Città Alta: “Il Lavatoio che non c’è più”

Testo e fotografie di Gianni Gelmini  ©

Per uno che abita a Bergamo, Città Alta è di sicuro la “modella” più facile da raggiungere; infatti, le ho scattato moltissime foto. Un giorno mi aggiravo nelle sue viuzze alla ricerca di qualcosa di nuovo da immortalare, quando vedo, dietro un cancello aperto, sormontato dalla scritta “lavatoio”, una scaletta in discesa verso uno spazio, chiuso tra le case e la chiesa di San Lorenzo, completamente sotto il livello della strada.

Lavatoio: una parola che mi solletica, ricordo il lavatoio che c’era vicino alla casa di mio padre in via San Lazzaro lungo la roggia, con le donne che lavavano e parlavano tra loro, un chiacchiericcio continuo segnato rumore dello sbattere dei panni e dell’acqua gocciolante delle strizzature: un mondo vivo in cui si ritrovava il rione. Questo però non mi sembra troppo vivo, anzi, mi sembra deserto.

La scala acciottolata s’incunea tra muri scrostati arricchiti da erbacce, sul fondo c’è una porta di spesso legno corroso (ho scoperto solo qualche mese fa che quella porta da l’accesso alla “Fontana del Lantro”, che raccoglie l’acqua di una delle due fonti sorgive esistenti attorno al lavatoio).

Il lavatoio non è deserto: una donna sta finendo di strizzare i panni appena lavati. Terminato questo lavoro, prende la sua vaschetta e se ne va. Ora non c’è più nessuno.

Il silenzio è rotto solo dal rumore dell’acqua che gorgoglia da un rubinetto. Non l’acqua sporca della roggia che ricordavo, ma acqua di fonte.

Lavare i panni a mano nell’acqua fredda, però, non è più cosa di moda, anche se l’acqua è cristallina; così quattro file di vasche aspettano invano un cliente.

In centro a Città Alta c’è un altro lavatoio più ricco con i ripiani in marmo; questo è molto più grande, ma spartano. Tutto però segna un abbandono ormai cronico.

Al “Lavatoio” ci sono tornato in un giorno di settembre del 2012: il lavatoio oggi non c’è più, il suo spazio è stato riempito da una montagna di terra; c’è solo uno stretto passaggio per raggiungere le vasche delle fonti, così queste foto sono diventate un documento storico.

 

Ricordi di Città Alta dalla penna di Anna Rosa Galbiati: “Le signorine Cadonati” e “I Bonacina”

Terza puntata (per la puntata precedente, clicca qui)

“Le signorine Cadonati”

Al numero 11 di via Rocca abitavano anche le signorine Cadonati, due zitellette quarantenni che si dedicavano al lavoro di lavanderia e stireria in casa.
Abitavano all’ultimo piano della casa Baglioni, nel versante che guardava sulla Via Porta Dipinta e dal quale si godeva la più ampia e straordinaria vista di Bergamo.

Il loro appartamento, grazie alla posizione elevata, era luminosissimo ed era composto di enormi stanzoni con soffitti a travi di legno.
Nella cucina lunga e stretta lavorava la vecchia sciura Cadonati, sempre piegata sul “sòi” a insaponare i panni, a lavarli, a sbatterli e strizzarli con forza.
Nonostante la bestiale fatica, la signora Cadonati era sempre sorridente e contenta.
In uno stanzone con grandi finestre, sempre aperte all’aria e al sole, c’erano due tavoli su pedane di legno, coperti di teli bianchi, sul quali erano allineati ferri da stiro di ghisa neri e pesanti, barattoli di saponaria, di smacchiatore, scodelle di acqua per inumidire, insomma tutto il necessario per stirare: il regno delle signorine Cadonati. In un angolo, poco distante, c’era il banchetto di lavoro del signor Cadonati, che faceva “ol scarpuli”. Sparse un po’ dovunque c’erano vecchie scarpacce sfondate, zoccoli, martelli, forme, pezzi di cuoio.
Un altro enorme stanzone soleggiato ed aerato era usato per stendere i panni bagnati e per appendere i capi stirati.

Le due sorelle Cadonati, Rina, morettina e Franca, biondina, passavano le loro giornate a stirare, sempre sui due piedi, interrompendo il lavoro solo per mangiare.
Erano sempre insieme, e non hanno passato un giorno l’una lontana dall’altra. Rina rifiutò la proposta di matrimonio di un bravo ragazzo di Bari, atterrita dall’idea di lasciare la sorella e la sua Bergamo. Trascorsero la loro vita sempre teneramente insieme, condividendo lo stesso lavoro e le stesse passioni.
Poiché facevano parte, con il padre, del coro del Teatro Donizetti, alcune sere si recavano a teatro per le prove. Rina aveva una calda voce di contralto, Franca di soprano, e il padre una profonda voce di baritono. Andare dalle signorine Cadonati era come salire in cielo, in un’atmosfera fuori dal mondo. Mentre lavoravano, si esercitavano nei brani d’opera che avrebbero dovuto cantare durante la stagione lirica e la stanza di lavoro, come per magia, si trasformava in un palcoscenico, cui faceva da scenario lo stupendo panorama di Bergamo. Io, rimanevo delle ore seduta su una seggiolina, in disparte, ad ascoltarle, immobile, per paura di dare fastidio.

Il brano che più mi commuoveva, fino a farmi sentire i brividi, era quello della Cavalleria Rusticana: “Esultiam – il Signor non è morto…”, perchè le tre voci si fondevano tra loro in un’accorata armonia piena di sentimento come fossero strumenti d’orchestra e la musica fluiva dal loro animo per penetrare tutto il mio essere.
Mi esaltavo anche quando cantavano il famoso brano dal Trovatore: “Chi del gitano – la vita – abbella…”, perché il signor Cadonati accompagnava il canto con dei colpi ritmati di un martello su una forma di ferro. In quella fucina di attività e di arte, mi sembrava di vivere in un sogno.

Di tanto in tanto attraversava lo stanzone, per andare a distendere nel locale accanto, la sciura Cadonati, la quale, camminando ancheggiante, emetteva delle scorreggette a tempo, ridendo sorniona e compiaciuta.
Le figlie interrompevano il canto e, guardando la madre scandalizzate, le dicevano: “Ma mama, ghè ché la s-cetina, móchela!” Io, invece, mi divertivo un mondo, anzi seguivo la sciura Cadonati e le dicevo: “Dài, signora Cadonati, me ne faccia sentire ancora qualcuna!”, e lei, a comando, dava fiato al suo strumento…

Da allora, quando volevamo divertirci, mia sorella Luisa ed io ci dicevamo: “Andiamo su dalla signora Cadonati a sentire qualche scorreggia!”.
Che risate ci facevamo quando la sciura camminava emettendo i suoi peti! Le sue flatulenze non avevano nulla di volgare, sembravano invece richiami di paperelle smarrite: “qua, quaraqua, qua, squecc…” e altre variazioni simili.
Era un fenomeno e noi ci chiedevamo ammirate come facesse. La sciura ci fece però promettere di non dirlo a nessuno e noi mantenemmo il segreto, altrimenti non ci avrebbe fatto sentire più niente.

Le signorine Cadonati, la sera, uscivano a far le consegne della biancheria stirata e, qualche volta, la nonna ci permetteva di andare con loro.
Per noi bambine, camminare di sera nelle buie stradine di Città Alta, silenziose e deserte, entrare in oscuri androni, salire scale sinuose e strette appena visibili, era una grande e misteriosa scoperta.
Le signorine Cadonati parlavano sottovoce tra di loro, quasi non volessero turbare il magico silenzio della notte e noi bambine ci sentivamo come delle esploratrici in cerca di fantasmi.
Le signorine Cadonati conoscevano tutti in Città Alta e, molte volte, si davano da fare per scoprire i segreti altrui.

Ricorderò sempre una sera nella quale, terminate le consegne, mi fecero percorrere su e giù la Città, per seguire a distanza la signorina Trivella, che abitava come noi in via Rocca al civico 11. La signorina Trivella era una bellissima ragazza con lunghi capelli corvini, che raccoglieva in grosse trecce, molto alta e dal portamento altero, che la faceva sembrare una nobile matrona romana.
Di giorno lavorava e tutte le sere usciva per assistere alle funzioni religiose. Ma quella sera, le signorine Cadonati notarono che la signorina Trivella, finita la funzione, invece di tornare a casa, aveva preso un’altra strada, per cui, mosse da una sana curiosità, si domandarono: “Ndó àla a chèst’ura, al pòst de “ndà a cà… Te edrét che la gà ol murus!” Naturalmente la seguirono per scoprire l’arcano.

La signorina Trivella, dopo aver percorso alcune erte viuzze, entrò in un portone. Le signorine Cadonati si sedettero su un muretto vicino ad aspettare, volevano vedere quando usciva e con chi.
Poco dopo, la signorina Trivella uscì con un bel giovanotto sotto braccio. Le signorine Cadonati, soddisfatte, videro confermati i loro sospetti.
Dai loro discorsi riuscii ad afferrare qualche cosa. Il giovanotto con cui la signorina Trivella si incontrava era un militare della Guardia di Finanza il quale, per una rigida disposizione disciplinare della sua Arma, non avrebbe dovuto avere relazioni sentimentali né avrebbe potuto sposarsi prima dei ventisette anni.

Ecco perché i due giovani innamorati dovevano incontrarsi di nascosto, come se amarsi fosse una colpa.
Le signorine Cadonati, verificata de visu la situazione, tornarono a casa soddisfatte: ora sapevano la verità.

Non si fidavano mai dei pettegolezzi altrui, dovevano andare da sole a fondo della realtà dei fatti. Non erano delle malelingue, la loro curiosità era discreta, non riferivano mai ad altri le loro scoperte, tenevano tutto per sé. Era un innocente passatempo delle due sorelle sempre sole, che le faceva sentire più vicine alla vita degli altri abitanti della Città.
Sapevano tutto di tutti, ma custodivano rispettosamente dentro di sé i segreti intimi della vita di ognuno, come fossero cari parenti. Dalle loro labbra non uscì mai voce malevola o sgradevole.
Le signorine Cadonati, invece, dall’alto del loro abbaino, regalavano tutti i giorni alla Città dolci e armoniose note di poesia, come canori usignoli nel loro nido.

“I Bonacina”

I coniugi Bonacina vivevano accanto alla famiglia Cadonati in un’unica stanza, ma così grande che oggi vi si potrebbe ricavare un comodo appartamento.
Quella stanzona comprendeva tutto: cucina, stanza da letto, soggiorno, arredati con mobili scuri ed austeri, tenuti lucidi come specchi.
Il pavimento di cotto rosso era brillante come un rubino perchè la sciura Bonacina vi camminava sopra solo con pattine incipriate di paraffina.

La sciura Bonacina era un tipo segaligno, alta e magrissima, con capelli tesi e tirati all’insù in uno gnocco arrotolato. Vestiva sempre di nero, in un rigido abito che la costringeva dal mento sino alle caviglie.
Quando usciva di casa, copriva il capo con uno scialle di seta nero d’estate e di lana in inverno.
Come era severo il suo abbigliamento, così era il suo cipiglio. Camminava impettita con lo sguardo fisso davanti a sé, scorbutica nel salutare e senza un sorriso. Detestava ogni esternazione affettiva, detestava carezze e baci perchè per lei erano insulse smancerie. Quando vedeva due persone che si tenevano per mano o in tenero atteggiamento, allontanava lo sguardo, dicendo nauseata: “Che lösòcc!”

Lo zio Vanni, il mio zio “barba”, si divertiva a provocarla facendo le vedere le fotografie di attrici in costume da bagno riprodotte sui giornali (i costumi da bagno di allora lasciavano ben poco alla luce!).
Lei, con disgusto e disprezzo, allontanava il giornale e diceva: “Fam mia èt a mé chèle gioàne, con chèi ciapamèrde!”
Lo zio le girava le spalle e rideva divertito, mentre la sciura Bonacina tratteneva a stento la sua irritazione, forte delle sue convinzioni.

La sciura Bonacina era il classico tipo della bigotta, il cui unico passatempo nella vita fu quello di passare da una chiesa all’altra. Non perdeva una funzione: i primi vespri, i secondi, quelli dei santi, quelli dei martiri, le terze, le seste, le none… senza contare le Messe quotidiane.

Seguiva tutte le processioni e tutti i funerali, anche quelli di persone che non conosceva, disertava solo le cerimonie nuziali perchè per lei erano troppo pagane.

Era una assidua e fervente cattolica, osservante al punto che non solo passava intere giornate in chiesa, ma recitava rosari e litanie anche in casa, dove apparivano crocifissi e santini un po’ in tutti gli angoli.
Questo suo feticismo religioso la rendeva una moralista inflessibile ed intollerante, tant’è vero che i suoi nipoti non andavano mai a trovarla, per non sentire i suoi anatemi e le sue pesanti parole di condanna.

La sciura Bonacina aveva da ridire tutto su di loro: il modo di vestire era indecente, la ragazza si truccava come una p…, non si vedevano mai a messa, frequentavano amici poco raccomandabili…
In realtà la sciura Bonacina esternava cosi la sua forte avversione per la nuora, sposata al suo unico figlio, una simpatica ed estroversa signora toscana che aveva tutt’altre vedute rispetto alla suocera. Di qui, la convinzione della sciura Bonacina che i nipoti non ricevessero una buona educazione e crescessero come dei miscredenti.

Eppure, a me la vecchia Bonacina, benché rustica e scostante, piaceva, salivo di frequente a trovarla ma scappavo via quando cominciava i suoi “De profundis clamavi…”

Anche il signor Bonacina era un personaggio molto interessante, era un bell’uomo alto e impettito, con due grossi baffi che rendevano il suo viso più importante e rispettabile. Indossava sempre dei pantaloni neri alla zuava, infilati in stivaloni aderenti, portava camicie scozzesi sotto un ampio tabarro. Tutte le mattine, all’alba, il signor Bonacina usciva di casa con la doppietta in spalla, per andare a caccia sui Torni o al Pascolo dei Tedeschi o in Castagneta, dove trovava sempre della selvaggina.

Non faceva incetta, si accontentava di cinque o sei uccelletti, che avrebbero costituito il pranzo quotidiano.
Tutti i giorni, infatti, i signori Bonacina mangiavano “polenta e osèi” a mezzogiorno. Alla sera, come cena, poteva bastare una minestrina.

Quando era finito il periodo della caccia, il signor Bonacina si procacciava il cibo andando a funghi e ne prendeva molti, per cui ne poteva mettere da parte una scorta per l’inverno.
Ricordo il caratteristico profumo di funghi che arrivava al naso non appena si entrava in casa dei Bonacina. Per terra, infatti, sui giornali vicino alla finestra, dove batteva il sole, erano distese fettine di funghi a seccare.
Ogni giorno i boschi di Città Alta offrivano delle delizie.

Il signor Bonacina, che era un profondo conoscitore della flora orobica, raccoglieva erbe medicinali e commestibili di ogni tipo: camomilla selvatica per fare tisane, cicoriette tenere e radici amare da fare lesse, germogli da fare in insalata, punte di ortiche per fare frittate e altre erbe buone da consumare che solo lui conosceva.
Insomma, i signori Bonacina compravano solo la farina gialla per fare la polenta perché tutto il rimanente lo offriva la natura, cioè i verdi colli di Città Alta.
Quando arrivava l’autunno, il periodo delle castagne, ne portava a casa a sacchi ed anche quelle diventavano una preziosa scorta per l”inverno. Com’ero grata, quando mi riempivano le tasche del grembiulino con quelle lucide castagne! Per me erano un regalo di grande valore, poiché ci giocavo e poi le mangiavo, anche crude.

Questa singolare coppia di vecchio stampo bergamasco, sotto la scorza di un’apparente rudezza, rivelava battiti di spontanea generosità.
In estate, durante le sue esplorazioni nei boschi, il signor Bonacina raccoglieva delle fragole di bosco piccolissime e profumatissime e le adagiava ordinatamente sopra foglie fresche, che intrecciava a forma di cestino.

Bussava alla nostra porta e, senza dire una parola, metteva il grazioso cestinetto nelle mani della nonna e se ne andava via. La nonna, confusa e commossa per il gentile gesto, gli rivolgeva parole di ringraziamento, ma lui, senza guardarla in faccia e salendo le scale, diceva solo: “Negot, negot…”.
Qualche volta, per non sentirsi in imbarazzo, metteva il cestinetto fuori dalla porta. La nonna capiva che doveva accettare senza troppi complimenti. Il signor Bonacina cosi dimostrava la sua amicizia e la sua simpatia, vero “caràter de la rassa bergamasca: fiama dè rar, ma sota la sender… brasca!”.

Quando il tenero e rustico signor Bonacina mori, la moglie dette prova ancor più della sua fierezza d’animo, non lasciando trasparire ombra di commozione e di dolore. A quanti le rivolgevano parole di cordoglio, laconica e asciutta rispondeva: “al Signùr l’a ülit issé, l’era la sò ura”. Rassegnazione religiosa o straordinaria capacità di dominare i propri sentimenti?
Rimasta vedova, la sciura Bonacina continuò la sua vita tra casa e chiesa. L’unica persona con la quale riuscì ad allacciare un buon rapporto fu mia nonna Anita, da lei molto stimata.

Infatti, tutte le sere, quando tornava dalle funzioni serali, entrava discreta in casa nostra, si sedeva, dava un’occhiata al giornale, commentava le notizie, annusava una presa di tabacco che la nonna le offriva dalla sua tabacchiera, beveva con piacere una tazza di tiglio o di camomilla, poi, al primo rintocco del campanone, si alzava e tornava nel suo rifugio, aspettando sola e dignitosa il suo turno per morire: “Libera me, Domine, de morte aeterna, in die illa tremenda”.

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Anna Rosa Galbiati, “Acquarelli Bergamaschi” (Sistema Bibliotecario Urbano – Biblioteca circoscrizionale Gianandrea Gavazzeni, Piazza Mercato delle Scarpe – Città Alta).

I dipinti e i disegni, di Mario Airoldi, sono tratti da: Mario Airoldi, Amanzio Possenti, “Bergamo negli occhi – Armonia di luci ed ombre”. Edotrice Cesare Ferrari, Clusone (Bg), 1986.

La Chiesa di S. Alessandro in Colonna a Bergamo

Chiesa di S. Alessandro in Colonna (Bergamo). Claudio Facheris. 55° Mostra-Concorso Pittura-Scultura-Acquerello “Don Angelo Foppa”, 15-30 Novembre 2003

La chiesa di S. Alessandro in Colonna, intitolata al patrono di Bergamo, si trova nell’omonima via in Bergamo bassa ed è il cuore del borgo omonimo. Asse di una delle direttrici che si diramano da Città Alta, la si raggiunge da piazza Pontida o attraverso l’animata via XX Settembre.

Benchè la tradizione la voglia già eretta nel VI secolo, sopra le rovine di un tempio pagano di cui non si hanno testimonianze, la presenza della chiesa è documentata solo dal secolo XI. Il primo documento riconosciuto risale infatti al 1133, quando è indicata come “Ecclesia S. Alexandri quae dicitur in columna” (Lupi, Codex Diplomaticus, II, co. 975), in riferimento alla presenza sul luogo di resti romani come colonne monumentali.

La consacrazione del 1474 ricorda la ricostruzione della chiesa a seguito di un crollo. Al 1627 è documentata una seconda consacrazione per sistemazioni dell’edificio secondo le indicazioni borromaiche, mentre nel 1739 la chiesa venne nuovamente rinnovata ed ampliata, anche se per il suo completamento bisogna attendere il 1780 quando venne realizzata la cupola e la facciata principale.

La ristrutturazione dei primi anni del XVIII secolo, attuata su disegno di Marco Alessandri, cancellò alcune parti di notevole valore come la cappella del Santissimo Corpo di Cristo che era stata progettata nel 1511 da Pietro Isabello e di cui rimangono solo i pilastri di pietra poi inglobati nella realizzazione successiva (1).

Il campanile venne iniziato nel 1842, su disegno di Giovanni Bovara, mentre il completamento da parte di Virginio Muzio è del 1904.  E diviso in sei livelli e si conclude con una complessa cella campanaria (2). Su di esso svetta la statua della Madonna del Patrocinio. Nel complesso, il campanile contrasta con la severità dell’intero complesso architettonico.

(1) La chiesa di sant’Alessandro in Colonna, La Rivista di Bergamo.

(2)  Il campanile ospita un concerto di 12 campane in la2, tra i più imponenti della Lombardia; 10 di esse formano la scala maggiore di la2, mentre le due restanti servono per formare la scala maggiore di si2. Le 8 campane in la2 sono state fuse dalla fonderia Pruneri di Grosio nel 1905, mentre le altre 4, dalla fonderia Ottolina di Seregno nel 1951

La chiesa di S. Alessandro in colonna ancora priva del campanile. Raccolta Gaffuri

 

Il campanile di S. Alessandro in Colonna in costruzione. Raccolta Gaffuri
Il campanile di S. Alessandro in Colonna in costruzione – Raccolta Gaffuri. Vi si accede percorrendo 169 gradini e l’ascesa è compensata da una vista spettacolare sulla città. E’ possibile accedervi il 26 agosto, durante la festività del patrono, e in occasione di diverse feste parrocchiali

Nella basilica si trovano inoltre due organi monumentali costruiti dai Serassi: l’organo maggiore, costruito nel 1781, collocato nell’abside ai lati dell’altare maggiore, e l’organo della cappella della Madonna del Patrocinio, costruito nel 1844.

Visibile non solo per la sua mole, con l’austera facciata neoclassica, la chiesa si caratterizza per la presenza dell’alta colonna, composta da diversi blocchi di epoca romana, che si innalza sul sagrato, la stessa alla quale – come vuole la tradizione – venne decapitato Alessandro, futuro patrono della città, nel III secolo d.C.

Scorcio di via S. Alessandro (a.p. 18-12-1905). Album di antiche cartoline bergamasche, Domenico Lucchetti. Grafica Gutemberg. La colonna è una ricostruzione risalente al 1618 realizzata con reperti romani, la cui origine è controversa

La colonna, ben visibile sul piccolo sagrato antistante la chiesa, è  citata da molte fonti antiche come “Colonna del Crotacio”(3), cittadino che forse risiedeva o che si fece seppellire nei pressi, ponendo un monumento (la colonna appunto) sormontato da un idolo, da cui il luogo prese il nome di “Vico Crotacio”(4), l’antica denominazione del borgo di S. Leonardo.

Fu solo dopo il Mille che il borgo cominciò a chiamarsi “Vico S. Alessandro” (5).

In realtà, la colonna originaria, che doveva essere ancora visibile nel 1575 perchè citata nelle visite pastorali, ha subìto modifiche nel 1618.

(3) “I primi secoli del’Era Cristiana quanto alla storia nostra politica sono ancora più d’ogni altro antecedente avvolti nella incertezza, e in una invincibile oscurità. In que’ tempi alcuni nostri scrittori assegnarono alla patria un governo di duchi, de’ quali Crotacio il primo, investito dall’imperator probo, e s. Lupo l’ultimo, che fu padre della beatissima Grata curatrice del corpo di S. Alessandro. Ma sulla erroneità di siffatta opinione, e sulla incompetenza di un tal titolo ai governanti in quell’epoca convien leggere il precitato Codice del canonico Lupo capo IV. e § V., e altrove” (Dizionario odeporico: o sia, storico-politico-naturale della provincia bergamasca (Giovanni Maironi da Ponte). 

(4) Mario Lumina, La chiesa di S. Alessandro in Colonna, S. Alessandro in Colonna, Greppi, Bergamo, 1977, pp. 6/8.

(5) Mario Lumina, ibidem.

Predica di Sant’Alessandro, di Enea Salmeggia – Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo. Al centro del dipinto la Colonna di Crotacio  sovrastata dall’idolo citato dalle fonti antiche

L’interno della basilica, a navata unica e a croce latina che si apre su quattro cappelle per lato, rispecchia pienamente il linguaggio neoclassico, con l’imponente volta a botte unghiata sorretta dall’alto cornicione e dalle slanciate semicolonne con i capitelli corinzi.  Il transetto, poco profondo, raggiunge l’ampiezza delle cappelle.

Adiacente al presbiterio vi è la cappella della Beata Vergine del Patrocinio, edificata sul luogo di un antico cimitero.

Interno, a navata unica, della chiesa di S. Alessandro in Colonna (Raccolta Gaffuri). Numerose le cappelle laterali, che si aprono nelle nicchie ai lati della navata, ricche di opere di pregio

 

Dettaglio della pala sovrastante l’altare maggiore

Le cappelle laterali e le sagrestie sono ricche di opere di pregio come il Martirio di Sant’Alessandro (1623) e Posa della prima pietra del tempio (1621), entrambi di Enea Salmeggia, Santa Grata che raccoglie il capo di Sant’Alessandro di Gian Paolo Cavagna (1621), Il Martirio di San Maurizio di Alessandro Balestra, l’Ultima Cena e la Natività di Leandro Bassano, la Deposizione di G.B. Bassano, l’Assunzione della Vergine di Girolamo Romanino, Santa Grata presenta al padre i fiori sbocciati dal sangue del martire di Francesco Zucco (1621), una Deposizione di Lorenzo Lotto.

Particolare della pala centrale dell’altare maggiore della chiesa di S. Alessandro in Colonna: Martirio di S. Alessandro, di Enea Salmeggia, eseguita nel 1623. L’opera fu commessa al Salmeggia il 15 settembre 1621 per la festa del Corpus Domini del  1625

Nella terza sagrestia si conserva una Natività di Alessandro Bonvicino detto il Moretto e la Madonna dello Scoiattolo di Giovanni di Giacomo Gavasio e, in alto sopra il cornicione,  La Trinità di Enea Salmeggia, copia dell’opera del Lotto, di cui la critica indica una datazione attorno al primo decennio del Seicento.

Pala centrale dell’altare di S. Grata, detto anche altare della gara, nella chiesa di S. Alessandro in Colonna, opera di Gian Paolo Cavagna eseguita intorno al 1621 e rappresentante il miracolo dei fiori nati dal sangue di S. Alessandro, secondo la descrizione di Celestino

Sulla parete destra del transetto, accanto alla Cappella del Corpus Christi, si trova San Pietro, San Paolo e San Cristoforo in gloria,  un dipinto del primo Seicento di Giovan Paolo Cavagna, unico per la scelta iconografica dell’artista.

Borgo S. Alessandro e città alta (particolare da Santi in gloria). Giampaolo Cavagna. Bergamo – S. Alessandro in Colonna. La fedele riproduzione del paesaggio, costituisce un prezioso documento iconografico testimoniante la Bergamo del Seicento

 

Assunzione della Vergine di Gerolamo Romanino. Bergamo – S. Alessandro in Colonna. La pala, posta nell’altare sinistro del transetto, colpisce per la grande suggestione creata dal gioco tra le nubi e la luce solare

Nel 1997 la chiesa è stata proclamata Basilica.

Bibliografia e sitografia

Giosuè Berbenni (a cura di), Organi Storici della Provincia di Bergamo, Bergamo, Provincia di Bergamo, 1998.

Fabio Pasquale (a cura di), Basilica di S. Alessandro in Colonna – Bergamo – Luogo di fede e d’arte, Bergamo, Artigrafiche Mariani & Monti, 1999.

Flora Berizzi, Bergamo, Milano, Electa, 2007.

Tosca Rossi, A volo d’uccello Bergamo nelle vedute di Alvise Cima – Analisi della rappresentazione della città trà XVI e XVIII secolo, Litostampa, Bergamo, 2012.

http://www.lombardiabeniculturali.it/architetture/schede/BG120-00531/

AA.VV., Guida alle Chiese di Bergamo, Bergamo 2006.

Il torrente Morla, “la Nave”… e la Curtis Murgula

Veduta di Città Alta dal torrente Morla presso il Galgario. Racc. Ing. Angelini. Da Luigi Angelini, “Il volto di Bergamo nei secoli”

Benchè sia ormai inglobato nel tessuto cittadino, Il torrente Morla – “la Morla” per tradizione – è storicamente considerato il “fiume di Bergamo”, dal momento che ben 8 chilometri dei 14 totali sono compresi nel territorio comunale del capoluogo orobico.

Anche se la Morla non può, e non poteva competere, per volume d’acqua e per lunghezza di percorso, con i due fratelli maggiori – il Serio e il Brembo, onorati dal Tasso nel famoso sonetto – supera questi ultimi per importanza storica; per centinaia d’anni essa fu ammessa nella nomenclatura dei fiumi: nei diplomi imperiali di dieci secoli fa è chiamato flumen, e
Mosè del Brolo otto secoli or sono nel suo Pergaminus cantava: “un fiume a cui di Morla han dato il nome”.

Nasce dal Monte Solino, alle pendici del Canto Alto, e dal Col di Ranica, propaggine della Maresana, e all’altezza di viale G. Cesare riceve il contributo del torrente Tremana; del Gardellone riceve soltanto le acque di sfioro, e ciò da quando, nel 1950, per evitare che la Morla esondasse in città in caso di abbondanti piogge, tale torrente fu deviato direttamente al fiume Serio in territorio di Torre Boldone.

Come facilmente intuibile, la  portata della Morla è largamente dipendente dagli apporti meteorici.

Dopo aver attraversato, con andamento meandriforme, Sorisole, Ponteranica e Bergamo, la Morla assume un andamento quasi rettilineo, delimitando il perimetro comunale a est e lambendo il Corpo Santo di Campagnola a sud.

Oggi l’alveo attivo del torrente Morla scorre in una direzione completamente diversa rispetto al passato, in seguito ad importanti interventi di rettifica e canalizzazione.

Lasciata la città, la Morla attraversa Azzano S. Paolo, fiancheggiata lungo le rive da un’ampia fascia boschiva, procede verso Zanica, segnandone i poderi con le antiche linee di confine, ed infine raggiunge Comun Nuovo, dove si dirama in canali minori: una parte piega verso sud, accompagnata da un’interessante fascia alberata, per poi dividersi i in altre diramazioni che irrigano i campi al di sopra della Strada Francesca. La parte finale si disperde infine nel sistema irriguo di Spirano e zone limitrofe (elaborazione grafica su mappa tratta da Mapire)

Anticamente, il paleoalveo della Morla, documentato al XIII secolo, raggiunta la città di Bergamo a est, dopo aver compiuto un’ampia curva che la evitava proseguiva verso la zona dell’insediamento dell’ex-Gres di via S. Bernardino (ed esattamente a ovest di tale insediamento industriale),  continuando poi in direzione di Grumello del Piano. Da qui si disperdeva in una zona acquitrinosa con altri corsi d’acqua provenienti dalle pendici collinari occidentali.

Nell’area compresa tra la ferrovia e l’area dell’ex-Gres (via S. Bernardino), si possono ancora chiaramente riconoscere le tracce dell’antico corso della Morla: un tracciato ampio fino a qualche decina di metri, delimitato da due principali scarpate e da una serie di terrazzamenti che segnano l’area di influenza del torrente durante gli episodi di esondazione. “Fino agli anni Ottanta del secolo scorso i tratti del paleoalveo venivano sfruttati, sia per la natura limosa dei terreni che per la loro pendenza costante, per realizzare le marcite, tipico sistema di coltivazione lombardo, costituito da prati stabili irrigati con un velo continuo d’acqua perché seguitino a vegetare per permettere tagli d’erba, anche fino a 8-10 nella stagione fredda (Galizzi, 2012)”. Tale morfologia è ancora parzialmente presente nel disegno dei pochi campi agricoli ancora esistenti (Il paleoalveo del torrente Morla).

L’antico percorso della Morla venne deviato nel Duecento per irrigare nuovi campi bonificati, e nel 1253 il Municipio di Bergamo “alienò parte dei suoi terreni a sud di Campagnola e li affidò a ricche famiglie aristocratiche (tra cui i Suardi e i Grumelli) che li gestirono e li coltivarono destinando la produzione di fieno e ortaglie alla città. Le tracce di tale operazione permangono oggi nei designatori, con la presenza della via dei Prati, a Campagnola, che corre ancora oggi lungo la roggia. Successivamente lo stesso schema della bonifica venne applicato per la fondazione del centro di Comun Nuovo, situato qualche km a sud di Colognola in direzione di Caravaggio” (Il paleoalveo del torrente Morla).

Nei tempi antichi la Morla costituiva una fonte di vita per gli abitati che lambiva.
Durante il periodo medioevale la stessa città di Bergamo ricorreva alle sorgenti della collina per i propri bisogni idrici e domestici, ed ancora in tempi più recenti, almeno fino alla prima metà del XX secolo, la Morla fu utilizzata per fini domestici, in primis per lavare i panni, in quanto le sue acque erano dotate di una grande limpidezza.
Le persone più anziane ricorderanno certo con nostalgia i tempi in cui la Morla pareva “acqua sorgiva”, al punto tale che le massaie utilizzavano la sua acqua per lavare la biancheria, che stendevano sulle rive e nei prati ad asciugare e che, secondo l’esperienza di allora, con la luce ed il calore solare acquistava maggiore candore.
Inoltre, il suo alveo, adagiato su uno strato impermeabile argilloso, permetteva l’estrazione agli inizi del secolo di un’eccellente qualità di argilla (“unica nel suo genere”), con la quale venivano fabbricate stoviglie fra le migliori della Bergamasca.

La Morla lungo la sua storia causò grossi guai, paurosi straripamenti, inondazioni e vittime, ricordate in una lapide risalente all’epoca della dominazione veneta, affissa sulla facciata di una ex chiesetta costruita sul suo argine in località “Scuress” (Ponteranica).

Particolare tratto dall’aerofotografia della Città di Bergamo del 1924. La Morla, ancora scoperta, nell’area prospiciente lo scomparso edificio noto come “Nave”, in via Pitentino 1. La “Nave” guadagnò tale denominazione per la sua caratteristica forma

 

La Nave di via Pitentino (fotofrafia Rinaldo Della Vite) tratta dal libro di Don Francesco Garbelli

La Morla infatti è un torrente dal corso tortuoso con il fondo lastricato di rocce cenericce e sfaldabili chiamate  Sass de la Luna: quando è in secca non ci si accorge della sua esistenza, mentre in occasione di abbondanti precipitazioni si sveglia e può diventare pericolosa.

La Morla a Valverde. Fotografia di Carlo Scarpanti

 

La Morla a Valverde. Fotografia di Carlo Scarpanti

Le calamità naturali legate alle esondazioni della Morla sono ricordate dal poeta bergamasco Mosè del Brolo e dal Mazzi nella sua corografia bergomense. Quest’ultimo scriveva: “Il torrente provenendo dalle alture di Ponteranica, corre vicino alla città dalla sua parte orientale e se non è infelice esagerazione di poeta, si può credere che negli antichi tempi recasse non pochi guasti alle vicine campagne, giacchè di esso canta il nostro Mosè: Prossimo al Monte cittadin trascorre, un fiume a cui di Morla han dato il nome, e crudelmente le campagne inonda”.

Ricordiamo anche gli enormi guasti arrecati alla città di Bergamo, e in particolare a Borgo S. Caterina e Borgo Palazzo, nella primavera del 1936, quando persero la vita due persone.

Il cronista di allora così scriveva su “L’Eco di Bergamo”:
“il 3 maggio 1936 nel tardo pomeriggio dopo una giornata afosa si avevano i prodromi di un temporale proveniente da est e che è stato veramente impressionante.
La zona fortemente colpita è stata Borgo S. Caterina tanto che oltre alle case e cantine allagate le ossa del vecchio cimitero di Valtesse affiorarono sul terreno.
Questo grave episodio è stato determinato dallo straripamento dei torrenti Tremana e Gardellone, confluenti del Morla. Essi sono alimentati dal bacino imbrifero del Canto Alto da un lato e dalla zona collinare dall’altro.
Un fenomeno del genere si è avuto nel 1932 ma meno grave, perché avvenuto in un periodo di siccità mentre questo a seguito di continue piogge…”

Accanto a quella tragica del 1936, la storia della Morla registrò altre drammatiche piene, e tra queste, quella del 1896, del 1932, del 1937, del 1940, del 1946, del 1949 e del 1976.
In quelle occasioni si accesero discussioni, polemiche, dibattiti, volti a porre rimedio a queste calamità, studiando quindi una soluzione definitiva.
Dopo numerosi progetti si decise di canalizzare parte del corso cittadino del fiume, coprendone alcuni tratti. L’opera, che comportò ingenti sforzi non soltanto economici, si concluse nei primi anni sessanta modificando definitivamente la natura del torrente.

Via Cesare Battisti fiancheggiata dal torrente a cielo aperto

 

La “Nave” dopo la copertura della Morla. L’edificio venne abbattuto nel 1985, per far posto all’attuale parcheggio

La zona maggiormente interessata fu Borgo Santa Caterina, che vide scomparire totalmente il corso d’acqua che ne aveva caratterizzato la storia, posto sotto il manto di nuove strade e piazzali, su cui venne costruito anche il nuovo palazzetto dello sport della città.

Il Palazzetto dello Sport in costruzione. Proprietà Archivio Wells

 

La “Nave” e sullo sfondo a destra il Palazzetto dello Sport in un disegno a carboncino di A. Gritti, eseguito nel 1970 e rinvenuto in un mercatino

Venne quindi eliminato anche il caratteristico ponte di Borgo santa Caterina, da secoli delimitazione territoriale del quartiere stesso.

Il Ponte di S. Caterina nel 1910. Il tracciato delle Muraine seguiva l’andamento del muro che delimitava l’alveo del torrente dal lato di via Cesare Battisti, fungendo anticamente da fossato difensivo. La via Pitentino (a destra) era esterna alle mura dei borghi. Il massiccio muro verso la Morla serviva per proteggere le abitazioni della zona dalle piene del torrente, causa frequente di notevoli danni. Il vecchio cancello daziario e gli edifici annessi, erano già stati demoliti, ed è anche scomparso il ponte di vecchie pietre sopra il torrente, ora scavalcato da un ponte in cemento. Sono però visibili gli archi del ponte originario. Nel 1962 la Morla fu coperta anche nel tratto da S. Caterina al largo del Galgario

Un altro tratto in cui il torrente venne nascosto alla vista della città fu immediatamente dopo il ponte di Borgo Palazzo, per riemergere dal buio in prossimità della stazione ferroviaria, sotto la quale scorre l’ultimo tratto sotterraneo.

A seguito di questa grande opera il torrente venne relegato ad un ruolo sempre più marginale, tanto che col passare del tempo venne considerato sempre più una sorta di discarica a cielo aperto.

La Morla in via Battisti in un’immagine antecedente la copertura della Morla e la costruzione del Palazzetto dello Sport, inaugurato nel 1965. Sullo sfondo si individua l’edificio della “Nave”

 

La Morla nel 1960, tra via Cesare Battisti e via Pitentino (scattata da sud): una fogna a cielo aperto coperta nel 1962

 

Un immagine non molto dissimile dell’area, nel periodo in antecedente la copertura del torrente e la costruzione del Palazzetto dello Sport. Proprietà Archivio Wells

Soltanto con l’avvento del XXI secolo cominciò a verificarsi una nuova presa di coscienza da parte dei cittadini e delle autorità, che hanno posto la Morla al centro di un’opera di recupero ambientale. A tal riguardo è nato anche un Parco Locale ad Interesse Sovracomunale (PLIS) volto alla tutela ed al rilancio delle aree della pianura bergamasca interessate dal corso della Morla e dalle rogge da essa derivate.

L’arcata del vecchio Ponte di Borgo S. Caterina, immortalata nei primi mesi del 2013 in occasione del rifacimento della copertura stradale

La Morla fu  immortalata nei diplomi regii e imperiali, poiché diede il nome alla Corte regia di Borgo Palazzo: è noto infatti che con i  Longobardi  il territorio cittadino venne riorganizzato nel sistema curtense venendo diviso in due Corti Regie: una corte si trovava nella “civitas” (la città sul colle) e un’altra nella “curtis Murgula” (l’attuale città bassa), a sancire quella suddivisione fra le “due” città che  ancor’oggi sopravvive.

Il Lupi, che nel 1780 scriveva : “la corte Morgola… presso al fiume che fino ad oggidì porta lo stesso nome, in quel luogo che ora è detto Borgo Palazzo”, spiega che la curtis era un possedimento, o vasto feudo, appartenente a qualche particolare famiglia, la quale aveva la propria abitazione in forma di castello o di palazzo, con adiacentei alcune case per la  servitù o coloni addetti alla coltivazione dei terreni che si estendevano intorno ai fabbricati: il castello di Malpaga e le abitazioni che lo circondano possono rendono l’idea di cosa fossero le corti.

La Curtis regia era invece proprietà di un re o di un imperatore e talvolta abbracciava un villaggio (vicus) o anche un insieme di villaggi (pagus); aveva ampi fabbricati, che dimostravano la potenza e la dignità regia. In città la curtis regia era ubicata nell’area attualmente occupata dalla fontana di San Pancrazio.

Ora, la curtis: “… quae vocatur Morcula in comitatu Pergamo”, appare per la prima volta in un diploma dell’875 di Lodovico re di Germania; in questo documento si menziona l’esistenza di una corte Morgula o Murgula –  poichè essa era dislocata lungo il corso del fiume Morla -, situata nei pressi di un Palatium imperiale, nella parte bassa di Bergamo. Un palazzo destinato alla residenza degli imperatori di passaggio nei loro viaggi nelle provincie italiane.

Il ponte sul rio morla in Borgo Palazzo (1885 circa). Raccolta D. Lucchetti. Borgo Palazzo, secondo il Lupi, trae il suo nome dal palazzo imperiale che la corte longobarda aveva in quella località

La curtis Murgula era di proprietà dell’imperatore Ludovico I, che la donò, con la corte di Almenno, alla nipote Ermengarda.

Successivi atti attestano il passaggio della corte Morgula a Berengario, che l’avrebbe poi ceduta ad Adalberto – il vescovo di Bergamo -, insieme al mercato di S. Alessandro e al prodotto dei dazi.

Fonti

http://www.comune.ponteranica.bg.it/territorio/maresana.php
http://it.wikipedia.org/wiki/Morla_(torrente)#cite_ref-0

IL TORRENTE MORLA. CARATTERI, VALORI, PROSPETTIVE
Saggi di: Lelio Pagani, Andrea Tosi, Moris Lorenzi, Gian Pietro Armanni, Fabrizio Conti, Renato Ferlinghetti, Fulvio Caronni, Silvano Ceresoli, Mario Di Fidio, Claudio Merati, Piervincenzo Scalpelli, Stefano Stecchetti, Graziano Vitali.

Il paleoalveo del torrente Morla

Provincia di Bergamo

Per la mappa storica: Mapire – le mappe storiche dell’impero asburgico, con Bergamo e provincia mappate nella seconda indagine militare (1806-1869).

I Laandér dè Paladina: la loro breve storia e il ricordo di Anna Rosa Galbiati

Donne al lavoro in un lavatorio della Bergamasca, 1963 – Foto e proprietà Gianni Gelmini

Seconda puntata (per la puntata precedente, clicca qui)

Quello delle lavandaie e dei lavandai, lavoro faticoso ed “usurante” che i bergamaschi praticarono in gran numero nei decenni passati, è uno dei mestieri dimenticati di cui rimangono tracce nell’architettura urbana e rurale della nostra città e provincia.

Ancor prima del sorgere del sole, in qualsiasi stagione dell’anno, le lavandaie si recavano con carretti ricolmi di ceste di panni sporchi presso i lavatoi che sorgevano in alcuni angoli di piazze e rioni e, prima ancora, presso i torrenti e i canali, dove i canti e il chiacchiericcio di donne di ogni età si accompagnavano al battere dei panni sulla pietra e al profumo della “lisciva”.

Intenerisce pensare alla semplicità di coloro che svolgevano un mestiere tanto faticoso: possiamo solo lontanamente immaginarne i desideri e i sogni, la quotidianità, le difficoltà del lavoro, degli amori, della loro mancanza di istruzione.
Uno spaccato significativo di questa ormai lontana realtà è rappresentata dai “lavandai di Paladina”, il piccolo comune della Val Breno, situato sulla sponda sinistra del fiume Brembo all’imbocco della Valle Brembana.

Qui, per più generazioni, moltissime famiglie si sono dedicate a lavare la biancheria di tutto il Capoluogo; una tradizione che, per la verità, continua anche ai giorni nostri grazie a tre famiglie che si sono tramandate di padre in figlio il mestiere, e che ora gestiscono altrettante lavanderie industriali completamente automatizzate, dando lavoro a qualche decina persone.

E dunque, insieme ad un veloce excursus storico, riporto con piacere un breve racconto di Anna Rosa Galbiati che descrive amorevolmente l’arrivo – come accadeva ogni primo lunedì del mese in Città Alta – dei famosi Laandér dè Paladina: un evento – o meglio un avvenimento – attesissimo dai bambini di allora e ricordato con vivida memoria ed emozione: un’occasione per calarsi nell’atmosfera di allora attraverso una piccola, ma non meno preziosa, carrellata di immagini che ritraggono una parte dell’antica Città alta fra Otto e Novecento.

Nella zona delle Ghiaie, frazione di Paladina (1) affacciata sul fiume Brembo, già dalla seconda metà del 1700 alcune famiglie del luogo traevano sostentamento dal mestiere di lavandai, divenuto una vera e propria attività per molti abitanti di Paladina. allorchè, nel 1894, il gruppo industriale tessile svizzero Legler Hefti e C., dovendo produrre energia elettrica per lo stabilimento di Ponte San Pietro, costruì sul letto della preesistente roggia (2) l’attuale canale, offrendo così la possibilità ai lavandai, dietro stipula di una concessione, di sfruttarne l’acqua.

(1) La conformazione morfologica di Paladina si divide sostanzialmente in due parti: la prima, quella dove sorge il nucleo storico, si trova su una balza a circa 40mt. sopra il livello del fiume, la seconda, denominata Ghiaie, si trova ad un livello prossimo a quello del fiume.

(2) La frazione delle Ghiaie fino alla seconda metà del 1700 era conosciuta e nota per i due mulini che venivano alimentati dall’acqua della roggia Benaglia, che nasceva dal Brembo e che correva parallelamente ad esso, per poi ricongiungersi circa 2 km più a valle.

Rilievo di Paladina nel 1810 – Dipartimento del Serio (Archivio di Stato di Bergamo)

La successiva costruzione dei fossi, conducendo l’acqua direttamente nei lavatoi delle abitazioni, contribuì fortemente ad agevolare l’attività nella zona delle Ghiaie, dove, negli anni a seguire, fiorirono molte lavanderie nelle quali, oltre alle donne, anche un consistente numero di uomini occupava un ruolo di rilievo.

Fu nel periodo a cavallo tra il primo ed il secondo conflitto mondiale che i lavandai di Paladina si fecero conoscere sempre più nella vicina città di Bergamo, e, grazie agli stagionali, anche nelle più rinomate località di vacanza quali S. Remo, S. Pellegrino, Courmayeur, Bellagio, Stresa, Venezia ed altre ancora.

Con il boom economico, negli anni ’50 del secolo scorso la diffusione sul mercato delle lavatrici, l’apertura in città delle prime lavanderie, nonché l’occupazione in fabbrica (più remunerativa), decretarono il declino del secolare mestiere dei lavandai.

Le nuove generazioni dapprima svolsero la doppia attività, di lavandaio e di occupazione nell’industria, per poi abbandonare definitivamente la prima.

Principalmente quattro erano gli strumenti di lavoro che si trovavano nelle antiche lavanderie, dette “laandère”.

La pietra era solitamente una lastra di arenaria cavata nelle vicinanze appoggiata davanti alla buca e veniva usata come piano di battitura della biancheria.

La buca permetteva al lavandaio, una volta entrato, di battere la biancheria sulla pietra e sciacquarla nell’acqua corrente più agevolmente.

La vasca solitamente era situata vicino alla caldaia e serviva per mettere in ammollo la biancheria con la lisciva.

La caldaia era l’elemento importante, se non il più importante, perché serviva per produrre la lisciva, l’unico detergente che si conoscesse al tempo; aveva una forma circolare composta di materiale refrattario, con un diametro di circa 100/120 cm, ed era suddivisa in due parti. Nella parte più bassa della prima si trovava il bracere che veniva alimentato con i trucioli della lavorazione del legno, nella parte superiore della seconda c’era il contenitore in rame a forma di paiolo dove veniva scaldata l’acqua e successivamente sciolta la lisciva.

La settimana lavorativa del lavandaio iniziava il lunedì con la raccolta e la consegna della biancheria presso i clienti (le cosiddette “poste”). Caricavano sulla carrola biancheria pulita, con l’ausilio dei carrettieri, e, tutti insieme, una volta ritrovatisi nella piazza di Paladina partivano verso la città.

Molti anziani dei paesi d’intorno ed in città ancor’oggi ricordano le lunghe file di carri che percorrevano le strade e i quartieri cantando in allegria, forse anche perché questo era il giorno in cui raccoglievano i frutti del lavoro svolto la settimana precedente.

I clienti provenivano dalle più svariate categorie: dalle famiglie benestanti ai conventi, dalle caserme alle carceri, tutto era buono per racimolare qualche soldo.

A partire dal martedì i lavori da svolgere erano tanti; si iniziava con la segnatura dei panni (ogni cliente aveva un suo segno distintivo di riconoscimento), a seguire la suddivisione della biancheria chiara da quella scura, per proseguire con il lavaggio, l’ammollo, la battitura, il risciacquo, la stenditura ed infine la ripiegatura e l’insacco.

L’attività del lavandaio risultava essere molto faticosa; infatti, oltre al dover stare sempre a contatto con l’acqua per tutto l’arco dell’anno e con ogni situazione metereologica, lo stesso correva sempre il rischio di essere contagiato dal contatto con la biancheria sporca. A ciò si aggiunga che l’acqua potabile alle Ghiaie arrivò solo nel 1927; facile quindi immaginare i rischi conseguenti.

Si ricorda a tal proposito l’epidemia di colera scoppiata il 16 Agosto del 1884; il primo decesso fu proprio quello della lavandaia Melania Benaglia, e durante tutta la durata dell’epidemia  i lavandai infettati furono 20, dei quali 11 perirono.

“I Laandér dè Paladina” nel ricordo di Anna Rosa Galbiati

Fine ‘800: via Porta Dipinta con la chiesa di S. Andrea osservate del Pozzo Bianco (Raccolta Lucchetti)

ll primo lunedì di ogni mese si attendeva con eccitazione l’arrivo dei lavandai di Paladina, con il loro carico di sacchi di biancheria pulita, lavata nelle acque del Brembo e stesa ad asciugare sulle rive del fiume.

La scoscesa via Porta Dipinta all’altezza della chiesa di S. Andrea, in una vecchia fotografia

Erano per lo più lenzuola e coperte bianche, che i proprietari contrassegnavano con delle cifre rosse.

Noi bambini ci mettevamo ad attendere i lavandai davanti alla stazione della funicolare, dove confluisce la via Porta Dipinta.

Fine Ottocento: la stazione della Funicolare in piazza Mercato delle Scarpe, ricavata dal cortile del trecentesco palazzo Gritti, già Suardi

L’arrivo dei “laandér” era annunciato dal rumore fragoroso delle ruote dei carri sull’acciottolato, dallo scalpitare degli zoccoli dei cavalli e dalle grida di incitamento dei lavandai.

La ripida salita metteva a dura prova quei poveri cavalli, che annaspavano ansanti, scivolavano, si piegavano sulle ginocchia, agitando la testa con la bocche spalancate in spasimi di fatica e con le froge fumanti e dilatate. Erano dei superbi cavalli da tiro, delle bestie dal corpo robusto, dal collo lungo e muscoloso, con fianchi e garresi poderosi. Avevano la criniera e la coda fulve, gli zoccoli nascosti sotto un folto pelame.

Non ho più rivisto cavalli così belli e imponenti!

Dalla Raccolta D. Lucchetti, con la seguente didascalia: “Questi carretti potrebbero essere quelli dei lavandai (forse gli ultimi a sparire)”

I cavalli tiravano le carrette con tutte le loro forze, aiutati da robusti carrettieri e da donnone imponenti, con il grembiule bianco. Uno teneva i cavalli per le briglie, altri facevano forza sulle ruote, le donne spingevano i carretti da dietro, per evitare che arretrassero.

Il punto più faticoso e difficile era la parte ripida dove via Porta Dipinta incrocia via Rocca, perché la pavimentazione era più liscia e scivolosa.

A fatica e con nitriti che sembravano grida di disperazione, finalmente i cavalli raggiungevano la piazzola e potevano riposarsi.

Erano talmente agitati e provati dall’immane sforzo che tutti i muscoli del loro corpo, in tensione, sbattevano come corde di un’arpa e ci voleva un po’ prima che si distendessero.

Appena arrivati, i lavandai coprivano subito con coperte i loro cavalli, bagnati di sudore, e mettevano sotto il loro muso un sacco con del fieno, quale giusto premio alle loro fatiche. I cavalli poi, come si rilassavano, cominciavano a fare pipì, ma tanta e poi tanta che per noi bambini divenne un gioco seguire quella scia di liquido giallastro e schiumoso, simile alla birra, giù per via Porta Dipinta, e vedere fin dove arrivava.

Mentre noi bambini eravamo attratti dalla pipì dei cavalli, alcune donnette, con paletta e secchiello, aspettavano che i cavalli facessero la cacca, poi correvano subito a raccoglierla, ancora calda, per usarla come concime.

Via Porta Dipinta in una fotografia scattata prima del 1935: in primo piano la casa abbattuta per evidenziare l’antica Torre Sub Foppis e per liberare la visuale verso la Fara (Raccolta Lucchetti)

I lavandai e le lavandaie, anche loro trafelati per la fatica, si riposavano un po’, poi si caricavano sulle spalle quattro o cinque sacchi, si dividevano per le varie vie per consegnare la biancheria pulita e ritornavano con sacchi di biancheria sporca.

Alfonso Modonesi – Città Alta, Bergamo, 1960-1970. In: “Fogliò”

Ricordo ancora bene le figure di quelle donnone con i loro grembiuloni bianchi, le trecce arrotolate sulla nuca e le belle facce rubiconde, erano delle virago, robuste e forti come degli uomini.

Terminato il giro e ricaricati i carri, i cavalli venivano ripresi per la cavezza, tenendo a bada il loro ardore. Poi, cominciava la lenta discesa, faticosa come la salita, anzi peggiore, perché c”era il rischio che il carro scendesse all”impazzata e si schiantasse contro qualche casa.

Attenti, seguivamo i “laandér” lungo il difficile percorso fino alla curva e restavamo a guardarli mentre si allontanavano, finché non sentivamo il rotolio fracassoso delle ruote del carro che passava davanti alla chiesa di Sant’Agostino.

Primi del ‘900: la chiesa di S. Agostino (edificata dal 1290 al 1446) con annessa l’omonima caserma (Raccolta Lucchetti)

 

Vai alla terza puntata

 

Per la parte storica: Presepe dei Lavandai – Paladina e i suoi Lavandai.

Per il racconto: Anna Rosa Galbiati, “Acquarelli Bergamaschi” (Sistema Bibliotecario Urbano – Biblioteca circoscrizionale Gianandrea Gavazzeni, Piazza Mercato delle Scarpe – Città Alta).