Fra le sorgenti di Città Alta utilizzate sin dai tempi più antichi vi fu sicuramente quella del Lantro, che insieme a quelle della Boccola, del Vagine e del Corno costituì almeno sin dall’epoca romana la base su cui impostare l’intera rete idrica della nostra città; una rete fatta di tubature in mattone (realizzato con laterizio reperibile ai piedi del colle, ad esempio la piana di Petosino), piombo (reperibile in Valle Brembana) e calcare (chiamato impropriamente “marmo”) di Zandobbio.
Quando l’apporto delle sorgenti che sgorgavano in loco si rivelò insufficiente per soddisfare il fabbisogno idrico della popolazione, si passò alla ricerca di alternative a nord del sistema collinare, dove vennero realizzati rispettivamente gli acquedotti dei Vasi e di Sudorno, che restarono in uso fino alla prima metà dell’Ottocento, quando, con l’aumento delle necessità si andarono a sfruttare sorgenti fuori dal Comune.
L’ORIGINE DEL NOME
Il documento più antico riguardante la Fontana del Lantro, o Latèr, è una pergamena dell’anno 928, scritta dal vescovo Adalberto (1), che recita “Ex parte civitatis a Laticis Antro, quod vulgo dicitur Lantrum”, da cui si deduce che Il termine con cui la sorgente veniva indicata anticamente era quello di Laticis Antro ossia Antro del Liquido quindi Antro dell’Acqua, lasciando intendere che l’acqua sgorgasse da un piccolo anfratto del terreno scorrendo liberamente lungo il pendio. Tuttavia la forma usata per indicare l’acqua con il termine Laticisinduce anche ad avanzare l’ipotesi che tale dicitura potesse in qualche modo essere in relazione al colore bianco (spumeggiante) dell’acqua, dovuto alla pressione all’uscita della cavità: ancor oggi alcune grotte della montagna bergamasca sono chiamate Fiöm lat (Fiume-latte), come quella da cui ha origine il torrente Enna in Val Taleggio. Tale ipotesi sarebbe rafforzata dal fatto che al termine Lantro, già usato anticamente, si aggiunge la forma Latèrche richiama ancora una volta l’immagine del latte.
COME SI PRESENTA
L’ampio vano ipogeo è costituito da due vasche in pietra squadrata a vista: la grande vasca principale, capace di circa 400 metri cubi e con al centro una robusta colonna a sostegno delle volte, e una vasca minore, tangente la prima ma situata in posizione sopraelevata.
LA FONTANA DELLE ORIGINI
Come doveva essere la fontana delle origini? Certamente l’aspetto del luogo era assai diverso: utilizzata in origine per lo scorrimento delle acque in un canaletto in blocchi di arenaria a cielo aperto, le sue acque scorrevano liberamente lungo la valletta disperdendosi verso Valverde.
Come attestato in un documento del XVII secolo, la sorgente che l’alimentava doveva sgorgare più in alto, nei pressi dell’antica porta-torre medievale di San Lorenzo, ancora rintracciabile a metà dell’omonima via: l’esistenza di una condotta che saliva verso l’alto fu accertata anni or sono dalle “Nottole”, ma ormai non è più esplorabile.
LA FONTANA NEL MEDIOEVO
Nel XIII secolo la Fontana entra a far parte della giurisdizione della vicinia di S. Lorenzo, già costituita nel 1263, nel periodo in cui vengono costruite le numerose fontane medioevali di Bergamo: lo statuto del 1248 descrive infatti la fontana come dotata di cisterna, cunicoli, abbeveratoi e lavelli, “assumendo quella caratteristica struttura che si è conservata fino ai giorni
nostri” (2) .
È scritto infatti nello Statuto: “.. ad abili ed esperti magistrati fu fatto fare in modo che non potesse formarsi putrefazione e che la stessa potesse versarsi nelle acque o nella cava, o piuttosto, nelle acque del cunicolo dei Lantro; e qui fu fatta apprestare e restaurare una lavanderia ed un abbeveratoio con lavelli di pietra tutto intorno, come erano soliti essere…” (2).
In quei tempi l’acqua sgorgava abbondante e soddisfaceva il fabbisogno idrico dell’intera Vicinia di San Lorenzo. L’acqua della cisterna doveva essere attinta rigorosamente con secchi assicurati alla struttura per preservarne la purezza, sotto pena di gravissime sanzioni a “…chicchessia” non si attenesse a queste disposizioni.
LA RICOSTRUZIONE DELLA CHIESA DI SAN LORENZO E LA SCOPERTA DELLA SORGENTE DI S. FRANCESCO
Originariamente doveva esistere un’unica cisterna che raccoglieva le acque del Lantro; ma nel XVII secolo, l’individuazione della sorgente di San Francesco (così chiamata perché scaturiva dal sottosuolo in prossimità dell’omonimo convento) contribuì – insieme all’erezione della chiesa di San Lorenzo – a stravolgere completamente l’aspetto dell’antica fontana.
La captazione della nuova sorgente, dalle acque più abbondanti e più pure di quelle del Lantro, indusse i responsabili a tenere separate le due acque. A tal fine, sotto l’arcone sul lato sinistro della fontana, venne costruita la vasca minore sopraelevata in cui furono fatte confluire le acque della sorgente del Lantro, mentre, per soddisfare le necessità degli abitanti del quartiere nella vasca maggiore vennero convogliate quelle della sorgente di San Francesco, ritenute di migliore qualità.
Le caratteristiche strutturali del canale (cunicolo) inoltre rendevano quasi impossibile che l’acqua della sorgente del Lantro entrasse nella vasca maggiore mentre consentivano a quelle di San Francesco di potersi miscelare con la prima. Documenti secenteschi attestano che la sorgente di San Francesco venne “congiunta” al complesso della Fontana (3).
Con la costruzione della chiesa, la sagrestia venne a trovarsi proprio sopra la Fontana del Lantro, distruggendone probabilmente le antiche strutture di superficie.
All’interno del complesso venne dunque realizzata la crociera di rinforzo sul soffitto, che sovrasta la vasca maggiore, dove ancora si notano le otto aperture, ora tamponate con mattoni, da cui penzolavano le catene con i secchi in ferro che servivano per attingere l’acqua dall’alto, da impiegare per usi domestici.
La Fontana continuò a svolgere un’importante funzione pubblica per la comunità e, data la grande riserva e la posizione isolata, vi erano consentite alcune operazioni che non erano possibili dentro l’abitato. Come la pulizia dei panni, il lavarvi le pelli per la concia e il prelievo d’acqua per usi non domestici.
L’ANTICO LAVATOIO DI SAN LORENZO E IL LAVATOIO “MODERNO”
Le acque della sorgente del Lantro, dalla vasca minore defluivano verso l’esterno attraverso tubi conici in cotto per alimentare l’abbeveratoio dei cavalli (che troviamo citato in un documento del ‘600) e una grande vasca di pietra, ancora visibile negli anni Trenta, utilizzata come Lavatoio. Tali strutture erano poste tre metri più in basso rispetto alla vasca minore.
La Fontana fornì acqua alla popolazione fino a che, nell’Ottocento, entrò in funzione il nuovo acquedotto municipale, che garantiva un servizio più capillare ed igienico.
Ma il Lantro continuò ad essere utilizzato come Lavatoio, che restò in funzione fino agli anni Trenta, quando, smantellata l’antica vasca comune in pietra, vi furono collocate vasche individuali, alle quali l’acqua giungeva all’acquedotto cittadino.
IL RECUPERO DELLA FONTANA
Col mutare delle condizioni di vita dei tempi moderni, anche il Lavatoio cessò di essere usato e negli anni Settanta non si trovò di meglio che approfittare del fatto che la fontana-lavatoio si trovasse molto al di sotto del piano stradale per trasformarla in discarica.
Sommerso da materiali di riporto, cessò di essere presente anche nella memoria di molti.
Nel 1975 l’architetto Angelini propose di liberare l’area e restaurare le strutture antiche per realizzare un campo da gioco per bambini. Ma mentre il lavatoio ancora giace, sepolto da un cumulo di terra, lo spazio antistante l’accesso alla vasca sotterranea è stato liberato e reso agibile grazie all’intervento del Gruppo Speleologico “Le Nottole”, che a partire dal 1992 si è adoperato per recuperare il manufatto, riportandolo allo stato iniziale mediante opere di pulizia e restauro.
Grazie al lavoro volontario delle “Nottole”, stimolate anche dall’interesse e dalla sensibilità che l’Amministrazione Comunale ha dimostrato per il recupero del complesso, il Lantro, vero gioiello di architettura e di ingegneria idraulica, è stato così riconsegnato alla cittadinanza il giorno 6 giugno 1992.
NOTE
(1) Nel documento, il vescovo Adalberto concede le decime del ricavato di un ampio territorio che si estende dalla sorgente del Lantro fino a Sorisole ed Almenno al prevosto della Cattedrale di S. Alessandro obbligandolo, tra l’altro, a mantenere acceso un cero notte e giorno davanti al corpo di S. Alessandro a suffragio dell’anima sua e dei suoi parenti. Altre citazioni della sorgente del Lantro si trovano in documenti del 1032, del 1042 e del XIII secolo, quando entra a far parte della giurisdizione della vicinia di S. Lorenzo, già costituita nel 1263.
(2) Biblioteca Gavazzeni. Le “Schede del Mercantico”.
(3) Della fontana del Lantro abbiamo due interessanti descrizioni, la prima in un documento del XVII secolo (“Per le usurpazioni dell’acqua delle fontane” in: Acque processi, Civica Biblioteca A. Mai) e la seconda nella relazione del fontanaro Carlo Milani (“Memoria et visione del Acquedotto dentro le Mura…” 1728, Civica Biblioteca A. Mai).
In entrambe le descrizioni è fatto cenno a due sorgenti che alimentano la cisterna, i cui condotti sono tuttora esistenti nell’interno del complesso e in particolare, nella descrizione del documento del XVII secolo, è specificato che la sorgente che ha origine sotto il convento di S. Francesco “è stata congiunta” al complesso della Fontana.
Testo del documento del XVII secolo
“La fontana del Lantro con conserva capacissima, lavatori et guarrator da cavalli, è appresso et acontigua alla chiesa di Santo Lorenzo. Ha origine sotto le cave verso la torre e porta vecchia di Borgo S. Lorenzo con condotti et vasi sotterranei murati; con la suddetta è congiunta un’altra fontana nascente sotto il convento di San Francesco”.
Testo della relazione del Fontanaro Carlo Milani (1728).
“Il vaso del Lantro detto Latter, questo è un recipiente vastosissimo, a celtro, che forma quattro nave, e nel mezzo un pilastro solo ha la cisterna per tutto il terreno del sagrato di San Lorenzo, qui entra una sortiva che nasce sotto la casa Carminati, che ora gode il Sig. Gaetano Pezolo, questa è una sortiva abondantissima e vi si entra con facilità a netarla.
Altra sortiva nasce sotto il convento di San Francesco e qui vi si entra con un poco di difficoltà e l’acqua è migliore dell’altra”.
Riferimento principale
La Fontana del Lantro. In: Biblioteca Gavazzeni. Le “Schede del Mercantico”.
La rara meridiana marmorea che ancor oggi fa bella vista di sé sotto il porticato del Palazzo della Ragione, è una presenza ineludibile e ricca di significati della nostra città.
A differenza della classica meridiana, come quella di piazza Angelini, in cui l’ombra dell’assicella (gnomone) è proiettata sulla scala numerica disegnata sulla parete, in quella di Piazza Vecchia la posizione del sole rispetto alla Terra è indicata non dall’ombra ma da un raggio di luce che penetra in un ambiente buio attraverso un foro ricavato in una lastra collocata in alto rispetto al pavimento cui giunge il raggio solare, e proprio per questo motivo, questo tipo di meridiana è chiamata “a camera oscura”.
Realizzata nel 1798, fu voluta dalla municipalità per emulare l’esempio recentissimo di Milano, dove un decennio prima, in una campata del Duomo era stata tracciata una meridiana.
Bergamo era a quel tempo il capoluogo del Dipartimento del Serio nell’ambito della Repubblica Cisalpina, anch’essa soggetta all’influenza dei “lumi”, e al geniale abate Giovanni Albrici, matematico e fisico insigne nonché figlio di un pittore della Valle di Scalve, fu dunque ordinato di ideare una una meridiana pubblica, che egli volle di ragguardevole precisione perché a quei tempi le meridiane svolgevano l’ufficio assolto oggi dai segnali orari della radio e televisione.
La meridiana doveva infatti servire a regolare gli orologi, strumenti di scarsa precisione, che necessitavano di frequenti messe a punto: se oggi il “secondo” è definito in base alla frequenza emessa dall’atomo di Cesio, a quei tempi il metro più rigoroso per la misura del tempo era il moto di rotazione della terra e l’esatta determinazione del mezzodì.
Come luogo del suo strumento l’Albrici scelse il portico del Palazzo Vecchio, sia perché questo era il fulcro della città e perché avendo a quel tempo il fianco occidentale chiuso da mura offriva una zona discretamente ombreggiata quindi adatta a raccogliere l’immagine del Sole prodotta dallo gnomone, che fu collocato fin dall’inizio sopra la volta della loggia.
Per evidenziare maggiormente l’immagine del Sole, il costruttore innalzò a parziale chiusura dell’arcata mediana meridionale un grande schermo che consisteva in una grande lastra metallica, munita di una finestrella alla sommità per lo gnomone, poi decorata su entrambi i lati con motivi goticheggianti da Giuseppe Vecchi, meccanico e pittore collaboratore dell’Albrici. I più anziani ancora la ricordano e di essa esistono numerose immagini e fotografie.
Sotto l’arcata, protetto alla vista dallo schermo in lamiera, era stato fissato il sistema gnomonico, in pratica una lastra orizzontale di ferro con il classico forellino che avrebbe dovuto formare sul pavimento del porticato lo “spettro solare” ovverosia il sole.
Non si trattava di una meridiana, quei quadranti dipinti su molte ville ed edifici pubblici come la già citata di piazza Angelini, utili per una approssimativa indicazione dell’ora o più esattamente definibili “orologi solari”, ma di un ordigno perfetto, che indica il mezzogiorno astronomico, le stagioni e i segni zodiacali: un autentico datario, che consentiva a mezzogiorno di sapere che giorno fosse e di quale anno, ma anche di tenere traccia dei movimenti delle costellazioni astrologiche e di leggere i segni zodiacali.
La linea meridiana fu pertanto incisa su lastre di marmo e a lato furono scolpiti i segni zodiacali nonché le ore del sorgere e del tramontar del Sole riferite al mezzogiorno locale vero, visto che alla fine del diciottesimo secolo non si parlava ancora di “tempo medio”. Prima ancora le ore si contavano dal tramonto secondo il sistema detto all’italiana.
Ad un anno dalla sua costruzione lo gnomone, considerato il simbolo del progresso di portato dai Francesi, fu fatto segno di una fitta sassaiola. L’episodio deve essere accaduto 14 aprile 1799 quando, caduta la Cisalpina ed entrati in Italia gli Austro-russi giunse a Bergamo un drappello di Cosacchi che, messi in fuga i Francesi, spogliò e saccheggiò ovunque, tranne che il Borgo di Santa Caterina stando a quanto afferma un dipinto votivo di Marco Gozzi (1759-1839) tuttora visibile nel santuario della Beata Vergine: un fatto miracoloso, attribuito all’intervento della Madonna Addolorata venerata nel Santuario, dipinta in alto tra nuvole ed angeli.
E’ probabile che in quell’occasione, quando la reazione popolare si era scatenata contro i simboli dell’odiata tirannia francese, sia stata bersagliata anche la meridiana. La vicenda preoccupò l’Albrici il quale, temendo che il suo strumento fosse stato danneggiato, ne sollecitò la verifica, che si fece però solo nel 1806 ad opera di Giuseppe Bravi – professore di fisica al seminario -, il quale concluse che lo strumento era rimasto esattissimo.
Grazie al Bravi nacque l’idea di scolpire nel bianco lastricato le linee orarie delle 11 e 45 e delle 12 e 15. Il lavoro che facilitava il controllo degli orologi.
Nel 1819 il Consiglio Comunale decretò l’abbattimento delle mura che chiudevano il fianco occidentale del Palazzo apportando ombra sotto il porticato, con notevole svantaggio per la lettura della meridiana, soprattutto nel periodo vicino al solstizio d’inverno.
Nelle immagini riferibili alla metà del secolo, infatti, gli archi appaiono liberi, come si vede ad esempio nel dipinto di Costantino Rosa custodito nel Palazzo Comunale e sicuramente databile fra il 1815 ed il 1860, dato che sul palazzo si vede il fregio con l’aquila bicipite della dominazione austriaca e non il cartiglio di intitolazione della Biblioteca di Città.
La biblioteca venne, in effetti, trasferita dalle sale della Capitolare, poste sopra la sacrestia del Duomo, al Palazzo Vecchio nel 1843 ad opera dell’ingegnere comunale Francesco Valsecchi; ma i suoi lavori, che appesantirono eccessivamente le strutture e provocarono col tempo serie lesioni ai pilastri, furono duramente criticati e giudicati “temerari” da Ciro Caversazzi.
Fu comunque lo stesso ing. Valsecchi che nel 1857 ebbe l’incarico di restaurare la meridiana dall’avara amministrazione austriaca, decisasi finalmente alla sostituzione dei marmi, ormai spezzati e consunti.
In occasione dei lavori di restauro fu tracciata per la prima volta la curva lemniscata del tempo medio(a forma di otto allungato) e fu collocata una lastra quadrata in marmo che reca una Rosa dei Venti, dove l’Albrici aveva semplicemente indicato “Punto Verticale”.
Fra la Rosa dei Venti e il solstizio d’estate vennero apposte nuove iscrizioni: le coordinate del punto (Longitudine 27° 29′, Latitudine 45° 43′) e l’altezza sul livello del mare Adriatico (metri 360 e 85) nonché una targa in bronzo che indicava che l’orologio esatto segna sempre 12 ore quando lo spettro solare (il sole) è sulla curva (la lemniscata, a forma di otto), dimostrando come fosse stato ormai abbandonato il tempo dell’Italia e fosse venuto in uso il “tempo medio locale”(Europa Centrale).
Lungo la linea meridiana vennero di nuovo incise da un lato ore e minuti del Sorgere del Sole (dalle IV e 13 alle VII e 41) e dall’altro ore e minuti del tramonto (dalle VII e 49 alle IV e 19), ma queste, come in origine, con riferimento al mezzogiorno vero. Tali incisioni erano ancora visibili, se pur con difficoltà, verso la fine del secolo (e il cui rilievo fu riportato sulla Rivista di Bergamo nel 1937).
Nei primi anni venti del Novecento, nel novero dei restauri voluti e diretti da Ciro Caversazzi, che diedero rinnovata stabilità e decoro al Palazzo della Ragione e ad altri monumenti del centro cittadino, venne asportato lo schermo d’ombra collocato dall’Albrici (lo si deduce dall’esame delle fotografie di Piazza Vecchia prese prima e dopo i suddetti lavori)
Caversazzi riteneva infatti che l’apparato metallico della meridiana settecentesca nascondesse e deformasse l’estradosso dell’arco della loggia, cui era fissato, togliendo inoltre da chi veniva dalla piazza la vista della facciata di Santa Maria Maggiore.
I restauri erano iniziati con la rimozione del monumento a Garibaldi dal centro della piazza, sostituito dalla fontana del Contarini.
Nel 1928 la Civica Biblioteca fu trasferita nel Palazzo Nuovo, adattato internamente e completato all’esterno con la costruzione della facciata scamozziana.
Cinque anni più tardi, a completare la fisionomia veneta della piazza, un nuovo Leone di San Marco dono della Serenissima, fu murato sul Palazzo della Ragione.
Comunque, dal momento che lo gnomone rimase in sito, l’asportazione del lastrone di ferro settecentesco non mutilò lo strumento nella sua essenza e funzionalità, ma certamente non giovò alla lettura delle sue segnalazioni, data la scarsità dell’ombra prodotta dallo gnomone ormai privo del suo schermo d’ombra, ed anche i tentativi successivi di ricollocarlo, non ebbero buon esito, “per ragioni di tutela artistica”.
Intorno al 1970 la Rosa dei Venti e il Solstizio d’Inverno erano, in un insieme cancellato dal tempo, le sole segnalazioni nettamente leggibili, forse grazie ad interventi eseguiti grazie al precedente interessamento di Luigi Angelini.
Fu allora che lo studioso Diego Bonata cominciò ad interessarsi del monumento astronomico bergamasco; attratto dalla sua arcana bellezza ne fece uno studio preliminare e si propose di richiamarlo a nuova vita, rifacendo o rinnovando le antiche incisioni sulle lastre marmoree e sostituendo la macchina dell’Albrici con un disco solare fiammeggiante.
Nel dicembre del 1980, nel rispetto della precisione dello strumento l’antico gnomone è stato sostituito dal Sole di bronzo di Sandro Angelini armoniosamente incastonato nell’arco della loggia. E’ stato collocato al vertice dell’arco del loggiato e la sua ombra permette una buona lettura dello spettro solare anche in prossimità del Solstizio d’Inverno.
Due anni dopo, ad opera della Ditta Remuzzi, è stata reincisa la linea e, sulla base dei calcoli e disegni effettuati da Diego Bonata, in luogo delle ore dell’alba e del tramonto sono state riportate le divisioni del calendario, che consentono, all’istante del mezzogiorno vero, di leggere la data. Nuovo rilievo hanno acquistato anche i segni zodiacali e le iscrizioni relative alle coordinate geografiche, i cui valori sono stati corretti secondo i moderni riferimenti.
A distanza di oltre due secoli, il portentoso congegno escogitato dall’Albrici continua a indicare ai bergamaschi e ai turisti il fecondo cammino del Sole, nello scorrere uguale e immutabile del tempo.
Nota
Notizie tratte da: Studio storico-architettonico della Meridiana del Palazzo della Ragione a cura di Diego Bonata per gentile concessione dell’arch. Gianfranco Alessandretti.
Il ponte che ancor oggi regge validamente il traffico di via Borgo Palazzo fu costruito nel 1550, ma la presenza di un ponte sulla Morla, proprio là dove oggi sorge l’attuale, è sicuramente antichissima. Lasciamo stare la solita storiella di chi lo volle innalzato su ordine di Carlo Magno: quella di voler nobilitare edifici e monumenti attribuendoli a grandi personaggi del passato, era un’abitudine piuttosto diffusa.
In realtà, il ponte cinquecentesco fu rifatto al posto di un altro che aveva un livello più basso. L’ing. Fornoni nelle sue “Vicinie” precisa che, sul finire dell’Ottocento, in occasione dello scavo per una fognatura, ad oltre un metro al di sotto del piano attuale venne trovato il lastricato della strada antica: l’antico ponte era piantato a filo della casa sull’angolo con la via Madonna della Neve, per cui la strada era tutta letto del torrente.
La statua collocata sulla spalletta orientale del ponte risale al 1747 e rappresenta San Giovanni Nepomuceno, il santo polacco che, torturato e buttato nella Moldava dal celebre ponte Carlo IV di Praga, venne eletto patrono e protettore non solo (o non tanto) dei ponti, come si crede, bensì di tutte le persone in pericolo di annegamento. In seguito la sua protezione venne estesa anche ai confessori (il perché lo scoprirete leggendo la didascalia sottostante, che dobbiamo a Tosca Rossi).
La sua storia così come il modo in cui venne martirizzato giustificano quindi la consuetudine di collocare una statua che lo ritrae sopra i ponti fluviali, intento ad adorare il Cristo crocifisso, messo bene in vista per la devozione di chiunque si trovasse a transitare in quei luoghi: oltre al ponte sul torrente Morla, a Bergamo e provincia molte sono le sue presenze, tra cui ad esempio sul ponte di Gorle o a Trescore Balneario.
Il nostro, realizzato in Pietra di Zandobbio ed elevato su un alto piedistallo, è privo di aureola ma calza il copricapo distintivo; è vestito dell’abito talare, della cotta e dell’almuzia impreziosita da un’alta fascia in pizzo, aperta sul petto e alzata alle estremità dal gesto che porta all’orazione visiva e mentale del Cristo.
La scolpì Giovanni Antonio Sanz (lo stesso che ritrasse le allegorie delle quattro stagioni e delle Arti Maggiori di Palazzo Terzi in Bergamo Alta) per esaudire il desiderio di un nobile residente nel borgo, il conte Gerolamo Albani (tenente maresciallo e cameriere della Chiave d’Oro di sua Maestà Imperiale), il quale, morto il 20 agosto 1747, lasciò per testamento che si ponesse una statua di San Nepomuceno, lasciando l’incarico al fratello Carlo.
La statua fu realizzata quello stesso anno, includendo il nome del conte nella specchiatura affacciata sulla via, recando la scritta seguente: PER TESTAMENTO / DEI CONTI / GIROLAMO ALBANI / I MARESCIALLO / CESAREO / MDCCXLVII.
IL PONTE E LE SUE “MACCHIETTE”, ANIME DEL BORGO
Borgo Palazzo ebbe i suoi personaggi e anche le sue macchiette. Figure pittoresche, che hanno lasciato una traccia nella cronaca spicciola e in qualche racconto. Una di queste, celebre nei primi decenni del Novecento, sia nel borgo che in tutta Bergamo, fu Giovanni Servalli detto “ol Barba”, “il principe delle macchiette bergamasche, principe lustrascarpe”, come definito dal giornalista Giovanni Banfi in un opuscolo del 1920. Anche il poeta Guerrino Masserini, “Ol Girù”, si è occupato del Servalli. Ma è il ritratto delicato di Geo Renato Crippa, a restituire a Servalli, al di là di ogni faciloneria, la dignità che gli spetta, quella cioè di un uomo sensibile e sfortunato.
Descritto come pazzoide e accattone dignitoso, con una gran barba profetica, il lustrascarpe ed attacchino Servalli era un oratore spassoso, incarnando a meraviglia la parodia oratoria. Con il suo berrettone calato sulla fronte e l’ampia palandrana, soleva intrattenere gli avventori nel recinto della vecchia Fiera, dove innalzava una tribuna improvvisata convinto di rivolgersi “al colto pubblico”, cui proclamava la propria nobiltà.
Sosteneva di essere un figlio bastardo della “gloriosa casa Giovanelli di Venezia” e di essere giunto in città da una grossa borgata di montagna, dove quella famiglia, un tempo di famosi commercianti s’era talmente avvantaggiata, in mercature nell’Oriente, da richiedere alla Serenissima titoli nobiliari e cavallereschi. Vantando l’appartenenza al lignaggio principesco, finiva col parlare di tutto, stralunando ogni tanto gli occhi e volgendosi impietosito al cielo, gesticolando con solennità, come un patriarca.
I suoi discorsetti pomposi erano per lo più un caotico aggrovigliamento di idee d’ogni sorta, buttate fuori alla brava, con parole in lingua italiana non certo ossequienti ai precetti della Crusca. Non si potevano ascoltare alcune delle sue frasi senza abbandonarsi ad una irrefrenabile ilarità, scatenata dalla sua potenza comica e dalle inflessioni della voce, Il Servalli continuava allora il suo proclama sottolineando la serietà degli argomenti ed esclamando “L’è roba internazionale!”.
Agghindato di stagnole e nastrini, girava l’intera città rullando su un tamburello che gli era stato donato dai componenti della fanfara degli alpini. Circa gli itinerari da percorrere non sbagliava giorno ed ora: alla periferia di dedicava il mattino, ai borghi il pomeriggio, al tramonto raggiungeva il centro cittadino picchiando a più non posso il suo strumento. Di tanto in tanto emetteva una parola di saluto e se incontrava persone di sua conoscenza, ma molto rispettate e riverite, il rullio del tamburo prendeva tono solenne, seguito da silenzi ritmati durante i quali, da fermo, pronunciava cenni d’ossequio ripetuti con calma dignitosa. Possedeva, il Servalli, regole di galateo di sua invenzione, sostenute con toni tra il religioso e il melodrammatico.
Appena faceva buio, se ne tornava in Borgo Palazzo, suo dominio incontrastato, e all’imbrunire si recava al ponte della Morla reggendo una scala pioli, che saliva per accendere una lampada ad olio innanzi alla statua di San Giovanni Nepomuceno, protettore dei ponti e delle acque.
Soddisfatto della sua buona azione quotidiana, rincasava con la scala a spalla; la sua stamberga era luogo di abituale convegno di topi e di gatti, educati – diceva egli stesso – ad un fraterno vicendevole amore. Si seppe poi, allorché egli passò a miglior vita, come la sua povera dimora, che era accanto ad una stalla, fosse pulita ed in ordine, il giaciglio tenuto con cura, le casse e le cassette per riporre la sua roba, linde e divise con accuratezza, giornali e cartoni ammucchiati con esattezza in un angolo. Lo stanzone era illuminato da una finestra che dava su un’ortaglia e la porta aperta sul retro di un “cortilone” d’osteria, con gioco delle bocce, usato nel passato per radunare greggi e mandrie di passaggio. Il silenzio non veniva rotto che la domenica, le sere d’estate e nei giorni di mercato. Appeso a un chiodo pendeva il tamburo. Accanto un tascapane zeppo di libriccini e foglietti che celavano poesie e canzoni che il Servalli cantava nei giorni di sagra, sugli sterrati dei paesini o sui sagrati delle chiese. Dopo lo strazio subito da suo cuore, di pretesti amorosi egli non volle mai saperne: bastavano le storie di re e regine, principi e principesse, marchesi e conti, castelli, foreste, ruscelli, fonti, uccelli variopinti. Fiabe leggere leggere, oneste, dense di umanità, umili, trasognate e innocue. Di lui si conserva ancora un vivido ricordo.
Più modesto un altro personaggio, “ol Fioruna”, che percorreva il borgo e lo stradale di Seriate tutto infagottato con un cappellaccio a piuma, sempre scuotendo un campanello. “Trin trin ‘l passa ol Fioruna, che quando ‘l viasa al suna”.
Anche lui raggiungeva il ponte della Morla ma, mentre il “Barba” Servalli vi si attardava con la sua barba profetica per accendere il lume sulla statua del santo, il Fioruna, che viveva di carità e si sborniava di frequente, utilizzava il ponte, o meglio, uno dei suoi archi, per passarvi la notte. Morì nel vicino manicomio.
E poi c’era “ol Roco de Borg Palass”, che aveva una propria dimora all’Albergo popolare. Era sempre infagottato in vestiti più grandi di lui, con certe calzature scalcagnate. Lo si vedeva sempre correre borbottando frasi, certo, nell’intenzione di erudire i passanti sui fasti o insuccessi della sua grande Atalanta; poi via di corsa svettando a destra e a sinistra, stralunando gli occhi. Si accontentava di qualche pezzo di pane, che condiva con l’immancabile “repubblica” che otteneva facilmente e con larghezza dai bottegai della città. Non si lamentava mai di questa sua vita grama. Gli bastava essere libero di borbottare le sue preferenze atalantine.
Ultimo di questi singolari personaggi che si addentravano dalla periferia nei borghi, ma raramente per giungere fino in centro, fu il “Gioanì de Tor”. Doveva risiedere a Torre Boldone, o esservi nato, ma nessuno lo seppe mai con precisione. Era un ometto che portava anche d’estate un cappotto sdrucito e un largo cappello. Più alto di lui, un grosso bastone intagliato gli conferiva come una statura diversa. Scomparve improvvisamente. Un giorno nessuno lo vide più. Forse era più vecchio di quanto non si credesse ed era finito in qualche ricovero. O forse non gli era riuscito di superare qualche malanno dell’ultimo inverno. Oggi per lui, sull’asfalto, nel traffico, nella periferia senza più orti e pollai, non ci sarebbe più posto.
All’inizio di Borgo Palazzo, poco oltre lo splendido palazzo Camozzi si apre a sinistra un piccolo slargo – dove un tempo funzionava la pesa pubblica -, sul quale si affaccia un edificio che vanta oltre ottocento anni di storia ma che la nuova destinazione d’uso risalente al Settecento ha fatto dimenticare: quella che un tempo fu la chiesetta di S. Antonio in foris, risalente all’anno 1208, sorta per desiderio del “dominus” Giovanni Gatussi di Parre, personaggio che aveva una certo appoggio politico cittadino (1).
Il piccolo edificio, pressoché sconosciuto, è di misure tanto modeste da non essere notato: bisogna andarlo a cercare di proposito, tanto più che nulla, nemmeno un cartello, ricorda al passante la presenza della chiesetta – con il portale più antico rimasto della città -, sopravvissuta a tutti i mutamenti e alle demolizioni (2).
Era posta fuori dall’antica porta del borgo S. Antonio, nel suburbio di Mugazzone (termine che appare già nel 928, con il quale si indicava l’antico nome di Pignolo), quartiere al tempo poco abitato ma posto in prossimità di due corsi d’acqua: la Morla a sud e il canale Roggia Serio a nord, che favoriva il “forte insediamento di attività tessili, tra cui tintorie, folli, purghi e mulini” (3) all’estremità meridionale del borgo S. Antonio.
Nonostante la sua posizione apparentemente marginale, assunse ben presto una certa importanza, confermata in particolare da un documento del 1263, citato da Angelo Mazzi, in cui lo statuto della città creava una nuova vicinia staccata da quella di Mugazone, intorno alla chiesa sorta da pochi decenni (4): fatto che denota quanto il borgo stesse crescendo e acquisendo una sua autonomia rispetto a quello di Pignolo.
Fu dunque grazie alla presenza della chiesa di S. Antonio in foris, che la zona oggi designata come Pignolo bassa assunse la nuova titolazione di vicinia di S. Antonio, cui faceva capo anche il convento di Santo Spirito. Il toponimo S. Antonio coincide dunque con la parte più antica di Borgo Palazzo, ma fa anche riferimento ad un’area esterna allo stesso, fino a comprendere l’attuale piazzetta Santo Spirito.
E’ difficile comprendere oggi l’area su cui si estendeva in passato questo toponimo, soprattutto quando esisteva l’omonima vicinia: la topografia del luogo è molto mutata, non solo per la scomparsa delle Muraine, della porta di S. Antonio e per la copertura della Roggia Serio, ma anche perché le vicinie in un certo senso costituivano anche dei confini fisici, coincidendo questi con recinzioni, muri di edifici, portoni (5).
La chiesa era detta “in foris” (fuori) proprio per distinguerla dalla chiesa di Sant’Antonio Abate (o di Vienne o dell’Ospedale), che sorgeva entro le Muraine, sul prato di Sant’Alessandro, demolita nell’Ottocento per l’erezione del palazzo Frizzoni (attuale Municipio).
Era affiancata da un ospedale (oggi difficilmente individuabile), il cui giuspatronato rimase alla famiglia Gatussi di Parre fino al XV secolo e fino a quel momento il piccolo ospizio duecentesco rivestì una certa importanza, e cioè fino a quando, nel 1458, venne assorbito dal nuovo e centralissimo Ospedale Grande di S. Marco insieme ad altri dieci disseminati in varie località della città (6).
Nonostante la ex-chiesa sia ormai da tempo priva del suo campaniletto, osservando con attenzione possiamo ancora rintracciarne l’antica foggia: nel tetto spiovente (un tempo a falde in vista), nella facciata a capanna attigua al portale con stipiti in pietra che immette nella corte interna, nell’oculo sovrastante la facciata e nel piccolo portale romanicoposto sul fianco, sovrastato dalla lunetta affrescata: l’unico, tra i tanti affreschi rinvenuti nella chiesa, conservatosi in loco.
Nella corte, sopra lo spazio in cui viene raccolta l’immondizia dello stabile, resta la traccia di un grande affresco devozionale. All’interno, la semplice aula unica della chiesa è ancor oggi scandita in tre campate da due arconi ogivali in pietra impostati su semipilastri (7).
Secondo Luigi Angelini l’antico ospedale duecentesco, demolito nel Settecento, doveva trovarsi negli edifici attuali che recingono il cortile interno. In quell’epoca fu distrutto anche il campanile, per edificare i nuovi condomini che sorgono tutt’intorno (8).
La chiesetta continuò a funzionare “col nome di S. Antonio in foris, officiata fino al 1806, finché, sconsacrata nell’Ottocento (9), diverrà officina per un fabbro, poi un anonimo ambiente di magazzeno, ridotto poi ad ufficio e negozio, subendo lavori di sistemazione interna che ne hanno in parte snaturato le forme suddividendola in due piani.
Le cronache riferiscono che la chiesa non fosse molto curata e che venisse utilizzata solo per celebrare la messa quotidiana da parte dei Padri Zoccolanti del vicino convento delle Grazie, remunerati dall’Ospedale Grande di San Marco (10).
Con il tempo la chiesa finì con l’essere del tutto abbandonata. L’ultimo suo destino era la demolizione, che si voleva porre in atto nel 1937 secondo un progetto di totale rifacimento dello stabile. Demolizione che non avvenne grazie alla scoperta, da parte di don Angelo Rota, degli affreschi che l’ornavano quasi interamente (11) e al successivo intervento di Luigi Angelini (a quei tempi ispettore onorario della Soprintendenza ai monumenti), che riconobbe l’importanza della chiesetta, alla quale venne posto il vincolo.
Fu proprio in quella occasione che, scrostando l’intonaco, in corrispondenza di una traccia di porta nell’antico ingresso laterale della chiesa, affiorò la lunetta affrescata che sovrasta l’architrave del portale romanico, portato alla luce ed ancor oggi visibile sulla via, dove, scrutando con attenzione, si possono ancora notare le tracce dell’affresco duecentesco, tra i più antichi del territorio, raffigurante Madonna in trono col Bambino affiancati da sant’Antonio Abate e un santo vescovo, che malgrado lo stato di degrado è stato identificato in base ad antiche foto in san Tommaso di Canterbury; l’affresco è posto sotto un arco in pietra sui cui conci sono affrescate una serie di teste entro tondi.
GLI AFFRESCHI DELLA CHIESA DI S. ANTONIO IN FORIS, ESPOSTI AL MUSEO DELL’AFFRESCO IN BERGAMO ALTA
I pregevoli affreschi che rivestivano quasi interamente le pareti interne della chiesa furono eseguiti tra il XIII e il XVI secolo e risultano essere tra le testimonianze più antiche del nostro territorio insieme a quelli della chiesa di San Michele al pozzo bianco di via Porta Dipinta, della Vecchia Cattedrale e della chiesa a di San Giorgio ad Almenno San Salvatore.
Le ritroviamo oggi nel cuore di Bergamo Alta in piazza Vecchia all’interno del Palazzo della Ragione, dove riaffiorano dalle pareti settentrionali della Sala delle Capriate, allestita a sede museale dagli anni Novanta del secolo scorso, divenendo Museo dell’Affresco di Bergamo, cui è possibile accedere in occasione di mostre ed eventi.
Proprio in quest’antica sede, si conservano molti altri lacerti o porzioni smunte e sbiadite dallo scorrere del tempo, provenienti da edifici sacri e profani della nostra città (come il monastero di S. Marta): gli affreschi della chiesetta di Sant’Antonio in foris fanno capo al secondo e terzo gruppo affisso alla parete nord del palazzo, paradossalmente il comparto più numeroso considerando la minima superficie della chiesetta da cui provengono, e ci restituiscono numerose immagini di Sant’Antonio abate, della Vergine con Bimbo, apostoli e Santi vari tra cui Bartolomeo. Giacomo e Giovanni Battista.
Note
(1) La chiesa fu fondata nel 1208 dal vescovo di Bergamo Lanfranco (successore di Guala), per desiderio del “dominus” Giovanni Gatussi de Parre, la cui famiglia doveva risalire a quella dei conti di Parre, paese dell’alta val Seriana. Già nel 1156 un “filius Iohannis de Parre” risulta essere inserito nell’elenco dei “mille homines” che giurarono dopo la Battaglia di Palosco la pace con Brescia, mentre nel 1176 è citato un canonico della basilica alessandrina che godeva di un certo prestigio. Giovanni Gatussi de Parre aveva una certo appoggio politico cittadino. Viveva in prossimità di una fonte che viene indicata come fontana coperta nella vicinia di San Lorenzo (prossima a quella di San Pancrazio), considerata di pregio per le importanti famiglie cittadine che la abitavano. La famiglia raggiunse una certa stabilità economica acquisendo beni fondiari alla fine del XII secolo tra cui il terreno dove poi sorse la chiesa, che venne venduto nel 1208 a Giovanni dal console dalla vicinia di San Pancrazio, proveniente dalla famiglia molto vicina a quella guelfa dei Rivola (Maria Teresa Brolis, LA FONDAZIONE DELL’OSPEDALE BERGAMASCO DI S. ANTONIO “DE FORIS” (sec. XIII), in Bergomun, Biblioeca Angelo Mai, 1995). L’importanza del personaggio e i legami con le più importanti famiglie sotto l’aspetto sia politico che religioso di Bergamo (come i del Zoppo, i Rivola, i Sorlasco, i de Foro, gli Albertoni) motivano la presenza di tutte queste famiglie alla fondazione dell’ospedale con il vescovo Lanfranco e i canonici della chiesa di San Vincenzo che tre mesi dopo si presentarono per la consacrazione della prima pietra della chiesa. L’atto di consacrazione è del 28 giugno 1208 eseguita con le disposizioni canoniche della “ecclesiae hospitalis”. Fu quindi accolta la domanda di fondare una chiesa e il vescovo Lanfranco impose al Gatussi di provvedere alla custodia e alla illuminazione degli edifici, cosa che ebbe risposta affermativa indicando la protezione della chiesa alla canonica di San Vincenzo alla quale doveva versare una libra di cera annua, quale segno di sottomissione al clero, che però non poteva aggiungere altri tributi dovendo essere la chiesa e l’ospedale libero come indicato dall’atto poi perduto: “de protectione et municione et securitate ipsius hospitalis” (Maria Teresa Brolis, LA FONDAZIONE DELL’OSPEDALE BERGAMASCO DI S. ANTONIO “DE FORIS” (sec. XIII), in Bergomun, Biblioeca Angelo Mai, 1995). Il Fornoni (“Le vicinie cittadine”) precisa che “La concessione di piantare la croce, in segno di edificazione della chiesa, porta la data 13 giugno 1208 ed è rilasciata dal vescovo Lanfranco, alla presenza e col consenso di Algisio da Credario arciprete della chiesa di Bergamo, di Lanfranco arciprete di Clusone e dei canonici di S. Vincenzo”. Alla sua morte Gatussi dotò l’ospedale di vari beni, tra cui una casa situata in Città Alta, nei pressi del Mercato del Fieno (Pino Capellini e Renato Ravanelli, “I borghi di Bergamo”. Grafica & Arte, 1984).
(2) Eppure l’Angelini una targa l’aveva preparata: QUESTA CHIESETTA MEDIOEVALE/ERETTA INTORNO AL 1210/COL PORTALE AFFRESCATO/IL PIU’ ANTICO RIMASTO DELLA CITTA’. Ma la lapide non fu mai applicata (Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa. Il Borgo Palazzo”. Bergamo, Ed. Bolis, stampa 1966).
(3) Tosca Rossi, “A volo d’uccello Bergamo nelle vedute di Alvise Cima Analisi della rappresentazione della città tra XVI e XVIII secolo”. Litostampa istituto grafico, Bergamo, 2012.
(4) L’importanza della chiesa è confermata da documenti citati dal Mazzi: uno del 1249, per un atto steso “in burgo de Mugatione” “in claustro hospitalis Sancti Antonii” e un altro del 1263, in cui lo statuto della città creava una nuova vicinia staccata da quella di Mugazone intorno alla chiesa sorta da pochi decenni: “vicinancia nova quae dicitur vicinia S. Antonii” (“Note suburbane” di Angelo Mazzi, Bergamo, 1892, pag. 230).
(5) Vanni Zanella “Bergamo Città”. Edito nel 1971 dall’Azienda di turismo di Bergamo.
(6) Maria Mencaroni Zoppetti (a cura di), “L’Ospedale nella città – Vicende storiche e architettoniche della Casa Grande di S. Marco”. Collana: Storia della sanità a Bergamo – 1. Fondazione per la Storia Economica e Sociale di Bergamo.
(7) Luigi Angelini, “La lunetta duecentesca della chiesetta di Sant’Antonio in Foris”. In: “Cose belle di casa nostra”, Bergamo, Stamperie Corti, 1955.
(8) Secondo Angelini l’ospedale venne demolito e trasformato nel Settecento in edificio civile (Luigi Angelini, Op, Cit.).
(9) “Per il Maironi è il 1806 (…). Nella Pianta della città e borghi esterni di Bergamo dell’architetto Giuseppe Manzini del 1816 non è più presente” (Tosca Rossi. Op. Cit., pag. 219). Riferisce Luigi Pelandi che “La chiesetta ed i locali del modesto ospedale…vennero ceduti dal Demanio al sig. Pesenti di Alzano, poi alla famiglia Zanchi (commercianti in latticini), che avevano negozio sull’angolo della via Rocchetta con l’attuale via Frizzoni, allora via Muraine sulla Circonvallazione, ove esiste tutt’ora una trattoria, quella denominata S. Antonio” (della famiglia Zanchi faceva parte il sottotenente Gioachino Zanchi, nato in Borgo Palazzo il 25 maggio 1909, “che nella guerra d’Africa immolò la sua vita in un fatto di arme glorioso”. Alla sua memoria venne concessa la medaglia d’oro al valor militare). La chiesetta “fino a pochi decenni or sono, venne passata alla ditta Agostino Moretti, che già conduceva un negozio di cesterie, sedie e scope sull’angolo di via Camozzi (n. 1). Intorno al 1955 subentrava il negozio di calzature Sperani. Fu in quel tempo che vennero asportati gli affreschi…Pare che nel frattempo i locali fossero stati invasi dai ‘barboni’, i disgraziati senza tetto dei dintorni che non trovavano posto al Dormitorio pubblico, o non volevano sottostare alle abluzioni obbligatorie del dott. Favari, nè tanto meno al ‘cordial Favari’” (Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa. Il Borgo Palazzo”, Op. Cit.).
(10) La trascuratezza della chiesa è confermata da padre Donato Calvi nelle “Effemeridi” (pubblicate nel 1676), dove informa che sotto la data del 17 dicembre 1530 la chiesa, “ridotta a cattivo stato”, correva il pericolo di cadere. Per questo “l’Ospital Maggiore a cui detta chiesa è unita diede hoggi l’ordine per il risarcimento, come infatti seguì a primo opportuno tempo”. La chiesa, aggiungeva padre Donato Calvi, ha un solo altare, “ove continuamente si celebra, e le feste si convoca per l’esercitio della Dottrina Christiana” L’intervento dell’ospedale non dovette bastare perché la chiesa, prima dipendente dalla parrocchia di S. Alessandro della Croce e poi dalla parrocchiale di S. Anna, finì con l’essere del tutto abbandonata. Fu soppressa nel 1806. L’ultimo suo destino, dopo essere servita come officina per un fabbro, era la demolizione (Pino Capellini, Renato Ravanelli. Op. Cit.), che si voleva porre in atto nel 1937 secondo un progetto di totale rifacimento dello stabile.
(11) Per gli affreschi, si veda la missiva di Don Angelo Rota pervenuta a Luigi Pelandi, il quale cita anche quelli desunti da una nota di Luigi Angelini: Madonna col Bambino e S. Giuseppe (sec. XIII); Madonna col Bambino e S. Antonio (sec. XV); Madonna con Bambino; frammenti vari; teste di santi; figura di S. Antonio (Luigi Pelandi, Op. Cit.). Nel 1954 Angelini rinvenne poi un affresco nella sacrestia: una Natività attribuita al XIII secolo (strappata nel ’55 da Allegretti o da Arrigoni, forse sotto la direzione di Pelliccioli) e alcuni affreschi frammentari (Laura Marini, “Affreschi trecenteschi: S. Marta e S. Antonio in Foris”, Osservatorio delle arti: rivista semestrale dell’Accademia Carrara, n. 1, Lubrina, Bergamo, 1988, pagg. Da 30 a 37).
Riferimenti bibliografici
Luigi Angelini, “La lunetta duecentesca della chiesetta di Sant’Antonio in Foris”. In: “Cose belle di casa nostra”, Bergamo, Stamperie Corti, 1955.
Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa. Il Borgo Palazzo”. Bergamo, Ed. Bolis, stampa 1966.
Tosca Rossi, “A volo d’uccello Bergamo nelle vedute di Alvise Cima Analisi della rappresentazione della città tra XVI e XVIII secolo”, Litostampa istituto grafico, Bergamo, 2012.
Maria Teresa Brolis, “LA FONDAZIONE DELL’OSPEDALE BERGAMASCO DI S. ANTONIO “DE FORIS” (sec. XIII), in Bergomun, Biblioeca Angelo Mai, 1995.
Maria Mencaroni Zoppetti (a cura di), “L’Ospedale nella città – Vicende storiche e architettoniche della Casa Grande di S. Marco”. Collana: Storia della sanità a Bergamo – 1. Fondazione per la Storia Economica e Sociale di Bergamo.
Pino Capellini e Renato Ravanelli, “I borghi di Bergamo”. Grafica & Arte, 1984.
Francesco Rossi, “Accademia Carrara-Gli affreschi a Palazzo della Ragione”, Accademia Carrara, 1995.
Laura Marini, “Affreschi trecenteschi: S. Marta e S. Antonio in Foris”, Osservatorio delle arti: rivista semestrale dell’Accademia Carrara, n. 1, Lubrina, Bergamo, 1988, pagg. Da 30 a 37.
La Città di Bergamo può vantare, fra le sue vicende storiche, quelle di alcune tra le più rappresentative industrie produttrici di auto, attive nel Primo Novecento. Se fra le moto di prestigio non possiamo non ricordare le mitiche Rumi (prodotte dalla metà degli anni ‘50 del Novecento), fra le automobili realizzate si annoverano quelle prodotte dalla gloriosa S.A.L. (acronimo di Società Automobili Lombarda), fondata a Bergamo nel 1905 con lo scopo di produrre omnibus, motori marini e automobili, per le quali venne creato il marchio “Vetture Esperia”: le prime automobili lanciate a Bergamo.
Una fabbrica nata laddove, dopo vent’anni, una scuola soprannominata “Esperia” avrebbe preparato migliaia di tecnici per la grande crescita dell’industria bergamasca.
La fabbrica, che si trovava nell’allora via Conventino (divenuta attorno al 1938 via Gavazzeni), era stata costruita tra il 1880 e il 1890 per fabbricare carrozze a trazione animale ed iniziava a produrre le sue auto in tempi in cui a Bergamo ne circolavano circa una decina (1).
In pochi mesi l’azienda riuscì a presentare i primi autotelai, denominati “20 HP” e “40 HP”, dotati di propulsore quadricilindrico in linea da 3.770 cm³.
Nel 1909, per intervenute difficoltà finanziarie, la SAL venne posta in liquidazione ed acquisita dal tecnico Giovanni Macagno, e la ragione sociale dell’azienda mutò in “Macagno Giovanni Automobili Licenza Esperia”.
Macagno costruì nuovi autotelai “20/24 HP” e “40/50 HP”, dotati di motore monoblocco posizionato anteriormente, accensione a magnete “AT” e trasmissione cardanica sulle ruote posteriori.
L’auto, lucida e brillante nel suo colore rosso e verde fu subito elogiata non solo per la sua semplicità ma specialmente per la sua robustezza e per la sua raffinatezza. Per l’originalità e il prestigio dei suoi modelli, l’azienda bergamasca era fortemente apprezzata sia in Italia che in Europa, così come negli USA, patria dell’automobile di serie. Infatti il gran successo riscosso all’Esposizione mondiale di Parigi nel 1905, dove la vettura Esperia conquistò la Medaglia d’Oro, spinse gli Stati Uniti a commissionare ben 24 esemplari di questa stupenda automobile, allargando così la fama dell’industria meccanica bergamasca anche al continente d’oltreoceano.
Sull’onda dell’emotività, ma principalmente in conseguenza della riconosciuta precisione di lavorazione dovuta sia alle moderne macchine che alla manodopera sceltissima e all’abilità degli operai, le auto prodotte nella fabbrica orobica ottennero persino il nomignolo di “gioiello” nell’ambiente dell’industria automobilistica mondiale.
Le buone caratteristiche tecniche delle vetture, note alla cronaca dei tempi per la loro affidabilità, si dimostrarono anche in alcune gare come la “Padova-Bovolenta” (nella quale una “20/24 HP” guidata da Macagno conquistò il primo posto nella III categoria) e la Parigi – Pechino, tenutasi prima del conflitto mondiale.
Ma dopo uno strepitoso successo iniziale, nel primo dopoguerra dovette cedere i brevetti e chiudere i battenti confluendo nel gigante FIAT (fondata da Giovanni Agnelli nel 1899), anche a causa della coercitiva conversione produttiva generata dalle vicende della prima guerra mondiale.
A tale proposito il “Novecento a Bergamo” cerca di fare chiarezza: “Già da un paio d’anni due auto Esperia erano in possesso, regolarmente acquistate, dalla fabbrica torinese, e quei tecnici avevano trovato nei loro congegni ‘miracolosi tesori’. Sta di fatto che a Torino si pensò che il modo migliore per sbarazzarsi di un incomodo fosse quello di farselo amico, diventandone il padrone. Un pacchetto azionario, tale che il suo possesso portasse alla maggioranza del capitale sociale, fu pertanto acquistato dal gruppo torinese che guidava le sorti della Fiat. Poi il gioco fu facile. Un’assemblea straordinaria a Bergamo votò la fusione per incorporazione dell’Esperia nella Fiat. E il grande stabilimento di Via Conventino chiuse i battenti.”
I NOSTRI PRIMI AUTOMOBILISTI
Riporta Luigi Pelandi che dall’officina meccanica uscirono i nostri primi automobilisti. Fra questi, quel Piero Nava, morto ottantatreenne il 3 luglio 1964, che fece i suoi primi esperimenti proprio all’Esperia. Poi, vedendo che gli affari degli Zanchi andavano male, si mise in proprio ed aprì il primo garage fuori Porta Broseta ed in seguito sul viale Vittorio Emanuele, dove un tempo c’era la Standa. Ma prima di mettersi all’Esperia era stato cocchiere del vescovo mons. Guindani, che lo teneva in ottima considerazione anche per la vera perizia nella guida della pariglia vescovile. Fu poi il primo garagista della città, inizialmente in un antico stallo fuori porta Broseta di fronte alla drogheria Lazzarini. Unico a Bergamo che potesse offrire alla clientela la scelta di due automobili, quella a carrozzeria scoperta e quella chiusa, il Nava fu il primo che portò a Bergamo il pulmann. Un altro automobilista, che era stato a suo tempo operaio dell’Esperia, era “ol Bègno”, o meglio, l’intraprendente Giacomo Benigni di Borgo Palazzo (località Rocchetta), forse anche il primo automobilista del borgo nonché il più spericolato. Fra i primi automobilisti conosciuti dal Pelandi c’era anche Stefano Minossi, un costruttore di motori a scoppio (poi inventore di uno dei primi aeroplani), ex dipendente della della Società Automobili Lombarda in qualità di capo chaffeur meccanico. Minossi fu forse il primo automobilista che già correva nel 1898 e ultraottantenne guidava ancora. Ricercato quale istruttore di aspiranti automobilisti, insegnò, fra i tanti, all’indimenticabile Giulio Zavaritt intorno al 1900, ma abbandonò ben presto questa occupazione, per darsi tutto alla meccanica automobilistica. Dal grosso volume Chi è nell’automobilismo italiano si apprende che uscito dalla Società Lombarda dopo il 1908 e recatosi a Roma, ideò e costruì uno dei primi aeroplani italiani e lo collaudò egli stesso meritando ambiti premi nel 1910 nonché la tessera d’onore dell’Aereo Club Italia. Nel 1919 ottenne il brevetto per un tipo di motore a scoppio a due tempi.
LA RICONVERSIONE DELL’EX FABBRICA E LA NASCITA DELLA PRINCIPALE SCUOLA TECNICA DI BERGAMO
Il Regio Istituto Industriale di Bergamo giunse nell’allora via Conventino tra il 1925 ed il 1926, riunendo le varie sezioni, sparse in quattro distinti siti cittadini. Furono così definitivamente abbandonate le vecchie sedi: in Piazza Vecchia (ora Biblioteca Angelo Mai), in via Pradello/Masone (ora sede del Provveditorato agli Studi), in via Tassis ed in via del Conventino (2).
Con notevole sforzo, non solo economico, venne dapprima riconvertita la vecchia fabbrica della S.A.L. L’immensa area era caratterizzata da un fronte di uffici (rivolto verso l’attuale via Gavazzeni, che collegava Bergamo con l’allora comune di Boccaleone), da un’ampia copertura a shed, tipica degli stabilimenti inglesi, adibita a officine e reparti di lavorazione.
Vi era anche una grande caldaia con annessa ciminiera di scarico dei fumi, due viali alberati, due depositi, gli eleganti uffici dei proprietari (sull’odierna via Europa, all’epoca strada che conduceva alla Cascina Alberata, oggi in via Gasparini).
Successivamente, sempre e solo grazie ai contributi economici del “Consorzio pro Scuole Industriali di Bergamo” furono attrezzate a nuovo le aule e i laboratori. Alcune macchine di filatura, fino a pochi anni orsono ancora presenti nell’omonimo laboratorio, riportavano il 1927 quale anno di costruzione, e, all’epoca, giunsero nuove nell’Istituto scolastico.
Nel 1935, con apposito provvedimento ministeriale, l’Istituto venne autorizzato a intitolarsi a Pietro Paleocapa, a ricordo di quel Pietro Paleocapa, che nacque a Nese (ora territorio del comune di Alzano Lombardo) nel 1787, e morì a Torino nel 1869: ingegnere, patriota, insigne collaboratore di Manin e di Cavour, ministro, tecnico e scienziato cui si devono opere di importanza internazionale nel campo dell’idraulica e delle costruzioni.
Nell’attuale Esperia, oltre alla palazzina degli uffici sono ancor oggi visibili altre testimonianze storiche risalenti alla fine dell’Ottocento, giunte a noi indenni: il camino di scarico dei fumi, ribassato alcuni anni orsono per rischio di crollo, e ora monco; i filari di piante che conducono dalla casa del custode, verso la zona della vecchia fonderia e l’uscita verso Boccaleone.
Inoltre, l’ex palestrina, soprannominata chiesetta (al confine con l’Istituto Giulio Natta); – i tamponamenti verticali dell’officina (in mattoni pieni e con le finestrature originali) posti sia verso l’attuale palazzina d’ingresso, sia di fronte alla palazzina laboratori di chimica (in uso al Natta), sia sul lato est (di fronte alla casa del custode).
Tra gli ultimi a sparire: il serbatoio rialzato, contenente la cisterna dell’acqua di alimentazione della caldaia a vapore, che è stato abbattuto solo recentemente.
Note
(1) La storia delle origini della fabbrica non è del tutto chiara, in quanto le cronache riportano nomi e date discordanti. Luigi Pelandi scrive che il laboratorio meccanico per la realizzazione dell’automobile Esperia era stato impiantato dai fratelli Zanchi – figli di Prospero Zanchi, un filandiere dell’antica casata bergamasca – e che il comm. Stefano Minossi (un costruttore di motori a scoppio, che fu poi aviatore, anzi inventore di uno dei primi aeroplani) gli assicurava di aver fatto parte del personale della Società Automobili Lombarda – della quale era allora presidente il rag. Carlo Zanchi -, come capo chaffeur meccanico dall’agosto del 1903 fino al 1906 (Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa. Il Borgo Palazzo”. Bergamo, Ed. Bolis, stampa 1966). Un’altra fonte, non specificata, tratta dalla Rivista Esperia del 2016, asserisce che “ESPERIA nacque nel 1849 nella sede industriale di via Gavazzeni, ed occupava circa 38.000 mq, dei quali 18.000 costituivano le officine, i laboratori e gli uffici. L’industria nacque come officina sotto la spinta della società “SAL – Società Automobili Lombarde” con l’intento di costruire a Bergamo un’autovettura: la prima d’Italia. Nel giro di poco tempo, pur con evidenti limiti sulla conoscenza della meccanica, appassionati come Sottocasa, Minossi e Nespoli, incominciarono a riunirsi in via Paglia. Con l’arrivo del motore, già esistente in Francia, un “Darracq”, si diede inizio alla realizzazione dell’auto: due chàssis, due putrelle portanti ruote, il motore francese e la carrozzeria costruita a Torino. Nel 1903 il controllo della fabbrica SAL passò in mano al Sig. Busi e si incominciarono a montare motori biblocco fabbricati a Milano. Pochi anni dopo la SAL fu costretta a chiudere dando via libera alla realizzazione in Bergamo dello stabilimento chiamato subito con il nome “Esperia”: l’antico nome d’Italia. Solo dopo che azionisti e proprietari furono cambiati, solo dopo aver reperito il capitale e i tecnici, l’ingegnere Ghilardi, da poco rimpatriato e con anni di esperienza, disegnò e realizzò un innovativo modello di automobile. Venne introdotto il blocco in ghisa, quattro cilindri in linea ed il motore con raffreddamento ad acqua, alimentato da una pompa, con due alberi e con due candele per cilindro. Inoltre la realizzazione dei progetti, dei disegni, dei modelli in laboratori di alta precisione (per l’epoca), permise all’industria di risolvere i problemi prima della produzione e di migliorare notevolmente il progetto specialmente negli organi fondamentali, quali il carburatore, il motore, il cambio delle velocità: particolari che resero unica l’auto”.
(2) Il Regio Istituto Industriale di Bergamo (oggi I.T.I.S. “Pietro Paleocapa”) nacque per mezzo del Regio Decreto n° 1273 del 27 aprile 1924. La genesi della scuola comunemente nota come “Esperia”, ha luogo nella prima metà dell’Ottocento, in parallelo con l’inizio dell’Era Industriale e con l’evoluzione industriale della provincia bergamasca.
1849: nasce la Scuola Serale di Disegno per operai.
1863: la Scuola per operai diviene Istituto Tecnico di seconda classe.
1864: nasce l’Istituto Reale di Mineralogia e Metallurgia, rilasciando (tra i primi in Italia) il diploma di ‘Perito nell’industria mineraria e metallurgica’.
1885: in città esordisce un distaccamento denominato Regio Istituto Tecnico Vittorio Emanuele II (specializzazioni di meccanica e di chimica).
1885: nasce la sezione industriale di Bergamo, il solo Istituto in Italia alle dipendenze del Ministero della Pubblica Istruzione organizzato su cinque anni di corso e gestito secondo i caratteri di una scuola-officina (attuazione dell’idea di scuola integrale, tanto cara ai fautori delle tesi industrialistiche, sempre più in voga in quegli anni).
1888: nasce la sezione di filatura/ tessitura.
1902: nasce la sezione di tintoria.
1924: con il Regio Decreto n° 1273 del 27 aprile 1924 nasce ufficialmente il Regio Istituto Industriale di Bergamo, l’Istituto, che successivamente sarà attribuito all’Ing. Paleocapa. L’ente morale denominato “Consorzio pro Scuole Industriali di Bergamo” raccoglie in pochi mesi i contributi per l’individuazione e il trasferimento delle varie sedi sparse nella città, in una nuova grande unica sede, autonoma e sufficientemente ampia