucile con il quale si procedeva allo sparo con l’ausilio di un acciarino composto da un pezzo d’acciaio e da una pietra focaia (14).
Una pietra simile, era il quarzo estratto ad Ubiale fino agli anni Sessanta, che doveva trovarsi nei pressi della vecchia cava in località Coste, ora ricoperta da una fitta vegetazione (la tramoggia è ancora visibile lungo la strada che porta ai ponti di Sedrina).
DOVE SI TROVA L’EDIFICIO DEL MAGLIO
Il maglio non è facile da scoprire. Si trova sotto l’antico Castello di Clanezzo, in una stretta valletta là dove l’Imagna disegna un’ansa. Vi si accede seguendo il sentiero che conduce alla Centrale elettrica, svoltando però a sinistra anziché proseguire la discesa. Ed è sulla riva sinistra del torrente che, quando gli alberi sono spogli, si può scorgere un grosso caseggiato solitario: è l’antichissima fucina di Clanezzo.
Per raggiungerla bisogna costeggiare parte del muro di cinta del Castello e proseguire per la chiesa e via S Gottardo, da dove, svoltando a sinistra per via Marconi, si incontra un lungo ed antico edificio adibito ad abitazioni.
Oltrepassato il caseggiato si svolta nuovamente a sinistra per via della Centrale: qui la strada lascia il posto ad una sterrata, attrezzata con guardrail, che scende fino alla valletta dell’Imagna e che consente di avvistare in lontananza la dismessa Centrale elettrica di Clanezzo.
Mantenendosi sulla sponda sinistra del torrente, in parte scavato tra le falde della roccia, in pochi minuti si arriva alla vecchia Centrale, da tempo in disuso, e costeggiando il muro di cinta dell’edificio si raggiunge il punto di captazione dell’acqua dell’antico canale che indirizzava le acque del torrente Imagna alla grande fucina del ferro.
Per vedere quel che ne rimane, arrivati al cancello della centrale anziché proseguire in discesa si procede a sinistra su uno stretto sentiero e in pochi minuti si arriva alla costruzione, in completo abbandono: ormai ridotto ad un edificio decadente e quasi diroccato, col tempo verrà invaso dalla vegetazione. La prudenza consiglia a chiunque volesse recarsi sul posto di tenersi a debita distanza dall’edificio, che racchiude fra le sue mura la bellezza di oltre sette secoli di storia.
Note
(1) La documentazione fotografica conservata dal “Museo delle Storie di Bergamo nell’Archivio Fotografico Sestini”, abbraccia invece un arco di tempo che va dal 1960 al 2000. La collezione è stata resa possibile soprattutto grazie alle fotografie di grandi artisti e fotoreporter contemporanei come Pepi Merisio (1931-2021), Pier Achille Terzi, detto Tito (1936-2010), ed altri. Nei loro scatti, questi grandi fotografi sono riusciti a catturare suggestive pagine di storia, che altrimenti sarebbero andate perdute.
(2) Per la descrizione dell’itinerario e della fucina, Paolo Impellizzeri e Marco Antonio Solari per il Giornale di Bergamo del 5 novembre 1967.
(3) Un documento del 1296 riporta che un certo “Cagniginus de clenezio de brembilla” pagava già allora al vescovo di Bergamo, Giovanni di Scanzo, un fitto per poter condurre ad una casa vicina all’Imagna acqua “…sufficintem tribus rotis molendinorum”, cioè sufficiente per azionare tre ruote da molino (Umberto Gamba, “Ubiale Clanezzo. Storia di una comunità”. Ferrari Editrice, Anno 2000).
(4) Cinzia Gamba, Stefania Mauri, Tesi di Laurea dal titolo: I magli nella Bergamasca: L’esempio di Clanezzo. Anno accademico 1995/96. Contiene notizie dettagliate sul maglio di Clanezzo e sulla lavorazione del ferro nella bergamasca. Presso l’Archivio di Stato di Bergamo gli architetti Cinzia Gamba e Stefania Mauri hanno trovato un documento riguardante la disputa sorta tra il proprietario del luogo (il Buscoloni) e il Magistrum Alexandrum Venturini di Villa d’Ogna, magliaro, redatto dal notaio A. Rescanzi in data 23 novembre 1548. Il Venturini chiedeva la riduzione delle spese di affitto quantificate in duecento lire imperiali, perché aveva dovuto sostenere le spese di manutenzione dell’edificio (U. Gamba, op. cit.).
(5) Dalle relazioni dei rettori veneti emerge che il ferro della Val Brembilla veniva portato nel Milanese, facendo diminuire guadagni, lavoro e numero delle maestranze: la popolazione si trasferiva quindi in altri stati per procurarsi il vitto. Alla metà del ‘700, la concorrenza delle miniere scoperte nel Milanese e nel Piemontese aveva procurato un grave danno alla debole economia locale. Vent’anni dopo il prodotto del ferro non è più abbondante, non per deficienza di vene, ma per il costo dell’estrazione. Nel 1787 il capitano e vice podestà Bartolomeo Mora sollecita il Senato affinché ridia vitalità alla produzione di ferro nei forni, i quali sono chiusi o lavorano al minimo; fa presente che per far funzionare un forno (escavazione, trasporto, carbone e fusione), lavorano circa 300 persone e in una fucina al massimo 8, perciò non si deve favorire l’importazione di ferro, ma bisogna farlo produrre nella valle (U. Gamba, op. cit.).
(6) Originaria di Bordogna, in alta Valle Brembana, la famiglia Camozzi si occupava da tempo di metallurgia e fu una delle ultime ad operare con grande risonanza sul territorio brembano. Tale famiglia nel XVII secolo ramifica la sua discendenza in Valle Imagna, precisamente a Strozza, trasferendosi in seguito a Clanezzo, dove nel 1701 Marco Camozzi, con i figli Carlo e Gabriele, prende in affitto dal conte Leopardo Martinengo da Barco, per nove anni, la tenuta di Clanezzo, risiedendo probabilmente nel palazzo (il suddetto contratto di locazione sarà ripetuto con Carlo Camozzi nel 1724). Nel 1702, Marco gestisce, oltre la fucina di Clenezzo, anche quella di Strozza (Diego e Osvaldo Gimondi, “Villa d’Almè – dal Settecento al secondo dopoguerra”. Ferrari Editrice, Clusone, 1998, pagg. 31 e segg.).
(7) Nel corso del secolo la Serenissima, alla necessità di armamenti nuovi da impiegarsi contro i turchi, non trovando adeguata risposta dalle fonderie bresciane che affrontavano un momento di grave crisi, induce i governanti veneti a rivolgersi a Carlo Camozzi, il quale nel 1712 propone alla Serenissima la creazione di un nuovo impianto di forni e uno schema di contratto attraverso il quale si impegna a consegnare, annualmente, per dodici anni, quaranta cannoni di diverso calibro e rispettive munizioni. Nel giugno del 1712 Carlo avvia la sua fabbrica di cannoni, trasferendo la sua dimora a Lizzone. Si legge nel testo che “Il ritrovamento di un ingente numero di documenti notarili ci testimonia senza alcun dubbio che, contrariamente a quanto sino ad oggi affermato…il loco della Fondaria de canoni del signor Carlo Camozzi, era “posta di là dal Brembo Comune d’Almenno Santo Salvatore distretto di Bergamo. Si tratta di quella fascia di terreno sulla sinistra del fiume chiamata Lizzo, o Lizzone che, proprio con l’installazione della fabbrica di cannoni prese il nome di Fonderia….”, dove Carlo trasferì la propria dimora e dove risulta abitare ancora nel 1735. Egli, prima di dedicarsi alla produzione di cannoni, era stato occupato in qualità di maestro presso la fonderia di Tiburzio Bailo (D. e O. Gimondi, op. cit.) a Sarezzo, in Val Trompia (BS), il primo fornitore nazionale di cannoni in ferro e rispettivi proiettili per il naviglio della Repubblica di Venezia, “per la quale produsse più di 470 cannoni tra il 1689 ed il 1702” (…) “Venezia trovò un nuovo fornitore in Carlo Camozzi dopo un tentativo fallito di realizzare i cannoni in ferro direttamente nel proprio Arsenale (1718-1719)”. Carlo Camozzi “creò una nuova industria a Clanezzo nel bergamasco, attiva dal 1722 ai primi anni Quaranta del Settecento” (Cannone veneziano da 40 libbre (sottili)). Le alterne vicende belliche alternate ad anni di lunghe tregue, segnarono il declino del Bailo, che alla ripresa delle ostilità turche si trovarono nell’impossibilità di fornire i cannoni, in quanto i fabbricati erano andati in rovina, i forni smantellati e la Serenissima non intendeva finanziare un ripristino oneroso. Il momento fu propizio al Camozzi, che nel 1712 decise di mettersi in proprio, proponendo a Venezia la costruzione di un forno nella zona pianeggiante fra Clanezzo e Oltre Brembo (come era chiamata la località Fonderia fino al 1884). I cannoni del Camozzi erano in ferro fuso ed avevano il notevole vantaggio di avere un costo inferiore a quelli di bronzo. Nel 1714, dopo il collaudo favorevole dei primi esemplari, Venezia ordinò quaranta cannoni all’anno per dodici anni a cui fecero seguito negli anni successivi altre commesse per centinaia di pezzi per una quantità totale di oltre 1900 cannoni di vario calibro (da Villa d’Almè informa. Notiziario del Comune di Villa d’Almè. Anno 3. Giugno 2021. N. 6).
(8) Ciò avvenne anche nel 1727, dopo che Venezia raggiunse una certa stabilità in terraferma e dopo la sconfitta di Morea, con la quale i Turchi non rappresentavano più una minaccia sul mare (D. e O. Gimondi, op. cit.).
(9) Un atto notarile, in cui si allude ad una “compagnia vecchia della fonderia”, fa intendere che nel 1730 nella proprietà siano intervenuti dei cambiamenti e cioè che sia cambiata la ragione sociale (anche se un documento relativo a una deliberazione del governo veneziano in cui vengono ordinati duecento cannoni di ferro in Bergamasca, lascia intendere che nel 1736 i Camozzi risultano essere i “Partitanti” della nuova “ditta”). Negli anni seguenti le notizie sono sempre più rare. La fabbrica dei cannoni alla Ventolosa era ancora in piena attività nel 1742. Non è dato di sapere quando La fonderia finì di adempiere alle sue originarie funzioni. “Il Belotti afferma che il grande impianto dove si producevano i cannoni per Venezia, successivamente non ebbe fortuna e rimase quasi inattivo, riducendosi alla semplice produzione di falci”. Dei Camozzi, come si apprende da una Ducale del 1736, “conosciamo la nuova destinazione: Bergamo. Carlo, lasciata l’incombenza ai figli che erano divenuti a loro volta ‘maestri’ della fonderia, morì, cosa che non possiamo confermare, verso il 1767”. “Con la fine della produzione dei cannoni presso la fonderia del Lizzone, l’industria metallurgica andò segnando il passo, trascinando con sé anche quella mineraria che, grazie appunto alla fonderia, per oltre mezzo secolo, aveva permesso la sopravvivenza di molte miniere della valle” (D. e O. Gimondi, op. Cit.). Altrove si legge che gli ordini si esaurirono nel 1743, quando Venezia non era più minacciata dal pericolo turco (da Villa d’Almè informa, op. cit.).
(10) G. Rosa, Notizie statistiche della Provincia di Bergamo in ordine storico., pag. 133. Tip. Pagnoncelli 1858 Bergamo. Nel testo si legge che la Serenissima “…soccorse alla decadenza di nostra metallurgia, aprendo nel 1605 una fonderia di cannoni e di proiettili a Brescia, nel 1706 altra simile a Ventolosa e Clanezzo presso Bergamo e di proprietà Camozzi, nel 1776 un’altra a Castro presso Lovere”. Ma da quanto osservato sinora, in base agli atti notarili consultati dali fratelli Gimondi (op. cit.), per la Ventolosa la produzione dei cannoni si avvia dal giugno del 1712. Altrove si legge invece che Carlo Camozzi “creò una nuova industria a Clanezzo nel bergamasco, attiva dal 1722 ai primi anni Quaranta del Settecento” (Cannone veneziano da 40 libbre (sottili)).
(11) Il Lanfranchi” (Giacinto Lanfranchi, “I cannoni di Bergamo hanno allontanato il turco dall’Europa”. Atti dell’Ateneo (in), vol. XXX, anno 1957/59) scrive che ‘Venezia, nel 1721, al 22 giugno, ordina “al Camozzi mortai da 40 che non erano urgenti perché solo il 22 febbraio dell’anno seguente, inviò a Clanezzo, i disegni dei letti per montarli” e che “Dopo questa fornitura, la fonderia ebbe parecchi mesi di arresto con grave danno per il Camozzi obbligato a tenere la maestranza inoperosa”. E’ di questo periodo (1721) “il riconoscimento, a motivo della bontà delle armi prodotte a Lizzone, che Venezia concesse al Camozzi, il diritto di collaudare i suoi pezzi sul posto” (D. e O. Gimondi, op. Cit.). Umberto Gamba cita invece le relazioni dei rettori veneti Alvise Contarini e Nicolò Erizzo. Nella relazione del rettore veneto Alvise Contarini II, del 10 giugno 1749 si legge che nel territorio della provincia, oltre alle altre fucine, vi è la fabbrica di armi di Gromo che “….produce spade et altre armi da punta e taglio militari e la fondaria dell’artiglieria situata in Claneso…”, mentre Nella relazione del rettore veneto Nicolò Erizzo, del 20 dicembre 1754, è scritto che nel territorio vi sono 45 fucine e 9 forni nella valle di Scalve e Brembana e 28 nella Valle Seriana, in più la fonderia delle artiglierie che esiste in “Clenezzo” (Istituto di Storia Economica dell’Università di Trieste, Relazione dei Rettori veneti in terraferma XII Podesteria e Capitanato di Bergamo, Vol. XII, 1978, rispettivamente pag. 685 e pag. 718. In U. Gamba, op. Cit.)
(12) Le bombarde, già conosciute dal 1300 e diffusesi nel 1400, erano formate da due tubi di ferro coassiali, uno grosso che conteneva il proiettile, in genere una palla di pietra, e l’altro più stretto, dove veniva messa la carica. Modificato in seguito il disegno e perfezionato il funzionamento, nel XV secolo presero il nome di cannoni. Le colubrine comparvero più tardi. Lunghe e strette, all’inizio si portavano a mano, in seguito vennero montate su di un affusto. Avevano questo nome, perché le prime prodotte rappresentavano sull’altorilievo di volata un sepente (colubro). Anch’esse in seguito vennero sostituite dai cannoni, più efficienti e potenti (U. Gamba, op. cit.).
(13) Vincenzo Marchetti (a cura), “Angelini Giovanni Battista erudito bergamasco del Settecento”. Quaderni del centro documentazione beni culturali IV, Ferrari Grafiche, Clusone 1991, pagg. 95 e 96.
(14) V. Marchetti o.c. pagg. 96 e 97.
Riferimenti principali
Umberto Gamba, “Ubiale Clanezzo. Storia di una comunità”. Ferrari Editrice, Anno 2000.
D. e O. Gimondi, “Villa d’Almè – dal Settecento al secondo dopoguerra”. Ferrari Editrice, Clusone, 1998, pagg. 31 e segg.
Nota alle immagini
Le fotografie relative al reportage realizzato da Pepi Merisio negli anni 1965/’66, sono di proprietà dell’Ente AESS (Archivio di Etnografia e Storia Sociale della Regione Lombardia), che ne conserva le copie digitali.
Le fotografie recenti, relative agli anni 2018 e 2024, sono realizzate da Maurizio Scalvini.
Antico borgo medievale all’inizio della Valle Brembana, a 16 km da Bergamo, in uno spazio che sta tutto in una mano Clanezzo conserva una nutrita serie di testimonianze storiche, che nulla ha da invidiare ai borghi blasonati della Bergamasca. In questo minuscolo angolo, adagiato su un terrazzo fluviale all’ombra del monte Ubione, affacciato su una forra che si specchia in acque smeraldine, si concentrano oltre mille anni di storia, che val la pena raccontare.
Se il castello e l’antichissimo ponte di Attone ci catapultano repentinamente nell’alto Medioevo, qualche secolo dopo, quello stesso castello ci riporta all’aspra contesa tra guelfi e ghibellini, quando, accoccolato sul dirupo alla confluenza dell’Imagna, scrutava il nemico avanzare sul millenario ponte ad arco che scavalca il torrente. Ma qui c’era anche un traghetto a fune tesa che faceva la spola tra le due sponde del Brembo – simile a quello di Imbersago e a quello un tempo in uso a S. Pellegrino -, che giustifica la presenza dei caratteristici edifici del Porto e, sull’altra sponda, del “Casino”: un grosso caseggiato in pietra ancora ben visibile a Villa d’Almè, sullo stradone che immette in Val Brembana. Il periodo della dominazione veneziana è invece ben rappresentato dalla Dogana e dal maglio.
Una manciata di edifici e di strutture accomunati da un unico denominatore: la particolare posizione del sito alla confluenza delle valli Brembilla, Imagna e Brembana – là dove l’Imagna si getta nel Brembo -, che ha fatto di Clanezzo terra di confine: a destra della vallata con gli Almenni (a loro volta terra di confine: Lemine, dal latino “ad limina”, “la soglia per”), con il torrente Imagna a segnare nettamente i confini; a sinistra, con il torrente Brembilla; di fronte, sulla riva opposta del Brembo, con la Valle Brembana, e, alle spalle, con il pendio della montagna.
Lasciata dunque la strada della Valle Imagna e oltrepassato il ponte novecentesco, ci si ritrova nell’incantevole fiordo che si annuncia con il placido gorgoglio delle sue acque: la mulattiera acciottolata che fronteggia il castello si abbassa con ampi tornanti tra la vegetazione, lasciando alle spalle i rumori della strada per inoltrarsi nel cuore del nucleo storico del borgo, all’interno di un microcosmo che ancora conserva la sua unicità.
La nostra storia potrebbe cominciare dal millenario ponte in pietra affacciato sull’Imagna, che incontriamo lungo la via gradinata protesa verso il Porto. Ma sarebbe riduttivo, perché grazie alla particolare posizione geografica del sito, naturalmente difeso, Clanezzo fu frequentato sin dalla preistoria, come testimoniano i ritrovamenti che ne fanno un “giacimento” preistorico ed antropologico di enorme interesse per gli studiosi della materia.
Le frequentazioni si infittirono con l’arrivo dei Romani grazie alla vicinanza con Almenno (l’antica Lemine), divenuto il principale centro politico-amministrativo della zona grazie alla presenza di una importante via militare che collegava Bergamo con Como e grazie alla presenza di un pontemonumentale sul Brembo (il cosiddetto “Ponte della Regina”), eretto per il passaggio di truppe, uomini e merci.
Intorno al ponte, divenuto presto un importante crocevia di traffici, convergevano numerose strade, lungo le quali sorsero villaggi, ville, luoghi di culto. Strade che avevano al loro centro Almenno, dove sorgeva una CORTE posseduta personalmente dall’imperatore romano e che fungeva da luogo di controllo civile, militare ed economico di larga parte del territorio circostante.
Fin dall’epoca romana dunque, l’importante centro di Almenno esercitò il potere politico sulle zone circostanti, compreso Clanezzo (1), che con la vicina Ubiale fu pertinenza di Almenno fino al XIII secolo, subendone l’influsso almeno sino a che non si instaurò a Bergamo la dominazione Veneziana.
L’importanza di Almenno si mantenne anche in seguito alla decadenza dell’impero romano e alle invasioni barbariche, quando i Longobardi vi insediarono una Corte Regia (2).
In seguito Almenno passò nelle mani di nuovi signori, divenendo dapprima Corte Franca (3), per poi entrare a far parte, dall’892 al 975, della contea di Lecco: ed è a questo punto che viene a stabilirsi un legame più stretto tra Lemine e Clanezzo, dal momento che il conte Attone di Guiberto (957- 20 giugno 975), ultimo dei Conti di Lecco a possedere la Corte di Almenno, fa edificare verso la fine del X secolo il cosiddetto Ponte di Attone, il bellissimo ponte in pietra sull’Imagna, che unisce Almenno con Clanezzo e che per secoli costituirà l’unica via di accesso alla Valle Brembana.
Il Ponte di Attone è documentato solo dal 1235, ma un collegamento tra Almenno e il territorio sulla riva destra del Brembo doveva esistere già da secoli, in quanto il vasto comprensorio territoriale della Corte Regia di Almenno, prima Longobarda e poi Franca, si estendeva fino a Brembilla, Zogno e Sedrina, per raggiungere i quali era necessario superare l’Imagna a Clanezzo – cosa che doveva avvenire mediante passerelle fatte di tronchi d’albero o di cordame -, quindi percorrere la cavalcatoria che portava ad Ubiale, dove il torrente Brembilla poteva essere superato facilmente a guado.
Anche la gola di Sedrina, dove un ponte è documentato solo nel 1178, poteva essere superata tramite una rudimentale passerella: era, questo, il passaggio obbligato per andare da Almenno a Brembilla o a Zogno, dove alcuni terreni erano ancora di proprietà della Corte Signorile di Almè agli inizi del 1100. Non a caso infatti, il ponte in pietra di Attone e quello di Zogno presso Sedrina sono i primi ponti della Valle Brembana a essere citati nella Storia (4).
La valletta di Clanezzo per le sue caratteristiche era una fortezza: a oriente la difendeva il Brembo, a mezzogiorno il solco dell’Imagna, a settentrione una catena di monti, oltre al fatto che la sua particolare posizione, alla confluenza delle valli Brembilla, Imagna e Brembana, ne faceva un caposaldo altamente strategico per le comunicazioni tra l’Agro di Almenno e le Valli e per il controllo militare di tutta l’area.
IL CASTELLO DI CLANEZZO E LA ROCCA SULL’UBIONE
Vuole la tradizione che nel contempo Attone, che non si sentiva sicuro nella roccaforte di Almenno, provvedesse a realizzare un sistema difensivo facendo erigere, sui bordi del pianoro di Clanezzo, un Castello protetto da un profondo dirupo.
Forse per timore o preveggenza, Attone ordinò anche che gli costruissero una rocca sul monte Ubione – che controllava l’accesso alla Valle Imagna -, allo scopo di prevenire e di contrastare qualunque assalto dalla pianura o dalle montagne: il ponte fatto costruire da Attone, conte di Lecco e di Almenno, avrebbe quindi consentito una via di comunicazione privilegiata con la fortezza di Clanezzo.
Dagli storici padre Donato Calvi e l’abate Gian Battista Angelini apprendiamo che quando morì, nel 975, essendogli mancato il figlio Guidone, Attone donò la Corte di Almenno al vescovo di Bergamo Reginfredo e il possesso ai vescovi venne più volte riconfermato in atti successivi (anni 1014 e 1046). Da atti firmati nella corte stessa, si ricava che anche i Vescovi vi risiedevano e forse è per questo che nel suo territorio si trovano le tre chiese di S. Tomé, della Madonna del Castello (chiesa plebana) e di S. Giorgio, risalenti al dominio vescovile.
Il vasto feudo della Corte di Almenno rimase in possesso dell’Episcopato di Bergamo fino al 3 marzo 1220, quando i dritti feudali passarono al nascente Comune: la rocca sull’Ubione aveva assunto una tale importanza per il controllo del territorio, che il vescovo di Bergamo, dopo una lunga controversia con il comune di Almenno, cedette alcuni diritti al comune ma riservò per sé il monte Ubione con la sua rocca (4).
LE SANGUINOSE LOTTE TRA GUELFI E GHIBELLINI
Dalla metà del 1300 fino ai primi decenni del 1400 il territorio bergamasco fu teatro di acerrime lotte fratricide delle opposte fazioni di guelfi (che parteggiavano per Venezia) e ghibellini (sostenitori dei Visconti di Milano) (5), che si scontrarono aspramente nelle nostre valli (6).
Più che di una scelta ideologica verso il Papa o l’Imperatore, si trattava di faide familiari o alleanze trasversali che erano utilizzate per contendersi il potere e i favori dei Visconti milanesi, padroni della bergamasca: Bernabò in particolare, aveva dato carta bianca e l’impunità ai ghibellini, dando loro la libertà di uccidere qualunque guelfo e di bruciargli la casa (7). La sua signoria nei confronti nei nemici fu la più funesta, oppressiva e persecutrice: fu sua l’invenzione di fare uso dei cani non per difesa o guardia ma per assalire gli uomini.
Le lotte tra i vari paesi e le famiglie avvenivano spesso con razzie e distruzioni delle contrade, ad opera di manipoli di uomini che si spostavano sulle vie di comunicazione. Le strade erano sempre tracciate in alto, come del resto in alto erano le contrade principali, al riparo da possibili attacchi e più facilmente difendibili. I fondovalle erano poco frequentati, impervi e poco difendibili, oltre che luoghi ideali per assalti ed imboscate.
Erano così andate sorgendo, in punti strategici, avamposti a difesa delle valli, presidiati da piccole squadre di soldati ed anche la vetta del Canto Alto aveva il suo maniero.
A quei tempi Clanezzo faceva parte (insieme agli attuali comuni di Brembilla, Gerosa, Blello, Ubiale, Berbenno, Strozza e Capizzone) della Val Brembilla, (8), la roccaforte ghibellina, che non rassegnandosi all’avvento del nuovo regime Veneziano, era una vera e propria spina nel fianco per la Serenissima. Formavano una vasta enclave ghibellina intorno a Clanezzo anche la Val Taleggio, Sedrina, Stabello e la sezione meridionale della Valle Imagna, mentre di parte guelfa erano la Val S. Martino, con Gerosa ed Almenno superiore.
Tra i terribili brembillesi, spiccavano per importanza due potenti famiglie di antico lignaggio: quella dei Dalamasoni di Clanezzo (menzionata dal 1189) e quella dei Carminati di Ubiale (menzionata dal 1246), entrambe di fede ghibellina (9).
Alla famiglia Dalmasoni, che in quegli anni vide tra i suoi esponenti i terribili Beltramo e Unguerrando, apparteneva il Castello di Clanezzo, mentre l’ormai divenuto maniero del monte Ubione era di proprietà della famiglia Carminati, che, molto potente e amica ai Visconti, dal castello terrorizzava i guelfi dei paesi vicini. Isolato e minaccioso sul culmine del monte, a cavaliere delle due valli, appariva a chi lo contemplava da lontano come un inviolabile nido di umani avvoltoi, dal quale gli armigeri piombavano inaspettati e in cui riparavano con la preda.
Nelle “Effemeridi” del Calvi, al 31 gennaio del 1360 si ricorda che Bernabò vi manteneva un castellano, diciassette soldati e due cani, mentre le cronache del 1395 narrano l’uccisione di un balestriere ad opera dei guelfi d’Imagna.
A completare la difesa della Valle, rendendola pressoché inespugnabile, vi erano altri edifici dei Carminati – “la più honorata et più temuta famiglia di tutta la valle di Brembilla” -, come il Castello di Casa Eminente a Laxolo (così chiamato perché sorgeva su un alto poggio e identificabile con una costruzione in contrada Torre), ed altri caposaldi strategici per il controllo della zona tra la bassa Val Brembana e la Valle Imagna (come il Castello di Mortesina a Capizzone).
Forti di un maggior numero di uomini e fortificazioni, difesi dalla natura del luogo e legittimati dalla prepotenza dei Visconti, a lungo i temuti signori della Val Brembilla avevano sostenuto scontri con alcuni centri della Val Brembana inferiore e con con la Valle Imagna, dominando saldamente e commettendo impunemente sulle contrade nemiche le più crudeli rappresaglie, che si traducevano atti di inaudita ferocia elencati dalle cronache del tempo come “homicidi, percosse, ferite, incendii, rubarie, iniurie, villanie, adulterii, stupri, violentie, invasioni delle cose e delle terre, saccheggiamenti”.
Un episodio narra le terribili gesta del ghibellino Enguerrando Dalmasano (una recente storpiatura dei Dalmasoni), signore di Clanezzo e più potente avversario dei guelfi d’Imagna, il quale, ottenuta dai Carminati la fortezza sul monte Ubione, da quel luogo scendeva rovinoso con i suoi armigeri recando incendio e rovina nelle terre nemiche. Stanco di rappresaglie, l’agguerrito condottiero guelfo Pinamonte de Pellegrini da Capizzone, organizzò la rivolta. Era un giorno d’aprile del 1372. Enguerrando stava preparando scorrerie e saccheggi a Mazzoleni. Le spie di Pinamonte lo informarono di un movimento inusuale di militi armati sul monte Ubione. Sull’imbrunire si accesero i falò sulla vetta di Valnera, cui rispose un’altro sulle rupi di Bedulita e poi un altro sui macigni della Cornabusa. Erano segni convenzionali: tutta l’Imagna ne comprese il significato. Favoriti dalle tenebre i valdimagnini si radunarono e si nascosero in località Pasano vicino a Cepino, rimanendo in attesa del ritorno dei ghibellini dal sacco di Mazzoleni. Quando, verso mattina, i predatori fecero ritorno all’Ubione con il loro carico di vacche, pecore, derrate e masserizie, Pinamonte li attaccò veloce come una folgore: impreparati e sorpresi, i ghibellini subirono una rovinosa disfatta. Enguerrando Dalmasano a malapena poté sfuggire alla strage e rifugiarsi, umiliato e vinto, nella sua fortezza. Altri episodi si susseguirono, finché il ghibellino Enguerrando venne ucciso da Pinamonte. Beltramo, figlio di Enguerrando, riconquistò il maniero di Clanezzo imprigionandovi il Pinamonte, che lasciò a morire nelle prigioni del Castello.
La leggenda racconta che, fino alla fine del Concilio di Trento, il fantasma di Pinamonte tornò, ogni anno alla mezzanotte del 20 marzo, nel castello dell’odiato nemico. Poi i guelfi ritornarono in massa a scacciare i ghibellini ma questi, serrate le fila, rioccuparono Clanezzo attestandosi saldamente alla rocca di Ubione e a Cà Eminente.
Attorno al Castello di Clanezzo fiorirono ferali leggende, che narravano di orribili e cruenti prodigi di cui famoso è quello dei serpenti. Si racconta che, durante un prolungato assedio, gli assalitori catturarono centinaia di serpenti, che, chiusi in sacchi di pelle e in fasci di erbe, introdussero nel castello attraverso le feritoie, complice una notte senza luna. Ma i serpenti strisciarono fuori dal castello, mettendo in fuga ed uccidendo molti degli assalitori. Nella valle si diffuse la voce che i ghibellini avessero tanto veleno in corpo, che le vipere stesse avevano preferito fuggire, nel timore di rimanere esse stesse uccise avvelenate (10).
LA CACCIATA DEI BREMBILLESI
La morte di Gian Galeazzo Visconti, avvenuta il 3 settembre del 1402, segnò una svolta importante nella storia delle nostre valli: il successore Giovanni Maria, debole e politicamente incerto, affidandosi a condottieri infidi permise che i vasti domini dello stato di Milano venissero sgretolati nel breve volgere di pochi anni e finissero in gran parte nelle mani di Venezia, che poteva garantire maggiore tranquillità e sicurezza interna (11).
Con l’avanzata dei Veneziani i Brembillesi furono tra i più tenaci oppositori al nuovo dominatore; le azioni scellerate culminarono in quello che le cronache ricordano come lo scontro più feroce avvenuto fra le due fazioni: quindici anni dopo l’occupazione del territorio bergamasco, Venezia non aveva ancora domato i bellicosi brembillesi. Un mattino, armati di tutto punto e sventolando i loro gonfaloni, gli uomini di Brembilla scesero a Bergamo e in atto di sfida sfilarono attorno alle mura della città lanciando insulti a Venezia ed inneggiando ai milanesi. Una spacconata o una intimidazione? Certo fu la goccia che fece traboccare il vaso. Prontamente riferita al governo della città lagunare, la bravata fu stigmatizzata dal Senato, che dettò precise istruzioni affinché la beffarda resistenza fosse stroncata una volta per tutte. Non osando affrontare i brembillesi nella loro valle, munita di imprendibili fortezze, Venezia ricorse ad uno stratagemma: invitò a Bergamo i capi di tutti i più importanti paesi della provincia per dirimere eventuali questioni confinarie. In realtà il convegno permise di arrestare facilmente i capi brembillesi, caduti nel tranello.
Con deliberazione del 19 gennaio 1443 fu quindi decretata la messa al bando (esilio) di tutti gli abitanti della Val Brembilla e stabilito che entro tre giorni tutte le persone sgombrassero con le loro cose andando ad abitare dove credessero, purché non vi entrassero più per i successivi cento anni. Chi fosse restato o fosse rientrato sarebbe stato immediatamente ucciso. Nessuno vi restò all’infuori di qualche pastore, che continuò a condurre i suoi armenti nei boschi deserti.
Il Senato deliberò per la completa distruzione della valle. Le guarnigioni veneziane invasero il territorio e rasero al suolo, o danneggiarono, case e fortezze, danneggiando gravemente il Castello di Clanezzoed abbattendo dalle fondamenta il Castello sulla cima del Monte Ubione: dell’originaria struttura a forma di quadrilatero con l’alta torre non ne rimasero che rovine, che vennero scoperte quattro secoli dopo.
La decisione diede vita a una diaspora – nota alle cronache come “Cacciata dei Brembillesi” – che vide gli abitanti originari spargersi a Treviglio, a Covo, Antegnate, Lodi o nella Gera d’Adda, ma soprattutto nel milanese, dove il Duca Filippo Maria Visconti fu prodigo di privilegi e concessioni e dove si diffusero in gran numero i cognomi Brembilla, poi Brambilla (12). Molto probabilmente la cacciata dei Brembillesi diede il colpo di grazia alle ultime speranze dei ghibellini.
Anche l’antica Corte Regia di Almenno fu completamente cancellata, soprattutto dalla distruzione sistematica della Lemine Inferiore, decretata in quell’anno dal podestà di Bergamo Andrea Gritti, come rappresaglia veneta contro il caposaldo ghibellino.
I PROPRIETARI DELLA TENUTA DI CLANEZZO
Stroncata energicamente la resistenza ghibellina, la terra di Clanezzo venne ascritta al fisco di Venezia, che nel 1485 la cedette all’Istituto di Pietà Bartolomeo Colleoni. Il Castello fu col tempo trasformato in una sontuosa villa, dove si avvicendarono nei secoli alcune famiglie benestanti contornandosi di musica, letterati e intellettuali (13). Trovandosi in gravi condizioni economiche dopo le guerre del Cinquecento, l’Istituto di Pietà deliberò nel 1539 di venderla a Bernardino Buscoloni, originario di Almenno: uno degli eredi di Bernardino, il figlio Gian Giacomo, fu il primo proprietario del maglio di Clanezzo, che entrò in funzione nel 1548 ad opera di Magistrum Alexandrum Venturini di Villa d’Ogna.
Dopo i Buscoloni la proprietà passò ai Furietti ed in seguito ai Conti Martinengo da Barco, che pur risiedendo a Brescia fecero il possibile per venire incontro ai bisogni dei pochi abitanti del luogo. Furono costoro a far edificare nel 1786 la nuova chiesa di Clanezzo, che pare sia sorta circa quattro secoli prima come cappella gentilizia, ad uso dei nobili proprietari del castello e che fosse già intitolata a S. Gottardo, cui erano assai devoti gli imperatori germanici, a fianco dei quali si erano schierati i ghibellini.
Nel 1804 la tenuta di Clanezzo (che si estendeva da Clanezzo fino alla Mortesina e da Ubiale fino al “Casino” a Villa d’Almè), venne venduta ai fratelli Egidio e Luigi Beltrami, la cui famiglia rivestì un ruolo importante nella vita politica della comunità, ricoprendo cariche locali (14). Recuperarono il “podere” e ridiedero prestigio al castello e per magnificarne la storia adornarono il giardino di silenziosi recessi, di vere o supposte antiche rovine e di commosse iscrizioni.
Autore di molte modifiche fu Paolo Beltrami (1792-1853), con il quale la residenza perse via via l’aspetto di castello per trasformarsi in un palazzotto, ulteriormente abbellito dal figlio Vincenzo, primo sindaco del comune di Clanezzo nel 1863. Nel cimitero di Clanezzo è presente la cappella fatta costruire da Paolo Beltrami per custodire i resti suoi e della sua famiglia.
Dal libri dei Visitatori del castello (15) apprendiamo che i Beltrami furono onorati nel 1837 dalla presenza di Massimo d’Azeglio (che fra l’altro ritrasse la Valle Brembana in alcuni suoi dipinti), del maestro Giuseppe Verdi, all’apice della fama, dell’Arciduca Ranieri Giuseppe d’Asburgo, viceré del Regno Lombardo–Veneto, il quale, essendovi capitato proprio nel 1848, nei giorni cruciali delle insurrezioni antiaustriache, dovette far precipitosamente fagotto per non cadere in mano ai rivoltosi.
Nel 1885 la proprietà passò ai conti Roncalli, che specialmente nel Settecento e nell’Ottocento ebbero un ruolo importante nelle vicende storiche bergamasche. Essi vivevano nei loro palazzi in Città Alta e venivano a Clanezzo saltuariamente, per trascorrere qualche giorno di vacanza e per amministrare il comune e i propri beni. Il fattore riscuoteva per i padroni gli affitti del pedaggio della passerella, del mulino, del maglio e delle terre, ossia, il più delle volte, ortaggi, castagne, legna, farina (16). Durante il suo mandato di sindaco, Giulio Roncalli si diede da fare per migliorare le condizioni del paese, impegnandosi nella realizzazione di strade, acquedotti e scuole. La nipote Maria è da ricordare principalmente per la costruzione, nel 1925, del ponte che collega Clanezzo con Almenno. I Roncalli mantennero il possesso della tenuta fino alla prima metà del Novecento.
COSA RESTA DEL VECCHIO CASTELLO DI CLANEZZO
Non sappiamo se il Castello conservi nei sotterranei i resti del vecchio maniero, ma parecchio resta ancora del tempo che fu in alcune strutture collaterali: i chioschetti cilindrici collocati lungo i sentieri che salgono dal basso, che dovevano essere torrette di guardia (una delle quali pare conservi armi bianche medievali), diventate covi di serpi utilizzate contro i nemici; certi passaggi scavati nel pendio sottostante l’abitato, probabilmente collegamenti con i sotterranei del castello più antico. Ora gli ingressi sono murati per impedire frequentazioni sgradite, ma un giorno si dovrà pure studiare a fondo anche questa situazione.
Sulla mulattiera acciottolata che conduce al Porto, si stacca a sinistra una stradina che conduce a un edificio incastrato nella roccia: sono le prigioni del Castello.
ATTIVITA’ LOCALI DURANTE IL DOMINIO VENETO E IL MAGLIO
Ritornata la pace nelle valli in seguito ai drastici provvedimenti del 1443, consapevole dell’importanza strategica di questo territorio, il governo Veneziano ne favorì lo sviluppo economico. Venezia si guardò bene dal distruggere il bellissimo ponte altomedioevale di Attone, che costituì per molti secoli l’unica via di accesso da e per la Valle Imagna e per l’accesso alla pianura.
Nella terra di Brembilla – ora chiamata Brembilla Vecchia -, nonostante le difficoltà conseguenti a tanti anni di guerre e carestie causate dalla peste degli anni 1503, 1527, 1630 (ricordata nella “Valle dei Morti”, a metà strada tra Clanezzo e Ubiale), nel Cinquecento e nel Seicento gli abitanti ottennero buoni risultati soprattutto nella coltivazione delle granaglie, ed è forse questo il motivo per cui sui fiumi del territorio vi erano addirittura dieci mulini.
Nella zona si sviluppò con successo anche l’attività estrattiva, documentata alla metà del Settecento dall’abate Angelini, che testimonia l’esistenza ad Ubiale di un filone di una pregiata pietra, che, molto simile al calcedonio, serviva da “accendino” nelle case ma era molto usata nel campo delle armi perché perfetta per l’archibugio. Egli testimonia inoltre la produzione di calce prodotta in fornaci molto rudimentali (ed ancor oggi prodotta in loco in modo industriale), mentre sulle pendici del monte Ubione si produceva una notevole quantità di carbone, attività che, insieme al taglio della legna, interessava la maggior parte della popolazione del comune all’inizio dell’800: Maironi da Ponte assicura che dai boschi di castagno si ricavavano frutti, legna da ardere e da opera, commercializzata lungo tutta la valle e il cui guadagno veniva dal taglio e dal trasporto. Il profitto era ad appannaggio dei soli proprietari dei boschi: a Clanezzo i Beltrami prima e i conti Roncalli poi, ad Ubiale e a Rota, gli Ascolti e pochi altri. Quando cominciò a scarseggiare il lavoro, molti carbonai Ubialesi decisero di emigrare in Canton Ticino, dove i bravi carbonai erano molto richiesti.
Una voce importante riguardò la lavorazione del ferro presso il maglio, l’antichissima fucina sull’Imagna funzionante dal 1548 e che dal Settecento, considerati i continui venti di guerra che spazzavano la Repubblica, fu una fiorente fabbrica di armi per conto di Venezia: il ferro vi veniva lavorato con grande abilità e perizia, tant’è che qui venivano forgiati numerosi proiettili e cannoni, che venivano trasportati a Venezia per essere utilizzati per la difesa di terra e per armare le navi della flotta. Il minerale di ferro proveniva dalle miniere situate nell’Alta Valle Brembana, mentre in Valle Seriana sorgeva nello stesso periodo la fabbrica di armi di Gromo, che produceva spade e altre armi da punta e da taglio.
MA PERCHE’ UNA DOGANA A CLANEZZO?
Anche nella bergamasca il Senato Veneto aveva disposto un sistema di riscossione collocando caselli presso tutti i ponti: sui fiumi Brembo, Serio, Oglio, Cherio e loro derivazioni, dove ogni persona che veniva nel distretto bergamasco doveva pagare in base alla provenienza, se a piedi o a cavallo, eccetto coloro che avevano il lasciapassare del Papa, dei Cardinali, delI’Imperatore, dei Duchi, dei Baroni e di altri Principi e di quanti erano “privilegiati dal Serenissimo Dominio”, così come di chi portava “Biava sopra il mercato”. C’era quindi il “dacio della semination del Guado” (pianta erbacea), il “dacio della Gratarola” (compravendita di animali), il “dacio del Pizzamantello” (legumi), il “dacio de’ banditi” (banditi dal territorio) e via dicendo.
IL PORTO FLUVIALE DI CLANEZZO
La posizione geografica di Clanezzo nel corso dei secoli ha notevolmente influenzato le attività e la vita sociale del paese. Isolato rispetto ai territori circostanti, l’abitato ha avuto bisogno di sviluppare comode e veloci vie di comunicazione ed in particolare i collegamenti con la sponda sinistra del Brembo, dove scorreva l’arteria commerciale della Valle Brembana.
Clanezzo era infatti da tempi remoti collegato con Almenno per l’accesso alla pianura e alla città, e con Ubiale per lo sbocco in valle, attraverso una scomoda mulattiera che allungava i tempi di percorrenza e rendeva disagevole il passaggio dei carri e il trasporto delle merci: basti pensare che da Ubiale la legna veniva portata a spalla nel deposito di Sedrina o verso Clanezzo.
Ancora non esisteva il ponte novecentesco sull’Imagna, come non esisteva il collegamento viario diretto tra Clanezzo, Bondo e Ubiale, completato soltanto pochi decenni fa sulla sponda orografica destra del fiume.
Anche con la costruzione della Strada Priula (1592-1594), realizzata dai Veneziani per unire il capoluogo all’alta Val Brembana e ai Grigioni svizzeri, la strada birocciabile per molti anni non arrivò che alle Chiavi della Botta, così chiamate per le grosse chiavi di ferro infisse nella roccia a sostenere lo spaventoso passo che superava le gole d’ingresso della Val Brembana e che venne allargato insieme alla strada solo nel 1827 dagli Austriaci. Nel frattempo dunque Clanezzesi ed Ubialesi per recarsi a Brembilla, a Sedrina e in alta Valle Brembana, continuavano ad utilizzare la vecchia mulattiera tra Clanezzo ed Ubiale, immettendosi nella Strada Priula nei pressi dei Ponti di Sedrina, dove un ponte esisteva già dal 1178.
La ristrettezza della strada, oggi corrispondente alla statale della Val Brembana, consentiva dunque il transito ai birocci solo fino alle Chiavi della Botta, dove nei pressi si trovava infatti il “Casino” (detto anche “stal” o ”stalù”), un grosso edificio cinquecentesco in pietra grezza – ancora esistente a Villa d’Almè -, di proprietà dei padroni di Clanezzo: vi sorgeva il vecchio magazzino di sosta dei carriaggicommercialie delle merci provenienti da Clanezzo o dirette a Clanezzo, con stalle per il ricovero e il cambio dei cavalli, vani per il ricovero per i carri e l’abitazione dei carrettieri.
Era dunque inevitabile che gli abitanti di Clanezzo cercassero un modo rapido e sicuro per raggiungere questa strada. L’idea di costruire un ponte era sicuramente temeraria, considerando i costi e la notevole distanza delle due sponde; il traghettocollegato alle due sponde da una fune tesa parve la soluzione più facile e meno dispendiosa, anche perché in quel punto il fiume si restringeva e le correnti impedivano l’uso del guado.
Documentato nel 1614 (17), il traghetto poteva essere anche più antico, non foss’altro perché era necessario a sopperire alla mancanza di un collegamento viario diretto sulla sponda destra del fiume (18), punto nevralgico per il commercio di Valle Brembana e Imagna.
Il traghetto a fune era decisamente una “singolarità” per la Valle Brembana e più tardi, ai tempi della “belle époque”, ne sarebbe sorto un secondo a San Pellegrino, importante stazione termale brembana. Oggi dei porti su fiume rimane in attività solo quello di Imbersago le cui origini, così come quelle di altri porti similari documentati lungo l’Adda, ricordano l’opera di Leonardo da Vinci.
Certamente oggi l’idea di un traghetto che attraversi il Brembo è inimmaginabile, perché il letto del Brembo era più profondo e la sua portata assai maggiore in ogni periodo dell’anno e, forse, a partire da Clanezzo, in certe condizioni parzialmente navigabile; senza contare che le opere di sbarramento realizzate per il fabbisogno di energia elettrica del Linificio di Villa d’Almè lo hanno quasi prosciugato: inutilmente, più volte il consiglio cittadino propose dei progetti per rendere il Brembo navigabile o canalizzarne le acque per collegarlo al Po.
Il servizio di traghetto era gestito da un portolano, che controllava e riscuoteva il pedaggio dagli edifici del Porto, un variegato agglomerato di edifici costruiti nel Seicento ma di possibile origine medioevale.
Nel corso dell’Ottocento gli edifici del Porto ospitavano pure l’ufficio postale comunale e un’osteria con alloggio, fatta chiudere dagli Austriaci nel 1829 per timore di disordini: in un documento del 7 febbraio 1829 è scritto infatti che il deputato politico comunale deve sospendere dall’esercizio di venditor di vino il Portolano di Clanezzo, Giacomo Capelli, perché è recidivo e causa di diversi disordini. La chiusura dell’osteria deve essere definitiva perché il luogo è vicina al Brembo e a tanti altri pericoli che possono essere dannosi per gli avventori e per gli ubriachi, e anche perché rende facile la fuga e quindi le ….”politiche trasgressioni”.
Fino agli inizi del Novecento il gruppo di edifici fu custodito da un guardiano e gli ultimi abitanti hanno abbandonato il Porto in tempi recenti.
E se l’accesso a Clanezzo dal lato del Brembo – sia che si giungesse col traghetto che, in seguito, con la passerella – prevedeva il pagamento di un pedaggio, lo stesso avveniva per chi transitava sull’antichissimo Ponte di Attone, dove, nella seicentesca Dogana fatta costruire dai Veneziani, viveva un portinaio con le stesse funzioni del collega del Porto (19): oltre ad essere il posto di controllo dei transiti tra le due sponde terminali della Valle Imagna, la Dogana era anche sede della “gabella”, che imponeva dazi ai commerci che utilizzavano tale via di comunicazione.
La robusta torre a pianta quadrata era probabilmente il nucleo originario della costruzione, solo in seguito affiancata da un edificio a logge lignee nel quale alloggiava il doganiere, colui che aveva appunto il compito di riscuotere il pedaggio.
Dopo che una piena distrusse il traghetto, forse a causa delle mutate condizioni del Brembo o forse per una maggiore funzionalità e convenienza, l’utilizzo del traghetto venne abbandonato a favore di un’opera di arditissima ingegneria: il ponte sospeso sul Brembo (oggi noto come “Ponte che balla”), fatto costruire nel 1878 da Vincenzo Beltrami, allora proprietario del castello di Clanezzo e delle terre circostanti (20). La passerella in legno, lunga circa 70 e larga 1,30 metri, è sorretta da esili cavi in acciaio tenuti in tensione da due contrafforti in pietra; un avvertibile ondeggiamento accompagna chi vi transita a piedi o in bicicletta.
I sistemi di tenditori delle funi sono visibili all’interno del contrafforte sulla sponda di Clanezzo, mentre all’interno di un edificio del Porto sono rimasti i vecchi meccanismi, ormai in disuso, a ricordo di un passato secolare.
E’ l’unica passerella sopravvissuta delle tre che fino ad alcuni anni fa si trovavano nei pressi di Ubiale Clanezzo e fu uno dei primissimi esemplari realizzati nell’Ottocento in Italia con la tecnica delle funi portanti ancorate sulle rive.
Sono, questi, gli anni in cui si comincia a parlare dei Conti Roncalli, divenuti nel 1885 proprietari del Castello (ora Villa Beltrami) e di molti possedimenti in Clanezzo, dove si distingueranno nella vita politica ed amministrativa del paese e per la realizzazione di importanti opere come strade, acquedotti, scuole nonché il ponte di collegamento con Almenno, che verrà realizzato nel 1925.
In seguito all’Unità d’Italia, la ricchezza mineraria e la presenza di risorse idriche per la produzione di energia ha favorito la nascita di insediamenti industriali e la realizzazione di opere ed impianti che hanno cambiato l’aspetto del territorio.
Nel territorio di Ubiale, ricco di rocce calcareo-marnose e quarzose, si aprirono alcune cave per l’estrazione di marna e quarzo. Il quarzo venne estratto fino agli anni Sessanta in località Coste e a Ca’ Bonorè e le ferite nella montagna sono oggi ricoperte da una fitta vegetazione (lungo la strada che porta ai ponti di Sedrina si vede ancora la tramoggia). Ebbero invece vita lunga le ditte Ghisalberti (poi Unicalle, a 200 metri dal Ponte sul torrente Brembilla) e la Società Cementi Valle Brembana (oggi Italcementi), che ancora oggi producono calce con il materiale estratto dalle cave di Ubiale, che in passato hanno divorato completamente le storiche contrade della Forcella, sopra i ponti di Sedrina, e quella, molto più grande e popolosa, di Ciniplano. Restano comunque i ruderi delle vecchie teleferiche e le tramogge utilizzate per portare materiali ai forni.
Tra il 1897 e il 1900, proprio a Clanezzo fu realizzata una Centrale idroelettrica: la prima in Valle Brembana che potesse definirsi correttamente in questo modo ed una delle prime in Italia a sfruttare il sistema di generazione e pompaggio. Fu costruita nei pressi dell’ultima stretta del Brembo, prima che il fiume sfoci in pianura, abbastanza vicino al capoluogo, quindi in posizione strategica.
L’obiettivo era quello di produrre energia su vasta scala per venderla poi alle utenze private che stavano aumentando sempre di più.
La concorrenza per accaparrarsi i diritti di sfruttamento delle risorse idriche nella zona di Clanezzo in quegli anni era fortissima. Contemporaneamente alla Centrale idroelettrica di Clanezzo, nel 1897 venne costruita un’altra Centrale, questa volta sul greto del torrente Imagna, che intercettava le acque dall’Imagna in territorio di Berbenno, alla località Ponte Giurino. Da qui venivano trasportate con un canale semi sotterraneo in territorio di Clanezzo, là dove l’Imagna sbocca nel Brembo: un salto di ben 80 metri e una portata di 580 litri d’acqua al secondo, assicurava una potenza complessiva di 500 cavalli (HP).
Per portare l’acqua fino a Clanezzo, in territorio di Strozza fu costruito un arditissimo viadotto-canale a sei arcate che attraversava il torrente Imagna a una notevole altezza cambiando in modo spettacolare e definitivo il panorama di quella valle.
Le nuove attività industriali avevano aumentato considerevolmente il volume delle merci e la mobilità della popolazione diveniva un problema sempre più pressante. Nonostante l’arrivo della Ferrovia delle Valli, Clanezzo era ancora completamente isolata: non c’era strada verso monte e per raggiungere la stazione c’era solo la mulattiera che saliva dalla passerella sospesa sul Brembo (che, come vedremo, diverrà proprietà comunale nel 1913).
Ancora una volta, il suo isolamento impediva lo sviluppo economico del borgo e dei suoi abitanti. Era quindi necessario realizzare strade più comode e veloci.
Intanto, il conte Giulio Roncalli, allora sindaco del paese, propose al Comune l’acquisto della passerella sospesa sul Brembo, necessaria per l’accesso alla stazione e alla strada provinciale attraverso la mulattiera. L’acquisizione con atto di vendita redatto il 21 luglio 1913 nel palazzo dei conti Roncalli in piazza Mascheroni a Bergamo, permise finalmente ai cittadini di non dover più pagare un pedaggio di 5 centesimi per attraversarla.
Clanezzo cominciava ad uscire dal secolare isolamento grazie alla nuova strada carrozzabile realizzata dopo la costruzione, nel 1925, del ponte sull’Imagna, fatto costruire dalla contessa Maria Roncalli, anche se nei primi anni il transito fu consentito solo ai Roncalli. La strada, che si fermava al Castello (dove era la sede del Comune), venne poi prolungata fino al cimitero, per facilitare l’accesso ad una cava di quarzo sopra Clanezzo.
Qualche anno più tardi si costruì il tratto Clanezzo-Bondo e nel 1980 circa si diede inizio al collegamento con Ubiale, che s’immette sulla strada statale, collegando comodamente i due principali centri del comune.
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Da secoli ormai le due piccole fortezze del posto sono sguarnite d’armigeri; il millenario ponte ad arco è sgombro di nemici e privo degli antelli d’accesso; la torretta della Dogana è senza più vedette e il porticciolo sul Brembo è ormai in disuso. Anche il maglio non romba più per armature, alabarde e per falci da fieno e l’umile gleba non impingue più i granai e non offre le primizie dei campi al feudatario. La fortezza sull’Ubione è ormai ridotta a pochi resti, mentre il Castello ha dismesso da tempo il cipiglio guerresco: gli invitanti effluvi della cucina del ristorante fanno dimenticare le traversie del passato.
Ma nonostante i cambiamenti, il microcosmo di Clanezzo riesce ancora ad affascinare: per la posizione straordinaria accoccolata su un dirupo alla confluenza di due corsi d’acqua, per la bellezza del sito impervio ed accogliente insieme, per la suggestione dei rimandi storici ancora avvertibili, che continuano a farne un’affascinante meta, oggi valorizzata da un importante operazione di recupero, che ci fa amare ancor di più quel fazzoletto verde lambito dall’azzurro cangiante delle sue acque.
COME ARRIVARE
Clanezzo è raggiungibile sia dalla strada statale della Valle Brembana prendendo lo svincolo che all’altezza di Sedrina si immette per Ubiale, o accedendovi dall’edificio del Casino, a Villa d’Almè (parcheggio), da dove si diparte una comoda stradetta. Vi si arriva anche dalla strada provinciale di Almenno San Salvatore, dove, oltrepassato il ponte costruito dai Conti Roncalli nel 1925, l’abitato si annuncia con l’antico Castello, oggi adibito a ristorante.
Note
(1) Dal periodo romano Clanezzo ed Ubiale facevano parte del distretto territoriale di Lemine (Pagus Lemmenis) insieme alla Valle Imagna, la Valle Brembilla e parte della bassa Valle Brembana. infatti il “Rotulus Episcopatus” come parti del “territorio di lemene” nell’anno 1258 cita le località di “clanezo de lemene”, “monte obiono”, “bondum”, “lunga cavallina”, “finalle et callus de calcibio”, la via “que vadit ad letezolum”, “obiolo” e “ubiallo”. Pertinenza di Almenno fino al XIII secolo, fu, fino al 1443, parte integrante di quella zona generalmente chiamata Brembilla o Valle Brembilla, che era molto più estesa dell’attuale. Con tale nome si intendeva il fazzoletto di terra bergamasca a sud del colle di Berbenno, chiuso tra il fiume Brembo, il torrente Imagna e il torrente Brembilla, comprendente quindi i comuni di Ubiale Clanezzo, Brembilla ed assorbendo entro i propri confini anche le porzioni territoriali di Strozza e Capizzone poste alla sinistra del torrente Imagna. In seguito prese il nome di Brembilla Vecchia, nome che conservò sino alla fine del 1700, quando diventò Clanezzo con Ubiale. Qualche anno più tardi sparì l’indicazione “Ubiale” e il Comune diventò “Clanezzo”. Dal 1927 si chiama Ubiale Clanezzo (Umberto Gamba, “Ubiale Clanezzo. Storia di una comunità”. Ferrari Editrice, Anno 2000).
(2) Sotto il dominio longobardo furono soppressi i pagi e l’amministrazione del territorio venne accentrata nella città, la quale, con il passare degli anni, assumeva sempre più l’aspetto di una corte (Umberto Gamba, op. Cit.).
(3) Con la conquista franca del 774 e l’incoronazione di Carlo Magno, questi ristrutturò l’amministrazione e il governo del territorio, creando i conti e altre figure istituzionali. Ideò un regime feudale fondato sul vassallaggio, che trovò terreno fertile in Italia e, una volta radicatosi, vi rimase per lunghissimi anni. Passata nelle mani di nuovi signori, la Corte Franca di Almenno doveva essere solo una residenza di campagna o, considerando la natura dei luoghi, una tenuta di caccia. Doveva però essere bella e appetibile, dato che per lunghi anni fu tenuta in grande considerazione sia dai re longobardi che dai re carolingi. Nell’anno 875 Ludovico il Germanico la concedeva, insieme alla corte Morgola, ad Ermengarda (figlia di re Ludovico II, Imperatore del Sacro Romano Impero e sovrano d’Italia), che la tenne in possesso fino a quando gliela sottrasse l’imperatore Carlo il Grosso, salito al trono nell’881. In seguito, Autari concesse la corte a Guido da Spoleto, il quale, divenuto imperatore nell’892, la donò, su istanza della moglie Agertruda, al marchese Corrado, conte di Lecco, suo fedele margravio e anche parente. Corrado e la moglie Ermengunda presero possesso della corte e la tennero fino all’895, anno in cui Radaldo succedeva a Corrado e veniva a sua volta investito della corte. Divennero poi conti di Lecco Guiberto e infine Attone (957 – 20 giugno 975), sposo della longobarda Ferlinda (Umberto Gamba, op. Cit.).
(4) Storie nuove della Valle Brembana, di Giuseppe Pesenti. Saggi Storici Quaderni Brembani. Edizioni Centro Storico Culturale Valle Brembana, Corponove, Bergamo. Di questo antico percorso oggi è rimasto solo un tratto di circa 600 metri, ancora in discrete condizioni, che dal centro di Ubiale conduce in orizzontale verso la valle di Brembilla, sovrastando di circa 40 metri gli strapiombi del Brembo e la carrozzabile del 1910, e giungendo improvvisamente sul ciglio della cava di calcare che ha divorato già da parecchi decenni la collina pianeggiante a forma di panettone da cui poi tale percorso, con alcuni tornanti, scendeva al ponticello sopra il torrente Brembilla (Giuseppe Pesenti, Op. cit. in questa nota).
(5) Il 3 Marzo 1220 con una transazione il Vescovo investiva del feudo il comune, riservandosi il palazzo nel castello e le sue pertinenze, ma lasciando al comune l’elezione del portinaio. Il vescovo inoltre riservava a sé le decime e, tra le altre cose, il monte Ubione e la sua rocca”. Finalmente, il 3 settembre 1266 “il Comune di Almenno donava alla città duemilasettecento lire imperiali garantite da Bartolomeo del Zoppo e diventava borgo cottadino” (Umberto Gamba, op. Cit.).
(6) La divisione tra guelfi e ghibellini aveva avuto origine in Germania già nel 1140, durante la guerra che vide opposti il duca di Svevia e quello di Sassonia. Questa differenziazione si espanse anche in Italia e durò fino a tutto il Quattrocento. Essere ghibellini significava parteggiare per l’imperatore di Germania, che oltre a detenere il potere temporale, voleva anche la guida spirituale delle comunità a lui sottoposte; essere guelfi invece voleva dire essere dalla parte del Papa e sostenerne così sia il dominio spirituale, sia le mire di potere terreno, molto forti all’epoca anche da parte del clero. Questa divisione ideologica si ripercuoteva in quasi tutta Europa e si affiancava alle lotte già in corso tra i vari stati. In Italia la presenza del Papa rendeva ancor più accentuate queste contese; qui i vari stati e le famiglie più importanti si dividevano alleandosi col Papa o con l’Imperatore a seconda delle convenienze (I guelfi e i ghibellini in val Brembilla. In: Quaderni brembani. “Il Castello di Cornalba e le lotte sulle montagne brembillesi”, a cura del “Gruppo Sentieri amici della storia” di Brembilla testo di Cristian Pellegrini). Il dominio visconteo a Bergamo iniziò nel 1315 con Matteo Visconti, al quale fu offerta la città dai ghibellini bergamaschi.
(7) I fatti dell’epoca si possono ricostruire grazie al “Chronicon Bergomense guelpho-ghibellinum” di Castello Castelli e alla “Storia di Bergamo e dei Bergamaschi” di Bortolo Belotti.
(8) I rapporti di fiducia e di reciproca collaborazione tra i Brembillesi e Bernabò sono testimoniati anche da un atto redatto da Regina, moglie di Bernabò, e dal figlio Rodolfo i quali, dovendo porre rimedio alla forte emigrazione delle valli, ridussero a un quarto le taglie e le condanne per debiti e assolsero del tutto gli abitanti della Brembilla e i pochi ghibellini di Val Imagna (Umberto Gamba, op. Cit.).
(9) La giurisdizione di Brembilla comprendeva un’area molto vasta che includeva gli attuali comuni di Brembilla, Gerosa, Blello, ed anche Ubiale Clanezzo, Berbenno, Strozza e Capizzone. Lo stemma della Brembilla presentava nella parte superiore l’aquila nera su sfondo oro, a significare la comune fede ghibellina; 6 bande oblique di uguali dimensioni, oro e azzurre, a indicare le 6 principali frazioni della valle. Separava i due campi una banda rossa sormontata da una croce, a significare che tali frazioni erano di proprietà del vescovo. L’emblema della Brembilla si può ancora ammirare sulla parete di una casa di Almenno S. Salvatore lungo la strada che porta in Valle Imagna, all’ingresso del Castello di Clanezzo, dipinto sulla volta, con un castello al posto della croce, ed infine nel gonfalone del comune di Brembilla (Umberto Gamba, op. Cit.).
(10) Grazie ad alcuni documenti del XII e XIII secolo possiamo conoscere i nomi dei primi abitanti del luogo e delle prime contrade. Nei libri dei “Censuali dell’Episcopato di Bergamo si leggono i nomi delle famiglie Dalamsoni di Clanezzo (1189), dei Bonoreni (1195), famiglia originaria di Ca Bonorè, contrada che prende il nome da questa famiglia, una delle più belle del paese e che fino agli anni ’70 conservò intatto il fascino e l’architettura delle origini. Costruita in posizione strategica con le sembianze di una piccola fortificazione, Ca Bonorè è sicuramente una delle località più vecchie e importanti del paese; basti pensare che è menzionata, con Clanezzo, nelle mappe più antiche, nelle quali spesso è l’unico riferimento al paese. Secondo P. Tosino la famiglia Bonoreni si stabilì a Bergamo ed ottenne diritto di cittadinanza e titolo di nobiltà. C’erano poi i Carminati e Bertinalli (1246) di Ubiale: menzionate in quanto, verosimilmente, doveva trattarsi delle famiglie più abbienti. Capostipite dei Dalmasoni di Clanezzo è un certo Dalmatius de Clenezo, di cui si ha notizia nel 1189, Quando Clanezzo faceva parte della corte vescovile di Almenno. La nobile famiglia dei Dalmasoni di Clanezzo tenne il paese fino a circa il 1400. Probabilmente erano abbastanza ricchi ed operosi, perché nel 1300 vengono nominati circa 40 volte nei “Codici e libri dell’Estimo della città e del contado bergamasco”. Capostipite della nobile famiglia Carminati , originaria di Brembilla, fu un Bartolomeo Carminati esule della Val Brembilla nel 1443 per ordine della Serenissima. Da questa stirpe uscirono uomini potenti e famosi tra i quali, secondo alcuni storici, anche un papa; Giovanni XVIII Fasano, anche se su ciò vi sono molti dubbi. I Carminati per alcuni secoli ebbero un posto di primo piano nelle vicende di questo territorio. A Cadelfoglia di Brembilla compare sulla facciata di una casa lo stemma della famiglia Carminati, cognome che affonda le radici in Valle Brembilla e deriva sia dal territorio (contrada Carminata, posta sulle prime alture di Mortesina, in Valle Imagna ex Brembilla Vecchia), e sia dalla parola carro (mestiere del carrettiere). Eugenio, Simome, Savino, e Mogna de’ Carminati, furono tutti capi del partito Ghibellino e fautori della nobile famiglia dei Conti Suardo (Padre Donato Calvi, “Effemeridi”, pag, 226) (Umberto Gamba, op. Cit.).
(12) Cristian Pellegrini, “Il Castello di Cornalba e le lotte sulle montagne brembillesi”, in: “Quaderni Brembani n.2”. Ed. Corponove BG – dicembre 2003.
(13) “Fedeli a Venezia erano rimasti invece gli abitanti di Gerosa e di Sedrina. I primi chiesero e ottennero di essere separati dalla Val Brembilla come comunità autonoma aggregata direttamente alla città di Bergamo. I secondi, nominati dalla Serenissima ‘fideles nostri’ ebbero diversi privilegi. Gli abitanti di Almenno Inferiore, che erano stati solidali con i brembillesi, furono puniti con la confisca dei beni, acquistati poi da quelli di Almenno Superiore per undicimila scudi d’oro”. “Sappiamo che il conflitto fra Milano e Venezia durò altri dieci anni coinvolgendo anche diversi potentati italiani, ma la nostra città ne fu solo indirettamente toccata, più che altro perché gravata dai contributi che la Repubblica richiedeva per le spese di guerra”. Dalla Repubblica di Venezia la Valle Imagna ebbe un trattamento di favore, come riferisce il Calvi. “I Valdimagnini per la loro obbedienza al Vescovo, integrità della fede e fedeltà alla Repubblica, difendendola contro il Duca di Milano, furono dal Principe (il Doge) con vani privilegi, grazie e favori arricchiti et honorati (anno 1428)” (Andreina Franco Loiri Locatelli per Bergamosera, non più on line).
(14) Nel 1485 Venezia aveva ceduto Clanezzo all’Istituto di Pietà Bartolomeo Colleoni, che trovandosi in gravi condizioni economiche dopo le guerre del Cinquecento aveva deliberato (1539) di venderla a Bernardino Buscoloni, originario di Almenno. La proprietà includeva anche alcune contrade vicine. Dai Buscoloni la proprietà passò ai Tironi (1560) e nel 1614 toccò ad Elena Furietti, moglie di Lelio Martinengo. La figlia Cecilia si sposò in seconde nozze con il conte bresciano Francesco Leopardo Martinengo da Barco, la cui famiglia ne mantenenne il possesso fino agli inizi del 1800. Questa famiglia di studiosi e mecenati della cultura, legata alla Serenissima occupando cariche militari di rilievo, si estinse con Francesco Leopardo, senatore del Regno, morto il 6 agosto 1884 legando alla città di Brescia il palazzo, la pinacoteca e la biblioteca. A Francesco, morto nel 1689, successe il figlio Leopardo e, dopo il 1716, Gianfrancesco Leopardo. Fu uno dei figli di quest’ultimo, Giovanni (1722-1817), a far edificare a Clanezzo, nel 1786, una chiesa più grande della precedente, che potesse contenere il crescente numero di fedeli. La chiesa divenne parrocchia nel 1707 e il conte Francesco Leopardo Martinengo da Barco ne ebbe l’Jus Patronato. Tale istituzione rimase in vigore fino al 1977, quando passò ai sigg. Beltrami ed in seguito ai Roncalli, quando nel 1885 comperarono il castello e la sua tenuta. Don Verri, parroco di Clanezzo dal ‘48 al 1978, affermava che il patronato probabilmente venne istituito con la dote della sorella di Leopardo, la Beata Margherita dei Conti da Barco, che, nata nel 1687, fu beatificata nel 1900: ebbe rapporti indiretti con Clanezzo, ma potrebbe aver contribuito alla nascita della parrocchia (Umberto Gamba, op. Cit.).
(15) Con la conquista degli Austriaci e la creazione del Regno Lombardo – Veneto (7 agosto 1815) molti militari bergamaschi si dimisero per non entrare a far parte del costituendo esercito austriaco. Tra loro anche il capitano del genio Luigi Felice Beltrami che, divenendo membro della deputazione comunale, inizierà ad occuparsi dell’amministrazione del comune di “Clanezzo con Ubiale”. Anche Egidio, come il fratello, proprietario del Castello e delle terre, fu tra i primi deputati del Comune. Vincenzo Beltrami (1820-1880) fu invece il primo sindaco del comune di Clanezzo, nel 1863 (Umberto Gamba, op. Cit.).
(16) Un importantissimo documento dello splendore e della storia del luogo è il libro dei visitatori un tempo esistente nel Castello di Clanezzo, nel quale i visitatori a volte, scrivevano un pensiero, un commento o alcuni versi a ricordo del loro passaggio. Deve essere stata, questa, un’idea di Paolo Beltrami e quando questi morì, il figlio Vincenzo ne continuò la tradizione. Alcune pagine del libro, scritte alcuni anni prima del 1848 mostrano già i fremiti del sentimento patriottico che di lì a poco sfocerà nell’aperta ribellione all’Austria. Leggendole siamo indotti a pensare che Paolo Beltrami, nutrisse sentimenti di simpatia nei confronti dei patrioti e che il suo palazzo (il Castello di Clanezzo) fosse per loro un possibile rifugio. La tesi è convalidata anche da alcune sue amicizie, come quella con Giovan Battista Bazzoni, scrittore di ispirazione romantica e quindi presumibilmente patriota, più volte ospitato nel suo palazzo. Il libro rispecchiava anche gli avvenimenti italiani e lombardi. Era diviso in tre volumi e cominciava in data 2 maggio 1837; purtroppo è sparito, ma una parte significativa è presente nel saggio di Bortolo Belotti, “Fantasia storia e poesia sul castello di Clanezzo” (Umberto Gamba, op. Cit.).
(17) Nel 1885 il conte Antonio Roncalli, deputato politico al parlamento nazionale per la Valle Brembana, acquistava da Giulia Lana de Terzi, vedova del Beltrami, la tenuta di Clanezzo. In seguito la proprietà passava al figlio Giulio e da questi alla nipote, contessa Maria in Guffanti. Il rag, Giovanni Calcaterra, nativo di Malpaga, fu a lungo valido agente dei Roncalli e per alcuni anni ricoprì anche la carica di sindaco. Nel Castello soggiornarono inoltre lo storico Angelo Mazzi, del grande Torquato Taramelli, che, forse in cerca di resti preistorici, visita Clanezzo il 30 aprile 1893. Inoltre, Giacomo Beccaria, nipote del celebre Cesare, Pietro Ruggeri da Stabello (1838), e moltissimi altri (Umberto Gamba, op. Cit.).
(18) “Noi non sappiamo quando venne costruito il traghetto; sappiamo solo che nel 1614 esisteva già, perchè è di quell’anno la divisione dei beni tra le sorelle Furietti e nel documento relativo, tra le varie voci si legge ‘la metà del porto ad uso ed beneficio di quello ed indiviso'”. Il traghetto era di proprietà di Egidio Beltrami; era gestito da un barcaiolo che trasportava (quando il Brembo non faceva le bizze) persone, merci ed altro, dall’altra parte del fiume. Il Beltrami pagava al costode (un certo Dellauro?) una somma di 100 £ annue per il trasporto dei suoi coloni, dei generi dei propri fondi, come legna, carbone, frutti e pagava un canone annuo alla finanza. “In tempi non molto lontani era possibile visionare un quaderno dove venivano registrati i viaggi fatti dal traghetto, i compensi ricevuti e le tariffe per il trasporto; anche questo però oggi non è più rintracciabile” (Umberto Gamba, op. Cit.).
(19) La sua antichità è comprovata anche dal fatto che, nel 1512, a seguito del crollo del ponte della Regina ad Almenno (avvenuto nel 1493), il Comune di Bergamo aveva concesso la gestione del nuovo porto per le valli Imagna e S. Martino (P. Mazzariol, 1997).
(20) Ricaviamo questo dato da un atto del 1686, che cita un tal Carlo Colnago “…portinaro al ponte di Clanezzo della Brembilla Vecchia…” (Umberto Gamba, op. Cit.).
(21) L’opera venne realizzata nonostante il 7 maggio 1862 la Ditta Beltrami avesse avuto dall’Amministrazione Demaniale la concessione, rinnovata nel 1875, di attraversare il fiume con battello dietro il pagamento di un canone annuo, ma non l’aveva ottenuta per la costruzione del ponte. La pratica si risolse dopo la morte di Vincenzo Beltrami. Il fiume si poteva attraversare, ma visto che il ponte era stato realizzato arbitrariamente, senza cioè la necessaria approvazione delle autorità competenti, fu il conte Antonio Roncalli, nuovo proprietario subentrato agli eredi Beltrami, a farsi carico di una sanatoria. Una copia del disegni del ponte, allegato alla domanda si sanatoria, è conservata presso il Genio Civile di Bergamo (Umberto Gamba, op. Cit.).
Riferimenti principali
Umberto Gamba, “Ubiale Clanezzo. Storia di una comunità”. Ferrari Editrice, Anno 2000.
Il “porto” di Clanezzo – di Sergio Tiraboschi. Quaderni brembani n. 4. Anno 2006. Corponove BG – dicembre 2005.
“Valorizzazione dei percorsi storici che collegano Clanezzo ad Almenno S. Salvatore e Villa d’Almè attraversando il fiume Brembo ed il torrente Imagna”. Iniziativa promossa dai Comuni di Ubiale Clanezzo, Almenno S. Salvatore, Villa d’Almè, di concerto con la Provincia di Bergamo ed il contributo della Regione Lombardia, con il patrocinio di Castello di Clanezzo.
Il “porto” di Clanezzo 59 di Sergio Tiraboschi, in : QUADERNI BREMBANI Bollettino del Centro Storico Culturale Valle Brembana. Corponove, Bergamo, dicembre 2005.
Bibliografia
Gio. Battista Bazzoni, “I Guelfi dell’Imagna o il Castello di Clanezzo”. Racconto storico illustrato con cenni storici su l’antica Valle Brembilla, il Castello di Clanezzo e la Rocca di Monte Ubione Manini, Milano, 1841.
Castello Castelli, “I guelfi e i ghibellini in Bergamo. Cronaca di Castello Castelli delle cose occorse in Bergamo negli anni 1378-1407”. Prefazione e note del cav. Gio. Finazzi C. Colombo libraio editore, Bergamo, 1870
Ringraziamenti
Ringrazio il fotografo Maurizio Scalvini per le belle fotografie e per i preziosi consigli.
L’antico Lemine, il comprensorio dal quale ebbero origine i due Almenno (San Salvatore e San Bartolomeo), per secoli fu, a partire dai romani, uno dei più importanti centri del territorio bergamasco, raggiungendo il culmine nel corso della dominazione longobarda. Un luogo denso di memorie storiche e consacrato da un non comune patrimonio d’arte, rappresentato dalle chiese antichissime che qui sono sorte allo scemare delle paure dell’anno Mille, ed ancor prima, costituendo le più emblematiche ed importanti della cultura romanica in Lombardia.
Basti pensare all’incredibile santuario della Madonna del Castello in Almenno S. Salvatore, che, sorto in un luogo di cruciale importanza, racchiude in sé quasi duemila anni di storia inglobando ben tre edifici sacri, essendo stato sede del Paguse della Pieve, i due vasti comprensori amministrativi nei quali fu suddiviso il territorio rispettivamente in età romana e medioevale.
Una scia di edifici antichissimi, che dalle sponde del Brembo continua dipanandosi lungo le sponde dell’Adda e che induce a chiedersi il perché di questo concentrarsi di edifici romanici in una zona della Bergamasca che in quel periodo non era attraversata d itinerario storico importante, come poteva essere per esempio quello della Via Francigegna, lungo la quale erano sorte basiliche, monasteri e ospizi per i pellegrini.
Non va dimenticato che per la vasta plaga di Lemine transitava la Strada della Regina, l’antica via militare romana che portava alle Rezie, supportata nel periodo tardoimperiale da un ponte monumentale (il Ponte di Lemine, meglio noto come “Ponte della Regina”), eretto sul sito dell’attuale Madonna del Castello per il passaggio di truppe, uomini e merci, e presto divenuto importante crocevia di traffici e di comunicazioni.
Il suo volto, o meglio, ciò che ne rimane, sfugge ai tanti automobilisti che da Almè percorrono la strada per Almenno, a volte ignorando anche l’esistenza di una storica via militare, che, ormai celata sotto prati ed edifici, corre da quasi due millenni sotto l’inaccessibile strapiombo scavato nella roccia dalla corrente del fiume Brembo.
Come fu destino di altri importanti ponti romani, intorno al Ponte di Lemine convergevano numerose strade, lungo le quali sorsero insediamenti (vici), villae e luoghi di culto, e più tardi torri, palazzi e castelli che in molti casi han trovato la loro ragion d’essere proprio in relazione con questo antico ponte.
Il Pagus di Lemine, uno dei distretti territoriali della Bergamo romana, doveva grosso modo corrispondere alla Pieve medioevale, comprendendo le Valli Imagna, Brembilla e Brembana fino a tutto S. Pellegrino Terme (1). Perciò non stupisce il fatto che in età romana il distretto di Lemine costituisse una corte imperiale, una vera e propria corte posseduta personalmente dall’imperatore romano, passata dai re invasori dell’era barbarica ai re longobardi, che la “restaurarono” istituendovi una curtis regia.
L’imperatore doveva risiedere in quel palazzo romano di età augustea venuto alla luce sul sito della Madonna del Castello, a breve distanza dal Ponte della Regina; utilizzato come residenza saltuaria dai sovrani che qui si sono avvicendati, il palazzo fungeva da sede di controllo civile, militare ed economico di tutto il territorio circostante.
Attigua al sacro palazzo vi era la cappella palatina, un luogo di culto dedicato al Santo Salvatore, di cui si rintracciano parte dei muri perimetrali nella cripta che in seguito le è stata addossata. Nella cripta della Pieve rimane quindi un ricordo tangibile e prezioso dell’antica cappella palatina.
Ma per quale motivo? Nel X secolo i Conti di Lecco, nuovi signori della corte di Almenno, avevano fortificato tutta l’area attorno al loro palazzo cingendola di mura; la cappella, trovandosi sul perimetro delle mura venne trasformata in cripta, e sopra di essa venne realizzata una nuova chiesa: la Pieve di San Salvatore.
Delle quattro colonne che sostengono la copertura della cripta, tre sono d’epoca romana, compresi i capitelli recuperati in loco da un antico costruttore.
Ma le sorprese non finiscono, perché agli inizi del Cinquecento la Pieve di San Salvatore venne inglobata nel santuario della Madonna del Castello, di cui oggi costituisce la parete di fondo.
Il sito della Madonna del Castello, cresciuto all’ombra dell’antica strada militare romana e del suo ponte, era dunque la sede di una corte imperale romana, mantenutasi tale fino al periodo longobardo e poi passata a nuovi signori.
Ma prima di poter tracciare le grandi strade militari, i Romani dovettero preoccuparsi di sedare le resistenze indigene delle vallate e le continue incursioni provenienti dalle Alpi, che soprattutto sul finire dell’età repubblicana e primo augustea facevano delle vallate orobiche un’area militarmente turbolenta.
Le vette del Resegone, dell’Albenza, del Canto Alto, del Misma e del Torrezzo costituivano il limite del mondo romanizzato, una linea lungo la quale i Romani avevano disposto una sorta di “strada di arroccamento”, che fungeva da confine tra l’area romanizzata e non.
Ad Almenno, naturale sbocco della Valle Imagna, questa linea correva a sud dell’Albenza, dove sulle alture collinari dei monti Castra e Duno, esistevano presidi militari facenti parte del sistema difensivo romano lungo il confine.
La postazione sul Monte Castra, sorta nella fase di passaggio dai Galli ai Romani, venne supportata da un acquedotto, che correva per due chilomentri sul fianco dell’Albenza.
L’accampamento di Duno era invece sorto come baluardo gallico per poi essere assorbito nel sistema difensivo romano lungo il confine di quel territorio che dall’epoca longobarda si chiamerà Lemine (2).
Entrambi i presidi costituivano una difesa dalle incursioni che potevano giungere dalla Valtellina attraverso la Valle Imagna.
Le due postazioni vennero abbandonate quando nel 43 a.C. gli eserciti romani, sotto il comando del console Decimo Bruto (luogotenente della Gallia Cisalpina) assoggettarono gli ultimi irriducibili della popolazione locale liberando tutta la fascia collinare orobica. A quel punto i confini si spostarono in cima alle vallate più turbolente (es. Valcamonica e Valtellina), nel periodo in cui la Cisalpina cessava di essere una provincia per diventare uno degli undici distretti d’Italia.
Fu solo allora che i Romani poterono fondare la Comum-Bergomum-Brixia, la grande arteria militare che tagliava longitudinalmente buona parte del nord Italia passando ai margini dei rilievi, dislocando lungo tutto il suo percorso una serie di presidi militari (3).
La strada riprendeva il tracciato dell’antica via “pedemontana”, che secoli prima era percorsa dai traffici tra gli Etruschi e principi celti d’Oltralpe; traffici che avevano arricchito anche il nostro territorio permettendo lo sviluppo di un centro protourbano sul Colle di Bergamo (4).
Alla lenta penetrazione dei coloni corrispose lo sfruttamento delle terre conquistate; la centuriazione interessò l’area compresa tra il Brembo e i torrenti Tornago e Armisa, fino ai ponti della Regina e del Tarchino (5). Fu così che crebbero quegli aggregati rurali cresciuti all’ombra della strada militare, come Agro, Borgo e Campino, i cui abitanti dovevano lavorare su quei terreni che venivano disboscati lungo le prime vie di comunicazione.
In età imperiale la via militare per Como andava acquisendo ulteriore importanza: i passi che dalla città lariana conducevano al cuore dell’Europa erano ormai percorribili in tutta sicurezza e le città d’oltralpe fungevano da centro di confluenza e di smistamento per tutta l’Europa, delle merci che arrivavano ai principali porti del Mediterraneo centrale (6).
E fu proprio allora, data l’importanza commerciale assunta dalla Bergomun-Comum, che la strada venne supportata dalla realizzazione del Ponte della Regina, un ponte monumentale voluto dall’imperatore Traiano, per permettere un passaggio rapido e sicuro agli eserciti diretti verso le Rezie.
Le sue grandi dimensioni erano giustificate dal superamento del considerevole avvallamento che separa le due sponde, costituendo un esempio di quella capacità costruttiva romana della quale si trovano tracce in varie parti dell’impero. L’impatto ambientale e paesaggistico fu così notevole da suscitare l’attenzione, oltre che degli storici, anche di poeti e di pittori come Lorenzo Lotto, uno dei massimi esponenti della pittura lombarda.
Dell’imponente manufatto, celebre per la sua grandiosità e per la sua vita millenaria, attualmente si conservano una pila (restaurata nel 1985) e le tracce di altre due. Ma in origine, secondo la ricostruzione dell’ing. Elia Fornoni (7) l’imponente struttura era composta da otto arcate impostate su sette pile, per una lunghezza totale di circa 180 metri, un’altezza di 25 e una larghezza di 6 metri e mezzo.
Il Ponte di Lemine, sebbene non raggiungesse l’audacia costruttiva di quello di Traiano costruito sul Danubio – assai più lungo e con il piano in legno -, era tuttavia un’opera grandiosa, singolarmente somigliante al ponte romano di Alcantara, meglio conservato, costruito nello stesso periodo sul fiume Tago.
Il manufatto protrasse la sua esistenza sin verso la fine del XV secolo, permettendo una stretta relazione tra le due opposte sponde, tra i centri romanici di Lemine e la sede della corte regia di Almè, occupata poi dai Ghisalbertini, di cui restano tracce nel castello e nella chiesa di S. Michele.
Lo sviluppo di Almenno ricevette inoltre un grande contributo dalla vicinanza all’Isola Brembana, il cui ruolo strategico, dal punto di vista militare e degli approvvigionamenti, era legato sia alla Bergomum-Comum che a Milano, città che in età tardoantica era stata eletta a rango di capitale dell’impero: e non a caso, lungo la linea che dal Brembo si diparte verso l’Adda, una decina di centri hanno dato vita alle più importanti chiese romaniche sorte intorno all’anno Mille quasi seguendo un percorso immaginario che dalle sponde del Brembo si snoda fino all’Adda. Un percorso che vede in S. Tomè l’emergenza di spicco e dove talvolta si avverte la presenza del fiume nei ciottoli levigati, come nella basilica di Santa Giulia, a Bonate Sotto. Un itinerario che prosegue fino all’abside romanica della parrocchiale di San Bartolomeo a Marne e alla chiesa di San Fermo, poco distante dalla strada romana tra Bergamo e Milano, per attestarsi, dopo aver superato numerose chiese antichissime, a Vaprio d’Adda, dove sorge la chiesa romanica di San Colombano.
INRESSANTI INCONTRI LUNGO L’ITINERARIO DELLA VIA BERGOMUM-COMO
Varie ipotesi sull’effettivo itinerario della Bergomum-Comum si sono succedute nel tempo, anche seguendo le indicazioni fornite dalle fonti antiche, tra le quali la Tabula Peutingeriana (carta geografica del III secolo d.C. dipinta su pergamena, conservata nella Biblioteca Imperiale di Vienna), in cui risulta essere documentata insieme alle principali direttrici viarie romane
Il tracciato si snodava con un percorso di quasi 60 km lungo una stretta fascia pedemontana della Lombardia centrale, attraversando le attuali provincie di Bergamo, Lecco e Como, e si svolgeva in posizione intermedia tra l’ambiente montano delle prealpi orobiche a Nord e la fascia delle risorgive dell’alta pianura a Sud, correndo a settentrione dei laghi brianzoli.
Da Bergomum, il ponte era raggiungibile partendo dalla strada di San Lorenzo sulla cerchia delle mura, che scendendo fino a Valtesse varcava la Morla a Pontesecco, risaliva la collina della Ramera per raggiungere il piano della Rovere a Petosino e poi Cavergnano tra Almé e Bruntino; da qui, con un rettilineo dolcemente degradante fino al ciglio del Brembo, si presentava al Ponte di Lemine. Non è difficile immaginare le truppe varcare il Brembo ad Almenno per immettersi sulla grande arteria lastricata.
Sembra che dalla città, la strada fosse larga oltre quattro metri, con un fondo assai curato, tutta selciata e in qualche punto anche lastricata. Di fatto la sua presenza, unitamente alla direttrice che dalla porta Sant’Alessandro conduce alla piana verso Mozzo, ha condizionato fortemente l’assetto del territorio.
Per la restante parte del percorso permangono dubbi, non ancora completamente chiariti dai ritrovamenti archeologici.
Come indicato dal Fornoni, partendo dal Ponte di Lemine a Ca’ Plazzoli il tracciato, oggi celato sotto i campi ancora coltivati, proseguiva lontano dall’abitato di Almenno San Bartolomeo, fino al ponte del Tarchino sul torrente Tornago, nei pressi di San Tomè.
Un ponticello che nonostante i rifacimenti subiti nel corso dei secoli, porta ancora un’impronta della sua origine romana. Oggi avvolto dalla vegetazione selvaggia, è guardato dall’alto da quello in cemento armato della nuova strada per la Val S. Martino.
Alcuni resti rinvenuti sotto il presbiterio di San Tomè parlano dell’esistenza in questo luogo di un antico tempio pagano, forse dedicato a Pale, la dea silvestre, come farebbe supporre una lapide ritrovata non lontano.
Ed è proprio qui, all’ombra della Rotonda, che tombe romane del I secolo indicano l’esistenza di un luogo di sepoltura.
La strada romana passava in questo punto tagliando per il fitto bosco che degradava verso il Brembo. Il viandante vi giungeva attraverso i campi che si estendono fino alla Val San Martino o dopo aver superato il Brembo, imbattendosi nel tempio della dea che lo invitava alla sosta.
In questo stesso luogo, tra il VII e l’VIII secolo, un ignoto architetto innalzò l’edificio romanico, riutilizzando le pietre dell’antico tempio pagano per abbellire i capitelli, ornati da sculture primitive.
Ancor’oggi, al riparo della nicchia formata dagli alberi che circondano l’inconfondibile sagoma cilindrica, riusciamo a cogliere lo stretto rapporto che lo lega a questa parte più antica del territorio. Un rapporto che non smette di colpire la nostra immaginazione e affascinarci.
Il Mazzi ricostruisce il tracciato successivo, verso occidente: dice che dal Tornago la via volgeva verso Barzana, passava poi poco discosta da Arzenate e da qui si dirigeva verso S. Sosimo e Gromlongo, raggiungendo Pontida, per poi proseguire a Cisano e Caloziocorte.
Ma per lo studioso P.L. Tozzi è verosimile che con le operazioni della centuriazione (di cui restano tracce fino a Brembate di Sopra), i Romani preferissero superare il Brembo più a valle, a Briolo o a Ponte S. Pietro, rendendo i collegamenti fra Bergamo e Lecco più diretti.
Altri studi ritengono più probabile che la via puntasse su Como transitando per Brivio. Ci muoviamo comunque entro il campo delle ipotesi, anche se si ritiene che l’esistenza di percorsi alternativi fosse molto probabile: a Olginate, in provincia di Lecco, in corrispondenza di un restringimento si sono individuati i piloni di un monumentale ponte romano del III secolo d.C. per l’attraversamento dell’Adda (8); poggiava su 16-18 pile, aveva una lunghezza di m 150 ed una larghezza di m 4. Secondo Tozzi questi resti non sembrano una prova decisiva che vi passasse la Bergomum-Comum o perlomeno che vi passasse sempre ed esclusivamente; casomai il ponte poteva riferirsi a una variante del percorso affermatasi in età imperiale avanzata, o anche servire a una via da Milano per Lecco, da dove sicuramente per via lacustre, ma probabilmente anche terrestre, si perveniva a Chiavenna, quindi in Valtellina e, attraverso il passo dello Spluga si raggiungevano il Reno ed il lago di Costanza, dunque l’Europa centrale (9).
In ogni caso, grazie al ponte di Olginate si potenziarono i collegamenti tra Bergamo e Como e tra Milano e Lecco, passando per Monza (10).
IL PONTE FRA CURE E MANOMISSIONI
Anche dopo la caduta dell’Impero Romano la strada mantenne la sua importanza di infrastruttura viaria cruciale per tutto il territorio pedemontano, e nel medioevo, come è provato dalle spese di manutenzione previste e imposte dagli Statuti di Bergamo, divenne, se non l’unica, la principale via di comunicazione con la Val S. Martino, servizio che non si esaurì del tutto anche dopo l’apertura di nuovi sbocchi. Per questa sua importanza, anche il ponte subì numerosi interventi di ripristino e restauro.
E’ facile immaginare che la struttura possa aver subito danneggiamenti durante le invasioni barbariche e una mancata o inadeguata opera di manutenzione, in particolare nella seconda metà del millennio; senza contare che durante le scorrerie e le distruzioni verificatesi nel Bergamasco alla fine del XII secolo nel corso delle lotte tra guelfi e ghibellini, la struttura potrebbe essere stata sottoposta a gravi danni.
Nessuno comunque avrebbe potuto fermare, oltre alle accanite devastazioni delle guerre, il secolare logorìo delle acque, tanto che nell’arco del XIII secolo le fonti cominciano a fornire alcune informazioni evidenziando il vero e proprio calvario per le casse del comune e dei villaggi fortemente interessati nel ripristinare al meglio la struttura, indicando ad esempio la realizzazione di un pilone nella parte mediana del ponte che vent’anni dopo risulta già molto eroso alle fondamenta, e segnalando la presenza di alcuni resti rovesciati che opponendosi al corso del fiume potevano danneggiare ulteriormente gli stessi piloni (11).
E’ probabile che le continue riparazioni e addirittura ricostruzioni cui il ponte fu sottoposto nel corso de XIII secolo ne abbiano compromesso la stabilità, in particolare a causa dei considerevoli gorghi provocati dalla costruzione di nuovi piloni, eretti, per ragioni di economia, sfruttando come basi quelli crollati e adagiati sul greto del fiume, ritenuti sufficientemente consistenti.
La maldestra riparazione e le periodiche turbolenze delle acque furono le cause maggiori dei danni che via via si verificarono nel tempo, fino al crollo del 1493.
IL ROVINOSO CROLLO DEL 1493
Rimasto in uso sino al XV secolo e superata l’ingiuria del tempo, il ponte resistette fino all’alluvione del 1493, quando, già compromesso dai rifacimenti, il 31 agosto crollò rovinosamente sotto l’impeto della piena eccezionale del Brembo, che danneggiò altri ponti e strade causando numerose vittime. Il Ponte della Regina perse così cinque archi: due per ogni estremità e un altro poco appresso.
Restarono in piedi solo le tre arcate centrali, sopra le quali rimasero bloccate per ben tre giorni trentasei persone in balia della furia del fiume. Per mantenerle in vita veniva loro lanciato del pane con le fionde; vennero soccorse con scale e corde solo quando l’acqua tornò ad un livello normale.
Le tre arcate superstiti si opposero al Brembo per ben trecento anni: una cedette il 15 giugno del 1783, le altre due dieci anni dopo, ormai logore per l’azione costante dell’acqua.
Dell’opera monumentale un poeta ne rievocò la memoria: …Tu, lungo spettro, fra le rive appari, ed in colonna, su le vane arcate, ripassano cantando i legionari (12).
IL MITO DELLA REGINA
Dopo la caduta del ponte, la storia della struttura ha iniziato ad intrecciarsi con le antiche tradizioni longobarde. Il suo ricordo e la presenza delle rovine sull’acqua ha colpito la fantasia popolare facendo sorgere tra gli abitanti della zona il mito che lo voleva attribuito a una regina longobarda: da alcuni alla grande regina Teodolinda e da altri alla commovente figura di Teutperga, rifugiatasi a Pontida dopo il ripudio dell’imperatore Lotario e poi, secondo la leggenda, animosa fondatrice del Monastero di Fontanella (13), dove sarebbe ancora sepolta. Avvolto in questo alone di leggenda, l’antico “Pontis de Brembo”, o “ponte de Lemine”, ha iniziato a chiamarsi “Ponte della Regina”, anche se qualcuno ha pensato che il nome potesse alludere a un intervento sul ponte in epoca longobarda.
Nel nome, vi fu anche chi ravvisò un’interpretazione popolare della parola “Rezia”, la zona della Alpi Retiche verso cui conduceva la strada romana che attraversava il ponte sul Brembo.
L’ASPETTO ORIGINARIO DEL PONTE
Dato che i resti del vetusto ponte costituivano un pericolo per le opere di presa sulla sponda sinistra, il 28 marzo del 1893 il Prefetto della Provincia di Bergamo ne ordinò la demolizione, che fu eseguita dalla ditta dell’ing. Ceriani & C., proprietaria del Linificio e Canapificio Nazionale di Villa d’Almé. All’ing. E. Fornoni fu affidato l’incarico di studiare il manufatto affinché fossero demolite “sole parti dell’èra media”, salvaguardando quelle d’epoca romana.
Dall’osservazione dei resti emergevano le modifiche subite dal ponte nel corso de tempo: il manufatto originario era formato da grossi conci di pietra arenaria (cavata nella vicina località Merletta) che misuravano sino a m 1,75 di lunghezza e m 0,70 di altezza; una solida muratura di cava costituiva il paramento interno e le pietre combaciavano nel paramento esterno.
Negli interventi successivi, osservava invece materiali più scadenti e una diversa tecnica costruttiva, con un nucleo centrale composto da sassi di fiume e un rivestimento di pietre più piccole e grezze, unite da abbondante malta.
Le modifiche subite nel corso della sua storia sono evidenti ancor’oggi, osservando i differenti materiali che compongono quanto ne rimane, dove accanto a grossi conci di pietra arenaria troviamo pietre grezze e sassi di fiume legati grossolanamente.
Effettuando rilievi sui reperti e sulla scorta delle versioni offerte da alcuni studiosi del passato (14), il Fornoni ne ipotizzò l’aspetto originale paragonandolo al coevo ponte romano costruito ad Alcantara sul fiume Tago, in cui la spalla centrale culminava fino al parapetto per sorreggere un arco trionfale dedicato a Traiano.
Le ripetute modifiche subite dal ponte nella sua storia e in particolare la rifondazione dei piloni, rendendo irriconoscibile la struttura primitiva ha dato luogo nel tempo a svariate interpretazioni.
Abbandonato il percorso antico che su di esso si snodava, sono andate perdute le tracce e riferimenti che per ben oltre un millennio avevano segnato questo ambito del nostro territorio: le nuove direttrici, impostate più a monte, hanno guidato altrove le attenzioni. Ed è strano che nell’ampliamento dell’abitato di Almenno non sia mai stato pensato un adeguato riferimento alla presenza dell’antica strada romana e del suo ponte, i cui resti meriterebbero, per importanza storica, un’attenta rivalutazione in rapporto con l’ambiente circostante.
UNA CURIOSITA’
Fonti attendibili dicono che nel 1512, a seguito del crollo del ponte della Regina avvenuto alla fine del Quattrocento, in sua vece venne ripristinato il porto di Clanezzo per assicurare le comunicazioni alle valli Imagna e S. Martino
Una barca doveva collegare le due sponde finché ad Almenno non si fosse realizzato un nuovo ponte, il quale, contrariamente alle intenzioni iniziali, venne realizzato solo nel 1628 non ad Almenno bensì a Clanezzo, situata più a monte dell’antico tracciato (15).
Dopo essere stato distrutto da una piena, fu realizzata una nuova struttura in legno e l’idea di recuperare il ponte di Lemine venne così definitivamente abbandonata.
Solo verso la metà del XVI secolo i suoi resti furono coinvolti in un progetto di più larga scala redatto dall’ingegnere idraulico veronese Isepo de li Pontoni per la formazione di un canale anche parzialmente navigabile derivato da fiume Brembo e diretto alla città di Bergamo in direzione Paladina-Curno-Broseta. Il progetto però non venne attuato in quanto, in prossimità del ponte, si sarebbero dovuti realizzare costosissimi scavi nella roccia.
Un ex-voto apposto su una parete del santuario della Madonna del Castello, sembra comunque indicare che ancora verso la fine dell’Ottocento una barca collegasse le due sponde affacciate sul Brembo.
Note
(1) Gli storici suppongono che pieve e pagus dovessero abbracciare approssimativamente lo stesso territorio. Secondo il Mazzi la pieve di Lemine comprendeva tutta la Valle Imagna, la piccola valle del torrende Borgogna con Palazzago, fino ai confini con la Val San Martino, spingendosi anche sulla sinistra del Brembo, estendendovi il suo nome con Almé (Lemen) e Villa d’Almé (Villa Leminis), e abbracciando nel suo ambito almeno i territori di Bruntino e di Sedrina. Indicazioni del Rotulum Decimarum Leminis 1353 confermano che anche la Valle Brembilla sino ai confini della Val Taleggio, tutta la sponda destra del Brembo con Zogno e S. Pellegrino fino a Fuipiano, ampie zone del piano, come Locate, Ambivere, Tresolzio e forse Chignolo (“rationes decimarum”), appartenevano al pagus Lemennis (da Manzoni, Op. Cit. in bibliografia).
(2) Lemine (o, nelle sue varianti, Lemmenne, Leminne, Leminis, Lemennis), è il toponimo con cui nel Medioevo si individuava un vasto comprensorio territoriale ad occidente del fiume Brembo che aveva costituito una corte regia longobarda.
(3) Lungo il percorso della Comum-Bergomum-Brixia si sono rinvenuti alcuni reperti archeologici databili tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C.: a e Monte Castra ad Almenno, a Caslino, Castelmarte e Incino.
(4) Nella fase preromana (VIII-IV a.C.) la via pedemontana svolgeva un ruolo strategico e commerciale unendo gli insediamenti etruschi del mantovano con i paesi transalpini attraverso l’abitato di Como. Indizio dell’antichità del tracciato sono una seria di reperti rinvenuti su alture poste controllo del possibile tracciato viario (Duno, Vercurago, Chiuso) che presentano sia materiali affini alla cultura locale di Golasecca di frammenti di ceramiche greche ed etrusche. Verso la metà del IV a.C. si assiste ad una maggiore influenza della cultura di matrice transalpina celtico-insubre che modifica la struttura degli insediamenti e il sistema commerciale precedente favorendo la città di Milano. In età romana la via pedemotana costituiva l’asse Est-Ovest, della centuriazione relativa al territorio di Almenno.
(5) L’area compresa tra gli attuali Almenno S. Salvatore e Almenno S. Bartolomeo presenta tracce di centuriazione, in particolare nelle località Agro e Bosenta, area compresa tra Brembo, Tornago e Arrisa; si inseriscono nell’impianto di centuriazione il cosiddetto Ponte della Regina sul Brembo, la località di Stazanum, nei pressi del ponte sulla valle del Tornago, e lo stesso ponte sul Tornago. All’interno di una maglia centuriata compresa tra I tre corsi d’acqua esistevano probabilmente ville rustiche, la cui presenza è indirettamente testimoniata dal ritrovamento di una tomba tardoromana in località Campino, nel campo detto la Noca.
(6) La strada romana Comum-Bergomum-Brixia venne tracciata dai Romani a partire dall’89 a.C., momento in cui venne concesso alla Transpadania il diritto latino. Dal III secolo d.C. connetteva l’antica Aquileia, nel Veneto, con i territori d’oltralpe attraverso Como, da dove raggiungeva la provincia romana della Rezia, posta in corrispondenza dell’attuale Canton Grigioni e del Tirolo, e da lì l’Europa centrale. Venne soggiogata sotto Augusto nel 16 d. C. dopo due lunghe campagne contro i Rezi, i Celti e i Vindelici, che permisero di raggiungere i valichi in condizioni di assoluta sicurezza. Da allora la città lariana divenne il perno di un sistema di comunicazioni che comprendeva il lago, i passi del S. Bernardino, del Maloja, del Septimer, del Julier e, se si vuole, dello Spluga, del Lucomagno e del Gottardo. Gli sbocchi erano il Rodano, il lago di Costanza, il Reno, il Danubio e con essi tutte le città (a cominciare da Coira = Curia Raetorum) che fungevano da centro di confluenza e di smistamento per tutta l’Europa delle merci che arrivavano ai principali porti del Mediterraneo centrale. In questo quadro Como acquistò il ruolo di intermediaria fra il centro Europa, l’Italia e l’Oriente, anche perché la direttrice Milano-Como-Spluga-Brigantium era la più breve per raggiungere il Reno, grazie alla navigazione longitudinale del Lario, che con notevole risparmio di tempo (almeno due giorni) e di fatica, rispetto al percorso di terra, portava a Summus Lacus, ove cominciava il percorso trasversale della Raetia per l’alta valle del grande fiume europeo. Roma ne perse il controllo nel IV sec. d. C. quando venne invasa dai alemanni, bavari e svevi.
(7) E. Fornoni, Il Ponte di Lemine, Bergamo 1894; dello stesso autore anche L’antica Corte di Lemine: il Ponte sul Brembo. L’ipotesi ricostruttiva di Fornoni venne fatta sulla scorta degli studi precedenti di Lupo, Rota e Mazzi.
(8) Degrassi 1946.
(9) Storia economica e sociale di Bergamo. Secondo Cantarelli (Carta Archeologica della Lombardia, cit. in bibliografia) un secondo tracciato più diretto passava tra il Brembo e Brivio (ove furono notate in passato tracce di un ponte antico) e si manteneva più lungo il versante dei colli che precedono Bergamo (Fontana, la Madonna della Castagna).
(10) Storia economica e sociale di Bergamo.
(11) Proprio nell’arco del XIII secolo le fonti cominciano a fornire alcune informazioni evidenziando il vero e proprio calvario per le casse del comune e dei villaggi fortemente interessati nel ripristinare al meglio la struttura. Queste continue attenzioni sono dimostrate anche dal fatto che lo Statuto cittadino impegnava il Podestà alla verifica annuale dei ponti, (per il caso di Almè le ricognizioni vennero effettuate tre volte l’anno).
Nel 1208 e nel 1209 il Comune di Lemine dovette contrarre un prestito di 20 lire imperiali per restaurare il ponte sul Brembo. Il 19 novembre del 1250 i sovrintendenti al pontis novus de Lemen chiesero ed ottennero dai maestri che lavoravano al ponte l’opportunità di realizzare una pillam….in medio ponte. Ancora nel 1273 il Comune di Bergamo mandò alcuni deputati ed il perito Bertramo de Forzella a vedere e riferire su una pila que est multum smaganiata propter fondamentum…quod multum est cavatum sub glera ipsius Brembi. I sovrintendenti riferirono poi sulla necessità di rimuovere alcuni resti rovesciati i quali, opponendosi al corso del fiume potevano danneggiare ulteriormente gli stessi piloni. Nel 1283 infine la vicinia di S. Pancrazio pagò quattro lire e mezza imperiali imposite ipse vicinancie pro Pergami occasione reformationis pontis de Lemine.
(12) Bortolo Belotti, Poeti e poemi del Brembo, 1931.
(13) P. Manzoni, Op. Cit. in bibliografia.
(14) Per quanto concerne la forma e le dimensioni del ponte, Fornoni si rifà a quella originata dal Lupi e poi accettata con piccole variazioni da G.B. Rota, da Maironi da Ponte e dall’Ab. Calepio, confortata dal punto di vista storico e architettonico dal Mazzi e dallo stesso Fornoni, il più profondo e completo studioso della questione.
(15) P. Mazzariol, 1997.
Riferimenti essenziali
Paolo Manzoni, Lemine dalle origini al XVII secolo. Comune di Almenno S. Salvatore. Comune di Almenno S. Bartolomeo. Bergamo, Poligrafiche Bolis, 1988.
Carta Archeologica della Lombardia – II La Provincia di Bergamo – I Il territorio dalle origini all’altomedioevo. A cura di Raffaella Poggiani Keller. Ed. Panini, Modena, 1992.
Fondazione per la storia economica e sociale di Bergamo – Istituto di studi e ricerche, Storia economica e sociale di Bergamo – I primi millenni – Dalla preistoria al medioevo. Volume II. Bergamo, Poligrafiche Bolis, marzo 2007.
Dal Canto Alto, la tradizione bergamasca dei “biligòcc”
Tutti conosciamo il Canto Alto per la grandiosa quinta scenica che si staglia alle spalle della città e lo apprezziamo per i panorami che si godono da lassù o per le grotte nascoste nella boscaglia (di cui la più famosa è quella del Pacì Paciana, non facile da individuare) e per la selvaggia Valle del Giongo, riserva naturalistica di pregio, ricca di acque e di fenomeni carsici, inclusa nel Parco dei Colli di Bergamo.
Pochi sanno invece che questa cima così familiare in passato è stata uno strategico punto di osservazione sulle vallate bergamasche, fungendo da tramite di un’importante via di comunicazione che connetteva Zogno alla città attraverso un sentiero storicamente documentato e chissà quali altri tracciati di cui s’è persa la memoria, disposti lungo le sue pendici: il primo partiva da Poscante, piccola frazione di Zogno, e valicando il Monte di Nese giungeva a Nese e proseguiva per Ranica, Marzanica, Baio, la Martinella arrivando al Vico Plorzano, ovvero Borgo Santa Caterina.
Nel corso del medioevo la sua vetta è stata poi presidiata da un ampio fortilizio in muratura, ripetutamente distrutto e ricostruito durante le aspre contese fra guelfi e ghibellini, ed abbattuto definitivamente all’inizio del Trecento: i suoi resti sono stati scoperti nel corso degli scavi per le fondamenta della croce.
Ma il Canto Alto presenta altri volti che ne accrescono il fascino e che possiamo scoprire a pochi passi dalla città: un pugno di tranquille contrade adagiate sulle pendici a nord, preziose depositarie della storia e della cultura locale, ancora molto viva e sentita fra i suoi abitanti.
Contrade che per secoli hanno tratto sostentamento dalle rigogliose selve di Castagno che ne ricoprono le pendici, rivestendo un ruolo fondamentale per la popolazione di Zogno e dei comuni limitrofi nell’approvvigionamento del legname e dei prelibati frutti.
Ed è proprio lungo il versante nord che fra le amene contrade di Poscante nasce la “Via delle Castagne”, un’antica mulattiera che si snoda per circa tre chilometri dal borgo rurale di Piazza Martina a Castegnone, patria d’origine dei biligòcc, le castagne essiccate e affumicate con un procedimento del tutto particolare.
Nell’alimentazione contadina la castagna era “il pane dei poveri” anche per il suo elevato contenuto di carboidrati: dalla sua farina si ricavavano pani, gnocchi, polenta, zuppe e dolci, mentre l’essiccazione e l’affumicatura consentivano la lunga conservazione del frutto, da riservare al consumo locale nonché alla vendita.
Ma non solo, il Castagno veniva sfruttato per la legna da ardere o per fabbricare pali per la viticoltura, mentre il fogliame tornava utile nelle stalle.
Arrostite sul camino, le castagne allietavano le serate quando la famiglia si riuniva per la scorciatura del granoturco mentre soprattutto in tempo di guerra erano molte le famiglie che ricavavano dalla vendita dei frutti affumicati i mezzi per il proprio sostentamento.
Con grandi sacchi di iuta si partiva verso la pianura per barattarli con granoturco, frumento e patate o, nel migliore dei casi, per guadagnare qualche soldo.
Il piccolo ma costante commercio dei biligòcc trovava il suo culmine nelle feste patronali invernali fino alla madonna Candelora, rivaleggiando con quello di Vall’Alta in Val Seriana: dalla festa di Santa Lucia sul Sentierone a quella di San Mauro che si teneva il 15 gennaio sia in città che a Bruntino, alla festa di Sant’Antonio abate che si teneva alla Fiera il 17 gennaio, dove si portavano a benedire gli animali da cortile, adornati con nastri e fiocchi.
Gli uomini in tabarro e cappello arrivavano in Bergamo nel cuore della notte, e dopo aver depositando i sacchi sul sagrato della chiesa di San Marco iniziavano a lanciare il famoso richiamo: “bei biligòcc, biligòcc, alè gente!”.
I biligòcc di Poscante, oltre ad essere famosi per la loro bontà avevano la caratteristica di essere i più belli perché le donne li mettevano nell’olio e con uno panno di lana li lucidavano: un segreto che li ha resi celebri in tutta la Lombardia.
Celebre è anche la sagra che si svolge ancor’oggi a Sant’Antonio Abbandonato, frazione di Brembilla, in concomitanza con la festa padronale di San Mauro, che si tiene ogni anno il 15 di gennaio.
Oggi la tradizione dei biligòcc si è conservata soprattutto nelle loro terre d’origine, presentandosi in forma di lunghe collane in Valle Seriana e prevalentemente sfuse in Valle Brembana, dove i castagneti intorno a Poscante erano e sono assai floridi e produttivi, soprattutto lungo le pendici nord del Canto Alto sino a circa 900 metri di quota.
Basti pensare che nell’Archivio di Stato di Milano è conservata una mappa del censimento austriaco dell’area intorno a Poscante ai primi dell’800, su cui sono evidenziati i castagneti di Medil, Foldoni, Prat della Nus, Candì e dove ancor’oggi troviamo le piccole Ostàne a settembre, per proseguire con le Careane, le Balestrere -tipiche della bergamasca – e le Rossere, dalla buccia rossiccia.
Ed è proprio nell’area di Poscante che attorno al 1300 nacque l’arte di affumicare le castagne (poi trasmessa alla Valle Seriana), quando un contadino di “Post Cantum” (toponimo apparso in un atto del 1249) volle sperimentare un procedimento per poterne gustare la fragranza anche fuori stagione. Egli – si dice – fece cuocere le castagne per circa due ore e le lasciò essiccare all’aria aperta per sette giorni e sette notti, così da poterle riassaporare sino al periodo pasquale.
Quanto vi sia di vero in questo singolare racconto non è dato di sapere, ma è certa la prima citazione di Giovanni Bressani poeta vernacolo, che nel 1490 scrive: Gne con tal desideri Sant’Antoni/Per vèend biligòcc, pom e castegni pesti/Da Poltranga a Surisel specie i doni/Gne ai desidera ch’as faghi di festi.
Nelle contrade intorno a Poscante ma soprattutto a Castegnone (la più vicina alle selve alte) sorsero quindi i secadùr, particolari strutture che grazie a una gradazione costante di calore e fumo garantivano una perfetta preparazione dei biligòcc, definizione dialettale derivante da “bis-cotto”.
Ancor’oggi a Castegnone gli abitanti effettuano questo tipo di lavorazione, nell’unico fra i secadùr recuperati della contrada.
Sulla “Via delle Castagne” fra le contrade di Poscante
La “Via della castagne” ricalca un’antica mulattiera di circa tre chilometri recuperata dal Comune di Zogno per valorizzare sia il frutto che la tradizione locale della castanicoltura, retaggio dell’antica tradizione locale (1).
Il percorso, con i suoi scorci sui castagneti e le finestre panoramiche sulla valle, offre una passeggiata rilassante, immersa nella natura.
Si tratta in realtà di un’antica via di collegamento con la Mercatorum, già battuta in epoca medioevale per la posizione strategica di difesa e più avanti per il commercio con Monte di Nese e la Valle Seriana nonché la città.
Il sentiero, di facile percorrenza, si diparte dal borgo rurale di Piazza Martina per raggiungere Poscante e da lì la contrada di Castegnone.
I dieci cartelli esplicativi collocati lungo il sentiero permettono di conoscere le caratteristiche della pianta e dei suoi frutti ed anche l’ambiente naturale di questo nostro versante prealpino, con il suo particolare clima e la vita della selva e del sottobosco nel volgere delle stagioni.
E’ possibile quindi conoscere anche gli insetti che la abitano, comprese naturalmente le preziose api che nella stagione estiva producono un ottimo miele di castagno.
Alcuni pannelli illustrano la tradizione della raccolta, della conservazione e del consumo della castagna, permettendo di capire come, per necessità, l’istinto umano si sia adattato a sfruttare tale tesoro per il proprio sostentamento.
Percorribile in ogni periodo dell’anno e non solo in autunno ma consigliabile a terreno asciutto, il percorso è anche un’occasione per una piacevolissima passeggiata lungo un sentiero ricco di affascinanti spunti panoramici, alla riscoperta delle tradizioni del luogo e della storia che trasuda dalle incantevoli contrade: dal borgo rurale di Piazza Martina, ricco di testimonianze medievali, alla contrada di Castegnone, dov’è ancora in funzione il caratteristico essiccatoio in pietra per “fabbricare” i prelibati biligòcc: il secadùr appunto.
Una piacevole avventura, che in occasione dell’annuale festa dei biligòcc che quest’anno si terrà il 17 di Novembre, consente di assaporare il prezioso frutto insieme ad altre prelibatezze del nostro territorio.
Sulla Via delle Castagne diretti a Castegnone, la patria dei biligòcc
Mentre da Piazza Martina a Poscante l’itinerario è facile e per tutti, da Poscante a Castegnone il dislivello diventa un po’ più impegnativo, ma certamente fattibilissimo. Il tempo di percorrenza totale è di 1 ora e 45 minuti e l’abbigliamento consigliato è quello sportivo, o meglio ancora “da battaglia”, con scarponcini e bastoncini da trekking, indispensabili quando il terreno è bagnato e scivoloso. Per chi avesse qualche difficoltà, la strada principale è comunque interamente carrozzabile anche se qui bisogna “venire da ospiti e non da turisti”, nel rispetto dei ritmi del luogo e dei suoi abitanti.
La partenza avviene dal Ponte Vecchio presso il piazzale del mercato di Zogno, da cui si diparte la strada per Stabello (indicazioni) diretta a Piazza Martina, che si raggiunge dopo un chilometro di tornanti.
Giunti alla Corna – bellissima casa fortificata medievale – si svolta a sinistra: un centinaio di metri ed ecco la contrada rurale di Piazza Martina (370 m.): una delle più piccole del comune Zogno.
Superata la piazza si svolta a destra, dove si imbocca un facile sentiero-mulattiera (SENT. CAI 504) che si inoltra nel bosco, delimitato per buona parte da muretti a secco e da un ruscelletto.
Il sentiero porterà in breve all’oratorio di Sant’Antonio abate, per poi proseguire con saliscendi non impegnativi fino a Poscante, in prossimità del cimitero.
Dopo pochi metri si incontra il primo dei 10 cartelli didattico-informativi sulla castagna, disposti lungo il tragitto.
Dove gli alberi si diradano si aprono alcuni affascinanti scorci sul paesaggio, e in pochi minuti si raggiunge la cappella di Sant’Antonio abate, un edificio di origine romanica ma rimpicciolito nelle dimensioni e trasformato nel XVII secolo in stile neoclassico. Sebbene le vere e proprie selve di castagno si trovino in quota, si incontrano numerosissimi esemplari di anche nel vicino bosco.
Ogni 17 gennaio, in occasione della festività di Sant’Antonio abate si rivive l’antica tradizione della benedizione dei panini di Sant’Antonio, che vengono distribuiti insieme ai biligòcc, alle frittelle preparate dalle donne della contrada e all’immaginetta del Santo, che è raffigurato in abiti pastorali nell’abside della chiesa.
A due passi c’è una fonte d’acqua, un tempo considerata curativa.
Aggirata la bella cascina retrostante, un cartello ci indirizza verso Poscante raggiungendo una radura soleggiata con vista su Grumello dei Zanchi, preceduta dal secondo pannello didattico.
Osservando la radura all’altezza del cartello si scorge la traccia di un sentiero, che si raggiunge attraversando il prato per una cinquantina di metri.
Una volta rientrati nel fitto bosco ceduo, ricompare ben evidente il nostro sentiero: un largo tratturo che propone anche strappi su pezzi semi-cementati, richiedendo parecchia attenzione quando le condizioni del terreno lo rendono piuttosto scivoloso. Nel frattempo s’incontreranno altri cartelli.
Il sentiero fuoriesce in una grande radura con cascina…
…per poi rientrare nel bosco dove si attraversa una vallecola, con tracciato ben evidente.
In breve si apre uno squarcio su Poscante, che per ora appare un po’ distante.
Il sentiero sbuca su una stradetta sterrata all’altezza di una santella, dove, svoltando a sinistra, aggancia un tratto selciato in discesa diretto a Poscante, dove sostiamo per una visita.
Percorsa una curva ci si ritrova quindi su una strada asfaltata, affiancata dal cimitero del paese: ed ecco Poscante a portata di mano.
Il piccolo villaggio agricolo di antica origine è da sempre costituito in comune e parrocchia: quella di San Giovanni Battista, affiancata dalla pregevole chiesetta della Madonna del Carmine.
La strada per Castegnone si può riprendere svoltando a destra imboccando la mulattiera gradinata a fianco della chiesa (che sbucherà nel piccolo parcheggio della contrada), oppure, se il terreno è bagnato e scivoloso, prendendo in salita la strada asfaltata.
Nel piccolo abitato di Castegnone, merita sicuramente una visita la chiesa secentesca di Santa Maria Bambina, con la facciata principale finemente decorata con finte modanature e finto bugnato.
All’interno è conservato un dipinto del secolo XVII raffigurante un’insolita Madonna con Bambino, opera di Carlo Ceresa, artista brembano che ha lasciato nella valle innumerevoli segni della propria arte, insieme alle dinastie dei Baschenis e dei Guerinoni della Valle Averara, i Santa Croce, i Licini e i Gavazzi di Poscante, i due Palma di Serina, Gianpaolo Cavagna, Giovanni Busi Cariani e Mario Codussi, per citare i nomi più famosi.
Ed è qui, nella contrada di Castegnone che sorgevano i secadùr, uno dei quali è stato ripristinato per riportare in auge l’antico metodo di preparazione dei biligòcc.
L’antica arte dell’essicazione
Nonostante l’apparenza le castagne sono frutti facilmente deperibili. Bene lo sanno i castanicoltori, che nel tempo hanno escogitato tutta una serie di attenzioni, metodi e tecniche per conservarle e poterle consumare o vendere anche molti mesi dopo la raccolta.
La conservazione contempla tradizionalmente due soluzioni: il mantenimento del frutto allo stato fresco o la sua essiccazione. Alla prima appartengono le tecniche della ricciaia e della novena, antichissime ed entrambe basate sull’innesco di fermentazioni naturali che agiscono da conservante. Alla seconda appartengono i vari modi per ridurre il quantitativo d’acqua presente nel frutto, principale agente del loro deperimento.
Un tempo, nelle zone castanicole la tecnica più diffusa per conservare più o meno grandi quantitativi di castagne avveniva tramite gli essicatoi rurali o “metati”, piccole strutture talvolta parzialmente interrate e molto diffuse in ambito montano, che a seconda dei luoghi e della tradizione si collocavano nelle abitazioni ed erano presenti in forma sparsa ed isolata anche tra le selve di castagni.
Non possedendo tutte le famiglie un proprio essicatoio, era frequente la sua condivisione tra gruppi parentali o abitanti di intere contrade.
Con il declino dell’agricoltura montana, e con esso della castanicoltura di sussistenza e di piccolo smercio, gli essicatoi sono in gran parte andati persi o convertiti ad altri usi: quelli rimasti, pur se spesso inattivi costituiscono preziose testimonianze.
Il secadùr di Castegnone
I “secadùr” di Castegnone sono piccole costruzioni isolate o annesse a un’abitazione, a un solo vano inframmezzato da un graticciato di legno, su cui vengono stese le castagne migliori da essiccare.
Nella bella contrada alle pendici del Canto Alto, l’unico secadùr oggi recuperato permette di seguire la messa in opera del metodo di conservazione delle castagne, adottato per generazioni. Queste vengono caricate, fresche di raccolta, su una fitta griglia in legno posta nella parte alta della struttura, alla quale si accede tramite una scala esterna.
Il lento essiccamento viene eseguito fornendo dal basso moderate quantità di aria calda mista a fumo, per una ventina di giorni circa.
L’accesso al piano terra (che in questo caso avviene dal cortile di un’abitazione privata) conduce alla “stanza del fumo”, da cui si espande ininterrottamente il calore di un fuoco alimentato con ceppi di Castagno, che produce la completa essiccazione dei frutti protetti dalla cura e dai costanti controlli.
Il fumo denso e profumato ottenuto dalla combustione del legno di Castagno conferirà al frutto il caratteristico aroma dei biligòcc.
Le castagne così affumicate vengono infine poste in sacchi di iuta e qualche giorno prima della vendita sottoposte a bollitura e passate in acqua fredda per imprimere alla buccia le caratteristiche grinze.
Il tocco finale può essere una spruzzata d’olio per la lucidatura del prodotto, quanto basta per far bella mostra nei mercati e nelle fiere bergamasche. Dopo l’asciugatura all’aria aperta le castagne sono pronte per essere consumate.
L’imbiancatura consiste invece nella sgusciatura e sbucciatura manuale o meccanizzata.
La meraviglia di questa tradizione vive nel cuore di tutti gli abitanti della contrada e nei visitatori: profumi, colori e tanta storia in un semplice frutto.
La sagra novembrina
Anche quest’anno a Castegnone il 17 Novembre la tradizionale “festa dei biligòcc” rivive nell’ambito della rassegna Sapori & Cultura, portando alla riscoperta dei sapori di una volta. Per l’occasione i residenti aprono le loro abitazioni, mostrando ai turisti alcuni ambienti allestiti con oggetti rurali per riscoprire le antiche consuetudini e gli antichi mestieri: la camera da letto, la cucina con il camino, le cantine di Siltèr, i lavori domestici, la quotidiana lotta per la sopravvivenza, per le quali i modesti attrezzi, frutto dell’ingegno e dell’esperienza, costituivano un prezioso aiuto.
E’ prevista anche una visita guidata gratuita al “secadùr”, con la presenza di “Maestro” della tradizione che mostrerà il laborioso procedimento di essiccazione delle castagne, svelando i segreti che si tramandano da generazioni. La festa offre anche l’occasione per assaggiare i prodotti tipici della Valle Brembana e della Bergamasca in generale.
L’accesso alla contrada avverrà solo tramite navetta bus gratuita con partenza dal campo sportivo di Poscante e sarà possibile ristorarsi in loco durante la pausa pranzo.
Note
(1) “La via della castagne” rientra nell’ambito del progetto “Zogno a occhi aperti” promosso dall’Assessorato al Turismo di Zogno allo scopo di valorizzare sia il frutto che la castanicoltura, antica tradizione locale. Il progetto, rivolto alla popolazione zognese, ai turisti, alle famiglie e alle scolaresche, è corredato da una pubblicazione cartacea (32 pagine) ed integrato da totem multimediali nonché da App della rete museale, includendo anche visite guidate estive gratuite alla scoperta de “La via della castagne”. Per ulteriori informazioni è possibile visitare il sito web www.zognoturismo.it., mentre per le prenotazioni alle visite guidate (obbligatorie con posti limitati) è possibile contattare tramite email: elena@emozioniorobie.it ; sms o WhatsApp: 348.5423481.
Bibliografia consigliata
Tarcisio Bottani, Poscante Storia e Memoria. Fotografie di Ettore Ruggeri. Edizioni Corponove. Data di pubblicazione: 2019.
Maurizio Buscarino, POST CANTUM, un Paese. Centro Culturale Poscante, Poscante 2001. Oltre ai testi di Maurizio Buscarino vi sono quelli di Vittorio Polli, Valter Gherardi, Viviana Donadoni, Ettore Ruggeri e Robea Valtorta nonché 180 fotografie storiche raccolte grazie alla collaborazione della maggior parte delle famiglie di Poscante.