Il Ponte della Regina, l’anima di Almenno, nascosta e dimenticata

Fotografie di Maurizio Scalvini

L’antico Lemine, il comprensorio dal quale ebbero origine i due Almenno (San Salvatore e San Bartolomeo), per secoli fu, a partire dai romani, uno dei più importanti centri del territorio bergamasco, raggiungendo il culmine nel corso della dominazione longobarda. Un luogo denso di memorie storiche e consacrato da un non comune patrimonio d’arte, rappresentato dalle chiese antichissime che qui sono sorte allo scemare delle paure dell’anno Mille, ed ancor prima, costituendo le più emblematiche ed importanti della cultura romanica in Lombardia.

Basti pensare all’incredibile santuario della Madonna del Castello in Almenno S. Salvatore, che, sorto in un luogo di cruciale importanza, racchiude in sé quasi duemila anni di storia inglobando ben tre edifici sacri, essendo stato sede del Pagus e della Pieve, i due vasti comprensori amministrativi nei quali fu suddiviso il territorio rispettivamente in età romana e medioevale.

Il santuario della Madonna del Castello, costruito all’inizio del Cinquecento ed oggi intitolato a Santa Maria Addolorata, ingloba la chiesa di San Salvatore, sede della Pieve in età medioevale

Una scia di edifici antichissimi, che dalle sponde del Brembo continua dipanandosi lungo le sponde dell’Adda e che induce a chiedersi il perché di questo concentrarsi di edifici romanici in una zona della Bergamasca che in quel periodo non era attraversata d itinerario storico importante, come poteva essere per esempio quello della Via Francigegna, lungo la quale erano sorte  basiliche, monasteri e ospizi per i pellegrini.

Non va dimenticato che per la vasta plaga di Lemine transitava la Strada della Regina, l’antica via militare romana che portava alle Rezie, supportata nel periodo tardoimperiale da un ponte monumentale (il Ponte di Lemine, meglio noto come “Ponte della Regina”), eretto sul sito dell’attuale Madonna del Castello per il passaggio di truppe, uomini e merci, e presto divenuto importante crocevia di traffici e di comunicazioni.

Il suo volto, o meglio, ciò che ne rimane, sfugge ai tanti automobilisti che da Almè percorrono la strada per Almenno, a volte ignorando anche l’esistenza di una storica via militare, che, ormai celata sotto prati ed edifici, corre da quasi due millenni sotto l’inaccessibile strapiombo scavato nella roccia dalla corrente del fiume Brembo.

Al termine di via Ponte Regina, in Almè, un’area privata (nel riquadro rosso) impedisce l’accesso al terrazzo fluviale affacciato sui ruderi del Ponte della Regina (nell’immagine), eretto tra le due sponde opposte di Almè e Almenno S. Salvatore, a poca distanza da sito dal sito in cui è sorto il santuario della Madonna del Castello (Ph Maurizio Scalvini)

Come fu destino di altri importanti ponti romani, intorno al Ponte di Lemine convergevano numerose strade, lungo le quali sorsero insediamenti (vici), villae e luoghi di culto, e più tardi torri, palazzi e castelli che in molti casi han trovato la loro ragion d’essere proprio in relazione con questo antico ponte.

Il Pagus di Lemine, uno dei distretti territoriali  della Bergamo romana, doveva grosso modo corrispondere alla Pieve medioevale, comprendendo le Valli Imagna, Brembilla e Brembana fino a tutto S. Pellegrino Terme (1). Perciò non stupisce il fatto che in età romana il distretto di Lemine costituisse una corte imperiale, una vera e propria corte posseduta personalmente dall’imperatore romano,  passata dai re invasori dell’era barbarica ai re longobardi, che la “restaurarono” istituendovi una curtis regia.

L’importanza del sito della Madonna del castello in epoca romana è attestata anche da il ritrovamento nei pressi di un altare dedicato al dio Silvano, conservato al Museo Archeologico di Bergamo, dai resti di un impianto produttivo e da quelli un grande complesso residenziale che ha restituito  migliaia di frammenti di pregevole intonaco dipinto: una vera e propria rarità nel panorama bergamasco

L’imperatore doveva risiedere in quel palazzo romano di età augustea venuto alla luce sul sito della Madonna del Castello, a breve distanza dal Ponte della Regina; utilizzato come residenza saltuaria dai sovrani che qui si sono avvicendati, il palazzo fungeva da sede di controllo civile, militare ed economico di tutto il territorio circostante.

Attigua al sacro palazzo vi era la cappella palatina, un luogo di culto dedicato al Santo Salvatore, di cui si rintracciano parte dei muri perimetrali nella cripta che in seguito le è stata addossata. Nella cripta della Pieve rimane quindi un ricordo tangibile e prezioso dell’antica cappella palatina.

Ma per quale motivo? Nel X secolo i Conti di Lecco, nuovi signori della corte di Almenno, avevano fortificato tutta l’area attorno al loro palazzo cingendola di mura; la cappella, trovandosi sul perimetro delle mura venne trasformata in cripta, e sopra di essa venne realizzata una nuova chiesa: la Pieve di San Salvatore.

Delle quattro colonne che sostengono la copertura della cripta, tre sono d’epoca romana, compresi i capitelli recuperati in loco da un antico costruttore.

La cripta della Pieve alla Madonna del Castello è un edificio a pianta rettangolare diviso a metà da una fila di 4 colonne (di cui tre d’età romana) che sostengono le vele della copertura. Una parte dei muri perimetrali della cripta appartengono all’antica cappella palatina

 

Varcata la grande porta situata a destra del tempietto posto in corrispondenza dell’altare del Santuario, si entra nell’antica Pieve di San Salvatore, eretta sopra la cripta altomedievale. La pieve era una chiesa a cui venivano affidati i compiti pastorali propri della parrocchia, quali l’amministrazione dei sacramenti e la riscossione delle decime

Ma le sorprese non finiscono, perché agli inizi del Cinquecento la Pieve di San Salvatore venne inglobata nel santuario della Madonna del Castello, di cui oggi costituisce la parete di fondo.

Il cinquecentesco santuario della Madonna del Castello si presenta composto in due parti, due chiese distinte ma tra loro congiunte poiché la facciata dell’antica chiesa plebana dedicata a San Salvatore, risalente al IX secolo, costituisce la parete di fondo del grande edificio rinascimentale ad archi trasversi che oggi rappresenta la chiesa principale del santuario e che comunica con l’antica basilica per mezzo di una porta situata a destra dell’altare maggiore 

Il sito della Madonna del Castello, cresciuto all’ombra dell’antica strada militare romana e del suo ponte, era dunque la sede di una corte imperale romana, mantenutasi tale fino al periodo longobardo e poi passata a nuovi signori.

Sul fianco della rupe a strapiombo sulla quale sorge il santuario della Madonna del Castello, un terrazzo fluviale posto alla destra idrografica del fiume Brembo, si apre una grotta con una sorgente chiamata “fontana del Ròch”, la cui presenza fa ipotizzare che in epoca romana qui vi fosse un Ninfeo, un edificio dedicato al culto di una ninfa. Nel tardo impero i ninfei vennero spesso utilizzati come struttura portante dei battisteri paleocristiani. Un accostamento interessante potrebbe essere costituito dal ritrovamento dei resti di una vasca battesimale sotto l’attuale pavimentazione della Pieve di San Salvatore, all’interno del santuario della Madonna del Castello (Ph Maurizio Scalvini)

Ma prima di poter tracciare le grandi strade militari, i Romani dovettero preoccuparsi di sedare le resistenze indigene delle vallate e le continue incursioni provenienti dalle Alpi, che soprattutto sul finire dell’età repubblicana e primo augustea facevano delle vallate orobiche un’area militarmente turbolenta.

Dall’altura del Santuario di Sombreno, la veduta sulla piana dei due Almenno, cui fa da quinta l’Albenza con la Roncola, tra la Valle S. Martino e la Valle Imagna

Le vette del Resegone, dell’Albenza, del Canto Alto, del Misma e del Torrezzo costituivano il limite del mondo romanizzato, una linea lungo la quale i Romani avevano disposto una sorta di  “strada di arroccamento”, che fungeva da confine tra l’area romanizzata e non.

Ad Almenno, naturale sbocco della Valle Imagna,  questa linea correva a sud dell’Albenza, dove sulle alture collinari dei monti Castra e Duno, esistevano presidi militari facenti parte del sistema difensivo romano lungo il confine.

Sulla sinistra i due cocuzzoli della collina di Castra, in una foto aerea del 1952. La collina ospitò un accampamento romano, un distaccamento di confine presumibilmente col passaggio dai Galli ai Romani, nell’ultimo periodo della Roma Repubblicana

La postazione sul Monte Castra, sorta nella fase di passaggio dai Galli ai Romani,  venne supportata da un acquedotto, che correva per due chilomentri sul fianco dell’Albenza.

Il tracciato dell’acquedotto romano dalla Valle Pessarola in Comune di Strozza, a Castra, L’acquedotto in cocciopesto, che correva sui fianchi dell’Albenza, dalla località Piscina, posta nella valle dell’Amagno, giungeva al Corno di Cantagallo in Val Settimana e terminava alla Forcella di Castra (sede di un accampamento romano), raggiungendo una lunghezza di due chilometri

L’accampamento di Duno era invece sorto come baluardo gallico per poi essere assorbito nel sistema difensivo romano lungo il confine di quel territorio che dall’epoca longobarda si chiamerà Lemine (2).

Veduta aerea (parziale) della collina di Duno (1952), termine celtico indicante un luogo fortificato, posta al confine di Almenno, dove l’Imagna confluisce nel Brembo. Tutta la sommità della collina è recintata da un muro lungo circa 900 metri e largo da 60 cm a un metro, formato da borlanti cementati disposti a lisca di pesce (la linea continua mostra quelli ancora visibili), mentre la sommità appare livellata e disposta a terrazzi sorretti da muri di sostegno (Almenno S. Salvatore, Archivio Parrocchiale)

Entrambi i presidi costituivano una difesa dalle incursioni che potevano giungere dalla Valtellina attraverso la Valle Imagna.

La collina di Duno e in secondo piano quella di Vigna, anch’essa sede di ritrovamenti, viste dal monte Ubione. Nella zona d’ombra, i gradoni che tagliano il fianco nord (Almenno S. Salvatore, Archivio Parrocchiale)

Le due postazioni vennero abbandonate quando nel 43 a.C. gli eserciti romani, sotto il comando del console Decimo Bruto (luogotenente della Gallia Cisalpina) assoggettarono gli ultimi irriducibili della popolazione locale liberando tutta la fascia collinare orobica. A quel punto i confini si spostarono in cima alle vallate più turbolente (es. Valcamonica e Valtellina), nel periodo in cui la Cisalpina cessava di essere una provincia per diventare uno degli undici distretti d’Italia.

Fu solo allora che i Romani poterono fondare la Comum-Bergomum-Brixia, la grande arteria militare che tagliava longitudinalmente buona parte del nord Italia passando ai margini dei rilievi, dislocando lungo tutto il suo percorso una serie di presidi militari (3).

Il fiume Brembo all’altezza dei resti del Ponte della Regina e il monte Ubione sullo sfondo (Ph Maurizio Scalvini)

La strada riprendeva il tracciato dell’antica via “pedemontana”, che secoli prima era percorsa dai traffici tra gli Etruschi e principi celti d’Oltralpe; traffici che avevano arricchito anche il nostro territorio permettendo lo sviluppo di un centro protourbano sul Colle di Bergamo (4).

Un avanzo del pilone appartenuto al Ponte della Regina, sulla sponda almennese. Sullo sfondo fa capolino il campanile della chiesa della Madonna del Castello (Ph Maurizio Scalvini)

Alla lenta penetrazione dei coloni corrispose lo sfruttamento delle terre conquistate; la  centuriazione interessò l’area compresa tra il Brembo e i torrenti Tornago e Armisa, fino ai ponti della Regina e del Tarchino (5). Fu così che crebbero quegli aggregati rurali cresciuti all’ombra della strada militare, come Agro, Borgo e Campino, i cui abitanti dovevano lavorare su quei terreni che venivano disboscati lungo le prime vie di comunicazione.

Disegni dei reperti archeologici romani del la villa rustica in Campino, sorta grazie alla vicinanza di corsi d’acqua (“Ritrovamento Malliani in Campino”, da Vimercati Sozzi, Spicilegio archeologico nella provincia di Bergamo dall’anno 1835 all’anno 1868 –  Biblioteca civica A. Mai)

In età imperiale la via militare per Como andava acquisendo ulteriore importanza: i passi che dalla città lariana conducevano al cuore dell’Europa erano ormai percorribili in tutta sicurezza e le città d’oltralpe fungevano da centro di confluenza e di smistamento per tutta l’Europa, delle merci che arrivavano ai principali porti del Mediterraneo centrale (6).

E fu proprio allora, data l’importanza commerciale assunta dalla Bergomun-Comum, che la strada venne supportata dalla realizzazione del Ponte della Regina, un ponte monumentale voluto dall’imperatore Traiano, per permettere un passaggio rapido e sicuro agli eserciti diretti verso le Rezie.

La presenza più grandiosa della presenza romana ad Almenno sono i ruderi del Ponte della Regina ad Almenno San Salvatore, costruito nel II secolo d.C. sfruttando un isolotto al centro del Brembo. Inserito nel sistema viario della via pedemontana, il ponte era crocevia del passaggio militare e commerciale verso l’Europa (Ph Maurizio Scalvini)

Le sue grandi dimensioni erano giustificate dal superamento del considerevole avvallamento che separa le due sponde, costituendo un esempio di quella capacità costruttiva romana della quale si trovano tracce in varie parti dell’impero. L’impatto ambientale e paesaggistico fu così notevole da suscitare l’attenzione, oltre che degli storici, anche di poeti e di pittori come Lorenzo Lotto, uno dei massimi esponenti della pittura lombarda.

Nella rappresentazione di paesaggio, la pittura riprese più volte l’iconografia del ponte della Regina. Dettaglio dalle “Nozze mistiche di S. Caterina” di L. Lotto (1523)

Dell’imponente manufatto, celebre per la sua grandiosità e per la sua vita millenaria, attualmente si conservano una pila (restaurata nel 1985) e le tracce di altre due. Ma in origine, secondo la ricostruzione dell’ing. Elia Fornoni (7) l’imponente struttura era composta da otto arcate impostate su sette pile, per una lunghezza totale di circa 180 metri, un’altezza di 25 e una larghezza di 6 metri e mezzo.

Del ponte di Lemine sono sopravvissuti i resti di una pila e le tracce di altre due. Ripresa eseguita dalla sponda di Almenno (Ph Maurizio Scalvini)

Il Ponte di Lemine, sebbene non raggiungesse l’audacia costruttiva di quello di Traiano costruito sul Danubio – assai più lungo e con il piano in legno -, era tuttavia un’opera grandiosa, singolarmente somigliante al ponte romano di Alcantara, meglio conservato, costruito nello stesso periodo sul fiume Tago.

In un punto più lontano dalla riva, nel grande campo emerge il pilone della sponda di Almenno. La figura umana lascia intuire l’imponenza dell’antico ponte, che, unico manufatto di rilievo lungo la strada Bergamo-Como, fu importante per le attività e i traffici passanti per la valle S. Martino (Ph Maurizio Scalvini)

Il manufatto protrasse la sua esistenza sin verso la fine del XV secolo, permettendo una stretta relazione tra le due opposte sponde, tra i centri romanici di Lemine e la sede della corte regia di Almè, occupata poi dai Ghisalbertini, di cui restano tracce nel castello e nella chiesa di S. Michele.

Il ponte della Regina in un particolare della “Carte militaire du moyen age rappresentant le theatre de la guerre”. Dipinto a colori su pelle (cm 40×56), prima metà del sec. XV. Biblioteca Nazionale di Parigi (Gritti, 1997)

Lo sviluppo di Almenno ricevette inoltre un grande contributo dalla vicinanza all’Isola Brembana, il cui ruolo strategico, dal punto di vista militare e degli approvvigionamenti, era legato sia alla Bergomum-Comum che a Milano, città che in età tardoantica era stata eletta a rango di capitale dell’impero: e non a caso, lungo la linea che dal Brembo si diparte verso l’Adda, una decina di centri hanno dato vita alle più importanti chiese romaniche sorte intorno all’anno Mille quasi seguendo un percorso immaginario che dalle sponde del Brembo si snoda fino all’Adda. Un percorso che vede in S. Tomè l’emergenza di spicco e dove talvolta si avverte la presenza del fiume nei ciottoli levigati, come nella basilica di Santa Giulia, a Bonate Sotto. Un itinerario che prosegue fino all’abside romanica della parrocchiale di San Bartolomeo a Marne e alla chiesa di San Fermo, poco distante dalla strada romana tra Bergamo e Milano, per attestarsi, dopo aver superato numerose chiese antichissime, a Vaprio d’Adda, dove sorge la chiesa romanica di San Colombano.

INRESSANTI INCONTRI LUNGO L’ITINERARIO DELLA VIA BERGOMUM-COMO

Varie ipotesi sull’effettivo itinerario della Bergomum-Comum si sono succedute nel tempo, anche seguendo le indicazioni fornite dalle fonti antiche, tra le quali la Tabula Peutingeriana (carta geografica del III secolo d.C. dipinta su pergamena, conservata nella Biblioteca Imperiale di Vienna), in cui risulta essere documentata insieme alle principali direttrici viarie romane

La via militare Bergamo-Como si trova indicata nel segmento III della Tabula Peutingeriana, che la mostra al centro verso l’alto, con le indicazioni Como, Bergamo, Leuceris, Brescia. Dubbi permangono per quanto concerne il percorso da Almenno a Como, sia per l’identificazione dei fiumi Ubartum e Umana che non trovano corrispondenze con gli attuali corsi d’acqua, e sia sul possibile errore di posizionamento della località Leuceris, identificata dal Rota con Lovere, dal Mazzi con Lecco, dalla Cantarelli e dal Manzoni con Chiari, quest’ultima ritenuta l’ipotesi più probabile (Bergamo, Biblioteca Civica S. Mai)

Il tracciato si snodava con un percorso di quasi 60 km lungo una stretta fascia pedemontana della Lombardia centrale, attraversando le attuali provincie di Bergamo, Lecco e Como, e si svolgeva in posizione intermedia tra l’ambiente montano delle prealpi orobiche a Nord e la fascia delle risorgive dell’alta pianura a Sud, correndo a settentrione dei laghi brianzoli.

Da Bergomum, il ponte era raggiungibile partendo dalla strada di San Lorenzo sulla cerchia delle mura, che scendendo fino a Valtesse varcava la Morla a Pontesecco, risaliva la collina della Ramera per raggiungere il piano della Rovere a Petosino e poi Cavergnano tra Almé e Bruntino; da qui, con un rettilineo dolcemente degradante fino al ciglio del Brembo, si presentava al Ponte di Lemine. Non è difficile immaginare le truppe varcare il Brembo ad Almenno per immettersi sulla grande arteria lastricata.

Sembra che dalla città, la strada fosse larga oltre quattro metri, con un fondo assai curato, tutta selciata e in qualche punto anche lastricata. Di fatto la sua presenza, unitamente alla direttrice che dalla porta Sant’Alessandro conduce alla piana verso Mozzo, ha condizionato fortemente l’assetto del territorio.

Per la restante parte del percorso permangono dubbi, non ancora completamente chiariti dai ritrovamenti archeologici.

Come indicato dal Fornoni, partendo dal Ponte di Lemine a Ca’ Plazzoli il tracciato, oggi celato sotto i campi ancora coltivati, proseguiva lontano dall’abitato di Almenno San Bartolomeo, fino al ponte del Tarchino sul torrente Tornago, nei pressi di San Tomè.

Lungo la ripa che scende verso il corso del Tornago, è sorta la Rotonda di San Tomè, a poca distanza dal tracciato della Bergomum-Comum

Un ponticello che nonostante i rifacimenti subiti nel corso dei secoli, porta ancora un’impronta della sua origine romana. Oggi avvolto dalla vegetazione selvaggia, è guardato dall’alto da quello in cemento armato della nuova strada per la Val S. Martino.

Il modesto ponte del Tarchì sul Tornago, eretto sul viadotto su cui correva la strada militare romana in prossimità dello sbocco nel Brembo. Anticamente chiamato ponte del Diavolo, fu realizzato in epoca medievale (XII-XIII secolo) probabilmente come rifacimento di un manufatto romano. La struttura, con arco singolo, presenta muratura in conci squadrati e allineati fino alla chiave dell’arco, mentre superiormente è realizzata in pietra e meno rifinita e in ciottoli di fiume, a tratti disposti a spina di pesce

Alcuni resti rinvenuti sotto il presbiterio di San Tomè parlano dell’esistenza in questo luogo di un antico tempio pagano, forse dedicato a Pale, la dea silvestre, come farebbe supporre una lapide ritrovata non lontano.

Rotonda di San Tomè

Ed è proprio qui, all’ombra della Rotonda, che tombe romane del I secolo indicano l’esistenza di un luogo di sepoltura.

Le tombe romane rinvenute sul sito dell’attuale Rotonda di S. Tomè

La strada romana passava in questo punto tagliando per il fitto bosco che degradava verso il Brembo. Il viandante vi giungeva attraverso i campi che si estendono fino alla Val San Martino o dopo aver superato il Brembo, imbattendosi nel tempio della dea che lo invitava alla sosta.

In questo stesso luogo, tra il VII e l’VIII secolo, un ignoto architetto innalzò l’edificio romanico, riutilizzando le pietre dell’antico tempio pagano per abbellire i capitelli, ornati da sculture primitive.

Ancor’oggi, al riparo della nicchia formata dagli alberi che circondano l’inconfondibile sagoma cilindrica, riusciamo a cogliere lo stretto rapporto che lo lega a questa parte più antica del territorio. Un rapporto che non smette di colpire la nostra immaginazione e affascinarci.

Il Mazzi ricostruisce il tracciato successivo, verso occidente: dice che dal Tornago la via volgeva verso Barzana, passava poi poco discosta da Arzenate e da qui si dirigeva verso S. Sosimo e Gromlongo, raggiungendo Pontida, per poi proseguire a Cisano e Caloziocorte.

Ma per lo studioso P.L. Tozzi è verosimile che con le operazioni della centuriazione (di cui restano tracce fino a Brembate di Sopra), i Romani preferissero superare il Brembo più a valle, a Briolo o a Ponte S. Pietro, rendendo i collegamenti fra Bergamo e Lecco più diretti.

L’antichissimo ponte a doppia arcata di Briolo

Altri studi ritengono più probabile che la via puntasse su Como transitando per Brivio. Ci muoviamo comunque entro il campo delle ipotesi, anche se si ritiene che l’esistenza di percorsi alternativi fosse molto probabile: a Olginate, in provincia di Lecco, in corrispondenza di un restringimento si sono individuati i piloni di un monumentale ponte romano del III secolo d.C. per l’attraversamento dell’Adda (8); poggiava su 16-18 pile, aveva una lunghezza di m 150 ed una larghezza di m 4. Secondo Tozzi questi resti non sembrano una prova decisiva che vi passasse la Bergomum-Comum o perlomeno che vi passasse sempre ed esclusivamente; casomai il ponte poteva riferirsi a una variante del percorso affermatasi in età imperiale avanzata, o anche servire a una via da Milano per Lecco, da dove sicuramente per via lacustre, ma probabilmente anche terrestre, si perveniva a Chiavenna, quindi in Valtellina e, attraverso il passo dello Spluga si raggiungevano il Reno ed il lago di Costanza, dunque l’Europa centrale (9).

In ogni caso, grazie al ponte di Olginate si potenziarono i collegamenti tra Bergamo e Como e tra Milano e Lecco, passando per Monza (10).

IL PONTE FRA CURE E MANOMISSIONI

Anche dopo la caduta dell’Impero Romano la strada mantenne la sua importanza di infrastruttura viaria cruciale per tutto il territorio pedemontano, e nel medioevo, come è provato dalle spese di manutenzione previste e imposte dagli Statuti di Bergamo, divenne, se non l’unica, la principale via di comunicazione con la Val S. Martino, servizio che non si esaurì del tutto anche dopo l’apertura di nuovi sbocchi. Per questa sua importanza, anche il ponte subì numerosi interventi di ripristino e restauro.

Il corso del  Brembo in località Molina, da una carta topografica del 1777. Da notare i ruderi del Ponte di Lemine, la seriola, gli edifici dei molini e della segheria (Dipartimento del Serio. Serie acque. Cartella n. 21. Bergamo, Archivio di Stato)  (Prefettura del Dip. Serio, b. 21)

 

Particolare del Ponte e della Strada della Regina

E’ facile immaginare che la struttura possa aver subito danneggiamenti durante le invasioni barbariche e una mancata o inadeguata opera di manutenzione, in particolare nella seconda metà del millennio; senza contare che durante le scorrerie e le distruzioni verificatesi nel Bergamasco alla fine del XII secolo nel corso delle lotte tra guelfi e ghibellini, la struttura potrebbe essere stata sottoposta a gravi danni.

E’ con l’autunno, con le prime nebbie, il sole pallido, il lieve fruscio delle foglie sotto i piedi, che il fascino del luogo e della sua storia colpiscono il visitatore e la sua immaginazione. Nell’immagine, i resti del ponte sulla sponda di Almè  (Ph Maurizio Scalvini)

 

Sponda di Almè: al centro fra i due piloni sono evidenti i recenti rimaneggiamenti subiti dal manufatto, che, realizzato per la via militare che portava alla Rezia, rimase in uso fino al XV secolo, e cioè fino alla rovinosa alluvione del 1493 (Ph Maurizio Scalvini)

Nessuno comunque avrebbe potuto fermare, oltre alle accanite devastazioni delle guerre, il secolare logorìo delle acque, tanto che nell’arco del XIII secolo le fonti cominciano a fornire alcune informazioni evidenziando il vero e proprio calvario per le casse del comune e dei villaggi fortemente interessati nel ripristinare al meglio la struttura, indicando ad esempio la realizzazione di un pilone nella parte mediana del ponte che vent’anni dopo risulta già molto eroso alle fondamenta, e segnalando la presenza di alcuni resti rovesciati che opponendosi al corso del fiume potevano danneggiare ulteriormente gli stessi piloni (11).

Resti del Ponte di Lemine nel 1894 (da Elia Fornoni, Il Ponte di Lemine, Tavv. I e II)

E’ probabile che le continue riparazioni e addirittura ricostruzioni cui il ponte fu sottoposto nel corso de XIII secolo ne abbiano compromesso la stabilità, in particolare a causa dei considerevoli gorghi provocati dalla costruzione di nuovi piloni, eretti, per ragioni di economia, sfruttando come basi quelli crollati e adagiati sul greto del fiume, ritenuti sufficientemente consistenti.

Resti del Ponte di Lemine nel 1894 (da Elia Fornoni, Il Ponte di Lemine, Tavv. I e II)

La maldestra riparazione e le periodiche turbolenze delle acque furono le cause maggiori dei danni che via via si verificarono nel tempo, fino al crollo del 1493.

IL ROVINOSO CROLLO DEL 1493

Rimasto in uso sino al XV secolo e superata l’ingiuria del tempo, il ponte resistette fino all’alluvione del 1493, quando, già compromesso dai rifacimenti, il 31 agosto crollò rovinosamente sotto l’impeto della piena eccezionale del Brembo, che danneggiò altri ponti e strade causando numerose vittime. Il Ponte della Regina perse così cinque archi: due per ogni estremità e un altro poco appresso.

Restarono in piedi solo le tre arcate centrali, sopra le quali rimasero bloccate per ben tre giorni trentasei persone in balia della furia del fiume. Per mantenerle in vita veniva loro lanciato del pane con le fionde; vennero soccorse con scale e corde solo quando l’acqua tornò ad un livello normale.

Le tre arcate superstiti si opposero al Brembo per ben trecento anni: una cedette il 15 giugno del 1783, le altre due dieci anni dopo, ormai logore per l’azione costante dell’acqua.

Disegno dei ruderi del Ponte di Lemine o della Regina eseguito nel 1784 dal Lupi (Codex diplomaticus, 1784-1799)

Dell’opera monumentale un poeta ne rievocò la memoria: …Tu, lungo spettro, fra le rive appari, ed in colonna, su le vane arcate, ripassano cantando i legionari (12).

IL MITO DELLA REGINA

Dopo la caduta del ponte, la storia della struttura ha iniziato ad intrecciarsi con le antiche tradizioni longobarde. Il suo ricordo e la presenza delle rovine sull’acqua ha colpito la fantasia popolare facendo sorgere tra gli abitanti della zona il mito che lo voleva attribuito a una regina longobarda: da alcuni alla grande regina Teodolinda e da altri alla commovente figura di Teutperga, rifugiatasi a Pontida dopo il ripudio dell’imperatore Lotario e poi, secondo la leggenda, animosa fondatrice del Monastero di Fontanella (13), dove sarebbe ancora sepolta. Avvolto in questo alone di leggenda, l’antico “Pontis de Brembo”, o “ponte de Lemine”, ha iniziato a chiamarsi “Ponte della Regina”, anche se qualcuno ha pensato che il nome potesse alludere a un intervento sul ponte in epoca longobarda.

“Dintorni di Bergamo”: avanzi del ponte di Lemine, una suggestiva rievocazione ottocentesca del Ponte delIa Regina nell’incisione di Boromèo Gilberto (1815-1885)

Nel nome, vi fu anche chi ravvisò un’interpretazione popolare della parola “Rezia”, la zona della Alpi Retiche verso cui conduceva la strada romana che attraversava il ponte sul Brembo.

L’ASPETTO ORIGINARIO DEL PONTE

Dato che i resti del vetusto ponte costituivano un pericolo per le opere di presa sulla sponda sinistra, il 28 marzo del 1893 il Prefetto della Provincia di Bergamo ne ordinò la demolizione, che fu eseguita dalla ditta dell’ing. Ceriani & C., proprietaria del Linificio e Canapificio Nazionale di Villa d’Almé. All’ing. E. Fornoni fu affidato l’incarico di studiare il manufatto affinché fossero demolite “sole parti dell’èra media”, salvaguardando quelle d’epoca romana.

Dall’osservazione dei resti emergevano le modifiche subite dal ponte nel corso de tempo: il manufatto originario era formato da grossi conci di pietra arenaria (cavata nella vicina località Merletta) che misuravano sino a m 1,75 di lunghezza e m 0,70 di altezza; una solida muratura di cava costituiva il paramento interno e le pietre combaciavano nel paramento esterno.

Negli interventi successivi, osservava invece materiali più scadenti e una diversa tecnica costruttiva, con un nucleo centrale composto da sassi di fiume e un rivestimento di pietre più piccole e grezze, unite da abbondante malta.

Le modifiche subite nel corso della sua storia sono evidenti ancor’oggi, osservando i differenti materiali che compongono quanto ne rimane, dove accanto a grossi conci di pietra arenaria troviamo pietre grezze e sassi di fiume legati grossolanamente.

Sponda di Almè: la massiccia e imponente struttura delle parti più antiche (Ph Maurizio Scalvini)

 

Il confronto con la figura restituisce la misura dell’imponenza dei ruderi del Ponte della Regina (Ph Maurizio Scalvini)

Effettuando rilievi sui reperti e sulla scorta delle versioni offerte da alcuni studiosi del passato (14), il Fornoni ne ipotizzò l’aspetto originale paragonandolo al coevo ponte romano costruito ad Alcantara sul fiume Tago, in cui la spalla centrale culminava fino al parapetto per sorreggere un arco trionfale dedicato a Traiano.

Ricostruzione grafica del ponte romano di Lemine secondo l’ipotesi dell’ing. Elia Fornoni, secondo il quale il ponte doveva essere lungo complessivamente m. 184 e alto m. 24,31; formato da otto archi con due raggiature diverse ma medesimo piano d’imposta e dotato di due esili spalle; i piloni dovevano essere sette, muniti da spalle formanti complessivamente una pianta esagonale: di queste solo quella centrale doveva culminare fino al parapetto come il coevo il ponte di Alcantara, dove i cappucci delle pile avevano lo scopo di sorreggere “le spalle o piedritti di un arco trionfale dedicato a Trajano”

 

Il ponte romano costruito ad Alcantara sul fiume Tago in epoca traianea

Le ripetute modifiche subite dal ponte nella sua storia e in particolare la rifondazione dei piloni, rendendo irriconoscibile la struttura primitiva ha dato luogo nel tempo a svariate interpretazioni.

Esisteva anche una seconda ipotesi circa la forma del ponte originario, abbozzata da C.M. Rota e studiata nei minimi particolari dall’ing. G.S. Paganoni,  che presentò il ponte in sette archi, sei piloni e senza spalle ai lati, ma impiantato direttamente sulle sponde rocciose del fiume, con la lunghezza di m. 209,43 e l’altezza di m. 24,25

Abbandonato il percorso antico che su di esso si snodava, sono andate perdute le tracce e riferimenti che per ben oltre un millennio avevano segnato questo ambito del nostro territorio: le nuove direttrici, impostate più a monte, hanno guidato altrove le attenzioni. Ed è strano che nell’ampliamento dell’abitato di Almenno non sia mai stato pensato un adeguato riferimento alla presenza dell’antica strada romana e del suo ponte, i cui resti meriterebbero, per importanza storica, un’attenta  rivalutazione in rapporto con l’ambiente circostante.

UNA CURIOSITA’

Fonti attendibili dicono che nel 1512, a seguito del crollo del ponte della Regina avvenuto alla fine del Quattrocento, in sua vece venne ripristinato il porto di Clanezzo per assicurare le comunicazioni alle valli Imagna e S. Martino

Una barca doveva collegare le due sponde finché ad Almenno non si fosse realizzato un nuovo ponte, il quale, contrariamente alle intenzioni iniziali, venne realizzato solo nel 1628 non ad Almenno bensì a Clanezzo, situata più a monte dell’antico tracciato (15).

Il ponte ligneo di Clanezzo costruito nel 1628, apparteneva alla Serenissima ma nel 1648 fu venduto a Girolamo Santino d’Adda e veduto nel 1673 alla comunità della Valle Imagna. Solo nel 1878, dopo l’ennesima piena che distrusse il porto di Clanezzo, al suo posto fu definitivamente realizzata, con piloni in gusto neogotico una passerella pedonale sospesa (Gamba, 2000) – (Ph Maurizio Scalvini)

Dopo essere stato distrutto da una piena, fu realizzata una nuova struttura in legno e l’idea di recuperare il ponte di Lemine venne così definitivamente abbandonata.

Solo verso la metà del XVI secolo i suoi resti furono coinvolti in un progetto di più larga scala redatto dall’ingegnere idraulico veronese Isepo de li Pontoni per la formazione di un canale anche parzialmente navigabile derivato da fiume Brembo e diretto alla città di Bergamo in direzione Paladina-Curno-Broseta. Il progetto però non venne attuato in quanto, in prossimità del ponte, si sarebbero dovuti realizzare costosissimi scavi nella roccia.

Nonostante l’avvenuto crollo del 1493 Isepo de li Pontoni intendeva utilizzare i massicci piloni rimasti in piedi per il suo progetto di diga per la formazione di un canale navigabile derivato dal Brembo, 1583 (Gritti, 1997)

Un ex-voto apposto su una parete del santuario della Madonna del Castello, sembra comunque indicare che ancora verso la fine dell’Ottocento una barca collegasse le due sponde affacciate sul Brembo.

La scena di un naufragio nel Brembo, nell’ex-voto datato 1883 apposto su una parete del santuario della Madonna del Castello. Sullo sfondo a destra il santuario della Madonna del Castello, mentre a sinistra, abbarbicato sul cocuzzolo della collina, è riconoscibile il Santuario di Sombreno

 

Note

(1) Gli storici suppongono che pieve e pagus dovessero abbracciare approssimativamente lo stesso territorio. Secondo il Mazzi la pieve di Lemine comprendeva tutta la Valle Imagna, la piccola valle del torrende Borgogna con Palazzago, fino ai confini con la Val San Martino, spingendosi anche sulla sinistra del Brembo, estendendovi il suo nome con Almé (Lemen) e Villa d’Almé (Villa Leminis), e abbracciando nel suo ambito almeno i territori di Bruntino e di Sedrina. Indicazioni del Rotulum Decimarum Leminis 1353 confermano che anche la Valle Brembilla sino ai confini della Val Taleggio, tutta la sponda destra del Brembo con Zogno e S. Pellegrino fino a Fuipiano, ampie zone del piano, come Locate, Ambivere, Tresolzio e forse Chignolo (“rationes decimarum”), appartenevano al pagus Lemennis (da Manzoni, Op. Cit. in bibliografia).

(2) Lemine (o, nelle sue varianti, Lemmenne, Leminne, Leminis, Lemennis), è il toponimo con cui nel Medioevo si individuava un vasto comprensorio territoriale ad occidente del fiume Brembo che aveva costituito una corte regia longobarda.

(3) Lungo il percorso della Comum-Bergomum-Brixia si sono rinvenuti alcuni reperti archeologici databili tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C.: a e Monte Castra ad Almenno, a Caslino, Castelmarte e Incino.

(4) Nella fase preromana (VIII-IV a.C.) la via pedemontana svolgeva un ruolo strategico e commerciale unendo gli insediamenti etruschi del mantovano con i paesi transalpini attraverso l’abitato di Como. Indizio dell’antichità del tracciato sono una seria di reperti rinvenuti su alture poste controllo del possibile tracciato viario (Duno, Vercurago, Chiuso) che presentano sia materiali affini alla cultura locale di Golasecca di frammenti di ceramiche greche ed etrusche. Verso la metà del IV a.C. si assiste ad una maggiore influenza della cultura di matrice transalpina celtico-insubre che modifica la struttura degli insediamenti e il sistema commerciale precedente favorendo la città di Milano. In età romana la via pedemotana costituiva l’asse Est-Ovest, della centuriazione relativa al territorio di Almenno.

(5) L’area compresa tra gli attuali Almenno S. Salvatore e Almenno S. Bartolomeo presenta tracce di centuriazione, in particolare nelle località Agro e Bosenta, area compresa tra Brembo, Tornago e Arrisa; si inseriscono nell’impianto di centuriazione il cosiddetto Ponte della Regina sul Brembo, la località di Stazanum, nei pressi del ponte sulla valle del Tornago, e lo stesso ponte sul Tornago. All’interno di una maglia centuriata compresa tra I tre corsi d’acqua esistevano probabilmente ville rustiche, la cui presenza è indirettamente testimoniata dal ritrovamento di una tomba tardoromana in località Campino, nel campo detto la Noca.

(6) La strada romana Comum-Bergomum-Brixia venne tracciata dai Romani a partire dall’89 a.C., momento in cui venne concesso alla Transpadania il diritto latino. Dal III secolo d.C. connetteva l’antica Aquileia, nel Veneto, con i territori d’oltralpe attraverso Como, da dove raggiungeva la provincia romana della Rezia, posta in corrispondenza dell’attuale Canton Grigioni e del Tirolo, e da lì l’Europa centrale. Venne soggiogata sotto Augusto nel 16 d. C. dopo due lunghe campagne contro i Rezi, i Celti e i Vindelici, che permisero di raggiungere i valichi in condizioni di assoluta sicurezza. Da allora la città lariana divenne il perno di un sistema di comunicazioni che comprendeva il lago, i passi del S. Bernardino, del Maloja, del Septimer, del Julier e, se si vuole, dello Spluga, del Lucomagno e del Gottardo. Gli sbocchi erano il Rodano, il lago di Costanza, il Reno, il Danubio e con essi tutte le città (a cominciare da Coira = Curia Raetorum) che fungevano da centro di confluenza e di smistamento per tutta l’Europa delle merci che arrivavano ai principali porti del Mediterraneo centrale. In questo quadro Como acquistò il ruolo di intermediaria fra il centro Europa, l’Italia e l’Oriente, anche perché la direttrice Milano-Como-Spluga-Brigantium era la più breve per raggiungere il Reno, grazie alla navigazione longitudinale del Lario, che con notevole risparmio di tempo (almeno due giorni) e di fatica, rispetto al percorso di terra, portava a Summus Lacus, ove cominciava il percorso trasversale della Raetia per l’alta valle del grande fiume europeo. Roma ne perse il controllo nel IV sec. d. C. quando venne invasa dai alemanni, bavari e svevi.

(7) E. Fornoni, Il Ponte di Lemine, Bergamo 1894; dello stesso autore anche L’antica Corte di Lemine: il Ponte sul Brembo. L’ipotesi ricostruttiva di Fornoni venne fatta sulla scorta degli studi precedenti di Lupo, Rota e Mazzi.

(8) Degrassi 1946.

(9) Storia economica e sociale di Bergamo. Secondo Cantarelli (Carta Archeologica della Lombardia, cit. in bibliografia) un secondo tracciato più diretto passava tra il Brembo e Brivio (ove furono notate in passato tracce di un ponte antico) e si manteneva più lungo il versante dei colli che precedono Bergamo (Fontana, la Madonna della Castagna).

(10) Storia economica e sociale di Bergamo.

(11) Proprio nell’arco del XIII secolo le fonti cominciano a fornire alcune informazioni evidenziando il vero e proprio calvario per le casse del comune e dei villaggi fortemente interessati nel ripristinare al meglio la struttura. Queste continue attenzioni sono dimostrate anche dal fatto che lo Statuto cittadino impegnava il Podestà alla verifica annuale dei ponti, (per il caso di Almè le ricognizioni vennero effettuate tre volte l’anno).
Nel 1208 e nel 1209 il Comune di Lemine dovette contrarre un prestito di 20 lire imperiali per restaurare il ponte sul Brembo. Il 19 novembre del 1250 i sovrintendenti al pontis novus de Lemen chiesero ed ottennero dai maestri che lavoravano al ponte l’opportunità di realizzare una pillam….in medio ponte. Ancora nel 1273 il Comune di Bergamo mandò alcuni deputati ed il perito Bertramo de Forzella a vedere e riferire su una pila que est multum smaganiata propter fondamentum…quod multum est cavatum sub glera ipsius Brembi. I sovrintendenti riferirono poi sulla necessità di rimuovere alcuni resti rovesciati i quali, opponendosi al corso del fiume potevano danneggiare ulteriormente gli stessi piloni. Nel 1283 infine la vicinia di S. Pancrazio pagò quattro lire e mezza imperiali imposite ipse vicinancie pro Pergami occasione reformationis pontis de Lemine.

(12) Bortolo Belotti, Poeti e poemi del Brembo, 1931.

(13) P. Manzoni, Op. Cit. in bibliografia.

(14) Per quanto concerne la forma e le dimensioni del ponte, Fornoni si rifà a quella originata dal Lupi e poi accettata con piccole variazioni da G.B. Rota, da Maironi da Ponte e dall’Ab. Calepio, confortata dal punto di vista storico e architettonico dal Mazzi e dallo stesso Fornoni, il più profondo e completo studioso della questione.

(15) P. Mazzariol, 1997.

Riferimenti essenziali

Paolo Manzoni, Lemine dalle origini al XVII secolo. Comune di Almenno S. Salvatore. Comune di Almenno S. Bartolomeo. Bergamo, Poligrafiche Bolis, 1988.

Carta Archeologica della Lombardia – II La Provincia di Bergamo – I Il territorio dalle origini all’altomedioevo. A cura di Raffaella Poggiani Keller. Ed. Panini, Modena, 1992.

Fondazione per la storia economica e sociale di Bergamo – Istituto di studi e ricerche, Storia economica  e sociale di Bergamo – I primi millenni – Dalla preistoria al medioevo. Volume II. Bergamo, Poligrafiche Bolis, marzo 2007.

Sulla Via delle castagne al Canto Alto, fra i segreti dei biligòcc di Poscante

Reportage fotografico di Maurizio Scalvini

Dal Canto Alto, la tradizione bergamasca dei “biligòcc” 

Tutti conosciamo il Canto Alto per la grandiosa quinta scenica che si staglia alle spalle della città e lo apprezziamo per i panorami che si godono da lassù o  per le grotte nascoste nella boscaglia (di cui la più famosa è quella del Pacì Paciana, non facile da individuare) e per la selvaggia Valle del Giongo, riserva naturalistica di pregio, ricca di acque e di fenomeni carsici, inclusa nel Parco dei Colli di Bergamo.

Pochi sanno invece che questa cima così familiare in passato è stata uno strategico punto di osservazione sulle vallate bergamasche, fungendo da tramite di un’importante via di comunicazione che connetteva Zogno alla città attraverso un sentiero storicamente documentato e chissà quali altri tracciati di cui s’è persa la memoria, disposti lungo le sue pendici: il primo partiva da Poscante, piccola frazione di Zogno, e valicando il Monte di Nese giungeva a Nese e proseguiva per Ranica, Marzanica, Baio, la Martinella arrivando al Vico Plorzano, ovvero Borgo Santa Caterina.

Nel corso del medioevo la sua vetta è stata poi presidiata da un ampio fortilizio in muratura, ripetutamente distrutto e ricostruito durante le aspre contese fra guelfi e ghibellini, ed abbattuto definitivamente all’inizio del Trecento: i suoi resti sono stati scoperti nel corso degli scavi per le fondamenta della croce.

Il versante ovest del Canto Alto (1146 m.). Conosciuto come “Piz Dent” o “Pizzidente” (dalla voce dialettale “dent” relativa alla valle che scende a Sorisole), si staglia tra Zogno e Sorisole, separando con la sua dorsale le Valli Brembana e Seriana

Ma il Canto Alto presenta altri volti che ne accrescono il fascino e che possiamo scoprire a pochi passi dalla città: un pugno di tranquille contrade  adagiate sulle pendici a nord, preziose depositarie della storia e della cultura locale, ancora molto viva e sentita fra i suoi abitanti.

Contrade che per secoli hanno tratto sostentamento dalle rigogliose selve di Castagno che ne ricoprono le pendici, rivestendo un ruolo fondamentale per la popolazione di Zogno e dei comuni limitrofi nell’approvvigionamento del legname e dei prelibati frutti.

Ed è proprio lungo il versante nord che fra le amene contrade di Poscante nasce la “Via delle Castagne”, un’antica mulattiera che si snoda per circa tre chilometri dal borgo rurale di Piazza Martina a Castegnone, patria d’origine dei biligòcc, le castagne essiccate e affumicate con un procedimento del tutto particolare.

Alle pendici del Canto Alto sulla “via delle Castagne”

Nell’alimentazione contadina la castagna era “il pane dei poveri” anche per il suo elevato contenuto di carboidrati: dalla sua farina si ricavavano pani, gnocchi, polenta, zuppe e dolci, mentre l’essiccazione e l’affumicatura consentivano la lunga conservazione del frutto, da riservare al consumo locale nonché alla vendita.

Per ottenere i gnocchi di castagne occorrono 400 gr di patate e 400 gr di castagne secche messe in acqua per una notte e poi fatte bollire. Una volta schiacciate, vanno  mischiate a un uovo, 150 gr di burro e sale. Impastare il tutto con farina e poca acqua e condire con burro e salvia o, in alternativa, con salvia, panna e funghi (finferli, porcini..)

Ma non solo, il Castagno veniva sfruttato per la legna da ardere o per fabbricare pali per la viticoltura, mentre il fogliame tornava utile nelle stalle.  

Autunno nei Foldoni, nel territorio di Poscante (Ph Ettore Ruggeri)

Arrostite sul camino, le castagne allietavano le serate quando la famiglia si riuniva per la scorciatura del granoturco mentre soprattutto in tempo di guerra erano molte le famiglie che ricavavano dalla vendita dei frutti affumicati i mezzi per il proprio sostentamento.

Con grandi sacchi di iuta si partiva verso la pianura per barattarli con granoturco, frumento e patate o, nel migliore dei casi, per guadagnare qualche soldo.

1947: Andrea Gavazzi, nato a Poscante in contrada Ripa nel 1897, noto produttore e venditore di biligòcc , venduti alle fiere paesane nel periodo tra la metà di gennaio e l’inizio febbraio. I biligòcc venivano prelevati direttamente dal sacco di iuta con i misurini e consegnati in sacchetti di carta (Fotografia tratta da “Poscante e dintorni – ieri e oggi”, a cura di Tarcisio Bottani)

Il piccolo ma costante commercio dei biligòcc trovava il suo culmine nelle feste patronali invernali fino alla madonna Candelora, rivaleggiando con quello di Vall’Alta in Val Seriana: dalla festa di Santa Lucia sul Sentierone a quella di San Mauro che si teneva il 15 gennaio sia in città che a Bruntino, alla festa di Sant’Antonio abate che si teneva alla Fiera il 17 gennaio, dove si portavano a benedire gli animali da cortile, adornati con nastri e fiocchi.

Un gustoso disegno a pastello di Alfredo Faino, con un venditore di biligòcc alle prese con due monelli scalzi durante la festa di Sant’Antonio: sullo sfondo, spunta la chiesa di San Marco

Gli uomini in tabarro e cappello arrivavano in Bergamo nel cuore della notte, e dopo aver depositando i sacchi sul sagrato della chiesa di San Marco iniziavano a lanciare il famoso richiamo: “bei biligòcc, biligòcc, alè gente!”.

I biligòcc di Poscante, oltre ad essere famosi per la loro bontà avevano la caratteristica di essere i più belli perché le donne li mettevano nell’olio e con uno panno di lana li lucidavano: un segreto che li ha resi celebri in tutta la Lombardia.

1925: Aquilino e Leone e Luigi Gavazzi alla fiera di Sant’Antonio a Bergamo detta “del porcellino” . Ól Chilo e i Gigante (Foto tratta da “POST CANTUM – un paese”, a cura di Maurizio Buscarino

Celebre è anche la sagra che si svolge ancor’oggi a Sant’Antonio Abbandonato, frazione di Brembilla, in concomitanza con la festa padronale di San Mauro, che si tiene ogni anno il 15 di gennaio.

Ol Rino di Benecc (Rino Ruggeri) col sàc di biligòcc a Sant’ Antonio Abbandonato, 1979 (Foto Tito Terzi)

Oggi la tradizione dei biligòcc si è conservata soprattutto nelle loro terre d’origine, presentandosi in forma di lunghe collane in Valle Seriana e prevalentemente sfuse in Valle Brembana, dove i castagneti intorno a Poscante erano e sono assai floridi e produttivi, soprattutto lungo le pendici nord del Canto Alto sino a circa 900 metri di quota.

Basti pensare che nell’Archivio di Stato di Milano è conservata una mappa del censimento austriaco dell’area intorno a Poscante ai primi dell’800, su cui sono evidenziati i castagneti di Medil, Foldoni, Prat della Nus, Candì e dove ancor’oggi troviamo le piccole  Ostàne a settembre, per proseguire con le Careane, le Balestrere -tipiche della bergamasca – e le Rossere, dalla buccia rossiccia.

Ed è proprio nell’area di Poscante che attorno al 1300 nacque l’arte di affumicare le castagne (poi trasmessa alla Valle Seriana), quando un contadino di “Post Cantum” (toponimo apparso in un atto del 1249) volle sperimentare un procedimento per poterne gustare la fragranza anche fuori stagione. Egli – si dice – fece cuocere le castagne per circa due ore e le lasciò essiccare all’aria aperta per sette giorni e sette notti, così da poterle riassaporare sino al periodo pasquale.

Quanto vi sia di vero in questo singolare racconto non è dato di sapere, ma è certa la prima citazione di Giovanni Bressani poeta vernacolo, che nel 1490 scrive: Gne con tal desideri Sant’Antoni/Per vèend biligòcc, pom e castegni pesti/Da Poltranga a Surisel specie i doni/Gne ai desidera ch’as faghi di festi.

Nelle contrade intorno a Poscante ma soprattutto a Castegnone (la più vicina alle selve alte) sorsero quindi i secadùr, particolari strutture che grazie a una gradazione costante di calore e fumo garantivano una perfetta preparazione dei biligòcc, definizione dialettale derivante da “bis-cotto”.

Castegnone, la “patria” dei biligòcc, è una contrada della frazione Poscante nel Comune di Zogno

Ancor’oggi a Castegnone gli abitanti effettuano questo tipo di lavorazione, nell’unico fra i secadùr recuperati della contrada.

Zoom su Castegnone, ai piedi del Canto Alto di cui è visibile la croce. Le selve di castagno si trovano intorno e soprattutto al di sopra della contrada

Sulla “Via delle Castagne” fra le contrade di Poscante

La “Via della castagne” ricalca un’antica mulattiera di circa tre chilometri recuperata dal Comune di Zogno per valorizzare sia il frutto che la tradizione locale della castanicoltura, retaggio dell’antica tradizione locale (1).

Il percorso, con i suoi scorci sui castagneti e le finestre panoramiche sulla valle, offre una passeggiata rilassante, immersa nella natura.

Si tratta in realtà di un’antica via di collegamento con la Mercatorum, già battuta in epoca medioevale per la posizione strategica di difesa e più avanti per il commercio con Monte di Nese e la Valle Seriana nonché la città.

Lungo la “La via delle castagne” sono collocati dieci cartelli esplicativi,  ognuno dei quali, nel caso di visita guidata corrisponde a una tappa didattica. Il pannello è collocato nel borgo di Piazza Martina, da cui si diparte il percorso

 

Il sentiero, di facile percorrenza,  si diparte dal borgo rurale di Piazza Martina per raggiungere Poscante e da lì la contrada di Castegnone.

Il versante nord-est del Canto Alto

I dieci cartelli esplicativi collocati lungo il sentiero permettono di conoscere le caratteristiche della pianta e dei suoi frutti ed anche l’ambiente naturale di questo nostro versante prealpino, con il suo particolare clima e la vita della selva e del sottobosco nel volgere delle stagioni.

E’ possibile quindi conoscere anche gli insetti che la abitano, comprese naturalmente le preziose api che nella stagione estiva producono un ottimo miele di castagno.

Alcuni pannelli illustrano la tradizione della raccolta, della conservazione e del consumo della castagna, permettendo di capire come, per necessità, l’istinto umano si sia adattato a sfruttare tale tesoro per il proprio sostentamento.

Percorribile in ogni periodo dell’anno e non solo in autunno ma consigliabile a terreno asciutto, il percorso è anche un’occasione per una piacevolissima passeggiata lungo un sentiero ricco di affascinanti spunti panoramici, alla riscoperta delle tradizioni del luogo e della storia che trasuda dalle incantevoli contrade: dal borgo rurale di Piazza Martina, ricco di testimonianze medievali, alla contrada di Castegnone, dov’è ancora in funzione il caratteristico essiccatoio in pietra per “fabbricare” i prelibati biligòcc: il secadùr appunto.

L’arrivo alla contrada di Castegnone, patria dei biligòcc, consente la sosta all’antico “secadùr” recuperato dai suoi abitanti ed oggi attrazione turistica

Una piacevole avventura, che in occasione dell’annuale festa dei biligòcc che quest’anno si terrà il 17 di Novembre, consente di assaporare il prezioso frutto insieme ad altre prelibatezze del nostro territorio.

Sulla Via delle Castagne diretti a Castegnone, la patria dei biligòcc

Mentre da Piazza Martina a Poscante l’itinerario è facile e per tutti, da Poscante a Castegnone il dislivello diventa un po’ più impegnativo, ma certamente fattibilissimo. Il tempo di percorrenza totale è di 1 ora e 45 minuti e l’abbigliamento consigliato è quello sportivo, o meglio ancora “da battaglia”, con scarponcini e bastoncini da trekking, indispensabili quando il terreno è bagnato e scivoloso. Per chi avesse qualche difficoltà, la strada principale è comunque interamente carrozzabile anche se qui bisogna “venire da ospiti e non da turisti”, nel rispetto dei ritmi del luogo e dei suoi abitanti.

La partenza avviene dal Ponte Vecchio presso il piazzale del mercato di Zogno, da cui si diparte la strada per Stabello (indicazioni) diretta a Piazza Martina,  che si raggiunge dopo un chilometro di tornanti.

Il Ponte Vecchio sul fiume Brembo, a Zogno, lungo la strada che porta a Grumello de’ Zanchi e a Poscante. Secondo alcune fonti, fu da questo ponte, e non da quello di Sedrina, che si tuffò il bandito Pacì Paciana per sfuggire ai gendarmi

 

Panorama su Zogno lungo i tornanti per Piazza Martina, tappa iniziale del percorso lungo “La Via delle castagne”. Al centro, l’appuntito Pizzo di Spino

Giunti alla Corna – bellissima casa fortificata medievale – si svolta a sinistra: un centinaio di metri ed ecco la contrada rurale di Piazza Martina (370 m.): una delle più piccole del comune Zogno.

A sinistra, l’imbocco per Piazza Martina, da cui si diparte la “Via delle castagne” (la rampa sulla destra porta invece all’Agriturismo Casa Martina)

 

Case rurali a Piazza Martina, una delle tante contrade di Zogno

 

Piazza Martina, con le sue belle case di origine medioevale, oggi rivisitate

Superata la piazza si svolta a destra, dove si imbocca un facile sentiero-mulattiera (SENT. CAI 504) che si inoltra nel bosco, delimitato per buona parte da muretti a secco e da un ruscelletto.

Il sentiero porterà in breve all’oratorio di Sant’Antonio abate, per poi proseguire con saliscendi non impegnativi fino a Poscante, in prossimità del cimitero.

Lungo “La Via delle Castagne”, verso la chiesa di Sant’Antonio abate. Oltre i murettti a secco si stendono prati da sfalcio dove si trovano alcune baite. Un tempo, il sentiero collegava Stabello con Poscante, sulla sponda sinistra della conca zognese

Dopo pochi metri si incontra il primo dei 10 cartelli didattico-informativi sulla castagna, disposti lungo il tragitto.

Dove gli alberi si diradano si aprono alcuni affascinanti scorci sul paesaggio, e in pochi minuti si raggiunge la cappella di Sant’Antonio abate, un edificio di origine romanica ma rimpicciolito nelle dimensioni e trasformato nel XVII secolo in stile neoclassico.  Sebbene le vere e proprie selve di castagno si trovino in quota, si incontrano numerosissimi esemplari di anche nel vicino bosco.

Dalla cappella di Sant’Antonio abate, circondata da prati ben curati, si può ammirare la Corna Rossa, una cornice naturale che racchiude milioni di anni di formazioni geologiche

Ogni 17 gennaio, in occasione della festività di Sant’Antonio abate si rivive l’antica tradizione della benedizione dei panini di Sant’Antonio, che vengono distribuiti insieme ai biligòcc, alle frittelle preparate dalle donne della contrada e all’immaginetta del Santo, che è raffigurato in abiti pastorali nell’abside della chiesa.

La statua lignea trecentesca di Sant’Antonio abate, nell’abside della cappella dedicata al santo

A due passi c’è una fonte d’acqua, un tempo considerata curativa.

La fonte lungo la mulattiera

Aggirata la bella cascina retrostante, un cartello ci indirizza verso Poscante raggiungendo una radura soleggiata con vista su Grumello dei Zanchi, preceduta dal secondo pannello didattico.

 

Il secondo cartello didattico-informativo, su “La Via delle Castagne”

Osservando la radura all’altezza del cartello si scorge la traccia di un sentiero, che si raggiunge attraversando il prato per una cinquantina di metri.

Veduta su Grumello de’ Zanchi, all’uscita del sentiero

Una volta rientrati nel fitto bosco ceduo, ricompare ben evidente il nostro sentiero: un largo tratturo che propone anche strappi su pezzi semi-cementati, richiedendo parecchia attenzione quando le condizioni del terreno lo rendono piuttosto scivoloso. Nel frattempo s’incontreranno altri cartelli.

Nel bosco, sulla Via delle castagne

 

Ciò che resta di un Castagno e, sullo sfondo, un fitto faggeto

Il sentiero fuoriesce in una grande radura con cascina…

…per poi rientrare nel bosco dove si attraversa una vallecola, con tracciato ben evidente.

Sulla Via delle Castagne

In breve si apre uno squarcio su Poscante, che per ora appare un po’ distante.

Poscante fra i colori dell’autunno

Il sentiero sbuca su una stradetta sterrata all’altezza di una santella, dove, svoltando a sinistra, aggancia un tratto selciato in discesa diretto a Poscante, dove sostiamo per una visita.

Il prosieguo sulla Via delle Castagne, dopo Poscante

Percorsa una curva ci si ritrova quindi su una strada asfaltata, affiancata dal cimitero del paese: ed ecco Poscante a portata di mano.

Poscante (408 metri s.l.m.)

Il piccolo villaggio agricolo di antica origine è da sempre costituito in comune e parrocchia: quella di San Giovanni Battista, affiancata dalla pregevole chiesetta della Madonna del Carmine.

Poscante: chiesa di San Giovanni Battista

 

Poscante: chiesetta della Madonna del Carmine

 

Interno della chiesa della Madonna del Carmine, a Poscante

La strada per Castegnone si può riprendere svoltando a destra imboccando la mulattiera gradinata a fianco della chiesa (che sbucherà nel piccolo parcheggio della contrada), oppure, se il terreno è bagnato e scivoloso, prendendo in salita la strada asfaltata.

La contrada Castegnone di Poscante

 

 

Lungo i viottoli di Castegnone, alle pendici del Canto Alto

Nel piccolo abitato di Castegnone, merita sicuramente una visita la chiesa secentesca di Santa Maria Bambina, con la facciata principale finemente decorata con finte modanature e finto bugnato.

La chiesa secentesca dedicata a S. Maria Nascente, festeggiata ogni  prima domenica di settembre

All’interno è conservato un dipinto del secolo  XVII raffigurante un’insolita  Madonna con Bambino, opera di Carlo Ceresa, artista brembano che ha lasciato nella valle innumerevoli segni della propria arte, insieme alle dinastie dei Baschenis e dei Guerinoni della Valle Averara, i Santa Croce, i Licini e i Gavazzi di Poscante, i due Palma di Serina, Gianpaolo Cavagna, Giovanni Busi Cariani e Mario Codussi, per citare i nomi più famosi.

Dettaglio della pala di Carlo Ceresa nella chiesa di Santa Maria Nascente a Castegnone

Ed è qui, nella contrada di Castegnone che sorgevano i secadùr, uno dei quali è stato ripristinato per riportare in auge l’antico metodo di preparazione dei biligòcc.

L’antica arte dell’essicazione

Nonostante l’apparenza le castagne sono frutti facilmente deperibili. Bene lo sanno i castanicoltori, che nel tempo hanno escogitato tutta una serie di attenzioni, metodi e tecniche per conservarle e poterle consumare o vendere anche molti mesi dopo la raccolta.

La conservazione contempla tradizionalmente due soluzioni: il mantenimento del frutto allo stato fresco o la sua essiccazione. Alla prima appartengono le tecniche della ricciaia e della novena, antichissime ed entrambe basate sull’innesco di fermentazioni naturali che agiscono da conservante. Alla seconda appartengono i vari modi per ridurre il quantitativo d’acqua presente nel frutto, principale agente del loro deperimento.

Un tipico essicatoio per la produzione dei biligòcc, le castagne essiccate e affumicate. Per la gente di Castegnone il legno impiegato per il fuoco è esclusivamente quello di Castagno

Un tempo, nelle zone castanicole la tecnica più diffusa per conservare più o meno grandi quantitativi di castagne avveniva tramite gli essicatoi rurali o “metati”, piccole strutture talvolta parzialmente interrate e molto diffuse in ambito montano, che a seconda dei luoghi e della tradizione si collocavano nelle abitazioni ed erano presenti in forma sparsa ed isolata anche tra le selve di castagni. 

Gli essicatoi di castagne a Castegnone di Poscante di Zogno

Non possedendo tutte le famiglie un proprio essicatoio, era frequente la sua condivisione tra gruppi parentali o abitanti di intere contrade.

A fianco della chiesa, un vecchio essicatoio parzialmente interrato, da tempo dismesso

Con il declino dell’agricoltura montana, e con esso della castanicoltura di sussistenza e di piccolo smercio, gli essicatoi sono in gran parte andati persi o convertiti ad altri usi: quelli rimasti, pur se spesso inattivi costituiscono preziose testimonianze.

Il secadùr di Castegnone

I “secadùr” di Castegnone sono piccole costruzioni isolate o annesse a un’abitazione, a un solo vano inframmezzato da un graticciato di legno, su cui vengono stese le castagne migliori da essiccare.

Nella bella contrada alle pendici del Canto Alto, l’unico secadùr oggi recuperato permette di seguire la messa in opera del metodo di conservazione delle castagne, adottato per generazioni. Queste vengono caricate, fresche di raccolta, su una fitta griglia in legno posta nella parte alta della struttura, alla quale si accede tramite una scala esterna.

L’antico  secadùr di Castegnone, l’unico ancora funzionante nella contrada,  a tutt’oggi utilizzato per la preparazione dei “biligòcc” 

Il lento essiccamento viene eseguito fornendo dal basso moderate quantità di aria calda mista a fumo, per una ventina di giorni circa.

Nella parte superiore del “secadùr”, il graticciato di legno d’ontano su cui vengono stese le castagne da essiccare e affumicare

L’accesso al piano terra (che in questo caso avviene dal cortile di un’abitazione privata) conduce alla “stanza del fumo”, da cui si espande ininterrottamente il calore di un fuoco alimentato con ceppi di Castagno, che produce la completa essiccazione dei frutti protetti dalla cura e dai costanti controlli.

L’accesso all’unico essiccatoio ancora attivo a Castegnone; nel locale, oggi ridotto, un tempo si essiccavano grandi quantitativi di castagne. La struttura è visitabile su prenotazione

 

In basso, la “stanza del fumo”, dove verranno tolte le fascine e collocati i ceppi per  l’essiccamento e l’affumicatura dei frutti

Il fumo denso e profumato ottenuto dalla combustione del legno di Castagno conferirà al frutto il caratteristico aroma dei biligòcc.

L’essicatoio in cui si ottengono i biligòcc, le tipiche castagne essiccate e affumicate ininterrottamente per una ventina di giorni

Le castagne così affumicate vengono infine poste in sacchi di iuta e qualche giorno prima della vendita sottoposte a bollitura e passate in acqua fredda per imprimere alla buccia le caratteristiche grinze.

Un essicatoio (“secadùr”), struttura necessaria all’asciugatura graduale e all’affumicatura delle castagne, collocate sopra il fuoco su un graticcio generalmente in legno

Il tocco finale può essere una spruzzata d’olio per la lucidatura del prodotto, quanto basta per far bella mostra nei mercati e nelle fiere bergamasche. Dopo l’asciugatura all’aria aperta le castagne sono pronte per essere consumate.

L’imbiancatura consiste invece nella  sgusciatura e sbucciatura manuale o meccanizzata.

1975: Contrada Castegnone, in via Castegnone. Il poscantino Silvio Luigi Donadoni – classe 1959 – mentre si appresta alla lavorazione dei biligòcc. Dopo la lessatura e la lucidatura mediante olio, le castagne affumicate vengono portate con una cesta in un locale per l’insaccatura. Nei giorni successivi saranno venduti alla sagra di San Mauro a Bruntino (Collezione Silvio Luigi Donadoni)

La meraviglia di questa tradizione vive nel cuore di tutti gli abitanti della contrada e nei visitatori: profumi, colori e tanta storia in un semplice frutto.

La sagra novembrina

Anche quest’anno a Castegnone il 17 Novembre la tradizionale “festa dei biligòcc” rivive nell’ambito della rassegna Sapori & Cultura, portando alla riscoperta dei sapori di una volta. Per l’occasione i residenti aprono le loro abitazioni, mostrando ai turisti alcuni ambienti allestiti con oggetti rurali per riscoprire le antiche consuetudini e gli antichi mestieri: la camera da letto, la cucina con il camino, le cantine di Siltèr, i lavori domestici, la quotidiana lotta per la sopravvivenza, per le quali i modesti attrezzi, frutto dell’ingegno e dell’esperienza, costituivano un prezioso aiuto.

E’ prevista anche una visita guidata gratuita al “secadùr”, con la presenza di “Maestro” della tradizione che mostrerà il laborioso procedimento di essiccazione delle castagne, svelando i segreti che si tramandano da generazioni. La festa offre anche l’occasione per assaggiare i prodotti tipici della Valle Brembana e della Bergamasca in generale.

L’accesso alla contrada avverrà solo tramite navetta bus gratuita  con partenza dal campo sportivo di Poscante e sarà possibile ristorarsi in loco durante la pausa pranzo.

Note

(1) “La via della castagne” rientra nell’ambito del progetto “Zogno a occhi aperti” promosso dall’Assessorato al Turismo di Zogno allo scopo di valorizzare sia il frutto che la castanicoltura, antica tradizione locale. Il progetto, rivolto alla popolazione zognese, ai turisti, alle famiglie e alle scolaresche, è corredato da una pubblicazione cartacea (32 pagine) ed integrato da totem multimediali nonché da App della rete museale, includendo anche visite guidate estive gratuite alla scoperta de “La via della castagne”. Per ulteriori informazioni è possibile visitare il sito web www.zognoturismo.it., mentre per le prenotazioni alle visite guidate (obbligatorie con posti limitati) è possibile contattare tramite email: elena@emozioniorobie.it ; sms o WhatsApp: 348.5423481.

Bibliografia consigliata

  • Tarcisio Bottani, Poscante Storia e Memoria. Fotografie di Ettore Ruggeri. Edizioni Corponove. Data di pubblicazione: 2019.
Il libro riprende e amplia il precedente “Poscante e dintorni ieri e oggi” del 1996, estendendo l’attenzione ad aspetti nuovi della storia di questo incantevole paese della Valle Brembana, con un apparato iconografico inedito, arricchito da artistiche fotografie di Ettore Ruggeri che valorizzano gli aspetti caratteristici di Poscante e della sua gente, in un felice accostamento fra modernità e tradizione. Un libro ben più corposo del precedente, per dar spazio a nuove ricerche condotte dall’autore in vari archivi che hanno consentito di delineare le vicende relative a Poscante, partendo dal Medioevo. In particolare, dalla consultazione di atti notarili, emerge un quadro abbastanza dettagliato, per quanto non esaustivo, dei rapporti economici e sociali tra le istituzioni locali e i cittadini, sia per l’aspetto civile, sia per quello religioso. E stata inoltre mantenuta ed aggiornata la parte dedicata ai personaggi illustri, così come quella relativa alle leggende, alle tradizioni e alla vita associativa attuale
  • Maurizio Buscarino, POST CANTUM, un Paese. Centro Culturale Poscante, Poscante 2001. Oltre ai testi di Maurizio Buscarino vi sono quelli di  Vittorio Polli, Valter Gherardi, Viviana Donadoni, Ettore Ruggeri e Robea Valtorta nonché 180 fotografie storiche raccolte grazie alla collaborazione della maggior parte delle famiglie di Poscante.

Dal Foro Boario alla Malpensata fra Ottocento e Novecento, alla scoperta della città

L’ANTEFATTO STORICO

Con la dominazione austriaca (1815-1859), a Bergamo si avviano i primi consistenti processi di mutamento della città in senso moderno, che segnano un periodo di forte espansione economica e di una gestione della cosa pubblica esemplare dal punto di vista del’efficientismo amministrativo e della organizzazione urbana.

Nella prima metà del secolo, con l’ascesa della nuova borghesia produttiva lo “scivolamento” della città al piano si fa più consistente, portando a compimento le trasformazioni della struttura urbana già avviate nel periodo napoleonico.

La Fiera e la città alta sullo sfondo

Dal 1732 l’antichissimo mercato di Bergamo, posto a metà fra i borghi, può finalmente avvalersi di una Fiera stabile in muratura, disposta su un’area quadrata con 540 botteghe. Verso sud il Sentierone, parallelo alle Muraine, diventa un’arteria per il collegamento dei borghi.

Il centro della Fiera di pietra, oggi Piazza Dante, in cui si trova, ultimo ricordo del complesso, la bella fontana opera di G. B. Caniana del 1734, incorniciata da una serie di alti alberi che nascondono i casotti delle botteghe del vecchio complesso

Con l’erezione dei Propilei in stile neoclassico nel 1837, nella Barriera daziaria delle Grazie viene aperto il varco di Porta Nuova, rappresentando simbolicamente l’ingresso monumentale alla città degli affari.  

Il 20 agosto 1837, in coincidenza con l’apertura della Fiera di S. Alessandro viene inaugurata Porta Nuova (ampliando la Barriera daziaria delle Grazie), il nuovo e simbolico accesso alla città degli affari, delimitato dai propilei neoclassici disegnati da Giuseppe Cusi e realizzati da Antonio Pagnoncelli: al di là delle Muraine l’unico edificio era la Fiera; al di qua era campagna

L’anno successivo (1838), in occasione della visita a Bergamo di Ferdinando I d’Austria inizia la costruzione del primo tratto della Strada Ferdinandea (futuro Viale Vittorio Emanuele),  che, partendo da Porta Nuova laddove s’incontrano le due spine dei borghi che da Città alta si protendono al piano, sale con un lungo rettilineo tagliando gli orti e i grandi broli dei monasteri fino alla Porta di Sant’Agostino.

Grazie alla Ferdinandea, da un lato viene superata quella frattura con Città Alta creata a partire dal 1561 con la costruzione delle mura veneziane e, dall’altro, si viene a creare una vera e propria arteria moderna, che presto diverrà la spina dorsale intorno alla quale verrà ridisegnato l’intero volto della città.

La Strada Ferdinandea, ora viale Vittorio Emanuele, ancora di larghezza modesta, con il viale alberato e il palazzo Stampa. Da Porta Nuova, dopo aver disegnato un’ampia curva poco oltre il monastero Matris Domini, la strada sale per le ortaglie sotto le mura di S. Giacomo per ricongiungersi con la Porta di S. Agostino. Il suo tracciamento ebbe come risultato lo straordinario potenziamento dell’area della Fiera, fronteggiata dalla porta e tangente alla nuova strada, che venne terminata nel 1845 (la ripresa è del 1915)

Nel 1857, quando la ferrovia raggiunge Bergamo viene eretta la Stazione Ferroviaria – in asse con Porta Nuova – e lo scalo merci.

Il piazzale della Stazione Ferroviaria prima della costruzione della fontana (1910 circa)

Demolita la quattrocentesca chiesa di S. Maria delle Grazie – che avrebbe impedito la prosecuzione assiale del viale -, la Strada Ferdinandea viene prolungata verso sud fino alla stazione (chiamandosi in questo tratto viale Napoleone III), completando la spina dorsale della futura “Città Bassa”, attorno alla quale si sviluppa una intensa attività edilizia ed urbanistica che, soprattutto dopo gli anni post-unitari, porterà alla formazione di un nuovo centro.

Nella “corografia datata 1878” è evidente la risistemazione della zona delle “Grazie”. La chiesa, , consacrata una prima volta nel 1427, fu demolita nel 1856 per aprire il rettifilo che da Porta Nuova conduce alla Stazione Ferroviaria (costruita quando la ferrovia raggiunse Bergamo), eretta in asse con l’apertura nelle Muraine, e la sua collocazione condiziona ancor’oggi lo sviluppo urbanistico della città. L’attuale Piazzale degli Alpini è ancora indicato come Piazza d’Armi, nonostante a questa data l’area sia da tempo occupata dal Mercato del Bestiame (da “L’Ospedale nella città”, Op. cit. nei Riferimenti)

Intanto con l’800 si va sempre più consolidando il trasferimento delle sedi del potere amministrativo e statale nei pressi della Fiera, con la costruzione di edifici pubblici di corrente tardo-neoclassica disposti lungo il corso che unisce i due borghi centrali, quello di S. Leonardo e quello di S. Antonio, che ancora si configurano come il margine netto di passaggio tra l’urbano e la campagna.

Nel frattempo la finanza bergamasca si evolve e modernizza attraverso lo sviluppo del sistema bancario e la collocazione di nuove sedi, mentre alla fine del secolo si osserva la costruzione del Manicomio e del Ricovero (1892), del Cimitero monumentale (1896) e del Teatro Donizetti (già Teatro Riccardi). Decisivo per l’espansione della città sarà l’abbattimento delle Muraine nel gennaio del 1901, mentre la discussione sulla Fiera darà luogo alla costruzione del centro piacentiniano.

Nella zona che dal 1857 è chiamata “Campo di Marte”, poi Piazza Cavour e oggi piazza Matteotti, si costruisce il palazzo del Comando militare, che negli anni ’70 diverrà sede degli Uffici comunali. Di fronte, dal 1836 è già edificato Palazzo Frizzoni (attuale sede del Municipio), sorto sull’area dell’antico complesso ospedaliero di S. Antonio di Vienne. Con l’avvio dell’industrializzazione urbana lungo via XX Settembre (antica Contrada di Prato) sorgono le nuove residenze della borghesia mercantile, a pochi passi dagli edifici produttivi stanziati lungo i corsi d’acqua che circondano le  Muraine

 

Con la metà dell’800, lungo la Contrada di S. Bartolomeo, oggi via T. Tasso sorge la Scuola dei Tre Passi; nell’area del Mercato dei Bovini si costruisce il Palazzo della Pretura, che nel 1874 diventerà sede del Comune (trasferito nel 1933 a Palazzo Frizzoni), mentre tra il 1864 e il 1871 vengono edificati il Palazzo della Prefettura e quello della Provincia. Infine, l’emblematico trasferimento del Municipio dalla Piazza Vecchia al Palazzo della Pretura. Nel frattempo anche qui sorgono le nuove residenze della borghesia mercantile: questi i primi significativi interventi del periodo nella città bassa, mentre altri interventi riguardano Città Alta con le opere degli architetti Bianconi, Crivelli e Berlendis, testimonianti il favorevole atteggiamento dell’amministrazione austriaca

 

Porta S. Antonio, aperta nel circuito delle Muraine in corrispondenza dell’attuale via Pignolo Bassa e in direzione della via Borgo Palazzo. Nonostante i due borghi centrali di S. Antonio e di S. Leonardo si configurino ancora come il margine netto di passaggio tra l’urbano e la campagna, la città si è espansa ben oltre, in direzione di borgo Palazzo e borgo Santa Caterina, dove l’insediamento delle manifatture e di altre attività produttive ha innescato un notevole incremento della densità residenziale

L’AREA DELLA STAZIONE

Il monumentale, sovradimensionato rettifilo intitolato a Napoleone III (oggi viale Papa Giovanni XXIII), espressivo di un’epoca caratterizzata dal monumentalismo neoclassico e dalla moda del passeggio, viene delimitato da filari e alberature che ne evidenziano il ruolo e l’importanza.

La panoramica più antica della città, risalente al 1865, riprende il secondo tratto della Strada Ferdinandea visto dalla stazione. Dopo la sua demolizione (1856) per la formazione del secondo tratto della Ferdinandea, la chiesa delle Grazie presenta la cupola ancora in costruzione, mentre lungo il viale sono state disposte le giovani alberature. Proprio nell’anno in cui viene scattata questa fotografia, il Mercato del Bestiame viene trasferito presso la Piazza d’Armi, delimitata ad est, in corrispondenza dell’attuale via Foro Boario, dalla struttura del Bersaglio con il suo lungo corridoio di tiro

Le mappe catastali del 1853 e del 1866 depositate presso l’Archivio di Stato di Bergamo documentano le trasformazioni avvenute nell’area a sud del monastero delle Grazie: una zona ancora  fortemente rurale (se si esclude il monastero, due case coloniche, le fabbriche del Salnitro e per la filatura del Cotone nonché un piccolo deposito per le bestie infette), che, come detto, con la scelta localizzativa della Stazione Ferroviaria e la creazione del grande viale Napoleone III – prosecuzione della Ferdinandea -, manifesta il primo segno di apertura a sud della città.

La Stazione Ferroviaria fu costruita nell’ambito del progetto della ferrovia Ferdinandea (Milano-Venezia) e fu inaugurata il 12 ottobre 1857 assieme al tronco Treviglio-Bergamo-Coccaglio. Entro il 1900 si realizzò il primo collegamento ferroviario tra Bergamo e i centri maggiori della pianura (Milano, Brescia, Lodi, Lovere) e con i territori delle due valli a nord (Seriana e Brembana); il consolidamento i rapporti con i centri commerciali circostanti, cui corrispose un rinnovamento del ruolo territoriale di Bergamo, rese definitivamente obsoleta la Fiera come perno economico della città

Gli spazi ad est del viale, sul sito dell’attuale piazzale degli Alpini, vengono riorganizzati mediante la creazione della Piazza d’Armi (nota come “Campo di Marte” e luogo di esercitazione militare), in funzione della quale, sull’estremità orientale, in corrispondenza dell’attuale via Foro Boario viene costruita la struttura del “Bersaglio” con il suo lungo corridoio di tiro.

 

Per creare la piazza d’Armi, viene deviata e canalizzata la roggia Morlana, di cui abbiamo una bella testimonianza.

Dal Foro Boario verso Città Alta intorno al 1895. E’ visibile la chiesa di S. Maria delle Grazie e a destra l’edificio del Macello comunale. Oltre alla roggia Morlana, qui ritratta, l’area era attraversata dalla roggia Nuova e dalla roggia Ponte Perduto (nome curioso, forse derivante da un ponte scomparso), che si origina dalla Morlana in Borgo Palazzo, dalla quale si dirama proprio in questa zona (Raccolta Lucchetti)

L’esigenza di donare una nuova funzione agli spazi e ai luoghi della città bassa richiede una nuova collocazione degli usi esistenti e pertanto, in seguito al nuovo progetto della sede della Provincia nel 1865 il Mercato del Bestiame viene trasferito nella Piazza d’Armi, proseguendo il suo lungo itinerare, vecchio quanto la storia della città.

Carretti al Foro Boario (Mercato del Bestiame) ai primi del Novecento. Il palazzo dell’Istituto Tecnico non è ancora stato realizzato e si intravede il Macello, nell’omonima via parzialmente tracciata

Nasce da qui la denominazione di Foro Boario (in latino Forum Boarium o Bovarium), toponimo mutuato da un’area sacra e commerciale dell’antica Roma collocata lungo la riva sinistra del fiume Tevere, tra i colli Campidoglio, Palatino e Aventino, che prese il nome dal mercato del bestiame che vi si teneva.

A destra del viale della Stazione il Foro Boario, corrispondente all’attuale Piazzale degli Alpini ed adiacenze, delimitato a sud dal piccolo bar-ristorante, già presente entro il 1876, soglia alla quale la via del Macello (attuale via A. Maj) è già tracciata a realizzata fino alla rogge Nuova e Morlana, delimitando dal 1890 il lato nord del piazzale con il nuovo Macello  comunale

I MERCATI DEL BESTIAME NEL TEMPO

Se in antico i mercati si tenevano nell’antica “Platea S. Vincentii” (attuale area del Duomo), dove a cadenze fisse affluivano i prodotti del territorio (sale, biade, formaggi, ferramenta e panni, bestiame…), con lo straordinario sviluppo commerciale nel periodo della dominazione veneziana il mercato cittadino si frazionò in alcune piazze che nella loro attuale denominazione ancora richiamano l’antico ruolo merceologico: Mercato del Fieno, Mercato del Pesce, Mercato del Lino (ora piazza Mascheroni), Mercato delle Scarpe, dove – afferma Luigi Volpi –  si teneva il mercato degli asini e dei buoi, spostato nel 1430 a Porta Dipinta.

Nel medioevo, per i loro affari tessitori e commercianti facevano riferimento alle barre di ferro riproducenti le misure in uso a Bergamo, murate nella facciata settentrionale di S. Maria Maggiore. Esse testimoniano non solo il ruolo mercantile di questo centro ma anche della necessità di garantire il valore delle misure locali ai mercanti provenienti da altre sedi. Il controllo delle misure dei panni era affidato ai consoli del paratico dei tessitori, sottoposti a giuramento

Nel Duecento in tutta la città solo una beccheria gestita dal Comune era autorizzata alla macellazione e alla vendita e doveva essere già localizzata nell’attuale via Mario Lupo nelle botteghe di proprietà dei Canonici di San Vincenzo. Dopo due secoli le beccherie erano quattro, di cui una in borgo Pignolo, una in San Leonardo e una in Sant’Antonio.

Via Mario Lupo, già via delle Beccherie, dove erano le botteghe della macelleria, di proprietà dei Canonici di San Vincenzo (l’istituzione della Canonica risale al IX secolo)

la “Domus Calegariorum”, in piazza Mercato delle Scarpe, ospitava anche il Paratico dei Beccai (macellai), dove oggi sorge il palazzo della funicolare.

Piazza Mercato delle Scarpe (così chiamata dalla fine del Trecento) e il palazzo della funicolare, fatto costruire da Guidino Suardi sull’area già occupata dalla Domus Calegariorum et Becariurum

Intanto nella città al piano, già prima dell’anno Mille, in coincidenza con le festività del santo patrono si teneva  una grande fiera annuale nel Prato di S. Alessandro, dove con il tempo confluirono tutti i mercati della città, divenendo ben presto un centro economico e finanziario di grande importanza nel circuito delle fiere cittadine italiane ed europee: tanto che alla metà Cinquecento, grazie alla sua grande capacità produttiva Borgo S. Leonardo sembra già somigliare a una piccola città nella città, mentre cresce la tendenza al trasferimento di funzioni sempre più importanti del centro cittadino – la Città alta – verso la città Bassa (trasferimento che aumenterà significativamente con l’erezione delle mura veneziane, erette fra il 1561 e il 1595, ritrovando nuovo vigore nel Sette/Ottocento).

La più antica veduta del Prato di S. Alessandro, risalente al 1450. Dall’alto medioevo, nel vasto slargo a ridosso delle Muraine, in coincidenza con la festività del santo patrono si teneva una fiera provvisoria che ben presto assunse rilevanza internazionale. In questo luogo, a metà tra I borghi di S. Antonio e di S. Leonardo, affluivano le maggiori vie di transito (da un codice agiografico conservato nella Biblioteca di Mantova)

 

A pochi passi dalla Fiera, nel 1454 vengono eretti i portici intorno alla piazza del Borgo S. Leonardo (attuale Piazza Pontida), cuore pulsante della vecchia Bergamo

Nel vasto prato di S. Alessandro, la scarsa durata della manifestazione commerciale (pochi giorni alla fine di agosto), non pretendeva strutture o infrastrutture speciali, se non terreno sgombro ed acqua; ma il sistema di seriole e rogge già esistente e perfezionato nel Quattrocento garantiva il buon funzionamento del periodico affollarsi, oltre che di merci, anche di bestiame, qui presente sin dal 1579 in un mercato settimanale; nel 1593 i Rettori concessero che si tenesse i primi quattro giorni della prima settimana intera di ogni mese.

Anche se non è semplice stabilire come fosse distribuito tale mercato, è noto che in fiera, insieme alle più svariate mercanzie locali affluiva il bestiame allevato nella pianura e nelle valli, da dove scendevano in gran numero animali provenienti da zone specializzate in allevamenti: cavalli da Selvino, pecore da Clusone e Parre (1), muli (dei quali si faceva molto uso nelle miniere per il trasporto del minerale, del carbone, del ferro, ecc.), buoi e vitelli dalla valle Seriana, per i quali si conservava libera una determinata zona.

Da una relazione fatta dagli ispettori della Repubblica Veneta nel 1591 si parla di un mercato dei cavalli lungo la strada che va dal borgo di S. Antonio a S. Leonardo, mentre Gelfi allude per quel periodo ad un mercato del bestiame, specialmente bovino, che si teneva i primi tre giorni della prima settimana del mese (2).

Il bestiame diretto in città sostava nella piana di Valtesse (in antico detto Tegies o Teges per le sue tettoie atte al ricovero delle bestie), dove in parte doveva essere allevato.

La piana di Valtesse dalla Montagnetta (Baluardo di S. Lorenzo)

Nel Settecento, presso il Prato di S. Alessandro si tenevano due mercati del bestiame: uno a maggio e l’altro dal primo all’otto novembre, in occasione del “mercato dei Santi” (il terzo dei mercati annuali cittadini insieme a quelli di S. Antonio e S. Lucia), dove veniva commerciato “bestiame d’ogni specie ed in copiosa quantità”.  Più tardi il governo napoleonico dispose l’allontanamento del mercato del bestiame dalla zona del Sentierone, con la dichiarata volontà di migliorare le porte di accesso alla Fiera, come vetrina della città moderna.

Costantino Rosa, “Il Sentierone e la Fiera”. La Bergamo al piano è dominata dalla grande Fiera di pietra, edificata tra il 1732 ed il 1740 e per molto tempo un importante centro di scambi commerciali di livello nazionale ed internazionale. Sul fondo la città alta, cuore invece dell’attività politica ed amministrativa della vecchia Bergamo (Bergamo, proprietà dr. E. Tombini)

Tralasciando le tante notizie contraddittorie riportate dalle fonti per l’Ottocento, una una carta del 1809 attesta il Mercato dei Cavalli tra il Portello delle Grazie e il Teatro Riccardi (oggi Donizetti), mentre  nella Pianta del 1816 disegnata dal Manzini l’indicazione generica di Mercato del Bestiame compare tra l’attuale Prefettura e l’allora Teatro Riccardi (3), non molto distante dal vecchio Campo di Marte (Piazza d’Armi).

Dislocazione della Fiera di Bergamo in una carta del 1809. Cerchiato in rosso il Mercato dei Cavalli, tra il Portello delle Grazie e il Teatro Riccardi (da M. Gelfi, Op. cit.)

 

Pianta di Bergamo del 1816 disegnata dall’ing. Manzini. Nell’area antistante il quadrilatero della Fiera, il Campo di Marte da un lato e il Mercato del Bestiame dall’altro: quest’ultimo si estendeva tra l’attuale Prefettura e l’allora Teatro Riccardi, oggi Donizetti (M. Gelfi, Op, cit. per la didascalia)

 

Tra Piazza Cavour e via XX Settembre ai primi del Novecento. Solo pochi decenni prima la vasta area antistante la Fiera era occupata solo dal Teatro Riccardi; un’area così grande da ospitare il Mercato del Bestiame e la Piazza d’Armi, dove si esercitavano i soldati della guarnigione

Dopo la metà dell’Ottocento, in previsione della costruzione della sede della Provincia si realizzò un nuovo Mercato del Bestiame presso la nuova Piazza d’Armi, nel grande prato che presto assunse il nome di Foro Boario: un’ampia zona che comprendeva l’area dell’attuale Piazzale degli Alpini e della Stazione delle Autolinee.

Pecore al pascolo al Foro Boario

 

Mandria di bovini al Foro Boario

IL FORO BOARIO, IL MERCATO DEL BESTIAME E IL MACELLO

Come osservato, nel 1857, con l’erezione della Stazione Ferroviaria e l’apertura dell’attuale Viale Papa Giovanni XXIII la città aveva aperto un varco verso sud, continuando quell’opera di rinnovo urbano che era cominciata nel 1837 con l’apertura della Porta Nuova e l’erezione dei Propilei – ingresso monumentale e qualificato alla città degli affari -, seguita immediatamente dall’apertura della Strada Ferdinandea.

Tutta l’area a sud delle Muraine iniziava ad assumere una nuova configurazione, cambiando il volto di un’area che da rurale si apprestava a diventare “urbana”.

Attraverso le mappe del 1876 e del 1892, leggiamo le trasformazioni avvenute nella zona, che riscontriamo anche  nelle tante immagini giunte a noi.

Dal 1865 il nuovo Mercato del Bestiame occupa dunque la Piazza d’Armi presso la Stazione, e suddiviso in Mercato dei Cavalli, dei Bovini e dei Suini (4), attira una vivace folla di compratori e venditori, animando tutta la zona.

Una bellissima fotografia di Cesare Bizioli, risalente al 1885, rende bene l’idea della collocazione del Mercato, posto in corrispondenza dell’attuale piazzale degli Alpini.

Panoramica della Fiera di Bergamo sul “Prato Sant’Alessandro” vista dalle Mura di Città Alta, così come si presentava nel 1885. Davanti alla Fiera il Teatro Riccardi e verso destra i propilei. Oltre l’ultima cortina edificata la chiesa delle Grazie e, al centro dell’immagine, la vasta area non edificata del Foro Boario, preceduta dall’edificio del Macello e da un primo abbozzo dell’attuale via A. Maj (foto di Cesare Bizioli – Raccolta Lucchetti).

Almeno dal 1876 si inizia a tracciare la via del Macello (attuale via A. Maj) fino alla rogge Nuova e Morlana, ed entro il ’92 la via sarà completata, delimitando il lato nord del piazzale con il nuovo fronte del Macello comunale (1890), che possiamo ammirare nelle splendide immagini che seguono.

A fianco del Foro Boario, davanti al nuovo Macello comunale, realizzato nel 1890, la via del Macello (oggi A. Maj) in costruzione, con il Gamba de Lègn carico di pietrame della ditta Fabbrica Lombarda Cementi Riuniti. La via, parzialmente già tracciata almeno dal 1876,  sarà completata nel 1892

 

Via del Macello in costruzione, in un’immagine posteriore al 1890, anno di realizzazione del Macello (Foto Solza)

Intanto, entro il 1876, all’imbocco del piazzale della Stazione sorge il piccolo bar-ristorante intestato a Luzzana Maddalena, poi divenuto Albergo Stazione ed oggi sede di Mc Donald, in Piazzale Guglielmo Marconi.

L’attuale viale della Stazione, all’imbocco del quale sorge il piccolo bar-ristorante intestato a Luzzana Maddalena – oggi sede di Mc Donald – indicato sulla mappa del 1876. In lontananza, la cupola delle Grazie è completata sebbene non si noti il campanile, rialzato successivamente. Si notino le giovani alberature lungo il viale, ancora mancanti in via del Macello (attuale via A. Maj)

 

Il viale nel 1880. Il bar-ristorante ha mantenuto la dimensione originaria, mentre lungo il viale è stato piantumato anche il tratto vicino alla Stazione. Alle spalle del bar-ristorante, il Foro Boario e il primo tratto di via del Macello, anch’esso piantumato. L’edificio del Macello non è ancora realizzato (Foto di Andrea Taramelli)

 

Il viale dopo il 1890: il caffè-ristorante è stato sostituito da un “Caffè Ristorante con Alloggio” in muratura

 

L’Albergo Stazione (1891?)

Alla soglia del 1892 il Foro Boario, dopo la copertura delle rogge e alcuni accorpamenti compare nella sua massima estensione, con le due gradinate che lo delimitano verso il viale per superare il dislivello e il fronte est corrispondente all’attuale via Foro Boario delimitato dal muro dell’ex-Bersaglio.

Pianta di Bergamo del 1893. Si può notare la costruzione delle ferrovie e del Mercato del Bestiame (Foro Boario), così come il nuovo nome della Strada Ferdinandea, suddivisa in  viale Vittorio Emanuele e viale Napoleone III. La Piazza d’Armi è spostata fuori città, tra via Suardi e via S. Fermo

All’interno, compare la tettoia per l’alloggiamento dei cavalli, realizzata nel 1889 ed in seguito ridimensionata.

La tettoia per l’alloggiamento dei cavalli, realizzata nel 1889 e ridimensionata alla soglia dell’1898

Mentre il grande viale e l’area del Foro Boario acquistano via via una loro definizione, a  sud è comparso l’edificio della Ferrovia della Valle Seriana (1882-1884 circa) ed entro il 1906 sarà realizzato quello liberty della Valle Brembana, rappresentando una nuova opportunità economica e un
ulteriore radicamento della centralità di Bergamo nel contesto
montano.

L’edificio della Ferrovia della Valle Seriana, voluta per permettere un più agevole scambio di merci tra le industrie presenti in valle e il resto del territorio nazionale. Quello liberty della Valle Brembana verrà realizzato nel 1904-1906

Nel 1892 la via Paleocapa è ancora da attuare ma già delineata, con in testa il nuovo Palazzo Dolci, eretto in stile eclettico all’incrocio con il viale della Stazione.

Palazzo Dolci, eretto negli anni ‘70 dell’Ottocento, rappresenterà un segno architettonicamente dominante dell’incrocio tra via Paleocapa e il viale della Stazione, dove esprime il linguaggio eclettico del tempo. Il viale è ombreggiato dalle grandi chiome degli ippocastani, ampie e non maltrattate da maldestre potature

 

Veduta da Palazzo Dolci intorno al 1890, tra l’attuale viale Papa Giovanni e via Ermete Novelli. In quest’area, nel 1899 sorgerà il politeama Ermete Novelli e nel 1908 la Casa del Popolo, dove ha sede L’Eco di Bergamo. L’edificio a destra dovrebbe corrispondere al retro dell’odierno Hotel Piemontese, mentre quello a sinistra è un ampliamento del piccolo bar-ristorante intestato a Luzzana Maddalena, in  fronte al piazzale della Stazione, dove ad oggi si sono avvicendati numerosi esercizi di ristorazione. La ripresa mostra il Giardino  e il laghetto del floricoltore Codali (che vi teneva una grande serra), alimentato dalla roggia Ponte Perduto. D’estate fungeva da “piscina”, rigorosamente riservata alla popolazione maschile e affittata a 10 centesimi, mentre d’inverno lo specchio d’acqua ghiacciava diventando pista da pattinaggio e rifornendo ghiaccio per uso domestico. La serra fu poi trasformata in teatro (proprietà Dolci)

 

Il Politeama Ermete Novelli, sorto nel 1899 nella via Ermete Novelli riadattando la grande e singolare serra del preesistente Giardino Codali. In alto si riconosce la mole della Casa del Popolo, costruita agli inizi del Novecento cambiando la fisionomia del viale per la stazione. Fu proprio l’attore Ermete Novelli, con la sua compagnia, a tenere lo spettacolo con il quale si inaugurò la nuova sala. Che tuttavia non durò molto venendo tutta la zona coinvolta nelle trasformazioni del nuovo centro, che interessarono anche i lati del viale della stazione

Oltre il viale della Stazione si sta delineando la passeggiata in continuità del viale stesso con alcuni edifici sparsi .

Foro Boario e Macello

Verso la fine dell’Ottocento, sul lato orientale è quasi completamente aperta la via Foro Boario, impostata sul sito dell’antico Bersaglio, a collegare l’area del Macello con la Stazione Ferroviaria.

Primi del Novecento: il Macello comunale (cerchiato in rosso) affiancato da Casa Benaglio-Nava (in giallo) delimita a nord l’area del Foro Boario. A destra la via Foro Boario (in verde), è rimarcata da una fila di alberi. L’appartenenza ai Benaglio potrebbe riferirsi ai conti Benaglio, famiglia di antichissime origini, da sempre in ruoli chiave nell’amministrazione della città (tra le diverse residenze possedute a Bergamo, la più nota è Villa Benaglia presso S. Matteo a Longuelo). Nel mappale del 1901 l’edificio risulta di proprietà di Nava Giuseppina fu Battista (Roberto Brugali per Storylab), forse l’acquirente successiva Quest’ultima, come indicato in una non ben precisata Guida della città, potrebbe appartenere alla famiglia dei custodi del Macello

 

Il Foro Boario nel 1900, con la cupola della ottocentesca chiesa di S. Anna a far capolino sullo sfondo (Foto di Giovanni Limonta). La via a sinistra, sopraelevata rispetto al piazzale e dove sono assiepati molti spettatori è Via Angelo Maj. Visibile poco più avanti il complesso del Macello Comunale (1890). L’edificio visibile all’interno del Foro dovrebbe corrispondere alla struttura a croce evidenziata nel mappale del 1898. Tutta l’area cambiò volto dal 1921, in seguito alla costruzione dell’Istituto Tecnico Vittorio Emanuele II e alla realizzazione dell’antistante giardino pubblico

 

1897: un gruppo di operai lavora al completamento di via del Macello. Sulla destra è già realizzata la piccola struttura con pianta a croce, visibile nel mappale del 1898

 

Via del Macello nel 1885

 

1910: il viale del Macello sullo sfondo, perpendicolare a via Foro Boario (Raccolta D. Lucchetti)

Agli albori del Novecento, la qualificazione architettonica di tutta l’area ulteriormente viene favorita dalla realizzazione in stile liberty della Stazione della Valle Brembana (1904-1906 arch. R. Squadrelli).

L’edificio della F.V.B a destra e, a sinistra, quello della F.V.S. all’inizio del ‘900

 

La piazza antistante la Stazione Ferroviaria in una foto anteriore al 1912, ancora priva della fontana. Il viale mostra le trottatoie riservate al passaggio dei carri; i tram passavano invece ai lati del viale, doppiando la rotonda occupata da alcune palme, per dirigersi in centro e fino alla stazione della funicolare

 

La nuova fontana della Stazione, inaugurata il 15 giugno 1912 per celebrare il completamento del nuovo acquedotto di Algua, che da quel momento avrebbe alimentato le abitazioni private e le fontane pubbliche al posto della condotta che scendeva dalle sorgenti di Bondo Petello, sopra Albino, che in tempi siccitosi lasciava i rubinetti asciutti. La fontana – un elemento decorativo di notevole efficacia – offrì anche l’occasione per sistemare il piazzale con quattro aiuole contornate dall’elegante barriera in ferro battuto, poi rimosse (la ripresa è dei 1921)

Nel frattempo in viale Roma emergono, in posizione frontale al Foro Boario Casa Paleni (1902-1904), commissionata da Enrichetta Zenoni Paleni a Virginio Muzio e dalla ricca facciata in stile liberty.

Casa Paleni, tra via Novelli e viale Papa Giovanni XXIII. Le trifore curvilinee che decorano tutto il primo piano e gli ornati che vivacizzano la superficie della facciata, furono realizzati in cemento dalla stessa ditta Paleni, che si occupò anche della decorazione della chiesa di Santa Maria delle Grazie

Emerge poi per la compattezza anche se con una composizione più rigida la Casa del Popolo, progettata inizialmente da Virginio Muzio (scavi e posa della prima pietra risalgono al 1904), ma variamente realizzata da Ernesto Pirovano e completata nel 1908, anno della sua inaugurazione.

La Casa del Popolo, l’edificio oggi conosciuto come Palazzo Rezzara, ospita anche la sede de L’Eco di Bergamo. L’edificio fu progettato su incarico del Consiglio direttivo dell’Unione delle Istituzioni Sociali Cattoliche Bergamasche, presieduto da Rezzara

 

La Casa del Popolo, all’angolo tra viale Papa Giovanni XXIII e via Paleocapa. Oltre alle istituzioni cattoliche erano presenti anche un albergo, un ristorante, negozi, appartamenti, la redazione de “L’Eco”, la Banca Piccolo Credito, la cappella, sale di lettura, biliardo e il teatro Rubini che tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta fu sostituito dal Centro Congressi Giovanni XXIII. L’allora Viale della Stazione fu ribattezzato viale Roma – denominazione che mantiene anche oggi nel tratto tra Porta Nuova e via Petrarca -, mentre il tratto tra la stazione e Porta Nuova fu intitolato a Papa Giovanni XXIII

 

Via Paleocapa nel 1910, epoca in cui cominciavano a spuntare diversi villini liberty, solo in parte sopravvissuti. Al numero 9 sorgeva Villa Schubiger (1905-1910), tuttora esistente,  affiancata fino al 1967 da Villa Tadini (al civico 11) e da Casa Zanchi poco più distante, progettata da Ulisse Stacchini, molto attivo in quel di Milano

Dagli inizi del Novecento, anche se in tutto il territorio bergamasco la zootecnica restava una una coltura piuttosto povera e poco evoluta, il Mercato del Bestiame era diventato il principale della Lombardia, grazie alla posizione strategica delle città che catalizzava la produzione proveniente soprattutto dai distretti montani.

Carretti al Foro Boario e il Macello, nel 1903. La ripresa è scattata dall’attuale stazione delle autolinee

Ogni settimana venivano messi in vendita circa 15.000 cavalli, 2.000 fra muli e asini, 25.000 bovini adulti, 2.000 vitelli, 3.000 tra pecore e capre e 3.000 suini (l’afflusso nel corso dell’anno variava a seconda dell’andamento stagionale).

Il mercato, però, serviva soprattutto per l’esportazione, dato che la popolazione operaia era vegetariana “per necessità”, causa le scarse disponibilità economiche (5).

Il Foro Boario agli inizi del Novecento (sicuramente ante 1912 perché manca ancora la fontana della Stazione)

 

Un gregge di pecore al pascolo ripreso nel 1910 da Romeo Bonomelli dal Foro Boario (da Fotografi pionieri a Bergamo, di Domenico Lucchetti)

Tuttavia, verso il 1915, quando il Foro Boario perse la sua agibilità a causa della costruzione di nuovi edifici, il Mercato del Bestiame venne trasferito alla Malpensata, a quei tempi estrema periferia. Nel frattempo, in occasione delle celebrazioni del centenario del Donizetti (1897) si faceva strada l’idea di riqualificare architettonicamente ed urbanisticamente sia il viale Vittorio Emanuele e sia il Foro Boario, porta d’ingresso alla città dalla stazione: i lavori per la costruzione dell’Istituto Tecnico Vittorio Emanuele II e del giardino antistante (attuale piazzale degli Alpini) si avvieranno a partire dal 1921.

Palazzo Nuovo, eretto nel corso del Seicento e attualmente sede della Biblioteca Civica  Angelo Mai, ancora privo della facciata, completata negli anni 1926-27 dallo Scamozzi. L’ex Municipio divenne dal 1873 sede dell’Istituto Tecnico Vittorio Emanuele II (collocato in precedenza presso il Palazzo della Pretura Nuova in via Tasso 4) e venne adattato per ospitare anche la sezione industriale, che inizialmente si trovava in vicolo Aquila nera (trovando poi sede definitiva presso l’ex stabilimento della Società Automobili Lombarda, denominato Esperia). Agli inizi del Novecento, dati i grandi mutamenti che coinvolgevano l’economia e il sistema produttivo della nascente industria, si decise di unificare tutte le sezioni dell’Istituto (alla morte del re intitolato Regio Istituto Tecnico Vittorio Emanuele II) in un’unica sede in Foro Boario, nei pressi della stazione, completandola nel 1936

Intanto il Consiglio Comunale decideva di concentrare diversi mercati presso il Foro e nel 1909 deliberava di adattare 1.700 mq da destinare ad un eterogeneo “Mercato delle verdure”,  da tenersi parallelamente al Mercato del Bestiame.  Si commerciavano prodotti come latticini, granaglie (frumento, granoturco, orzo, segale), riso, lenticchie, fagioli e patate, che costituivano l’alimentazione principale per la maggior parte delle persone (6): con la riqualificazione del Foro Boario, il Mercato delle verdure dovette  confluire – se non tutto, almeno in parte – presso la struttura a pianta ellittica del Mercato ortofrutticolo, costruita su progetto di Ernesto Pirovano (1913-16), con l’affaccio principale su via S. Giorgio. Sotto i suoi porticati liberty avveniva la vendita quotidiana di frutta e verdura, mentre l’edificio principale ospitava gli uffici di controllo e i depositi merci.

Il Mercato Ortofrutticolo di via San Giorgio alla Malpensata, per metà demolito nel 1970, quando vennero abbattuti i  tre corpi di fabbrica porticati che sorgevano in posizione arretrata rispetto a via San Giorgio. A partire dal ’75 l’edificio principale ha ospitato nei locali al primo piano la biblioteca rionale San Tomaso, mentre ora è quasi totalmente dismesso, così come i porticati sopravvissuti alle demolizioni, ormai degradati

IL CICLODROMO/IPPODROMO E BUFFALO BILL

Alla fine dell’Ottocento, fuori la vasta area del Foro Boario, verso l’attuale via Fantoni venne realizzata la struttura del Ciclodromo, teatro di sfide fra corridori ciclisti anche stranieri – dove di certo non mancavano le scommesse – utilizzato anche come Ippodromo.

Nelle intenzioni della società che lo gestiva (la “Società Bergamasca di Sport e Ciclodromo”) avrebbe dovuto essere un grande impianto sportivo, il primo in città per le riunioni velocipedistiche.

La struttura, presente nelle piante dell’epoca, dovette restare in uso per  una ventina d’anni, dal momento che in una cartina del 1920 non è più evidenziata.

Bergamo dall’alto. Foto del 1924 della Società Airone. E’ visibile l’ampia zona libera dell’ex Foro Boario, ora occupata dall’Istituto Tecnico Vittorio Emanuele II e dal giardino antistante. Il Ciclodromo sorgeva poco oltre, in prossimità dell’attuale via Fantoni

In un secondo momento, un altro Ippodromo sarà realizzato nell’area tra l’ex Lazzaretto e i Celestini, da dove dovrà sloggiare nel 1928 per l’erezione dello Stadio Brumana: nella seconda piantina infatti l’Ippodromo accanto al Lazzaretto compare in concomitanza con la struttura del Ciclodromo presso il Foro.

Gli avventori erano accolti all’ingresso da una facciata posticcia, dipinta in stile neogotico su di un rivestimento in legno, con la denominazione della Società in bella mostra.

Carrozze e calessi in attesa di clienti davanti al Ciclodromo, tra la fine dell’Otto e l’inizio del Novecento. Sull’insegna spicca la scritta “Società Bergamasca di Sport e Ciclodromo”. La biglietteria staccava biglietti di prezzo diverso a seconda dei posti occupati lungo la pista: in piedi 50 centesimi; nel palco una lira, mentre per la loggia bisognava sborsare due lire (da Fotografi pionieri a Bergamo di Domenico Lucchetti. Foto di Cristoforo Capitanio)

La pista ebbe un ospite d’eccezione, Buffalo Bill, che all’inizio del secolo si esibì in città per ben due volte (compreso il 1906) a distanza di pochi anni, offrendo uno spettacolo ricco di connotazioni esotiche, non solo con indiani d’America ma anche con cosacchi, arabi, africani… Vi fu anche la singolare sfida con un ciclista bergamasco, Perico, e dopo un’emozionante gara, il grande cow boy a cavallo batté il concorrente in velocipede.

Buffalo Bill a Brescia (per gentile concessione di Livio Beneceretti)

Nel 1906, lo show si svolse in una struttura coperta (un tendone da circo?), sfruttando l’energia di un potente generatore elettrico. I dettagli di questo evento sono descritti minuziosamente da L’ Eco di Bergamo del 3 maggio 1906.

IL MERCATO DEL BESTIAME ALLA MALPENSATA: NASCE IL MERCATO DEL LUNEDI’  

Verso il 1915 dunque, il riassetto di tutta l’area del Foro Boario e la costruzione di nuovi edifici  avevano dato luogo al trasferimento del Mercato del Bestiame nell’allora periferico piazzale della Malpensata, reso agibile in seguito alla recente dismissione del Cimitero di San Giorgio, che si trovava tra la chiesa omonima e il piazzale.

Cappella al cimitero di San Giorgio, alla Malpensata, dismesso nel 1909 quando già da qualche anno era in funzione il Monumentale; la sua struttura resistette in loco fino agli anni ’40

E fu grazie al nuovo Mercato del Bestiame, che si teneva il lunedì, che si consolidò l’usanza di allestire alla Malpensata il grande ed eterogeneo “mercato del lunedì”, dove sino a poco tempo fa si smerciavano i prodotti più svariati.

Ripresa fotografica del 1925 circa: i l nuovo Mercato del Bestiame trasferitosi alla Malpensata verso il 1915 (Raccolta Lucchetti)

Il lunedì, giorno di mercato, i primi a riversarsi in città erano i mandriani provenienti dal contado, che si davano di turno e di cambio ogni qualche lunedì; viaggiavano sistemati per lo più su carri e carretti trainati da cavalli e talvolta da muli, stracolmi di bovini destinati al macello o al mercato che lo concerneva.

“Tentavano l’avventura nella città e i meno timidi addirittura all’ingresso di quelle case un po’ riposte le cui vestali, come se li trovavano davanti, subito li portavano al lavandino del servizio annesso alle stanze fatali per un cautelare ‘rigoverno’. Un’operazione sempre opportuna prima degli abbandoni a mercenarie lascivie”.

Per le povere bestie, il viaggio verso Bergamo “era una tappa interlocutoria verso la soluzione finale che gli animali presentivano e denunciavano in lamentazioni struggenti; lamentazioni che nella bella stagione risvegliavano subito quei cittadini che dormivano con le finestre aperte. C’era poi anche il sottofondo, il grufolio dei porcelli contrappuntato, nel periodo pasquale, dai belati delle caprette che già vedevano il figlioletto sgozzato, arrostito e offerto in bella vista tra verdi grasèi e gialle polente”. A questi suoni si univano le urla dei venditori.

Ripresa fotografica del 1925 circa: i l nuovo Mercato del Bestiame trasferitosi alla Malpensata verso il 1915 (Raccolta Lucchetti)

Dopo le bestie e i mandriani, al mercato arrivavano i mediatori – col fazzoletto al collo tenuto da un anello – i venditori e i rivenditori, così come gli acquirenti di granaglie e di concimi, gli allevatori con i loro esperti di fiducia, i rappresentanti delle ditte produttrici di attrezzi e macchine agricole.

Ripresa fotografica del 1925 circa: i l nuovo Mercato del Bestiame trasferitosi alla Malpensata verso il 1915 (Raccolta Lucchetti)

Tutti armati di taccuini e di matite copiative, si allogavano ai tavolini dei caffè e delle mescite del centro, dove alcune osterie raccoglievano i mediatori delle valli ed altre quelli della pianura. Solitamente il Caffé Dondena (poi demolito) raccoglieva i subalterni, mentre i “padroni” si recavano al Cappello d’Oro, dove poi avrebbero pranzato.

Appena fuori Porta Nuova, sorsero presto numerosi alberghi e ristoranti per accogliere i viaggiatori. Il Cappello d’Oro, a sinistra della fotografia, assicurava anche il noleggio di carrozze

Nel secondo pomeriggio, dopo aver congedato i mercanti ormai ubriachi (qualcuno diretto alla corriera ed altri a piedi, spingendo col bastone fino a casa le bestie acquistate), costoro prendevano la via di quelle case dove già avevano indugiato i giovani mungitori, aggirandosi in quei vicoli intorno a Piazza Pontida, dai nomi un po’ misteriosi (del Bancalegno, dei Dottori, di San Lazzaro, della Stretta degli Asini) dove “pulsava la presenza, domiciliare e lavorativa, di signorine o ex signore, talora anche un po’ sul declino, dai fascinosi nomi d’arte: la Parigina, la Sigaretta, la Fornarina, l’Avorio Nero, la Nuvola. Le favorite degli operatori del lunedì che più potevano spendere e che potevano anche concedersi una cenetta al Ponte di Legno” (7).

Quando il sole cedeva alla sera e si rinfrescava l’aria, Città alta si profilava nel cielo nitida e sola, ed estranea ai mercati del Borgo sembrava una gran dama, che dal suo balcone assisteva sorridente a una festa di paese.

Resistettero quei lunedì non troppo oltre l’ultimo dopoguerra.

Negli anni Cinquanta, specialmente in occasione del “mercato del lunedì” il palazzo della Borsa Merci fu a lungo sede di contrattazioni ed infine si pensò alla realizzazione di un nuovo Mercato del Bestiame e di nuovo Macello pubblico.

Il palazzo della Borsa Merci, realizzata nel 1954 su progetto di Marcello Piacentini per conto della Camera di Commercio di Bergamo. L’edificio si sviluppa tra viale Vittorio Emanuele II e via Francesco Petrarca e costituisce il completamento del disegno urbano per l’odierna piazza Libertà. I locali per le contrattazioni venivano affittati singolarmente. Il piano interrato ospitava i servizi della borsa e alcuni locali adibiti a esposizioni temporanee dominati dalla presenza di un pilastro centrale che Angelini rivestì con ventidue tipi diversi di marmi, provenienti dalle valli bergamasche, che costituiscono un’allegoria della maschera di Arlecchino. Angelini  l’artefice delle soluzione spaziali adottate per gli interni, di cui progettò anche gran parte dell’arredo. L’edificio ospita oggi diverse attività commerciali e amministrative

LA TRADIZIONE DEL LUNA PARK

Come testimoniato dalle tante immagini giunte a noi, per molto tempo l’antesignano del Luna Park trovò la sua collocazione ideale nell’allora Piazza Baroni, sull’area oggi compresa tra il Palazzo di Giustizia e il Palazzo della Libertà, a pochi passi dai pazienti ricoverati presso il vecchio Ospedale di San Marco, a lungo costrette a condividere la promiscuità con gli schiamazzi e gli olezzi provenienti dall’area.

Era la parte riservata al divertimento della Fiera di Sant’Alessandro, che richiamava un gran numero di persone dalla provincia e dalle regioni vicine. Arrivavano giocolieri, saltimbanchi, piccoli circhi, ambulanti; meraviglie e attrazioni di ogni genere: le oche ammaestrate, la donna barbuta, il gorilla, la balena impagliata. Ma venivano presentate anche le meraviglie del secolo, compresa la fotografia, che un fotografo ambulante portò a Bergamo poco dopo l’invenzione di Daguerre.

Accanto a Piazza Baroni, la futura via Verdi (anche via Tasca ancora non esiste) fa da spartiacque alle baracche e ai tendoni che costituiscono la parte più ludica della Fiera, quella degli animali da circo e dei fenomeni da baraccone. Un articolo dell’”Eco” riferisce che il 24 agosto del 1908, in occasione della festa di Sant’Alessandro in fiera, in Piazza Baroni si promuovevano diverse iniziative. Sul fondo si distinguono, sulla sinistra la facciata del tempio evangelico, uno dei primi edifici del nuovo centro cittadino, ai margini della via Ferdinandea ora viale Vittorio Emanuele II; sulla destra il campanile della chiesa di S. Alessandro in Colonna (terminato nel 1905) e a destra l’Ospedale di San Marco (fondato nel 1458 e completato nel ‘500), demolito nel 1937

 

Scene di vita dalla vecchia Fiera del “Prato S. Alessandro”. Dai tendoni sullo sfondo si nota che la zona è quella dedicata ai divertimenti nello spazio esterno ai casotti

Con l’abbattimento della Fiera verso la fine degli anni Venti, il Luna Park trovò una sede più idonea presso il Foro Boario, dove – racconta Luigi Pelandi – si ergeva solitamente un grande anfiteatro a mo’ d’arena e dove soprattutto durante il periodo della Fiera si combinavano delle ascensioni con il globo aerostatico, esercizi di acrobazia, esibizioni ginniche, corse di cavalli, ed altro ancora.

Acrobati motociclisti nel 1915 in Piazza Baroni o presso il Foro Boario? Un dubbio sollevato da Adriano Rosa in Storylab: “Il presunto vincitore è posto su una motocicletta, e alle sue spalle è presente una struttura che pare essere circolare, tipica di quelle dove si svolgono le acrobazie dette “giro della morte”. Inoltre anche sullo sfondo compaiono disegni di motociclette. Infine si notano due scritte “Faust” e “Radames”, che rimandano a due famose opere liriche (Radames, indirettamente, è un personaggio dell’Aida). Se ricordo bene ciò che ho letto da qualche parte, questi spettacoli venivano effettuati in una struttura eretta in Piazza Baroni o in Foro Boario”

 

Un “ottovolante” al Foro Boario, nel 1929

In seguito, per un breve periodo si posizionò nei giardini della Casa del Popolo (sede odierna de L’Eco di Bergamo) e successivamente, per un certo periodo (verosimilmente nel dopoguerra) dovette sostare nel grande campo incolto che si estendeva tra l’attuale piazza della Repubblica e viale Vittorio Emanuele.

Appena dopo la seconda guerra mondiale, la zona tra l’attuale piazza della Repubblica e viale Vittorio Emanuele era ancora un campo incolto. Sullo sfondo, Casa S. Marco (1938), la Casa Littoria (Casa della Libertà, 1936) e il Palazzo delle Poste, inaugurato nel 1932

Agli albori degli anni Cinquanta, la costruzione del palazzo dell’INPS e la riqualificazione del piazzale costrinsero i baracconi della Fiera di Sant’Alessandro a trasferirsi sul piazzale di terra battuta della Malpensata, dove periodicamente, da qualche tempo doveva stazionare il Circo equestre, di cui si conserva una testimonianza.

Anni Cinquanta: il Circo di Darix Togni – domatore di tigri – alla Malpensata. Alle spalle si riconosce l’edificio della “Bonomelli”,  prima dei vari ampliamenti e ristrutturazioni susseguitesi negli anni. L’edificio con le quattro finestre sovrapposte fa ora parte di un’ala che arriva fin quasi alla ex pista di pattinaggio su ghiaccio

Una fotografia datata 1957/58 – Elefanti alla “Zuccheriera” di Porta Nuova – attesta per quegli anni la presenza di un Circo equestre nelle vicinanze del centro; l’abbigliamento estivo dei bambini lascia supporre che la ripresa sia stata eseguita nel mese d’agosto, in occasione della ricorrenza di Sant’Alessandro.

Elefanti all’ “abbeverata” di Porta Nuova (la Zuccheriera) nel 1957/58 (Fondo Fausto Asperti – Museo delle storie di Bergamo)

 

Una rara immagine dei baracconi della Fiera di S. Alessandro, intorno alla fine degli anni Cinquanta, con il piazzale della Malpensata ancora spoglio. In quello che allora veniva chiamato “Autosprint”, il circuito a forma di 8 visibile in primo piano, sfilarono in un primo tempo delle automobiline piuttosto veloci che ricordavano la Giulietta spider, venendo poi sostituite da Go Kart. In secondo piano si vede l’Autoscontro mentre a destra si intravedono le famose “Gabbie”

 

Via Don Bosco dal piazzale della Malpensata intorno alla fine degli anni Cinquanta, come si evince anche dal “grattacielo” di via Tiraboschi visibile in alto a destra e risalente a quel periodo. La ripresa fu scattata dalla ruota panoramica della fiera, della quale si intravede uno scorcio di baraccone in primo piano. “Cosi’ si presentava l’incrocio Via Carnovali-Via Don Bosco, con quel distributore (marchio Caltex, se ricordo bene), che resto’ lì per molto tempo, fino alla fine degli anni ’70. Una zona molto cambiata, quasi tutti gli edifici sulla sinistra sono stati demoliti, sostituiti da enormi condomini. Il grande edificio del gasometro, la cui demolizione è stata completata da poco per la costruzione del parcheggio, è appena fuori quadro, Ci sono due campanili visibili: quello piccolo a sinistra è della Chiesa di San Giorgio, quello più alto è quello, inconfondibile, di S. Alessandro. La foto fu scattata ad Agosto, quando sul piazzale della Malpensata si teneva il Luna Park” (Adriano Rosa per Storylab. Fotografia caricata da Pietro Bellavita)

In occasione della sistemazione del piazzale della Malpensata, messo a punto nel ’64, il Luna Park della festa patronale di Sant’Alessandro si trasferì presso il Piazzale della Celadina, dove rimase per una cinquantina d’anni finché di recente non venne spostato in un’area adiacente.

Piazzale della Malpensata, 1964

LA RIQUALIFICAZIONE DEL FORO BOARIO E LA COSTRUZIONE DELL’ISTITUTO TECNICO VITTORIO EMANUELE II

Mentre la nascita, tra  il 1882 e il 1906, degli edifici delle Ferrovie delle Valli  rappresenta un primo segno di qualificazione architettonica dell’area, sull’ampio piazzale si realizzano interventi tesi a razionalizzare e concentrare diverse attività, destinando – come detto – 1700 mq del foro per il Mercato delle verdure.

Con le celebrazioni del centenario del Donizetti (1897) comincia tuttavia a farsi strada un progetto di più ampio respiro, teso a riqualificare il viale Vittorio Emanuele e il Foro Boario, che costituiscono la porta d’ingresso alla città dalla stazione.

L’evoluzione novecentesca del viale della Stazione, poi viale Roma ed oggi Papa Giovanni XXIII

La decisione di collocare sul sito il nuovo palazzo per accogliere l’Istituto Tecnico Vittorio Emanuele II (concepito come embrione di una cittadella degli Studi), realizzando il nuovo giardino pubblico antistante, sarà determinante nella definizione dell’attuale area del piazzale.

 

Dopo la posa della prima pietra il 23 settembre 1913 alla presenza del re Vittorio Emanuele III, l’edificio verrà costruito in due diverse fasi, di cui gli studi riportano date discordanti.

Due ali di folla, con bandiere, applausi e grida “Viva il re!” al passaggio a Porta Nuova del corteo con l’auto – scortata da carabinieri in bicicletta – sulla quale sfila Vittorio Emanuele III in visita alla città il 23 settembre 1913. In questa occasione il re presenzia alla posa della prima pietra dell’lstituto Tecnico in Foro Boario e all’inaugurazione del monumento a Cavour. Inoltre compie una visita l’lstituto Italiano d’Arti Grafiche ed un’altra in Città Alta e alla Cappella Colleoni (da “Fotografi pionieri a Bergamo” di Domenico Lucchetti – Foto di Giuseppe Locatelli)

Il progetto, che prevedeva per il complesso un’impostazione a C e a prospetto lineare con un corpo centrale emergente, fu affidato all’ing. Michele Astori, ma venne indetto un concorso di architettura per la facciata nel 1913, vinto da Marcello Piacentini. Luigi Angelini coordinerà i lavori, su cui poi interverrà con delle modifiche l’ing. Ernesto Suardo.

La prima ala venne terminata nel 1922 e completata nel 1934-1936 con la variante del corpo centrale disegnato dal Piacentini (8), mentre il complesso è completato nel 1936 e nell’ottobre dello stesso anno è inaugurata l’ala nuova (9).

La fabbrica del primo lotto (1818) dell’Istituto Tecnico Vittorio Emanuele II. A lavori ultimati, comprendeva 13 aule, 6 aule speciali, 6 di disegno, 4 laboratori (fisica, elettrotecnica, chimica generale, chimica industriale)

 

Il secondo lotto dell’Istituto Tecnico Vittorio Emanuele II, completato nel 1936. Venne occupato dall’Istituto Industriale, che nel 1919 trovò sede nella ex fabbrica di automobili Esperia, lasciando dunque spazio al neonato liceo scientifico. L’edificio fu infatti fortemente voluto per i grandi mutamenti che coinvolgevano l’economia e il sistema produttivo della nascente industria

 

 

In una foto del 1924, il primo lotto dell’Istituto Tecnico Vittorio Emanuele, concluso nel 1922. In primo piano il nuovo giardino realizzato nei primi anni Venti da P. Pesenti. Costruita la prima ala dell’Istituto Tecnico e realizzato il primo impianto dei giardini pubblici, l’area del Foro Boario ospiterà gli stand della Fiera campionaria (che in precedenza si teneva nel cortile del Palazzo Tre Passi) e gli espositori – industriali, artigiani, commercianti, agricoltori – raddoppieranno

 

Una fotografia priva di data, con l’impianto del giardino non ancora ultimato e piantumato

Nel corso dei lavori del primo lotto il Comune realizza il primo impianto dei giardini pubblici che, seppur diverso rispetto al progetto iniziale (10), è ben evidenziato nelle foto aeree del 1924 con la rete geometrica dei vialetti e il parterre della sezione centrale che enfatizza l’architettura aulica e monumentale del nuovo edificio.  Le due ampie piazzole ai lati erano destinate ad aree di sosta.

Volo aerea del 1924, dettaglio sul Foro Boario e contesto (Civica Biblioteca Angelo Mai Bergamo), Si noti anche l’ampio viale allineato con il muro di cinta meridionale delle scuole, a delimitare il confine del giardino. Nel 1927 sono citati alcuni aceri, due magnolie, due laurus a palle e cinque laurus a piramide

 

Da Raccolta Lucchetti (l’annullo postale è del 1930). Nel 1922 l’edificio in Foro Boario ospita il l Regio  Istituto Tecnico, ridotto alla sola sezione Commercio – Ragioneria

Mentre l’intero Foro si anima Foro con la presenza di alcuni chioschi e di strutture di svago, Bergamo cresce; di lì a poco, tra il 1933 e il ’36 verrà realizzata la nuova Stazione delle Autolinee, che si raccorderà al giardino pubblico – posto a una quota inferiore – mediante un’ampia gradinata di collegamento.

Bergamo dall’alto. Foto del 1924 della Società Airone. L’Istituto Tecnico Vittorio Emanuele II nell’area dell’ex Foro Boario, come si presentava al termine della prima fase della sua costruzione. Si nota la Chiesa delle Grazie con ancora il vecchio campanile, mentre dietro la cupola, nell’attuale via Taramelli è visibile la ciminiera del Cotonificio Reich. Oltre la via A. Maj, verso le vie Bono, Rovelli e David emergono le tante fabbriche dell’epoca: la lombarda Cementi, Molini Bergamo, Cesalpinia, Agnelli, Molini Callioni, ed altre. In lontananza, la ciminiera più alta: quella del Linificio e Cotonificio Oetiker

L’ARRIVO DELLA STAZIONE DELLE AUTOLINEE CANCELLA LA TORRE E LO STADIO “BARLASSINA”

Nel 1957 la stazione è sottoposta ad una complessiva ristrutturazione per la realizzazione della Stazione delle Autolinee, in occasione della quale viene innalzato il grande arco di sostegno in cemento e tiranti e della struttura delle pensiline: il terminal venne ritenuto all’avanguardia.

La Stazione dellle Autolinee vista da sud. Venne realizzata nel 1957, con il grande arco di sostegno  della struttura delle pensiline. Oltre ai negozi e bar, la zona era provvista anche di un albergo diurno con docce pubbliche

 

La nuova Stazione delle Autolinee con a fianco, l’edificio liberty della Ferrovia della Valle Brembana, opera dell’arch. Squadrelli

E’ probabilmente in questa occasione che viene demolita l’alta torre che sorgeva a lato del fronte sud-est dell’Istituto Tecnico, la cui collocazione si precisa in alcune immagini di repertorio.

1924: a destra dell’Istituto Tecnico Vittorio Emanuele II, la torretta di Piazzale Marconi. Come ipotizzato nei commenti di Storylab, poteva trattarsi di una cabina elettrica appartenente alla società privata Orobia

 

La torretta di Piazzale Marconi, presso il Foro Boario

La ritroviamo in altre due riprese eseguite probabilmente per immortalare la piena del torrente Morla del ’37 e del ’49.

A sinistra, la torre in Piazzale Marconi nel 1949, verosimilmente demolita intorno al 1965 per la realizzazione della Stazione delle Autolinee. Il piazzale è allagato probabilmente a causa della piena della Morla di quello stesso anno. Lo stadio “Barlassina”, demolito negli anni Cinquanta, si trovava proprio oltre la muraglia sovrastata dalla scritta (casuale quanto azzeccata) “Masera” (“a macero” nel dialetto locale) (Archivio Wells)

 

Un’altra immagine della , la torre in Piazzale Marconi nel 1937, probabilmente scattata in occasione della piena della Morla registrata dalle cronache. Poco distante, l’edificio della Stazione della Valle Brembana

 

Estratto da Piano regolatore della Città di Bergamo del 1906, il corso del torrente Morla nellarea della Stazione Ferroviaria (Archivio Ra.pu)

Ed è probabilmente a causa della realizzazione della Stazione delle Autolinee che viene abbattuto il piccolo Stadio Barlassina (11) che sorgeva a fianco della F.V.B. e di cui è difficile reperire la data di costruzione.

Inizi anni Cinquanta: la demolizione dello Stadio Barlassina, nell’area dove venne realizzata la Stazione delle Autolinee. Quei vagoni ferroviari dovrebbero appartenere alle Ferrovie delle Valli. Il tamburo a destra dovrebbe essere quello di S. Anna; l’edificio a destra è ancora esistente (anche se ridotto nelle volumetrie) quasi all’incrocio tra le vie Foro Boario e Bono, così come gli edifici retrostanti

Si è osservato che l’origine del nome Barlassina potrebbe derivare dall’arbitro più famoso degli anni Trenta, Rinaldo Barlassina – di origine novarese – scomparso a Bergamo nel 1946 per un incidente stradale. Se ciò fosse vero, il campo di calcio dovette perdurare solo per pochi anni in quanto il piccolo stadio, con il fondo in in terra battuta, venne demolito agli inizi degli anni Cinquanta.

La struttura occupava parte dell’area dell’attuale Stazione delle Autolinee e confinava con la FVB.

Pizzale Marconi nel 1953: il “Barlassina”, che sorgeva a lato della F.V.B., è da poco scomparso per fare spazio alla rinnovata Stazione delle Autolinee (Foto Wells)

D’estate il campo ospitava il celebre torneo detto “Notturno”,  poi sostituito dal “Palio 18 Isolabella” che negli anni ’50/’60 si teneva ogni sera d’estate e con grande affluenza di pubblico sul campo dell’Olimpia nell’Oratorio di Borgo Palazzo, a cui partecipavano – profumatamente pagati e sotto falso nome – anche calciatori professionisti (12).

IL DOPOGUERRA E LA NASCITA DEL “GIARDINO LUSSANA”

Nel Dopoguerra, tra i vari progetti avviati per la ricostituzione del patrimonio arboreo delle aree verdi pubbliche devastate durante la seconda guerra mondiale, si avvia quello del “Giardino Lussana”, nome che assume il giardino antistante l’Istituto Vittorio Emanuele II.

Dopo qualche variante apportata nel luglio del ’46 viene realizzato il nuovo giardino progettato da Luigi Angelini, con il viale in asse con la facciata dell’Istituto e l’aiuola centrale con piazzola. Le immagini raccontano la sua evoluzione.

Come previsto nell’atto di cessione del lotto di terreno, le piantumazioni hanno  lasciato libera la visuale dal viale Roma al corpo centrale della facciata principale dell’Istituto Tecnico

 

Il  giardino in un immagine antecedente al 1962

 

Il Giardino Lussana ancora privo del monumento all’alpino in una foto non datata

Nel frattempo via Paleocapa va assumendo il volto attuale.

Via Paleocapa, con a sinistra l’ex Casa del Popolo, oggi Palazzo Rezzara, con visibili l’ingresso dell’Hotel Moderno e del Cinema Rubini (sostituito tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta dal Centro Congressi Giovanni XXIII). A destra il Palazzo Dolci

DAL MONUMENTO ALL’ALPINO AL DECLINO E ALLA RINASCITA DELL’AREA

Nella Bergamo da tempo privata di un monumento dedicato agli alpini ed in seguito alle pressanti richieste degli alpini bergamaschi, nel 1957 si decide finalmente di issare in città un nuovo monumento. Per la collocazione la scelta cade sul Giardino Lussana, ed in seguito a un concorso nazionale vengono affidate agli arch. Giuseppe Gambirasio, Aurelio Cortesi e Nevio Armeggiani la progettazione, la collocazione e la realizzazione dello slanciato monumento con vasche d’acqua dedicato agli alpini, mentre la scultura bronzea dell’Alpino arrampicante è di Peppino Marzot.

La posa della prima pietra avvenne il 31 gennaio del 1960 e per desiderio degli alpini bergamaschi l’inaugurazione viene fatta coincidere con l’adunata nazionale degli alpini, che si terrà a Bergamo il 18 marzo del 1962.

L’altezza del monumento diventa un preciso riferimento urbano, accentuando maggiormente la centralità dell’impianto del giardino – titolato d’ora in avanti Piazzale degli Alpini -, a scapito della visione del palazzo dell’Istituto Tecnico.

Il monumento all’Alpino nel piazzale degli Alpini. Al fine di valorizzare il monumento, nella fontana non vengono realizzati giochi d’acqua

 

Pianta topo-idrografica della città di Bergamo e sobborghi dell’Istituto Geografico Militare, compilata e disegnata dall’Ing. Roberto Fuzier nel 1896. Sono indicate le rogge principali e i canali secondari derivati. L’area è ricca di corsi d’acqua: in corrispondenza della fontana la roggia Nuova e la Coda Morlana si uniscono dando origine alla roggia Ponte Perduto

Negli anni 80 inizia il declino della Stazione delle Autolinee, con l’aumento degli scippi, delle rapine e soprattutto dello spaccio di droga. La sala d’aspetto diventa un bazar dello spaccio e ostello per sbandati e clochard di ogni sorta.

Clochard in viale Roma, anni ’70

Mentre crescono le retate e i presidi delle forze dell’ordine, e crescono le telecamere, si muove anche la solidarietà con l’istituzione del camper di Don Fausto Resmini e i volontari della Caritas. Nel 2010 iniziano i lavori per riqualificare il piazzale degli Alpini per la costruzione del moderno Bergamo Science Center (arch. Giuseppe Gambirasio e Marco Tomasi), finchè non si approda all’ennesimo restyling dell’area, frutto di storia recente.

 

VECCHI RICORDI DI VIA ANGELO MAJ

Nel 1953 il vecchio Macello comunale di via A. Maj fu spostato alla Celadina e poco dopo la sua demolizione fu costruito l’istituto Secco Suardo.

Via Angelo Maj e, in primo piano, il vecchio macello cittadino. L’immagine è antecedente al 1953, anno in cui il vecchio macello della città fu spostato alla Celadina. Dopo il trasferimento l’edificio fu demolito per fare posto all’istituto Secco Suardo (Archivio Wells)

Nella stessa via, oggi trasfigurata, c’erano altre attività storiche come il Mulino Oleificio Callioni, la Trattoria del Bue Rosso e l’edificio del Monopolio di Stato. Quest’ultimo era stato costruito prima della seconda guerra mondiale e per tantissimi anni aveva mantenuto la stessa impostazione: tabacchi sulla destra, sale sulla sinistra, un ampio cortile ombreggiato da un grande fico al centro.

Poi i Monopoli arrivarono al capolinea, con l’affidamento della manifattura e della distribuzione del tabacco ai privati ponendo fine a una delle ultime testimonianze di quella che può essere considerata una vera e propria epopea.

Uno dei carretti che si aggiravano in città per conto del Monopolio di Stato. Trasportava sale e tabacchi, raggiungendo anche Città Alta, forse percorrendo il viale delle Mura per evitare che il ronzino si affaticasse lungo le ripide strade. Il capo chino, le orecchie basse e il passo lento, per le strade piane del centro, sono un ricordo familiare per molti. Questo  carretto doveva circolare ancora intorno alla metà degli anni Settanta, come si evince anche dalle automobili riprese, e c’è chi lo ricorda ancora almeno oltre la metà degli anni Ottanta, anche se in un primo periodo il cavallo bianco veniva utilizzato alternativamente ad un cavallo marrone. Negli ultimi periodi venne invece utilizzato un cavallo nero

 

1979: l’ultimo cavallo che trainò il carretto del Monopolio; il conducente era il signor Magri. Il carretto è ripreso all’altezza della ricevitoria del Totocalcio, a fianco del Teatro Donizetti. E’ strano che in un periodo come quello il monopolio si servisse ancora di un carretto per recapitare le sue merci. O forse, chissà, può essere stata una scelta del “carrettiere”: forse non lo sapremo mai, ma ci resta pur sempre questo bellissimo ricordo (Ph Giuseppe Preianò)

Dopo la loro privatizzazione, avvenuta tra la fine degli anni Novanta e gli inizi del nuovo secolo, nel giugno del 2005 lo storico deposito di via A. Maj è stato ceduto dallo Stato e destinato a complesso residenziale e negozi, evocando nel  nome (Residenza Monopoli) i gloriosi trascorsi.

In lontananza il profilo del vecchio Macello, prima del 1953

Pur pur non presentando alcun pregio artistico,  l’intervento edilizio, eseguito su progetto dell’architetto Pietro Valicenti, ha mantenuto, ristrutturandolo, il fronte su via Maj perché legato al vincolo imposto dal vecchio piano regolatore. L’unica modifica ha riguardato l’ampliamento dei riquadri sulla facciata che sono stati rimpiazzati da ampie finestre.

 

Note

(1) A Bergamo la lana era prodotta e commerciata già dal Duecento e nel ‘500 Bergamo, Milano e Como, costituivano di gran lunga la principale area laniera italiana e una delle principali d’Europa, cosicché, nella seconda metà del ‘500, grazie al raggio d’azione internazionale dei potenti mercanti bergamaschi legati soprattutto alla manifattura della lana (settore fondamentale in ambito tessile bergamasco), la grande Fiera di Bergamo godeva del suo massimo splendore. La manifattura tessile legata soprattutto al settore laniero legato ai panni di lana della Val Gandino (una delle  componenti essenziali della Fiera) si esaurì rapidamente con la caduta della Repubblica di Venezia, per gli ostacoli posti al commercio internazionale e dal ripetuto variare dei regimi doganali, che nel periodo napoleonico favoriscono i mercati francesi. Il settore laniero era ormai incapace di reggere la concorrenza lombarda, soprattutto milanese (da M. Gelfi, La fiera di Bergamo: il volto di una città attraverso i rapporti commerciali, Ed.Junior, 1993).

(2) M. Gelfi, Op, cit.

(3) M. Gelfi, Op, cit.

(4) Comune di Bergamo – Area Politiche del Territorio – Concorso di Progettazione per tre piazze a Bergamo: Piazza Carrara, Piazzale Risorgimento, Piazzale Alpini. Luigi Pelandi (Op. cit.) afferma che nel 1857 al Foro Boario fu trasportato il Mercato bovino e, nel 1870, anche quello equino. Al mercato equino, Luigi Volpi (Op. cit.) aggiunge anche il mercato fessipede.

(5) LA S.A.B. AUTOSERVIZI – Più di cent’anni ma non li dimostra. Ricerca condotta da: Chiara Caccia, Stefano Negretti, Maria Grazia Pirozzi.

(6) Ibidem.

(7)  Rievocazione di Emilio Zenoni in: Pilade Frattini, Renato Ravanelli, Op. cit.

(8) Comune di Bergamo – Area Politiche del Territorio – Concorso di Progettazione per tre piazze a Bergamo, Op, cit.

(9) A cura di Giovanni Luca Dilda, La sezione ottocentesca dell’archivio del Vittorio Emanuele II.

(10) La realizzazione dell’impianto, progettato dall’arch. Michele Astori, fu rimandata per via del conflitto mondiale e probabilmente non venne eseguita. Esso era impostato su un viale centrale ad enfatizzare la facciata del palazzo e un viale perpendicolare aderente alla facciata per dare continuità e attenzione alla visuale con città alta, ma non è chiaro se in un primo momento fosse stata adottata la soluzione del viale centrale. Il disegno è conservato presso la Civica Biblioteca Mai Bergamo. Nel 1923 la Giunta approvava un progetto di sistemazione a giardino «con piante, vialetti e pietre» di cui rimane un disegno (Comune di Bergamo – Area Politiche del Territorio – Concorso di Progettazione per tre piazze a Bergamo, Op, cit.).

(11) Pilade Frattini e Renato Ravanelli, Op. cit.

(12) Pilade Frattini e Renato Ravanelli, Op. cit.

Riferimenti principali

Comune di Bergamo – Area Politiche del Territorio – Concorso di Progettazione per tre piazze a Bergamo: Piazza Carrara, Piazzale Risorgimento, Piazzale Alpini.

“Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. Di Pilade Frattini e Renato Ravanelli. A cura di Ornella Bramani – Vol. II. UTET. Anno 2013.

Mauro Gelfi, La fiera di Bergamo: il volto di una città attraverso i rapporti commerciali, Ed.Junior, 1993.

Luigi Volpi, Vecchie botteghe bergamasche. La Rivista di Bergamo (anno sconosciuto).

Maria Mencaroni Zoppetti (a cura di), L’Ospedale nella città – Vicende storiche e architettoniche della Casa Grande di S. Marco. Collana: Storia della sanità a Bergamo – 1. Fondazione per la Storia Economica e Sociale di Bergamo.

Luigi Pelandi, Passeggiando per le vie di Bergamo scomparsa – La Strada Ferdinandea – Collana di Studi Bergamaschi – A cura della Banca Popolare di Bergamo. Bergamo, Poligrafiche Bolis, 1963.

Mariola Peretti, L’ex Mercato ortofrutticolo di Bergamo, terra di nessuno.

Luigi Angelini, Il volto di bergamo nei secoli, Bolis, 1952.

A cura di Giovanni Luca Dilda, La sezione ottocentesca dell’archivio del “vittorio emanuele II”.

RINGRAZIAMENTI

A Storylab e in particolare a Giuliano Rizzi, Adriano Rosa , Roberto Brugali, Adriano Colpani, Duccio Crusoe e Sergio Meli per Casa Benaglio-Nava in via del Macello e per alcune preziose  informazioni concernenti il Luna Park,  lo Stadio Barlassina, la torretta presso la Stazione, il Circo Togni alla Malpensata nonchè il Ciclodromo.

Pacì Paciana: il brigante eroe contro i francesi 

Conclusa la breve esperienza di autogoverno cittadino (Repubblica Bergamasca) nel luglio del 1797 Bergamo veniva a dipendere dal potere centrale milanese, in qualità di capoluogo del Dipartimento del Serio.

Nel periodo napoleonico, le gravi congiunture politiche ed economiche, il continuo regime di guerra, il peso della tassazione (le imposte francesi erano circa sette volte maggiori rispetto a quelle venete) e l’introduzione nel 1802 della coscrizione obbligatoria, fecero precipitare il conflitto tra le popolazioni e l’autorità politica, tra la città e soprattutto le valli, dove le divergenze continuarono a permanere per tutto l’Ottocento.

Con la coscrizione, ogni dipartimento doveva fornire un contingente anno per anno, proporzionale alla popolazione e in rapporto alle esigenze belliche. Gli uomini fra i 18 ed i 50 anni dovevano prestare servizio presso la Guardia Nazionale per 1 lira e 15 soldi al giorno. Era prevista la possibilità di farsi sostituire a proprie spese da altri, possibilità che potevano cogliere solo le classi sociali più abbienti, le uniche in grado di pagarsi un sostituto (come avvenne per Gaetano Donizetti e l’amico Dolci). La nuova coscrizione (1802) impose l’assenza da casa per quattro lunghi anni in tempo di pace e per un tempo indefinibile in stato di guerra, e non pochi bergamaschi furono partecipi alla infelice campagna di Russia; tra il 1797 e il 1814, dei 200.000 uomini che combatterono nelle milizie italiche, 125.000 morirono in battaglia o per cause connesse alla guerra.

Così, all’obbligo del servizio militare – novità resa ancora più impopolare dalla pratica della supplenza -, si rispose massicciamente con la diserzione, aggravando di conseguenza l’endemico brigantaggio locale che, alimentato anche dal contrabbando del sale e del tabacco, era sempre operativo nel territorio e particolarmente nelle valli, dove bande organizzate saccheggiavano case, terrorizzando le popolazioni. Orde di briganti furono segnalate in Val Camonica, in Val di Scalve, in Val Caleppio (1).

L’alta Val Camonica

I disordini, già difficilmente controllabili in un dipartimento di confine e per di più prevalentemente montuoso come quello orobico, furono tali da determinare nel 1805 l’attivazione di un tribunale speciale e la nomina di un commissario d’alta polizia, al fine di controllare l’ordine pubblico.

Viaggiatori assaliti dai briganti, dipinto di Bartolomeo Pinelli (1817).

E non si può parlare di briganti senza pensare all’inafferrabile Vincenzo Pacchiana detto Pacì Paciana, verso la cui figura, storia, leggenda, tradizione e verità continuano a intrecciarsi, tanto che ognuno lo dipinge ad esclusivo piacimento: chi come eroe, disertore e bandito coraggioso e spregiudicato, e chi come famigerato delinquente.

In realtà Vincenzo Pacchiana, nato verso il 1776 presso il ponte di Romacolo, a Poscante (frazione di Zogno) e vissuto sotto i francesi, non fu altro che uno dei tanti malfattori di strada che infestarono la Val Brembana, favoriti dalla vicinanza con il confine.

Poscante in una mappa del primo Ottocento

Data la dura pressione fiscale adottata per sostenere le campagne napoleoniche, il popolino finì con l’identificare la sua figura con quella di un vendicatore dei soprusi, che rubava ai ricchi per dare ai poveri: una sorta di Robin Hood brembano che andò a rappresentare il simbolo della giustizia per i valligiani, che lo chiamavano ol padrù d’la Val Brembana.

Una curiosa cartolina

I documenti lo descrivono come un uomo facile all’ira e d’idole facinorosa, molto “scafato” e disposto a commettere delitti, in qualche caso ben disposto ad aiutare o blandire qualcuno: e in effetti, pur essendo il Pacì feroce all’occorrenza, i conterranei lo aiutarono, in parte per timore ma sicuramente anche per simpatia.

Di corporatura ordinaria, Pacì era piuttosto alto, i capelli corvini intrecciati alla fronte e alle orecchie come si usava allora, con coda legata alla francese; barba nera e solitamente rasa, colore della pelle olivastro, occhi brillanti. Amava camuffarsi per sfuggire alla cattura, travestendosi di volta in volta da vecchio contadino, da prete e persino da donna. Parlava il bergamasco con influenza veneta per via della passata dominazione della Serenissima ed era immancabilmente armato di coltelli, pistole e fucile a schioppo a due canne: questo il suo ritratto, secondo il prontuario della polizia dell’epoca.

Era ammogliato (si nomina  una compaesana, Angela Sonzogni), la qual cosa non gli impediva di coltivare relazioni illecite.

La sua leggenda vuole che si fosse dato al brigantaggio per un’ingiustizia subita. Si racconta che divenne un brigante quando, non ancora trentenne, per difendersi da due imbroglioni che lo avevano derubato regolò l’affronto con una sonora scarica di legnate ai due manigoldi e incredibilmente per questo subì la sua prima denuncia.

Per non farsi incarcerare da quel potere che schiacciava sempre i piu’ deboli, si dette alla latitanza nei boschi meno accessibili della Val Brembana, che lui conosceva benissimo perche’ per tirare a campare pare esercitasse oltre al mestiere di taglialegna anche quello del contrabbandiere di tabacco.

Da qui inizia la sua storia di giustiziere della Val Brembana, perchè ovunque ci fossero ingiustizie, soprusi o da ridistribuire equamente ricchezze, interveniva lui, il Pacì, che a suon di schioppettate si faceva rispettare e soprattutto temere da usurai e da quelli che lui riteneva prepotenti e opportunisti.

Intanto il suo mito cresceva a dismisura e la sua fama di imprendibile diveniva leggendaria; le sue gesta erano considerate eroiche da pastori, contadini, viandanti, insomma da tutto il popolo che non amava i gendarmi, che non capivano e non parlavano la loro lingua: il bergamasco.

La coscrizione obbligatoria aveva peggiorato il malumore dei valligiani e il vento di ribellione giungeva sino alla città di Bergamo, nella quale pure non mancavano gli estimatori del Pacì, tant’è che ricorrente era la frase: “un Pacì Paciana per ogni paese”.

Un’inedita Zogno nel 1938, dalla raccolta privata di Luigi Angelini

Innumerevoli le imboscate delle guardie per catturarlo e memorabile lo scontro a fuoco a Endenna, frazione di Zogno, con un paio di morti tra le forze dell’ordine.
Da quei conflitti Pacì ne usciva sempre indenne, anche grazie ad uno speciale farsetto antiproiettile d’acciaio che portava sotto il mantello, che lo rendeva “invincibile”.

Il documento di messa al bando del Pacì Paciana

Per catturarlo e cancellarne il mito, le truppe francesi organizzarono un’imboscata nei pressi del ponte di Sedrina, da dove il Pacì si sarebbe gettato nel Brembo beffando i gendarmi, rimasti con un palmo di naso: un episodio ricostruito nel 1870 da Mosè Torricella, forse con l’aiuto di alcuni parenti, che il Pacchiana l’avevano conosciuto.

Scorcio da sotto il ponte di Sedrina

“Tutta la sbirraglia si mise in moto, capitanata da un individuo di Bergamo, venuto appositamente a prendere il bandito, condurlo in carcere, papparsi la taglia e ritornare placidamente a casa, quasi fosse la cosa più naturale del mondo. A mezzo di spie, seppe che il Pacì in tal giorno sarebbe andato a Sedrina. Infatti, appostata parte della sbirraglia al di là del ponte sul Brembo, col restante si cacciò in una casa al di qua del fiume. Il Pacì poco stette ad attraversare il ponte, quando si vede dietro una comitiva di sbirri, affretta il passo ma lo chiudono nel mezzo altri armati. Era un affar serio; si ferma, ed appoggiandosi alla sponda, attende.

– “Dunque ci siamo una buona volta, eh? diceva il capo, così si pigliano anche le volpi vecchie”.
– “Ma non però vecchie come me…. rispose il Pacì, spiccando un tremendo salto, e per l’orrido vuoto precipitando a piombare nelle acque che gorgoglianti l’inghiottirono”.

I ponti di Sedrina in una cartolina viaggiata del 1906

La leggenda dice che miracolosamente il Pacì riuscì a guadagnare la riva del fiume e si diede di nuovo alla macchia, ma qualcuno dice che l’episodio del salto nel Brembo non avvenne, o addirittura che non avvenne presso i ponti di Sedrina: casomai al ponte di Ambria.

Resta il fatto che in Val Brembana il malfattore da troppo tempo teneva in scacco la Gendarmeria, senza che questa, peraltro disorganizzata e disunita,  potesse ridurlo in forze.

Al di là di quel misto di verità e leggenda giunto sino a noi, i fatti furono indagati da Bortolo Belotti, che spulciò nei documenti conservati all’Archivio di Stato di Milano riguardo i rapporti di Diego Guicciardini, direttore generale della polizia del Regno d’Italia (1805 -1814).

Ne risulta che le autorità competenti, intenti a soffocare questo simbolo di libertà, emanano dei bandi di cattura, con “una taglia di cento zecchini a favore di chi lo prende vivo e di sessanta a chi lo uccide”, essendo sfuggito alla Gendarmeria “uccidendo due guide e lasciando feriti tre gendarmi ed un’altra guida”.

Allettato dalla taglia che pendeva sulla testa del Pacchiana, il bandito dal nome forse finto di Cartoccio Cartocci detto Carcino, d’accordo con la polizia si associò a Pacì Paciana e insieme batterono le montagne comasche nei pressi di Gravedona, dove, il 4 agosto del 1806, sedotto dalle promesse di premio il Carcino uccideva con un colpo di trombone il compare immerso nel sonno.

In tal frangente tra l’altro il Guicciardi arrestava un certo Cattaneo, che aveva tentato di servirsi del nome temuto del Paccini (il Pacchiana), per estorcere a sua volta denaro.

Il Carcino, per dimostrare l’uccisione del Pacchiana gli tagliò la testa e la consegnò alle autorità, che per certificare al popolo la definitiva scomparsa del bandito la espose sotto la “ghigliottina della Fara”, dove si giustiziavano i delinquenti: il piazzale di S. Agostino infatti, nel periodo napoleonico era divenuto il luogo delle esecuzioni capitali, che in precedenza venivano eseguite in Piazza Vecchia.

Il Foppone di S. Agostino. Ancora sotto gli Austriaci, sulla spianata della Fara venivano impiccati i malfattori, i disertori, i renitenti della leva o coloro che avevano contravvenuto alla legge marziale del 1848 per detenzione e occultamento di armi, supplizio che avrebbe dovuto essere riservato soltanto ai peggiori delinquenti. Il Foppone venne colmato solo agli inizi del Novecento con detriti, forse derivanti dall’abbattimento del tratto di via Beltrami

Finiva qui la storia di questo leggendario personaggio della Valle Brembana, la cui leggenda venne tramandata dai racconti e dai teatri dei burattini, che se ne impadronirono facendone il vendicatore dei torti e delle ingiustizie subite dai più deboli: il bandito leale e generoso, in perenne lotta contro i gendarmi, espressione armata di un governo oppressore.

Note

(1) La connessione tra diserzione e brigantaggio è tanto più esplicita negli anni di particolare tensione politico militare, quali il 1809 e il 1813. Nel maggio del 1809, nel corso dell’insorgenza popolare antifrancese che esplode in Valle Camonica all’annuncio dell’aumento dei prezzi del sale, i disertori fanno causa comune con i ribelli e attaccano alcuni paesi della valle per rifugiarsi poi sulle montagne. Nel 1813, di fronte alla requisizione straordinaria decisa dal viceré Eugenio, il ribellismo dilaga, si organizza in consistenti e pericolose bande armate e giunge a minacciare città e contado.

Riferimenti
Fondazione Bergamo nella Storia
Centro Studi Valle Imagna – Antonio Martinelli, Bergamo. Itinerari nella Storia della città e del suo territorio dalle origini al ventesimo secolo. Bergamo, Grafica Monti, aprile 2014.
Poscante e dintorni ieri e oggi – Tarcisio Bottani

In viaggio a Cornello dei Tasso, sospesi tra notte e giorno: per una visita completa

Fotografie di Maurizio Scalvini

Cornello dei Tasso è noto per aver legato il suo nome a quello dell’antica famiglia dei Tasso, conosciuta non solo per aver dato i natali ai due grandi letterati Bernardo e suo figlio Torquato ma anche per aver fondato il sistema postale, instaurando una fitta rete di collegamenti tra centinaia di città europee e dando al borgo un ruolo di rilievo rafforzato dalla fama del casato locale.

Ritratto di Francesco Tasso. Le origini di Cornello dei Tasso sono medioevali: forse costituiva inizialmente un’appendice del vicino centro abitato di Camerata (citata per la prima volta nel 1181 (1)), mentre la presenza della famiglia Tasso (2) risale al XIII secolo, con la presenza di Omodeo Tasso (morto nel 1290), il primo esponente della famiglia, che alla metà del XIII secolo getta le basi per quella che diventerà la Compagnia dei Corrieri della Serenissima. Dopo di lui è possibile ricostruire la discendenza del folto e complesso casato dei Tasso, i cui componenti, precursori del moderno servizio postale, rimasero sempre piuttosto uniti nel difendere gli interessi economici e i privilegi della famiglia (Ph Tarcisio Bottani)

Ma la fama del borgo è dovuta anche all’importante ruolo di mercato rivestito lungo il percorso della Via Mercatorum, la sola che fino alla fine del Cinquecento permise di raggiungere le terre d’Oltralpe, facendo di Cornello la sede di floridi commerci.

Prima della costruzione della Strada Priula, che correva diritta sul fondovalle, Cornello era un luogo di passaggio obbligato, fungendo da cerniera fra la media e l’alta Valle Brembana situata ‘Oltre la Goggia’: la rupe su cui si trovava formava una stretta gola sul fiume Brembo impedendo il transito di uomini e merci ed obbligando a salire sui suoi ripidi dirupi discendendo dalla parte opposta.

Cornello dei Tasso in un acquerello di don Giuseppe Cavagnis (1828). Il borgo si è sviluppato sul crinale (482 metri slm) di uno sperone roccioso a picco sul Brembo, che costituiva un ostacolo lungo la strada di fondovalle. Il suo nome deriva probabilmente da corna, ossia “roccia, pietra”

Superato l’erta rupe del Cornello, i mercanti potevano scendere ripidamente alla contrada di Orbrembo, proseguire fino al passo San Marco e raggiungere la Valtellina – un tempo terra svizzera del Canton dei Grigioni – ed i valichi diretti verso l’Europa centrale.

Questa necessaria deviazione fece del borgo il crocevia di mercanti provenienti da tutta Europa.

La Via Mercatorum all’ingresso settentrionale di Cornello, la mulattiera di origine medioevale che univa il capoluogo alla Valtellina e ai Cantoni Svizzeri. Superato Cornello, si scendeva fino alla contrada di Orbrembo e si risaliva la Val Secca puntando verso Olmo, Averara e la Valmora; da qui ci si inerpicava per passo San Marco per discendere verso Morbegno e la Valtellina ed i valichi diretti verso l’Europa centrale

La realizzazione a fondovalle di un tratto della Priula,  garantì un percorso lineare ed agevole, permettendo di evitare la salita fino all’abitato.

Il nuovo tratto di Priula (1593) a fondovalle, sotto i dirupi di Cornello dei Tasso, era sostenuto da un muro con archi che poggiava nel greto del fiume. Col tempo gli archi di sostegno vennero ampliati: i due archi inferiori sono veneti, quello mediano è austriaco, il superiore è degli inizi del Novecento

 

Nel disegno ottocentesco di Giuseppe Cavagnis, è visibile il nuovo tratto della Priula, sostenuto da un muro con archi che poggiava nel greto del fiume. La nuova strada fu voluta dal governo veneto per collegare in modo diretto Bergamo alla Valtellina senza passare per i territori spagnoli

Fino a quando la costruzione della Priula non lo escluse dai grandi traffici, il borgo di Cornello continuò ad essere sede di un importante mercato (secoli XV e XVI) (3), oltre che fulcro nel sistema viario postale che coinvolgeva l’intera Val Brembana, essendo stazione postale e di transito posta su lunghi percorsi: ed  è proprio nel Quattro-Cinquecento, in piena dominazione Veneta, che si riscontra il momento di maggior sviluppo del borgo (come si evince del resto dalla ceramica rinvenuta sotto le rovine della più antica dimora dei Tasso e dagli affreschi quattro e cinquecenteschi conservati nella chiesa).

In seguito alla realizzazione della Priula, dopo tre secoli di fiorente attività, escluso dai grandi traffici che si svolgevano lungo la viabilità maggiore della valle il borgo perse le funzioni di luogo di sosta. Insieme a Cornello venne trascinato nell’oblio anche il borgo di Oneta, ad esso collegato lungo la Mercatorum, e i paesi in quota vennero lasciati in mano ai mercanti locali.

Divenuto marginale nel nuovo assetto viario, il centro perse attrattiva e vitalità e si innestò un processo di decadimento e parziale abbandono, che tuttavia  permise la conservazione dell’originario tessuto urbanistico, restaurato nella seconda metà del Novecento.

Scorcio del borgo prima dei restauri (Archivio Wells)

E’ appunto grazie a tale requisito che Cornello ha potuto essere inserito nella lista dei “Borghi più belli d’Italia” (4).

IL BORGO DI CORNELLO 

Stretto nell’esiguo spazio tra lo strapiombo sul fiume e la cima del monte, il borgo crebbe compatto ed estremamente raccolto, anche grazie alla disposizione a ferro di cavallo delle case, costruite assecondando le ondulazioni del terreno e formando un tutt’uno con il sistema viario.

Cornello ripreso da Portiera

Oltre ai condizionamenti naturali la struttura dell’abitato di Cornello è stata plasmata dalle attività che ne hanno caratterizzato la storia, data la duplice funzione di stazione postale e di mercato: la  necessità di controllare e difendere le attività locali ha impresso al luogo il carattere di abitato fortificato. Una difesa rafforzata anche dalla presenza di un certo numero di armati, elencati a fine Cinquecento in 6 soldati archibugieri, 4 picchieri, 1 moschettiere insieme a 5 galeotti.

UNA “VISITA GUIDATA” A CORNELLO DEI TASSO

Il borgo è raggiungibile dopo aver percorso i pochi tornanti che lo separano dal fondovalle, seguendo le indicazioni attigue al piccolo parcheggio da cui si diparte la mulattiera lastricata che dolcemente introduce all’ingresso settentrionale.

Ma ancor più bucolico è imboccare la via Mercatorum all’uscita di Oneta, raggiungendo Cornello attraverso suggestive contrade immerse in ampie e quiete distese prative.

Cornello dalla Valle dei Mulini provenendo da Oneta, posta a 30′ di cammino

Il percorso ricalca le orme degli antichi viandanti,  accompagnato dal fragore del Brembo che serpeggia gonfio e spumeggiante ai piedi della rupe del Cornello.

La solida via acciottolata dalle pietre levigate dall’uso, ben radicate, ben connesse l’una all’altra, è collaudata da innumerevoli inverni di neve: larga quanto basta per una cavalcatura con la sua soma, ripida quanto occorre per procedere senza affanno a passo sicuro, la breve mulattiera ha salvato Cornello dalla penetrazione dell’automobile: ed è incredibile come da subito s’intuisca l’armonia del luogo e la cura che gli abitanti dedicano al loro piccolo, prezioso sito.

La via gradinata diretta al borgo di Cornello dei Tasso, venendo da Oneta

Finalmente, in vista del suggestivo porticato meridionale, preceduto dai ruderi della più antica dimora dei Tasso, è possibile saggiare l’emozione di ripercorrere l’antica “Via dei Trafficanti”, lungo la quale trovavano riparo le carovane dei mercanti e dei corrieri postali.

L’ampia volta d’accesso al porticato meridionale lungo il quale transitava la Via Mercatorum, con l’antico ciottolato posato con perizia e le solide arcate tagliate in grossi blocchi sbozzati in pietra locale

Osservandolo a distanza, è evidente quanto Cornello sia rimasto quale appare nelle antiche stampe: un borgo alpestre dalla struttura compatta e dal carattere fortificato, abbarbicato su un declivio affacciato sul Brembo, lungo il quale si sviluppano tre file parallele di case in pietra grigia, ben adattate l’una all’altra come i sassi della mulattiera e disposte dal basso verso l’alto assecondando le pieghe del terreno: una sequenza che culmina nella bella e caratteristica chiesa romanica col suo campanile pendente, al centro di una magnifica e silenziosa radura.

Cornello dei Tasso in un acquerello del XVIII secolo. Il borgo si struttura concentricamente, dal basso verso l’altro, su tre livelli distinti, fino alla chiesa, posta sul piano culminante (Museo dei Tasso e della Storia Postale)

Nella parte più bassa, rivolta verso valle e a strapiombo sul Brembo, corre ininterrotta una schiera compatta di abitazioni che evidenziano l’originaria caratteristica di fortificazione del borgo.

Immerso nella quiete della sera, l’ingresso della via porticata a meridione, affiancata dalle abitazioni a picco sul Brembo

Parallela all’ardita schiera delle abitazioni corre la strada porticata, lunga un centinaio di metri e splendidamente mantenuta dai pochi abitanti rimasti.

Il portico sotto cui corre la Via Mercatorum con le antiche botteghe, gli alloggi, la stazione di posta e le scuderie; il tutto sormontato da caratteristiche travi a vista

 

Dal porticato, dove il tempo sembra essersi fermato

Il portico riceve luce grazie alle arcate a tutto sesto dei cortili, contornate da possenti pietre di macigno scuro, tufo e puddinga.

Fioriture invernali accompagnano la via porticata, affiancata dalle corti delle solide abitazioni affacciate sul Brembo, a guardia della vallata: siamo al primo livello dell’abitato

 

Un’abitazione osservata dal portico: il pian terreno è generalmente a volta mentre quello superiore è addolcita da una calda copertura lignea, mentre i tetti sono generalmente in ardesia

 

Scorcio su una corte, stretta tra il lungo portico della Mercatorum e le antiche abitazioni

Questa “galleria” dove il tempo sembra essersi fermato, è delimitata alle sue estremità dai due archi monumentali di accesso, originariamente affiancati da due possenti torri di guardia, di cui si è mantenuta solo quella posta a nord del borgo.

Le arcate sul lato settentrionale del borgo

 

Le arcate sul lato settentrionale del borgo

 

Procedendo verso l’imbocco della strada porticata

Nelle incisioni ottocentesche, la torre meridionale è raffigurata accanto alla primitiva dimora dei Tasso, di cui oggi restano i ruderi: un alto edificio fortificato distribuito su più terrazzamenti a strapiombo sul fiume, protetto da uno spesso muro di cinta e con poche aperture verso la valle.

Cornello dei Tasso in un’incisione ottocentesca con in basso la Strada Priula. Sulla destra, un alto edificio fortificato affiancava, su un diverso piano di calpestio, la torre meridionale della via porticata; la posizione, naturalmente difesa permetteva un’ampia panoramica delle principali vie delle vicine valli

La primitiva dimora dei Tasso, leggermente discosta dal nucleo compatto del borgo, risale all’epoca feudale e potrebbe aver ospitato i primi esponenti della famiglia Tasso, mandati in Valle Brembana in qualità di vassalli di feudatari di Almenno.

Dell’antica dimora fortificata dei Tasso rimangono solo le fondamenta, parte delle mura di sostegno ed un arco. In origine il palazzo doveva essere piuttosto imponente, come appare in un disegno seicentesco che lo mostra senza copertura, ma eretto ancora su diversi piani. Altri disegni, di inizio Ottocento, mostrano l’edificio piuttosto elevato, con cinque livelli di finestre, con le adiacenti strutture di terrazzamenti e le coperture ancora presenti: questo fa supporre che il crollo del Palazzo sia avvenuto in tempi piuttosto recenti. Tra il 1986 e il 1989 la Provincia di Bergamo attuò un’opera di recupero del sito e, durante i lavori, emerse un’abbondante quantità di frammenti ceramici del Quattrocento e dei secoli successivi

La posizione decentrata e rivolta a valle dell’antica dimora dei Tasso, permetteva di controllare le più importanti strade di accesso al paese: quella di fondovalle proveniente da S. Giovanni Bianco e quella da Dossena (da cui si raggiungeva la città) nonchè la strada a mezzacosta che attraversando Oneta portava in Valsassina, dall’altra parte della giogaia.

L’ingresso alla via porticata meridionale, non molto distante dai ruderi della più antica dimora dei Tasso, distribuita sui vicini terrazzamenti a picco sul Brembo e sulla vallata. L’area si collega inoltre con due percorsi che costituivano la prosecuzione delle due strade principali di epoca medievale: la Strada del Torchio e la Strada del Mulino, di cui restano pochi ruderi (compaiono nel Catasto Napoleonico)

Nel contempo, la vicinanza con le aree commerciali connesse al servizio postale e di mercato, assicurava il controllo su tutte le attività economiche che si svolgevano nel borgo; un borgo che negli anni delle lotte tra Guelfi e Ghibellini, forse costituiva il centro di potere e di controllo territoriale della  famiglia Tasso, che ne avrebbe fatto un centro difensivo: numerosi avanzi di antichi fortilizi in Val Brembana testimoniano le lotte intestine condotte con saccheggi e rapine, ai tempi in cui Cornello era spiccatamente Guelfo (5).

Al riparo del porticato si allineano le aperture delle antiche botteghe che costituivano il cuore commerciale del paese, con alloggi, osterie, depositi di mercanzie e di posta, e con stalle e scuderie in cui si provvedeva al cambio dei cavalli. In ogni ambiente, dietro ogni ruvido portone segnato dal tempo, si intrecciano le mille vicende accadute nel borgo, di cui pare di sentire ancora l’eco.

La via lastricata della Mercatorum attraversa il lungo porticato dove transitavano le carovane dei mercanti e le cavalcature degli addetti postali

 

Dalla via porticata

 

Dalla via porticata

 

Giardino invernale nel cortile antistante la via porticata

Lasciamo il livello inferiore dell’abitato per dirigerci nel cuore del borgo, approfittando dei suggestivi camminamenti interni: uno degli artifici adottati per permettere agli abitanti di comunicare tra loro senza avere contatti con l’esterno: i vani interrati o posti lungo la via porticata comunicavano con le sovrastanti parti abitative tramite botole ed esistevano camminamenti sotterranei e trasversali che mettevano in comunicazione abitazioni anche poste su diversi livelli.

Il borgo è dotato di numerosi camminamenti interni, uno dei quali, molto ampio, è visibile sulla destra

Il secondo livello dell’abitato è posto a metà tra la via porticata e la chiesa; è formato da una caratteristica schiera di case, strette l’una all’altra ed affacciate su una contrada vivace ed animata, dove trova posto l’ufficio turistico e filatelico nonché l’antica Trattoria Camozzi.

Sulla via sterrata, si affacciano pittoresche logge in legno, che insieme agli attrezzi agricoli appesi ai muri riportano ad un mondo semplice e intimamente legato ai cicli naturali, quando sui travetti si essiccavano i prodotti agricoli e boschivi, e le arcatelle erano stipate di fieno o di derrate alimentari.

La pittoresca contrada nel cuore del borgo. Oltre ai servizi postali e di mercato, all’allevamento e all’agricoltura, gli abitanti vivevano degli introiti ricavati dall’affitto delle osterie, che vennero a cessare quando i traffici commerciali furono assorbiti dalla Strada Priula. Inoltre si lavoravano i cosiddetti panni bassi, che venivano venduti al mercato di Bergamo e soprattutto “fuori della patria”

Molto suggestiva la visita serale al borgo, comprensiva di pernottamento presso la Trattoria Camozzi, dove assaggiare prelibati piatti tipici della tradizione locale, ed in primis eccellenti salumi e casoncelli, seguiti da succulenti brasati annaffiati da buon vino.

La suggestiva contrada in “notturna”

 

Una calda sosta alla storica Trattoria Camozzi

La contrada si collega al sagrato della chiesa, che un tempo doveva ospitare il piccolo cimitero del paese.

La chiesa dedicata ai Santi Cornelio e Cipriano, al limitar del bosco

 

Il piazzale antistante la chiesa

Dall’altro lato, la bella contrada si collega al gruppo delle case “signorili” che racchiudono il borgo a meridione, tra cui spicca quella della famiglia Bordogna, con i due stemmi di affrescati sulla facciata. Le linee architettoniche  indicano il prestigio dei Bordogna, una delle famiglie più importanti del paese.

Palazzo Bordogna, posto lungo il “piano nobile” di Cornello. All’inizio del Cinquecento i Bordogna instaurarono un rapporto di parentela con i Tasso, grazie al matrimonio tra Bono Bordogna ed Elisabetta Tasso, sorella dei mastri generali delle poste imperiali. Questo matrimonio diede inizio alla dinastia dei Taxis-Bordogna alla quale fu affidata le gestione delle poste di Trento e Bolzano, incarico che detenne fino alla fine del Settecento. Oltre ai Bordogna, un posto di rilievo tra le famiglie di Cornello va riservato ai Giupponi, che fecero parte della Compagnia dei Corrieri Veneti

Vi sono poi naturalmente gli edifici appartenuti al casato dei Tasso: proprio alla testata del borgo vi è il palazzo di famiglia, mentre i due edifici attigui sono allestiti a Museo dal 1991.

Il palazzo dei “Tasso del Cornello” è riconoscibile dal grande stemma dipinto. Al suo interno conserva i fregi dipinti, gli affreschi e un soffitto a cassettoni. In alcune stanze stanze è presente una raccolta di strumenti e oggetti di vita contadina oltre al caminetto con lo stemma di famiglia.  Nel palazzo tornò a vivere i suoi ultimi anni Davide Tasso (uno dei quattro fratelli che subentrarono agli zii nella gestione delle linee postali imperiali), dopo aver avviato la posta imperiale a Venezia (6).

Il Museo dei Tasso e della Storia postale e il palazzo quattrocentesco della famiglia Tasso,  con il grande stemma nel quale si distinguono i simboli originari della famiglia: il tasso, il corno postale e l’aquila imperiale, Il tasso, oltre a raffigurare un animale diffuso nella zona richiama anche la denominazione della vicina montagna Tasso e della casata dominante del borgo. L’aquila imperiale, simbolo degli Asburgo, fu introdotta su concessione degli imperatori quando designarono i Tasso come gestori ufficiali delle poste nei territori del Sacro Romano Impero e in collegamento con gli altri stati europei (Ph. Tarcisio Bottani)

Accanto, il Museo dei Tasso e della Storia postale è distribuito in due diversi edifici: uno raccoglie documenti relativi ai Tasso del Cornello e delle contrade vicine e più in generale alla storia del borgo; l’altro offre alla visione del pubblico il vasto repertorio documentario sul casato dei Tasso nella specifica attività postale con le vicende che si svolsero a dimensione europea dalla fine del secolo XIII alla metà del secolo XIX: in tutto circa 300 documenti, tra lettere, mappe dei percorsi postali, manifesti e libri antichi. Ad ingresso gratuito, il Museo è aperto tutto l’anno dal mercoledì alla domenica.

Museo dei Tasso e della Storia postale: il corno di posta fu aggiunto allo stemma quando i Tasso iniziarono l’attività di corrieri, adottarono questo mezzo per comunicare il loro arrivo alle stazioni di posta (tuttora è simbolo dei servizi postali di mezza Europa). La collaborazione culturale tra il ramo principesco dei Tasso (i Thurn und Taxis) e il loro paese d’origine ha consentito di disporre di parte del materiale che si trova a Regensburg

 

Nel Museo si trovano pertanto carte geografiche, una lettera postale affrancata con il celebre Penny Black (in fotografia), telefoni e telegrafi inerenti l’evoluzione delle tecniche di comunicazione. Vi sono anche manoscritti della Gerusalemme Liberata

Saliamo ora al terzo ed ultimo livello, caratterizzato dalla presenza della chiesa dei Santi Cornelio e Cipriano, protetta ad ovest dal monte. La divisione a livelli dell’abitato permise anche la caratterizzazione dei tre aspetti principali della vita sociale di Cornello: quello commerciale, quello civile e quello religioso.

Dal livello intermedio dell’abitato verso la chiesa

La chiesa (XII-XIII secolo), con il suo campanile pendente rappresenta uno degli elementi di maggiore interesse romanico in Valle Brembana. Fu creata, sostenuta e gestita dalla famiglia Tasso di Camerata, la cui presenza è attestata dal loro altare privato, dai due affreschi dedicati a Santa Caterina D’Alessandria (patrona dei corrieri postali), dalle dedicazioni degli affreschi e dal loro stemma primitivo, con il corno postale e il tasso, che compare sulla cornice della pala con la Crocifissione, nella prima campata a sinistra.

Il caratteristico campanile pendente della chiesa dedicata ai Santi Cornelio e Cipriano

La chiesa era inoltre collegata alla via meridionale di accesso al paese mediante un un sottopasso a gradoni (ora chiuso), intuibile dalle tracce di un arco leggibile nella sezione inferiore della casa che la fronteggia (oltre la piazza).

Cornello in un disegno del XVII secolo – Archivio Centrale dei Principi Thurn und Taxis di Regensburg

 

LA CHIESA ROMANICA DEDICATA AI SANTI CORNELIO E CIPRIANO 

Giunti alla sommità del borgo, si raggiunge la piazzetta principale con la chiesetta romanica a navata unica, anticipata dal sagrato che un tempo fungeva probabilmente da cimitero e completata dal suggestivo campanile pendente, alleggerito da quattro aperture a bifora, ognuna con colonnina centrale. La copertura a piode è tipicamente montana.

Una gradita sorpresa sul sagrato della chiesa

La facciata, rivolta a mezzogiorno, è semplice ed ha un impianto in pietra squadrata. Il bel portale venne aperto in sostituzione di quello laterale tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento, epoca a cui risalgono anche le finestrelle dalle cornici trilobate in facciata e sul lato nord.

Nelle adiacenze dell’edificio di culto doveva estendersi il cimitero locale, forse distrutto o trasferito altrove, di cui si fa menzione in documenti cinque e secenteschi. Altri interventi, come la porta laterale architravata, vennero eseguiti tra Sei e Settecento, quando venne aggiunta la cappella semicircolare dedicata a S. Antonio da Padova e abbattuto il malconcio altare della Maddalena, probabilmente per questione igieniche e in connessione alla diffusione della peste. Anche la sagrestia accostata all’abside sul lato a valle, è un’aggiunta posteriore

Così come oggi appare, la chiesa è quasi certamente il risultato della radicale trasformazione di un precedente edificio che doveva esistere già intorno ai secoli XII-XIII, e di cui sono rimaste poche tracce. Venne notevolmente trasformata, probabilmente anche nell’impianto, tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, grazie all’importanza che Cornello aveva assunto dal punto di vista economico come via di passaggio per l’Oltralpe. E’ a questo periodo infatti che risalgono gli affreschi, alcuni dei quali databili al 1475.

All’interno, la navata è divisa in tre campate da alti archi a sesto acuto, coperta da travature lignee; le pareti interne sono pressoché interamente affrescate.

Cornello dei Tasso, chiesa dei SS. Cornelio e Cipriano

Ritroviamo i Santi Cornelio e Cipriano, patroni della chiesa, nell’affresco dell’abside, concepito come un grande polittico: una Madonna in trono e santi, dipinti in eleganti proporzioni di linee, forme e colori.

Affresco con Madonna in trono e santi. Il riquadro centrale raffigura la Vergine in trono col Bambino e angeli, ai due lati i Santi Cornelio e Cipriano, patroni della chiesa, e all’estrema sinistra Santa Caterina d’Alessandria, alla quale doveva corrispondere, sulla destra, una Maddalena penitente, fatta cancellare nel corso della visita apostolica del Borromeo. In alto si notano i Santi Pietro e Paolo e, all’apice, Cristo che emerge dal sepolcro

Sulle pareti laterali, un variopinto ciclo di affreschi realizzato tra la fine del Quattrocento e i primi anni del Cinquecento, presenta scene della vita di Cristo e numerosi santi dalla spiritualità semplice ed umile, accanto a soggetti che riproducono esempi tipici di vita popolare, accostati a personaggi in abbigliamento sfarzoso.

Vengono così riproposte le figure legate al borgo, animato da una maggioranza di contadini e di piccoli artigiani, così come da alcune famiglie di rango elevato: un piccolo spaccato della vita sociale ed artistica della Valle Brembana.

Questo ciclo, per la complessità dei temi e il notevole gusto stilistico, è considerato uno dei più pregevoli tra quanti adornano le chiese della Valle, ed avvalora l’ipotesi che tra gli esecutori vi siano i Baschenis di Averara.

Fra i soggetti religiosi, risultano di particolare interesse le figure di S. Agata, S. Stefano, S. Giorgio, che rimandano ad età paleocristiana e longobarda: un dato curioso ma del tutto insufficiente a ricondurre l’origine del borgo fortificato all’altomedioevo.

Affresco di Sant’Agata nella chiesa dei Santi Cornelio e Cipriano –(Ph. Tarcisio Bottani)

Strettamente connessa alla vita locale e di notevole valore storico è la figura di S. Eligio (590-660), orafo e cesellatore vissuto presso la corte merovingia. Il Santo, protettore dei maniscalchi, è rappresentato nell’atto di ferrare un cavallo sull’uscio di una bottega nella quale fanno bella mostra tutti gli strumenti del mestiere (incudine, chiodi, tenaglie): un chiaro riferimento ad ambienti, costumi ed attrezzi da lavoro dell’epoca.

Affresco di Sant’Eligio (590-660) nella chiesa dei Santi Cornelio e Cipriano (Ph. Tarcisio Bottani)

Vi è inoltre una pregevole Adorazione dei magi ed una Crocifissione conservatasi solo in parte, mentre sono ormai scomparsi i lacerti degli affreschi che affiancavano il portone, raffiguranti San Cristoforo (diffuso e venerato nelle vallate alpine) e Sant’Antonio: figure che ricorrono anche nel vicino borgo di Oneta, dove un forzuto San Cristoforo che guada i fiumi con Gesù Bambino sulle spalle, è raffigurato sul porticato della chiesa del Carmine, fatta costruire intorno al 1473 dalla famiglia Grataroli, anch’essa in rapporti con Venezia.

San Cristoforo affrescato sulla parete della chiesa di Oneta, lungo la Via Mercatorum

S. Cristoforo è infatti generalmente dipinto sulle facciate delle chiese, messo lì a protezione dei viandanti della Via Mercatorum. Ed anche noi, come gli antichi viandanti proseguiamo il nostro viaggio incamminandoci  lungo un sentiero che conduce alla borgata di Bretto.

 

DAL CORNELLO ALLA CONTRADA DI  BRETTO

Cornello dei Tasso ammirata dai pascoli sovrastanti, in direzione Bretto

Perchè salire a Bretto? Perchè da lassù si può godere di un’ampia vista panoramica e perché la borgata è legata a quella di un ramo della famiglia Tasso: i Tasso di Bretto.

Da Cornello a Bretto, uscendo dal bosco adagiato ai piedi del Monte Concervo

Questo ramo dei Tasso vi si stabilì nella prima metà del Trecento, staccandosi dal ceppo originario dei Tasso del Cornello e dando origine a una dinastia che fu coinvolta nella gestione dei collegamenti postali per conto di Venezia, protrattasi fino alla prima metà dell’Ottocento. Fra costoro, Giovanni Battista acquistò il Palazzo di Comonte, nei pressi di Seriate, che fu adottato come residenza principale della femiglia.

Contrada di Bretto in un disegno del 1715 – Archivio Istituto Sacra Famiglia di Comonte 

Il minuscolo borgo, suddiviso in due contrade, è circondato da prati e boschi al cui centro si trova la chiesa di San Ludovico di Tolosa, concessa in juspatronato alla famiglia Tasso.

La chiesetta di San Ludovico e il suo Concervo

 

La chiesa di San Ludovico di Tolosa, fatta ampliare e decorare dal canonico Luigi Tasso, uno dei personaggi più in vista degli ambienti religiosi bergamaschi nella metà del Seicento

 

Lo splendido interno affrescato della chiesa di San Ludovico, a Bretto

Segni tangibili della presenza dei Tasso in questo luogo, sono anche il palazzo signorile all’ingresso di Bretto alto, arricchito da alcuni affreschi tra i quali compare lo stemma dei Tasso…

Il palazzo signorile dei Tasso a Bretto alto

…nonchè l’antico palazzo Tasso nella contrada di Bretto basso, in cui è ancora visibile lo stemma del casato al centro della facciata principale.

L’antico palazzo della famiglia Tasso a Bretto basso, fatto a suo tempo restaurare dal canonico Luigi Tasso. L’edificio presenta al centro della facciata alcuni dipinti: lo stemma di famiglia, un leone di San Marco (parzialmente cancellato) e, sul retro, una Madonna col Bambino tra i Santi Rocco e Caterina d’Alessandria, protettrice dei corrieri postali

 

Lo stemma dipinto sulla facciata di palazzo Tasso, a Bretto basso 

Gli edifici in precarie condizioni che si affacciano sulla piazzetta antistante il palazzo,  erano un tempo pertinenze dell’abitazione padronale.

Antico edificio a Bretto basso, un tempo pertinenza della casa padronale dei Tasso

Nel Settecento i Tasso del Bretto acquisirono anche il titolo nobiliare di conti del Monte Tasso, attraverso l’infeudazione dei loro beni in questa località. La fine del secolo pose fine alla presenza della famiglia a Bretto, in quanto le ultime discendenti del ramo – Maria Teresa Tasso e Livia Maria Tasso – vendettero tutte le proprietà che possedevano nel borgo e si stabilirono definitivamente a Bergamo.

La contrada di Bretto basso

Volendo proseguire, per gli amanti del trekking è possibile imboccare un sentiero, che da Bretto conduce alla minuscola contrada di Pianca, abbarbicata sotto le nude rocce del Concervo, oppure piegare per Oneta concludendo il verdeggiante giro ad anello.

Al bivio boschivo tra Pianca ed Oneta, poco oltre il borgo di Bretto

In entrambi i casi, sarà un’ottima occasione per godere degli albori di primavera.

 

DUE PAROLE SUL TASSO DEL CORNELLO E LE POSTE 

Il Cinquecento è il secolo dello sviluppo dei commerci a largo raggio, che intensificano gli scambi e le comunicazioni fra le grandi città, le corti europee e il Levante.

Il commercio dei mercanti veneziani avveniva nei grandi mercati e nelle fiere d’Europa, dove essi portavano le merci che acquistavano in Oriente, molto ricercate da tutti i popoli europei. In questi luoghi non poteva mancare la presenza dei corrieri, che veicolavano velocemente le notizie di carattere economico, riguardanti i prezzi, le merci, la presenza dei mercanti, essenziali per il buon risultato degli scambi.

Tra i corrieri che esercitavano questa attività, si distinsero alcuni che provenivano dal bergamasco, in particolare dalla Val Brembana e tra questi alcuni della famiglia Tasso del Cornello, che portarono a Venezia la loro esperienza già acquisita in passato e dove i vari rami del casato svolsero dapprima un ruolo importante nella fondazione e nella gestione della Compagnia dei Corrieri veneti (nata nel 1306), la società commerciale composta da 32 soci, quasi tutti bergamaschi, che gestì i collegamenti postali per conto della Serenissima fino alla fine della Repubblica.

Diligenza postale del XIX secolo (Ph. Museo dei Tasso e della Storia Postale). Gli spostamenti dei corrieri richiedevano l’utilizzo di carrozze nelle quali, a volte, venivano accompagnati anche passeggeri. Questo servizio successivamente prese il loro nome, dall’iniziale tassì all’attuale e modernizzato taxi

In breve tempo, la loro abilità nel trasportare corrispondenza non fece che accrescere la loro fama, tanto che dopo il 1460 alcuni esponenti della famiglia furono chiamati a organizzare le Poste pontificie, incarico che ricoprirono fino al 1539.

Nel frattempo altri Tasso, e in particolare i fratelli Francesco e Janetto, ottenevano i primi appalti per comunicazioni postali nel Tirolo, ad opera di Massimiliano I d’Asburgo, incarichi poi confermati e ufficializzati nei primi anni del Cinquecento dal figlio Filippo il Bello e dal nipote, il futuro imperatore Carlo V, con una serie di trattati postali.

Biglietto di prenotazione del 1850 (Ph. Museo dei Tasso e della Storia Postale)

Fu l’inizio della grande epopea che vide questi intraprendenti personaggi, originari della montagna bergamasca, ricoprire per secoli l’incarico di mastri generali delle Poste imperiali, rappresentando una delle prime imprese multinazionali europee.

Con tale ruolo i Tasso crearono una fitta rete di collegamenti tra centinaia di città europee, dando vita ad un’impresa – un vero e proprio monopolio del servizio postale – che in breve raggiunse i vertici del potere finanziario, garantendo ai suoi esponenti onori, privilegi e blasoni.

Nel 1512 l’imperatore Massimiliano d’Asburgo concesse alla famiglia il titolo nobiliare, permettendo che lo stemma del casato, un piccolo tasso e il corno distintivo del servizio postale, fosse arricchito dall’aquila imperiale

Nel Seicento il ramo tedesco della famiglia, noto con il nome di Thurn und Taxis, ottenne dagli imperatori il titolo principesco.

Porta S. Giacomo – Ex voto – Anonimo, 1727. Oltre le garitte sullo spalto, lo stemma dei Tasso, i dati di costume della carrozza della contessa M. Tasso, il vigneto sotto la porta, è notevole la struttura in legno con il ponte levatoio sostituito con archi in pietra dal Podestà veneto Alvise Contarini nel 1780 (Bergamo, proprietà S. Angelini)

Il tutto partendo da questo piccolo borgo montano, splendidamente sospeso tra natura e storia.

 

COME ARRIVARE

PER CORNELLO DEI TASSO Per chi arriva con l’autostrada A4, si esce a Dalmine proseguendo poi sulla Statale in direzione di Villa d’Alme’ – Valle Brembana, si attraversano Zogno, San Pellegrino Terme, San Giovanni Bianco. Dopo circa 35 Km a Camerata Tasso si lascia la statale per deviare a sinistra verso Cornello dei Tasso e dopo un paio di tornanti si arriva al parcheggio: il paese di Camerata Cornello e’ raggiungibile a piedi dopo 5 minuti di comoda passeggiata.

PER  BRETTO Vi si accede dalla comoda strada asfaltata che da Camerata Cornello conduce alla Brembella, dopo circa 3 km bivio a sx per il Borgo del Bretto, a pochi metri da questo bivio la strada si dirama sulle due contrade, Bretto alto e Bretto Basso, distanziati fra loro da poche centinaia di metri.

Note

(1) Camerata è citata per la prima volta come Camarata in una pergamena conservata all’Archivio vescovile della Curia di Bergamo datata al 9 gennaio 1181, benchè di Camarata non vi sia menzione negli Statuti di Bergamo del 1331. Solo negli statuti del 1353 si ricorda un comune “de S.ta Maria de Camerata”, cui spettava insieme ad altri centri la manutenzione della strada che dal ponte della Morla conduceva in Val Brembana. Queste denominazioni sicuramente identificano l’attuale comune di Camerata Cornello (P. Marina De Marchi, Antonio Zavaglia, Il caso di Cornello del Tasso in Val Brembana (Bergamo).

(2) Documenti conservati presso l’Archivio di Stato di Bergamo e la Parrocchia di Camerata Cornello comprovano che la famiglia Tasso era originaria del Cornello: il primo esponente, Omodeo (Homodeus de Taxis de Cornello, morto nel 1290), è citato già nel 1251. Secondo un’altra fonte, il primo documento che menzioni la famiglia de Tassi di Camerata risale al 1233; un de’ Taxis è ricordato con il titolo di consul di Cornello e in questa veste pubblica partecipa ad una riunione che stabiliva le modalità di verifica di misure e pesi ogni tre anni. Altre fonti riportano che nel 1313 un membro della famiglia Torriani di Milano si rifugiò a Cornello prendendo il cognome de’ Tassi (P. Marina De Marchi, Antonio Zavaglia, Il caso di Cornello del Tasso in Val Brembana (Bergamo).

(3) La presenza del mercato a Cornello è fatta risalire a un’età precedente al 1430 (attribuita a Cornello da Pandolfo Malatesta, signore di Bergamo, e ribadita dai Veneziani nel 1451, allo scopo di riattivare l’attività economica dopo gli scontri tra la repubblica di Venezia e i Visconti di Milano (B. Belotti, Storia di Bergamo e dei bergamaschi, Bergamo 1960, vol. 3, pp. 17, 49, 89). Nello Statuto della Val Brembana si legge che la funzione di mercato viene attribuita a Cornello da Pandolfo Malatesta (signore di Bergamo tra il 1409 e il 1418), come atto di ostilità contro altri comuni della valle, oltre la Goggia, protetta dai Visconti. Tale funzione viene ribadita dai Veneziani a favore di Cornello nel 1451, allo scopo di riattivare l’attività economica: nel 1439, a seguito degli scontri tra la repubblica di Venezia e i Visconti di Milano il paese avversario di S.Giovanni Bianco aveva infatti avanzato la richiesta di svolgere questa attività.

(4) Il borgo è formalmente vincolato con D.M. 2 aprile 1965, ai sensi della legge 29 giugno 1939, n. 1497, che dichiara il “notevole interesse pubblico” del vecchio nucleo abitato di Cornello del Tasso.

(5) In Val Brembana centro di simpatie spiccatamente guelfe erano Giovanni Bianco e i paesi limitrofi, come la parte alta di Zogno, Poscante, Endenna, Camerata, Ponteranica e Sorisole; erano invece ghibelline la parte bassa di Zogno, Stabello, Sedrina, Villa d’Almè e Brembilla, la cui giurisdizione comprendeva un’area molto vasta che includeva gli attuali comuni di Brembilla, Gerosa, Blello, ed anche Ubiale Clanezzo Berbenno, Strozza e Capizzone).

(6) Tarcisio Bottani, responsabile dei servizi educativi del Museo dei Tasso e della Storia Postale).

Alcuni riferimenti

P. Marina De Marchi, Antonio Zavaglia, Il caso di Cornello del Tasso in Val Brembana (Bergamo).

Sergio Stocchi, Sulle vie dei Trafficanti – Un itinerario inedito in Val Brembana. In: L’Umana Avventura, Jaka Book.

Museo dei Tasso e della storia postale