Le frasche sui Colli di Bergamo: interludio di Primavera

La “Bergamo così” di Geo Renato Crippa è uno scrigno di testimonianze che ci restituiscono, mirabilmente, il ritratto di una Bergamo “minore” – in contrapposizione alla Bergamo “potente” – ormai scomparsa. insieme ai più caratteristici personaggi, vengono descritti i luoghi, le consuetudini, il carattere, il sentire di un mondo perduto, semplice e proprio per questo ricco di suggestioni. Non poteva mancare una pagina dedicata alle “frasche”: quelle bucoliche cascinette che punteggiavano qua e là i dolci pendii dei Colli facendo capolino in angoli felici, sempre pronte ad allietare i giorni di festa o i più tranquilli pomeriggi. Ne sento ancora i profumi, la quiete; ne rivedo gli scorci, i colori, insieme ai volti a me più cari e alle combriccole di un tempo. Ricordo i ritornelli cantati a squarciagola, il profumo di quel “mazzolin di fiori” legato da uno stelo; le verdi distese dove lo sguardo vagava trasognato e lo spirito si ritemprava. E ancora, il sapore fragrante del pane o del latte appena munto, del cibo semplice e genuino, ancor più buono dopo una lunga passeggiata. La bellezza che sa rigenerare, la magia dell’infanzia e della scoperta e l’unicità di un mondo che oggi possiamo almeno in parte ritrovare, miracolosamente, solo laddove la mano e l’avidità dell’uomo non sono giunte ad intaccarne la primitiva purezza.

Delle “frasche”, specie d’osterie stagionali, disperse nelle campagne collinari bergamasche dove sorride il vigneto, ne esistevano e ne esistono a diecine. Di esse la notizia si perde nei secoli.

Chi le abbia inventate impossibile stabilirlo, forse non si erra dicendole “specialità” di mezzadri avvertiti, di piccoli proprietari preoccupati di vendere vino di loro produzione, fattori avveduti consigliati da mediatori e sensali intraprendenti.

Valmarina

Nell’intenzione di tutta questa gente, la gestione primaria consisteva nel godimento fuori dagli occhi dei curiosi o magari, la sollecitazione di togliersi dai rumori e dai travagli, in luoghetti solatii, all’aria buona e profumata al massimo, negati a cautele e pregiudizi di sorta. In verità qualche cosa di magico subbugliava intorno a realizzazioni di tanta attraenza e di sicura comodità.

Bastava innalzare, ai bordi di una stradetta o d’un viottolo, un ramo tagliato lungo, da un albero qualunque, e la “frasca” era fatta.

Da Valverde

Di solito la scelta cadeva su una di quelle “cascinette” nascoste nei coltivi. La si arrangiava alla buona con tre o quattro rozzi tavoli, una diecina di sedie, dapprincipio quasi sempre all’aperto dove, sotto una o due piante di noce, l’ombra non disturbasse i probabili avventori.

Nessun apparato convenzionale ma quel raro senso del rustico discreto e pulito che certe volte richiama e soddisfa.

Nel disporre, al meglio ed in modo adeguato, il “posticino”, serviva quella malizia contadina insuperabile nell’escogitare comodità attraenti se pure di una semplicità dosata e linda.

Da Castagneta

In quanto ad ornamenti nemmen pensarlo. Qualche gabbia, con i soliti merli o tordi, appesa accanto alla porta, dei vasi di fiori comuni, nient”altro se non attrezzi: falci, rastrelli, zappe, insomma ferri del mestiere.

Dalla Ripa Pasqualina

Ciò che si assicurava, al di sopra di ogni pregiudizio, era sulla sincerità del vino, proprio del luoghetto, e per chi desiderava uno spuntino, la sicurezza di un salame verace, di uova fresche, di formaggi e stracchini casalinghi, soprattutto di insalate, lattughe e radicchi, dell’orto sistemato al solivo e curato oltre ogni dire.

Altro non poteva essere offerto se non al tempo degli asparagi nostrani, delle fragole pregiate, di qualche ciliegia e di, ormai, rarassime pesche, sempre che la annata fosse favorevole.

Lo Scorlazzino

Chi desiderava portarsi, da casa, “roba” per una merenda, nulla da eccepire; alla “frasca” avrebbero dato il vino, le gazzose, un bel bicchierone di latte appena munto, una fetta di polenta, dei peperoni sott’aceto puro, specialità controllabile.

Nessuna preoccupazione, dunque; la accoglienza sarebbe stata buona, alla mano.

Chi desiderasse una tovaglia o dei tovaglioli chiedesse pure, andava ugualmente bene.

Lo Scorlazzino

I colli di Bergamo sono veramente una bellezza rara.

L’ampio paesaggio che li circonda aggiunge alla loro avvenenza una grandiosità stupenda. I declivi dolci educano ortaglie, dove l’architettura trama i pregi di linee e piani di una ambientazione miracolosa.

Dalla Scaletta delle More

La poesia, mai dominatrice, vi è dunque, quasi in umiltà, presente e savia.

Centinaia di cascinali, di brevi fattorie, di ville padronali non azzardate di lussi, rendono l’ambiente favorevole alla vista e allo spirito.

Niente sui colli di Bergamo ed intorno ad essi è confusione. Le varietà delineano una natura parlante ed umana.

Strade, tracciate con gusto, li percorrono insinuanti e certune, quasi aeree, dalle quali si dipartono scalette e sentieri fortunosi.

Verdi beati, feriti da boschetti ed infiorate, rallegrano l’atmosfera mai sazia di stupire.

Se raggiungere queste serene alture fu beneficio di passeggiate interminabili, la “trovata” delle “frasche” rese completezza alle previsioni ed alle speranze di trascorrere giornate allettanti.

Sopita l’idea di caricarsi di cento pacchi di provviste, la decisione a salire fuori porta divenne non impresa ma pensiero sufficientemente valido.

Gruppi, gruppetti, intere famiglie, associazioni con o senza vessilli, studiarono come studiano i fine settimana, o le domeniche, dove trascorrere in fantasia ed in “furia”.

Altri opponevano all’incontro di uno sterrato, di un praticello gradito agli spassi della ragazzaglia. I ragionamenti duravano giorni e giorni fra indecisioni e clamori.

Le preferenze decidevano per i giorni festivi, le occasioni, gli anniversari, le prime comunioni, realtà anche dell’oggi non accetto a facili turbamenti.

Partenze al mattino, calcolando esatta l”ora per arrivare un po’ avanti al mezzogiorno. Spedire una staffetta al fine di fissare un tavolo risultava perfetto.

Le donne non mancavano di preveggenza. Giungere accaldate e rosse di sudore avrebbe roso i primitivi entusiasmi.

Mai imbastita alla leggera la camminata, pur riuscendo qulche volta tormentata, procurava, sempre, un qualchecosa di nuovo, di insospettato, di stregato.

Occorreva disciplina, badare a starsene raccolti, a non perdersi in quisquilie, in reclami, indulgendo in soste ripetute.

Lungo i Torni

Sessanta, settanta, cent’anni fa andare allo sbaraglio non condizionava rischio o pretesa, anzi il non sapere affatto dove stare procurava curiosità e stordimento.

Chi consigliava a destra chi, sapiente, decideva verso un “posticino” di sua conoscenza, nelle vicinanze del quale sprizzava una fontanina d’acqua gelida e salutare.

Al panorama si sarebbe pensato appresso, dopo d’essere ben rifocillati e riposato scalzi alle brezze profumate, nella calda estate, di fieni e di quante erbe, odoravano strane e distinte.

Dal Sentiero dei Vasi

Rumorose tavolate invadevano le “frasche”. Impossibile chetarle. La bella giornata picchiava nei cervelli.

I richiami stordivano le padrone e i padroni impauriti ad oltranza. Chi desiderava una cosa, chi un’altra, un terzo, mai sazio, reclamava, dalla moglie e dalle figlie, dell’altro affettato, poi del pane, un ultimo sbraitava con i ragazzi inquieti e vocianti; in fondo all’aia si ampliavano canti e rampogne mentre un cane non finiva d’abbaiare al coro.

Le libagioni documentavano arsure festaiole, il vino correva a pinte, servito in boccali di maiolica decorati da scritte umoristiche; se c’erano l”anguria o il melone la gazzarra aumentava al minimo scatto ed il baillame inferociva soprattutto in quanti, presi nella farragine delle grida e dei berci, perdevano il gusto a librarsi a gioie familiari in piena libertà.

Fioriture verso Castagneta

Di notte, mentre all’orizzonte balzavano leggeri chiarori, i “trattori”, istupiditi dalla stanchezza, imploravano ristoro e silenzio.

Dal Santuario di Sombreno

Eppure sostare alle “frasche”, nei giorni feriali, del chiaro settembre, alla maniera di un cacciatore o d’un sognatore sereno, procurava, inutile precisarlo, momenti, anche se romantici, di timida letizia.

La realtà perdeva il suo carattere lasciando scorrere nelle vene estri inconsueti.

I migliori avventori, quelli d’intelligenza generosa, godevano nell’umiltà di un fascino domestico, il giogo di certa solitudine riverente.

Da Castagneta

Non stordiva il tramestio della cucina appena discosta, il battere d’un falcetto sulla siepe, il chiacchierio del pollaio, e nemmeno una voce perduta lontano.

Era tutto un mondo diventato, in quegli istanti, di una naturalezza monda di stramberie, di dissensi e di contestazioni vane.

Solo l’accostamento ad interessi virgiliani, al fremere della terra, alla tessitura, mai aspra, delle opere feconde, mobilitava vieppiù quell’ambiente mai stanco di sollevarsi nella giocondità impercettibile ma decifrabile solo ai moti del cuore.

 

Da Geo Renato Crippa, “Le frasche sui colli”, in: Bergamo così (1900-193??).  Banco di Bergamo – Editore. Bergamo, 1980.

Fotografie di Roberto Bezzi

Ricordi di Città Alta dalla penna di Anna Rosa Galbiati: “Partenza per Bergamo” e “La via Rocca”

Prima puntata

PREMESSA
Ho sempre nel cuore i magici giorni vissuti da bambina nella vecchia Città Alta, giorni che rappresentano un tesoro di emozioni, di immagini e di poesia ancor oggi palpitanti. La vita in Città Alta si svolgeva segreta e silente tra le vecchie pareti di roccia. Le stradine ripide e sassose erano percorse da dignitosi vecchietti, testimoni ed eredi di antiche tradizioni e di mestieri perpetuati con ignara sacralità. Vecchi, che vivevano abbarbicati alle loro Mura come l’edera d’estate, vecchi che erano l’espressione dello spirito genuino, ora perduto, della Città. Spiriti che non riconoscerebbero più le loro pietre, i loro anfratti, i loro segreti cortili, anime vaganti cacciate dal loro nido e dalla loro storia. Anime trapassate, ora rievocate. Non nomi illustri o prestigiosi personaggi, ma uomini e donne, semplici popolani, che si muovevano al ritmo delle campane. Ogni rintocco regolava il quieto vivere quotidiano nelle austere case e nelle vie della Città, da secoli intatta e incontaminata, aliena dal chiasso, dalla frenesia e dalle mode. Non solo i grandi lasciano tracce indelebili nella storia, ma anche gli umili con le loro sofferenze, la loro dignitosa rassegnazione e la loro scanzonata ironia. Veri depositari dello spirito del loro tempo e della loro Città. Oggi, le pietre ripulite e i portoni chiusi, vietano ai fantasmi del passato di ritornare ai loro nidi, di rivelare i loro segreti e di rivendicare la loro Storia, ma io, timidamente, cercherò di scavare nella mia memoria, per riportare alla luce le loro immagini, affinché non svaniscano nel nulla. Sono ricordi sfumati e sbiaditi dallo sciacquio del tempo, ricordi di una bambina che assorbì la vita di Città Alta nella sua genuina essenza e di cui, oggi, sente nostalgia e rimpianto. Bello sarebbe che altre testimonianze si unissero alle mie infantili reminiscenze per perpetuare nel tempo la memoria degli antichi spiriti bergamaschi.

Maggio 1999 – Anna Rosa Galbiati

PARTENZA PER BERGAMO

Piazza Mercato delle Scarpe – Racc. Lucchetti

Ogni anno aspettavo con trepidazione la fine della scuola per poter trascorrere le mie vacanze dai nonni in Città Alta.
Il giorno della partenza era sempre esaltante e concitato per i preparativi, come se avessi dovuto fare un lungo viaggio. La mamma preparava la valigia con i miei indumenti ed io riempivo la mia cassettina di legno con dei padellini, gli abitini della bambola e tutti i miei gingilli per giocare.
La mamma con la valigia in mano ed io con la mia cassettina da una parte e la bambola dall’altra, andavamo a prendere “ol gamba dè legn”, il mitico tram che arrivava da Monza e portava a Bergamo.
Alla fermata di Dalmine, dove abitavo, una nuvola di fumo nero che avanzava avvertiva che il treno stava arrivando. Io provavo sempre una grande emozione nel salirvi.

Dopo una breve sosta, il treno faceva un lungo fischio, che sembrava dicesse: “Sif sö töcc?”, e si avviava con sofferenza, annaspando, sobbalzando, sbuffando e poi, adagio adagio, prendeva il suo ritmo: “Ciridin, den, den, ciridin, den, den…”.
Pur dando il massimo della sua potenza, l”andatura era quella di una carrozza a cavalli.
Che rabbia mi facevano quei monelli in bicicletta che lo superavano e guardando verso di noi all’interno facevano il gesto provocatorio della mano mossa sulle labbra, che voleva dire: “Ölet i gnoc?” Li avrei picchiati! La mamma rideva divertita, ma io mi sentivo offesa per me stessa e per il povero tram di Monza. In realtà, non c’era mai un orario preciso di partenza né di arrivo. Inoltre, si partiva lindi e freschi e si arrivava a destinazione con gli abiti nero fumo, le lentiggini nere sulla faccia e sulle mani e pezzettini di carbone negli occhi. Il fumo della “tradotta” penetrava anche dai finestrini chiusi.

Arrivate alla stazione di Bergamo, che si trovava in via Paleocapa, andavamo a prendere il tram che portava alla funicolare. lo ero felice e osservavo tutto con interesse ma il mio sguardo era sempre fisso su Città Alta, che si avvicinava sempre più, ingrandendosi.
La vecchia funicolare di legno ci aspettava ai piedi della ripida salita.
Conoscevo perfettamente il rituale del manovratore: controllo dei biglietti, conteggio delle persone, non più di trenta, e chiusura delle porte dall”esterno. Si metteva poi davanti al posto di guida, faceva scivolare un chiodo metallico in un foro della piattaforma, infilava un altro congegno nel cruscotto, tirava una manovella e… via! Con gemiti e stiracchiamenti, come fosse cosa viva, la funicolare saliva, saliva. Io guardavo in basso ed osservavo quanto fosse ripida la salita. Una volta chiesi alla mamma:  “Non è mai successo che la fune si rompesse e la funicolare precipitasse giù, in fondo?”
La mamma, che era una fifona, facilmente impressionabile, rispose: “Figuriamoci se si rompe la fune, la funicolare si blocca subito”.
Però la mia domanda la mise in agitazione, forse perché non era sicura della risposta che mi aveva dato. Arrivate nel vasto atrio della stazione di Città Alta, la mamma, sollevata, disse: “Meno male, eccoci arrivate sane e salve”, come se fosse stata la prima volta che saliva in funicolare. Uscimmo nella Piazza del Mercato delle Scarpe e ci incamminammo verso la Via Rocca.

LA VIA ROCCA

Pietro Ronzoni – Parte della Rocca di Bergamo (Penna e bistro – Bergamo – Propr. comm. Aldo Farina)

La via Rocca era ed è una strada erta ed impervia, pavimentata e trapuntata da grossi ciottoli e con un marciapiede di pietre grigiastre e levigate aderente al caseggiato. Sulla destra passa quasi inosservata la chiesetta di San Rocco, quasi sempre chiusa, attaccata all’austero edificio che fu la prima sede della Misericordia Maggiore, fondata da Pinamonte da Brembate.
Dai portoni di queste antiche case, cariche di storia e di età, usciva un odore acre di muffa e di umido, poiché le pareti sulla via non prendevano mai il sole e le abitazioni, all’interno, erano tetre, buie e fredde.

Carlo Scarpanti, Via Rocca – Notturno (incisione all’acquaforte – 1966)

Nonostante tutto, in quegli edifici malsani vivevano tante famiglie, e vi pulsava una vita calda di povera gente, avvezza alle piccole cose, ma fiera e dignitosa.
Passavo tra questi edifici familiari fissando lo sguardo sulle finestre della casa della nonna, che vedevo appoggiata alla balaustra nell’attesa. Il suo sorriso aperto, non appena mi scorgeva, era il primo dolce saluto della magica e sognante Città Alta.
La nonna abitava al numero 11 di via Rocca, nella casa dei nobili Baglioni, ora Piazzini Albani. Dal suo appartamento, che seguiva la curva della strada che portava alla Rocca, si vedevano interamente il campanile della chiesa di San Pancrazio e il vasto complesso che costituiva il Collegio Convitto delle suore.
Nel piazzale antistante, vicino alla parete spaccata dell”enorme casa senza finestre e portali, si ergeva un elegante vespasiano, “al pissadùr”, in stile Liberty, che offriva un comodo ristoro al turista bisognoso in visita alla roccaforte.

La nonna, tutte le volte che apriva le finestre, si lamentava di avere quella maleodorante visuale sotto gli occhi e riteneva che quel “pissadùr” fosse un oltraggio al paesaggio. A me invece piaceva. Lo trovavo carino, come un gazebo, con quella tettoia argentata, con smerli, che si appoggiava su un sostegno che faceva da paravento e nascondeva il servizio igienico da sguardi indiscreti.

La nonna aveva più volte richiesto la sua eliminazione per i cattivi odori che emanava, ma io, senza dirlo, speravo che nessuno lo toccasse. Era sempre stato lì e lì doveva rimanere, come un monumento storico.
Il desiderio della nonna fu esaudito, anche se dopo la sua morte.
Il vecchio “pissadùr” non c”e più.

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Anna Rosa Galbiati, “Acquarelli Bergamaschi” (Sistema Bibliotecario Urbano – Biblioteca circoscrizionale Gianandrea Gavazzeni, Piazza Mercato delle Scarpe – Città Alta).

L’ ex cementificio Italcementi di Alzano Lombardo e un progetto non realizzato

Reportage fotografico di Francesco Bonometti

L’ex Cementificio Italcementi di Alzano Lombardo, mirabile esempio di archeologia industriale unico nel suo genere, è stato per lungo tempo uno dei cementifici più grandi e moderni di tutta Europa.

Fin dalla fine del Cinquecento sotto il governo della Serenissima, Alzano Lombardo conobbe periodi di grande prosperità derivante dallo sviluppo di attività artigianali e commerciali connesse soprattutto alla lavorazione della lana, cui si aggiunsero nel Settecento quella della fabbricazione della carta (le Cartiere Pigna) e nell’Ottocento quella della produzione di cemento, attività che in Valle Seriana vide gli albori nel 1863, soprattutto ad Alzano, Albino e Nembro (con Pesenti, Guffanti e Piccinelli). La successiva unione delle diverse aziende favorì la costituzione di quel fenomeno di concentrazione produttiva che allora portava il nome di Società Italiana dei Cementi, oggi Italcementi

Nato nel 1878 dal riadattamento di una cartiera, nel 1883 nasce come Officina Pesenti per la Produzione di Portland, iniziando una lunga e progressiva stratificazione strutturale – emblematica della sua importanza storica, industriale ed architettonica – che si è mantenuta intatta anche dopo lo spegnimento dei forni avvenuto nel 1966 e nel 1971 con la chiusura definitiva del’officina preposta all’attività di macinazione (si veda la sua storia in pillole a piè di pagina).

Definitivamente abbandonata l’attività produttiva, nel 1980 l’ex-cementificio è stato sottoposto dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici a vincolo di tutela come monumento di archeologica industriale, mentre la struttura si avviava verso un lento declino.

Nel 1999, a seguito di campagna di alienazione di immobili di Italcementi, l’ex “cattedrale del lavoro” è stata interamente acquistata dalla società TIRONI S.P.A.

In considerazione della promozione e della valorizzazione delle straordinarie potenzialità di questo monumento di archeologia industriale di rilievo sovranazionale, l’architetto Manuel Tironi presentò ed ottenne l’approvazione di un PROGETTO DI RECUPERO per la valorizzazione e la rifunzionalizzazione dell’ex cementificio, redatto nella versione che accolse le indicazioni prescrittive della Soprintendenza (1).

Nel 2011 venne sottoscritto un Protocollo di Intesa (il cui schema fu approvato dalla Giunta Provinciale nel settembre 2011 e sottoscritto il giorno 30), con l’obiettivo di trasformare questo significativo patrimonio, da fabbrica del cemento a struttura multifunzionale che fosse “fabbrica della cultura del lavoro e del tempo libero” a beneficio di tutta la collettività (2).

Un progetto che purtroppo non venne realizzato per mancanza di fondi e che  mancò all’importante appuntamento con l’Expo del 2015.

L’ex cementificio Italcementi di Alzano Lombardo si presta ad un progetto di recupero per le buone condizioni strutturali complessive, malgrado un abbandono protrattosi per oltre quarant’anni

Oltre ad essere uno splendido esempio di archeologia industriale, l’ex cementificio rappresenta l’icona dell’industrializzazione che ha interessato la Valle Seriana e più in generale la provincia bergamasca dopo l’unità nazionale, dando braccia e ingegno, per circa un secolo, a migliaia di persone: un’intera collettività di Valle, la cui sopravvivenza era legata al cementificio.

In quanto protagonista e testimone della storia, dello sviluppo e delle vicende del territorio Seriano e bergamasco, nel progetto l’ex-cementificio è stato  riscoperto come il luogo della ripartenza per la Valle Seriana e per tutta la provincia bergamasca, in continuità con i valori storici e culturali di cui la struttura è portatrice, nell’ottica di uno sviluppo pensato in chiave di valorizzazione del territorio.

Secondo il progetto pertanto l’edificio avrebbe potuto essere riconvertito a STRUTTURA MULTIFUNZIONALE, una sorta di polo culturale, sportivo e per attività ricreative in generale (sport, arte, musica, cinema, spazi espositivi e per performance teatrali…), quindi affascinante ed innovativo luogo di aggregazione, ma anche luogo del lavoro dove avviare, per esempio, attività formative; un incubatore di imprese, un luogo dove promuovere i prodotti tipici di tutta la provincia e l’artigianato del territorio, dotato di strutture commerciali per la vendita di prodotti locali e di spazi espositivi.

L’ipotesi di gestione una volta ultimati i lavori di recupero sarebbe stata quella di una fondazione pubblico-privata.

Le potenzialità di questo monumento avrebbero dovuto essere considerate non solo in rapporto al suo non trascurabile valore storico-artistico ma anche in relazione al contesto paesistico-ambientale in cui tale struttura si inserisce (per la prossimità del Fiume Serio) (3) ed anche in rapporto alla sua accessibilità, che la pone in posizione strategica all’ingresso della Valle e vicino alla stazione “Alzano Sopra“ della tranvia Bergamo-Albino, aperta nel 2009.

Ulteriori considerazioni a supporto dell’importanza di questo progetto consistevano nella presenza dell’aeroporto di Orio al Serio (in costante crescita di traffico passeggeri) e nel deciso miglioramento della viabilità provinciale che le nuove infrastrutture come Pedemontana e Brebemi avrebbero reso possibile proiettando tutto il territorio bergamasco nel cuore dell’Europa e delle sue principali vie di comunicazione.

Donare una nuova funzionalità al Cementificio avrebbe consentito anche di porre le basi per una valorizzazione di tutte le strutture di archeologia industriale della provincia di Bergamo e dell’intero territorio lombardo.

Eredità sul territorio dopo l’Expo

Nelle intenzioni del progetto, il recupero della struttura si sarebbe inserito, inizialmente, in quello scenario di trasformazioni del territorio lombardo che avrebbe avuto come volano iniziale il grande evento di MilanoExpo 2015  e successivamente in quel processo di valorizzazione culturale, turistica ed economica che si stava attuando in Valle Seriana a favore di un RILANCIO economico, sociale e culturale dell’intera Valle (profondamente segnata dalla crisi economica dei comparti produttivi che l’hanno resa una realtà industriale di riferimento, il tessile ad esempio) e a livello provinciale e regionale (4)

Si era ritenuto infatti, che il recupero del cementificio avrebbe potuto rappresentare un progetto strategico del territorio bergamasco e lombardo in vista dell’Expo del 2015, evento importante per le numerose ricadute economiche ed occupazionali generate ma anche per la possibilità di esporre su un palcoscenico “globale” le eccellenze bergamasche nei diversi settori (in primis quello dell’alimentazione), in coerenza al tema dell’Expo di Milano nell’ottica di un’ “Expo diffusa”, rispettosa dell’eco-sistema e tesa in direzione di una crescita sostenibile del territorio nel suo insieme (l’Expo ebbe infatti come tema “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita”, occupandosi di Alimentazione e Sviluppo Sostenibile).

Nonostante la situazione di crisi di sistema e la forte contrazione delle risorse pubbliche, pur trattandosi di un intervento di soluzione non semplice né immediata, si ritenne che l’unica soluzione che potesse garantire il superamento delle difficoltà di un progetto di tale portata, dovesse essere condivisa con tutte le entità, pubbliche e private, politiche e sociali, interessate al recupero di questo grandioso monumento di archeologia industriale. E ciò naturalmente anche per quanto riguardava il reperimento dei fondi necessari a perseguire tale obiettivo (5).

Il confronto avvenuto a livello accademico (testimoniato dagli atti del seminario di studi alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano), apportando una visione di medio-lungo periodo, rappresentava certamente un punto di forza a beneficio del recupero conservativo e della riqualifica funzionale dell’ex-cementificio.

La struttura allo stato attuale

Tra gli elementi principali:

– 12 forni verticali, dotati di 6 ciminiere a pianta circolare;

Il cementificio, da tempo del tutto dismesso e abbandonato, si presenta come un grigio imponente rudere industriale, mentre l’edificio in stile eclettico che lo fronteggia, originariamente destinato alla progettazione e alla costruzione del macchinario per cementifici (di cui l’Italcementi era un produttore d’avanguardia), si presenta come una struttura dall’aspetto nobile e austero, perfettamente e sapientemente restaurata

– grandi sotterranei coperti a volta;

– silos di stoccaggio del cemento o luoghi per l’insaccamento;

– una copertura sorretta da colonne in stile dorico.

Il complesso è formato da due parti:

– l’una a levante, plastica e monumentale destinata alla produzione del cemento;

Più interessante sotto il profilo industriale e scenico è la parte di levante, in quanto è possibile leggere tuttoggi l’evoluzione delle tecniche di produzione del cemento che dai primi forni a tino ha portato ai forni verticali tedeschi di fine ‘800, fino ai più performanti forni verticali Pesenti che oggi dominano la fisionomia del complesso con le sei sinuose ciminiere. Per il recupero, in funzione museale, degli antichi forni e delle sei ciminiere, si sarebbero dovuti seguire i criteri progettuali della conservazione

– l’altra a ponente, più compatta e ornata, con funzione di magazzino e per alcuni anni di sede direzionale dell’azienda.

La parte di ponente interessante sotto il profilo architettonico per lo stile eclettico che la caratterizza, emerge dall’intorno per la finezza del fronte di valle costituito da un elegante loggiato a cupolette al piano primo, contenuto da due torrette che alludono allo stile moresco e da cui il complesso prende oggi il nome. Questa parte del complesso ospita l’ALT (Arte Lavoro Territorio), una mostra di circa 250 opere di proprietà di Tullio Leggeri, collezionista d’arte contemporanea e mecenate di artisti contemporanei oltre che importante imprenditore nel settore delle costruzioni e di Elena Matous Radici, la vedova di Fausto Radici

 

La maestosità dei silos per la stagionatura del clinker e del cemento finito, uniti alle rampe ed i ponti aerei funzionali all’ingegnoso sistema di movimentazione interna dei materiali, completano la scena di un monumento che suggestiona il visitatore per la sua imponente mole e il suo immanente trascorso

 

Linee guida progetto

Il percorso museale avrebbe dovuto  snodarsi su quattro livelli, a partire dal piano interrato, per un totale di 6.500 metri quadrati. Nelle intenzioni del progettista s’intendeva in particolare “realizzare uno spazio espositivo permanente a servizio della valle per le aziende, oltre ad atelier per artisti e laboratori di ricerca, che sviluppino l’idea di un incubatore di impresa” (C)

Il progetto di recupero dell’ex cementeria, completamente inagibile ed inutilizzabile, prevedeva anzitutto un iniziale consolidamento statico dell’intera struttura, da risanare utilizzando le più sofisticate tecnologie di rinforzo e consolidamento oggi disponibili, mentre le finiture ed i collegamenti fra i vari spazi si sarebbero progettati e realizzati in modo da permettere la lettura dell’originaria struttura e tenendo conto dei principi dell’edilizia sostenibile (soluzioni progettuali autosufficienti dal punto di vista energetico e utilizzo di materiali eco compatibili).

L’enorme comparto si articolava nel progetto su una superficie di 18.547 metri quadrati divisa in parti, collegate tra loro da camminamenti a vari livelli.
Obiettivo era fare in modo che la struttura diventasse museo di se stesso, mantenendo le sue dimensioni fisiche.
ll nuovo studio aumentava a 31 mila metri quadrati la superficie recuperabile tra aree scoperte, coperte e percorsi aventi un ruolo fondamentale perché l’edifico-museo deveva essere visitabile.

Il cementificio Italcementi: la sua storia in pillole

1878
Avvio dell’attività di produzione del cemento con la trasformazione della cartiera Pesenti di Alzano Sopra, in officina di molitura del clinker cotto nei due forni realizzati nei pressi della prima cava in località Busa di Nese.
1883
Realizzazione nei pressi dell’officina di Alzano Sopra di sei forni a tino per la produzione di calce e cemento e di magazzini per lo stoccaggio del materiale finito.
1884
Apertura della ferrovia valle Seriana che contribuirà all’affermarsi del complesso industriale, con la realizzazione di uno scambio ferroviario nel cementificio per il trasporto del cemento finito.
1890-1900
Realizzazione dei forni verticali di brevetto tedesco, che consentiranno la produzione del primo portland con materiale completamente lombardo e ampliamento dei magazzini del complesso Moresco, con la realizzazione di laboratori chimici e uffici.
1904
Demolizione del preesistente forno vulcano e realizzazione dei primi quattro forni sistema Pesenti, formati da due forni con un’unica ciminiera che consentirà un notevole risparmio di carbone.
1909
Realizzazione degli ulteriori otto forni verticali sistema Pesenti con le relative quattro ciminiere. In questi anni viene realizzata anche la suggestiva copertura dei silos del clinker.
1920
Dismissione dei forni verticali di brevetto tedesco e mozzatura delle relative ciminiere.
1959
Per gravi problemi strutturali, quattro ciminiere del 1909 vengono abbassate e tutte saranno cerchiate con profili metallici.
1957
A fianco dei forni Pesenti viene realizzata la nuova torre di carico dotata di montacarichi Falconi, macchinario che sostituirà l’argano da tarino posato nel 1928 sulla rampa di carico centrale del cementificio.
1966
Vengono definitivamente spenti i forni per la cottura.
1971
Viene definitivamente chiusa l’officina interrompendo anche l’attività di macinazione, che era continuata dalla data di spegnimento dei forni.

NOTE

(1) Lo studio di fattibilità presentato dall’arch. Manuel Tironi al Consiglio comunale di Alzano Lombardo, ha tratto origine dalla campagna conoscitiva promossa nel 2010 quando si sono rimossi, per ordine della Soprintendenza, elementi non originari.
(2) La sottoscrizione del “Protocollo d’intesa” (settembre 2011) ha visto la partecipazione ed il coinvolgimento della: Proprietà, Soc. Italcementi, Soc. Expo, Regione Lombardia, Provincia di Bergamo e Comune di Alzano Lombardo e società Tironi.
“Anche il Protocollo, lungi dall’essere un mero atto formale, rappresenta una tappa importante verso l’obiettivo condiviso, ovvero il completo recupero della struttura e la sua rifunzionalizzazione, ponendosi quale impegno fattivo e concreto di tutti i partner, in numerose direzioni: dalla ricerca di finanziamenti, alla ideazione di soluzioni innovative per recuperare la struttura e evitarne un futuro degrado, alla progettazione del “contenuto” dell’Ex Cementificio, che deve essere in grado di garantire una sostenibilità economica anche nel medio periodo” (Silvia Lanzani, Assessore alla Pianificazione territoriale, Grandi infrastrutture, Expo della Provincia di Bergamo, workshop 18-22 giugno 2012, cit.).
(3) “E’ fondamentale che il riuso e il rilancio di una struttura come quella in questione sia visto in un ‘ottica di “sistema”, vale a dire come nodo di una rete diffusa di emergenze sul territorio, dove per emergenze non intendo parlare solo di fisicità, di valenza storico-architettonica, ma anche di funzione e di significato.
Per esempio il Cementificio può diventare uno degli elementi che esprimono la volontà di esperire nuove forme ecologicamente sostenibili per vivere un’area del territorio, insieme al recupero delle aree spondali del fiume Serio, realizzato negli ultimi anni dalla Comunità Montana di Valle Seriana, che continua ad attrarre moltissimi fruitori dei percorsi ciclabili, ovvero con l’introduzione della tranvia che ha cambiato le abitudini di molti cittadini che hanno abbandonato l’automobile per i loro spostamenti sistematici” (Silvia Lanzani, Assessore alla Pianificazione territoriale, Grandi infrastrutture, Expo della Provincia di Bergamo, workshop 18-22 giugno 2012, cit.).
(4) L’ex-cementificio infatti, “potrebbe divenire un nucleo del Parco agricolo tecnologico, una realtà policentrica sorta per iniziativa della Provincia, nata dalla suggestione dei temi Expo e dalla volontà di promuovere e sviluppare interesse e ricerca in ambito agro-alimentare con l’attenzione puntata sulle risorse e sulle eccellenze locali. I prodotti e le informazioni elaborati nell’area di pianura del Parco potrebbero essere veicolati attraverso le funzioni insediate nel Cementificio e contemporaneamente la realtà locale, in tutti i suoi aspetti, potrebbe trovare una vetrina ed una cassa di risonanza attraverso Le attività del Parco” (Silvia Lanzani, Assessore alla Pianificazione territoriale, Grandi infrastrutture, Expo della Provincia di Bergamo, workshop 18-22 giugno 2012, cit.).
(5)“Alla luce di queste precisazioni, è stata posta in primo piano l’opera di sensibilizzazione dell’opinione pubblica ma soprattutto del mondo accademico ed imprenditoriale, oltre che degli investitori privati in funzione di un loro coinvolgimento e di una partecipazione condivisa; l’obiettivo è infatti la ricerca di un impegno attivo e concreto per la riconversione ed il rilancio dell’Ex Cementificio, straordinaria eredità di un comune passato. In quest’ottica la Provincia di Bergamo ha voluto dare vita ad una serie di attività volte alla valorizzazione del Cementificio; l’importante convegno, svoltosi all’inizio del 2010, presso il Politecnico di Milano ed al quale hanno partecipato importanti studiosi della materia; il sostegno alla pubblicazione di un numero della rivista scientifica Anankead esso dedicato e alcune aperture straordinarie dell’edificio, pensate per invitare la cittadinanza a visitarlo, anche attraverso le suggestioni guidate di Philippe Daverio che ha esaltato le qualità architettoniche dell’edificio” (Silvia Lanzani, Assessore alla Pianificazione territoriale, Grandi infrastrutture, Expo della Provincia di Bergamo, workshop 18-22 giugno 2012, cit.).

FONTI

A –   International Cultural Center –  Gruppo Tironi – Fabbrica della Cultura, del Lavoro e del Tempo Libero.al Centerro
B – L’ARCHITETTURA DEGLI INTERNI NEL PROGETTO PER IL COSTRUITO
Il progetto di riuso dell’ex Cementificio Italcementi di Alzano Lombardo
workshop │ 18-22 giugno 2012 (Silvia Lanzani, Assessore alla Pianificazione territoriale, Grandi infrastrutture, Expo della Provincia di Bergamo).
C – L’Eco di Bergamo
D – Architettura industriale
E – Novaluna in Blog

Nota: l’ultima immagine è tratta da “International Cultural Center”.

La colonna di Borgo Canale

La colonna di Borgo Canale alla fine dell’Ottocento-inizi Novecento. Dalla “Storia di Bergamo”, vol. 14, pag. 145 . manoscritti di Elia Fornoni (Archivio Ufficio di Arte Sacra Curia Vescovile, Bergamo). La colonna fu innalzata dal vescovo G. Emo il 28 settembre 1621, sessant’anni dopo la fatidica data del 1561, anno in cui venne distrutta la basilica alessandrina per l’erezione delle nuove fortificazioni ad opera della Serenissima

Fuori porta S. Alessandro, nello slargo posto al bivio tra via Tre Armi e via Borgo Canale, s’innalza una colonna (“con un pinnacolo e croce e una inferriata di contorno”) , fatta erigere il 28 Settembre 1621, in memoria dell’avvenuta distruzione della Basilica alessandrina, dal vescovo Giovanni Emo. La colonna si trova poco più a monte del sito effettivo in cui si trovava la basilica, definita dai documenti “antiquam et excelsam eiusdem basilicae columnam”.

In quella circostanza si murava, su una parete retrostante la colonna, una piccola lapide in cui si ricordava in parole latine la benedizione data alla stessa dal vescovo Emo. La parete recingeva l’area già di proprietà Gallina, poi sede del Collegio Orfane di Guerra (1).

La piccola lapide affissa sul muro retrostante la colonna innalzata il 28 Settembre 1621 dal vescovo Emo

Nell”intento di ricordare il triste evento cittadino dell’abbattimento dell’antica basilica, avvenuto esattamente quattrocento anni prima, il parroco di S. Grata in Borgo Canale, don Giacomo Carrara aveva pubblicato su L’Eco di Bergamo dell’11 marzo 1961 un pregevole articolo di carattere storico illustrante le notizie di quel sacro edificio, avanzando la proposta di perpetuare il ricordo dell’insigne sacro edificio dedicato al Santo Protettore di Bergamo, con l’esecuzione di lapidi rievocanti – con dati e rilievi topografici – sul muro retrostante alla colonna eretta dal vescovo Emo in Borgo Canale nel 1621.

La colonna prima dell’ultimo restauro. L’iniziativa di dare alla colonna un’adeguata sistemazione, era partita dal parroco di borgo Canale che all’inizio del 1961 aveva lanciato la proposta, tramite L’Eco di Bergamo, al fine di ricordare degnamente un così triste avvenimento per la chiesa e per l’arte (“..l’assurda demolizione di quel pregevole tempio”)

Il compito del progetto di sistemazione della colonna e dello spazio antistante venne affidato all’ing. Luigi Angelini, che il 14 aprile del 1961 presentò al Vescovo Piazzi una proposta, subito inviata a Roma e favorevolmente accolta da Papa Giovanni XXIII (illuminato cultore di ricerche storiche, che “per decenni aveva dato tanto attivo lavoro di studi agli argomenti della storia cittadina”), il quale aderì con entusiasmo, assumendo a proprio carico l’onere finanziario per la sua realizzazione (2).
Alla risposta giunta dal Vaticano in merito al progetto proposto dall’Ing. L. Angelini, il Cardinal Testa, amico personale del Papa e studioso di storia locale, allegò una serie di indicazioni attraverso elementi aggiuntivi alla lapide secentesca posata dal Vescovo Emo, volte a concretizzare “un più visibile ricordo dello storico evento” (3).

“Zona della colonna eretta nel 1621 a ricordo della demolizione della Basilica Alessandrina in Borgo Canale (agosto 1561)”. Disegno a firma dell’Ing. Luigi Angelini, con data aprile 1961

Il fatto che più importava alla Curia romana era che tutto fosse pronto per quando l’urna di Sant’Alessandro sarebbe stata trasportata in processione solenne dalla Chiesa di Santa Grata alla Cattedrale, in occasione delle feste del quarto centenario della sua traslazione che si era resa necessaria a causa dell’imminente demolizione della basilica, voluta dai provveditori militari, per far spazio al cantiere delle nuove mura e fortificazioni della città.
ll 13 agosto 1961, durante le feste del santo patrono, tenutesi nel quarto centenario della traslazione delle reliquie dei Corpi Santi dalla basilica alessandrina alla cattedrale, mons. Loris Capovilla, segretario particolare di papa Giovanni XXIII°, presentava in Duomo la nuova veste della colonna di borgo Canale eretta a ricordo dell’antica cattedrale di Bergamo poco lontana dal luogo sul quale essa sorgeva.“Ma i secoli invecchiano anche i marmi e le intemperie li corrodono. Ora per la munificenza di Giovanni XXIII°, la colonna e i rilievi statistici e topografici tornano a risplendere. Il gesto del papa ha una significazione che i bergamaschi sanno cogliere”, concludeva mons. Capovilla.

 

LA NUOVA VESTE DELLA COLONNA NEL PROGETTO DELL’ING. ANGELINI

La nuova sistemazione della colonna e dell’area che la contiene, eseguita su progetto dell’Ing. Luigi Angelini. Su consiglio del Cardínal Testa, nella planimetria della zona fatta dall’ing. Elia Fornoni, fu omesso il nome “Colombina” in quanto facilmente si sarebbe scambiata questa localita con l’attuale trattoria e fu messo in rilievo il luogo in cui sorgeva la basilica e quello ove si trova la colonna. Il muro che fa da sfondo fu rivestito in ceppo di Poltragno e in arenaria per le membrature architettoniche, e in marmo botticino per le specchiature

Ai grafici del progetto inviato a Roma l’ing. Angelini aveva accluso una relazione esplicativa che vale la pena riportare: “Gli studi e gli scritti che trattarono l’argomento con valutazioni e affermazioni di carattere generico, salvi i dati lasciati dal Can. Guarneri sulle misure in cubiti delle dimensioni della Basilica, non portarono a concreti elementi per comporre in modo sicuro le incerte valutazioni in descrizioni e grafici. Esiste però un lavoro composto dallo studioso concittadino Ing. Elia Fornoni pubblicato nell’anno 1885 su “La Basilica Alessandrina e i suoi dintorni” che dimostra, con copia di notizie, di ricerche fatte in posto e serietà di metodo, l’attenta cura da lui messa per formare un quadro attendibile della planimetria della zona ove oggi non si eleva nessun elemento antico.
È appunto questo studio, in cui la Basilica è stata graficamente definita sul carattere delle basiliche paleocristiane tuttora esistenti in Italia e particolarmente in Roma, che il Fornoni ha potuto tracciare l’orientamento, le piante e le sezioni della basilica primitiva (del IV° o V° secolo) e dell’ampliamento e restauro al tempo del Vescovo Adalberto che resse la diocesi dall’anno 894 (funesto per distruzioni cittadine da parte delle truppe di Re Arnolfo di Germania) fino al 929”.

Su dati di scrittori vari, il Fornoni ricompose in più, in questo punto della città ove si imbocca Borgo Canale, le determinazioni in posto della chiesetta di S. Pietro, dello xenodochio, della zona cimiteriale, dell’ospedale di Filiberto, così da comporre una planimetria generale che rappresenta in modo pressoché convincente lo stato reale in cui trovavasi questo tratto cittadino in quell’anno 1561 in cui furono abbattute “circa settecento case” – forse il dato è un po’ sovrastimato – per tracciare il perimetro di oltre cinque chilometri della grande opera difensiva.

Disegni eseguiti dall’Ing. Luigi Angelini per la sistemazione dell’area su cui sorge la colonna

Sulla lapide centrale, costituita da una grande lastra di marmo di cm.117 per 150 sono incise due epigrafi:
la prima in alto è la traduzione italiana della lapide fatta murare dal vescovo Emo nel 1621;

la seconda, pure scritta in italiano, ricorda l’attuale sistemazione.

Disegno eseguito dall’Ing. Luigi Angelini della lapide centrale con incisa, superiormente, la traduzione italiana dell’antica lapide fatta murare dal vescovo Emo nel 1621 e, inferiormente, l’attuale sistemazione. Quella posta in basso è invece la lapide antica, recuperata dalla collocazione originaria (1621)

I testi delle epigrafi sono i seguenti:
L’anno del Signore MDCXXI essendo vescovo Giovanni Emo
II Capitolo di S. Alessandro questa colonna fece erigere
Presso la Basilica Alessandrina
Antichissima e insigne prima cattedrale di Bergamo
Demolita nel MDLXI
Allorquando la Repubblica veneta costruì
L’attuale cinta delle mura

L’anno del Signore MCMLXI essendo vescovo Giuseppe Piazzi
Questo luogo dove nel secolo IV
Sorse la primitiva cattedrale
Dal vescovo Adalberto nel secolo X ampliata
Nella ricorrenza del IV Centenario della demolizione
Giovanni XXIII P.M.
Dei fasti antichi della sua diletta patria fervido Cultore
Fece adornare di marmi e munire di storici richiami
a sacra perenne memoria.

Una delle due lapidi centrali realizzata dall’Ing. Luigi Angelini, con incisa, superiormente, la traduzione italiana della lapide fatta murare dal vescovo Emo nel 1621 e, inferiormente, l’attuale sistemazione

Subito sotto questa lapide è collocata l’antica(cm. 33 x 118) che dice:

Anno CI) I) CXXIII Kal OCTOBRIS
IO EMVS EPYS RITV SOLEMNI MONVMENTV HOC BENEDIXIT
IAC°. SVR°. PRAEF. OPT. FAVENTE, ERECTV. A.R.moCAPLO.
S. ALEXANDRI
AD MEMORIAM SEMPITERNA. ILLIVS AECCLAE CATIS
ANTIQUISSIME, IN QVA
EIVSDEM SS.maMARTYRIS CORPUS A B. GRATA TVMVLATVM,
ET ALIORVM SANCTORVM RELIQVIAS CIVITAS VENERABATVR

La lapide antica murata dal vescovo Emo nel 1621, inserita nella parte inferiore del corpo centrale realizzato dall’Ing. Luigi Angelini

Nel corpo laterale di sinistra, su lastra marmorea, è incisa la pianta grafica della zona, ricavata dalle planimetrie dell’ing. Elia Fornoni, con l’ubicazione dell’antica basilica (sorgeva a circa 30 metri dalla colonna).

Disegno eseguito dall’Ing. Luigi Angelini della lapide di sinistra, con incisa la planimetria della zona ricavata dalla pubblicazione Fornoni

 

La lapide affissa nel corpo laterale di sinistra, realizzata dall’Ing. Luigi Angelini, con incisa la planimetria della zona ricavata dalla pubblicazione Fornoni

Nel corpo laterale di destra, sempre su lastra marmorea, è incisa la pianta e la sezione longitudinale della basilica.

Disegno eseguito dall’Ing. Luigi Angelini della lapide di destra,con incise in alto la sezione longitudinale della Chiesa e in basso la pianta della Basilica (entrambi ricavata dai disegni di Elia Fornoni), analoga alle basiliche cristiane romane del secolo IV al sec. VI, come poteva essere dopo l’ampliamento del vescovo Adalberto

 

La lapide affissa nel corpo laterale di destra, realizzata dall’Ing. Luigi Angelini, con incise in alto la sezione longitudinale della Chiesa e in basso la pianta della Basilica (entrambi ricavata dai disegni di Elia Fornoni), analoga alle basiliche cristiane romane del secolo IV al sec. VI, come poteva essere dopo l’ampliamento del vescovo Adalberto

 

Visione complessiva del muro di fondo dopo la sistemazione avvenuta su disegni di Luigi Angelini (foto Lucchetti)

La colonna, la cui sistemazione è stata curata dalla ditta Camillo Remuzzi, dalle imprese Oberti e Gritti e dal fabbro Scuri, poggia su un basamento a forma di dado allungato, alto circa 50 cm., con inciso sui lati, il giglio di Sant’Alessandro.
A sua volta il basamento è posto su un gradino, al quale è stata rifatta la zoccolatura e sul quale si trova la cancellata di protezione.
Alla sommità della colonna si innalzano un pinnacolo e una croce.

Il giglio, simbolo di S. Alessandro, inciso sul basamento della colonna di Borgo Canale

 

Il giglio, simbolo di S. Alessandro, forgiato nella cancellata di protezione della colonna di Borgo Canale

Sino al 1961 si era ritenuto che tale colonna fosse in pietra di Sarnico, ma a seguito di un attento esame fatto dal cardinale Testa, risultò essere di granito di Numidia, lo stesso granito usato nella costruzione delle basiliche costantiniane di Roma. Questa coincidenza fa pensare ad un contributo imperiale per l’antico tempio paleocristiano.

NOTE
(1) Qualche decennio prima della sistemazione dell’Angelini, “il muro era stato sistemato formando una parete di metri 6.98 di lunghezza e m. 3.40 di altezza e lateralmente, in modo simmetrico rispetto alla colonna, fiancheggiata da due spazi di luce di m. 2.35 entro pilastrini in ceppo rustico e chiusi un tempo da cancellata ora mancante” (Luigi Angelini).

(2) Nella sua opera monumentale “Gli atti della visita apostolica di San Carlo Borromeo alla diocesi di Bergamo “, Papa Giovanni XXIII aveva riportato un documento in lingua latina relativo alla Cattedrale in cui il tempio veniva descritto minutamente nelle sue strutture e nei suoi particolari. I preventivi alla fine risultarono inferiori a quanto pattuito, malgrado fossero state apportate modifiche e migliorie nel corso dei lavori.
Mentre il 7 luglio 1961 perveniva il richiesto nulla osta dalla Soprintendenza ai Monumenti, la lettera di autorizzazione del Comune giunse il 28 settembre di quello stesso anno. La sistemazione della colonna, comunque, anche se a grandi linee, era pronta per la data desiderata.
Inoltre, Papa Giovanni XXIII, illuminato cultore di ricerche storiche, nella sua opera monumentale “Gli atti della visita apostolica di San Carlo Borromeo alla diocesi di Bergamo “, aveva riportato un documento in lingua latina relativo alla Cattedrale, in cui il tempio veniva descritto minutamente nelle sue strutture e nei suoi particolari.

(3) Su indicazione del Cardínal Testa, lo spazio antistante al muro e racchiudente la base della colonna secentesca fu sistemato con lastricato di pietra. Gli spazi vuoti laterali (di m. 2,35 di vano) fra i pilastrini esistenti in ceppo furono chiusi da inferriate semplici di ferro piatto.

Riferimento
Arnaldo Gualandris, “Monumenti e colonne di Bergamo”, a cura del Circolo Culturale G. Greppi. Bergamo, 1976 (con introduzione di Alberto Fumagalli).

Sant’Alessandro martire. Tra storia, mito e agiografia

La vicenda di Sant’Alessandro (?, III secolo d.C.), cui si fa risalire la prima evangelizzazione di Bergamo, rimane alquanto oscura e mal documentata, non perché manchino elementi biografici coevi, quanto invece perchè gli atti del suo martirio sono  posteriori di quasi cinque secoli rispetto all’epoca effettiva del martirio. Le notizie relative a Sant’Alessandro risalgono dunque all’VIII secolo.

Gli elementi biografici sono legati a scritture apografe, cioè copie di originali andati perduti in particolar modo durante la persecuzione di Diocleziano, che ordinò la distruzione degli archivi ecclesiastici.

L’appartenenza stessa di Alessandro alla leggendaria legione tebea contribuisce infatti a rendere ancor più oscura la sua storia. La legione tebea o legione tebana, infatti, è una leggendaria legione romana della letteratura agiografica cristiana (1).

La vicenda s’inquadra nell’epoca dell’imperatore Diocleziano (III sec. d.C.), durante la quale Alessandro era il vessillifero della leggendaria legione Tebea (la mitica Fulminante, composta prevalentemente da soldati cristiani, provenienti dalle terre precocemente evangelizzate della Tebaide, della Nubia, dell’Etiopia) e comandata da Massimiano (Marco Aurelio Massimiano Erculeo), Imperatore Augusto per l’occidente, dall’oscura fama di persecutore (l’esistenza di una Legio I Maximiana, anche nota come Maximiana Thebaeorum è riportata nella Notitia Dignitatum) (2).

Nell’anno 301 Massimiano condusse la Legione, normalmente stanziata ai confini meridionali dell’impero, verso le Alpi, dove tra Gallia e Italia premevano le incursioni delle tribù celtiche.
Forse perché rifiutarono di offrire sacrifici agli dei, o forse perché non vollero combattere le popolazioni cristiane che vivevano sulle Alpi, i soldati guidati dal Primicerio Maurizio (comandante in capo) lasciarono le schiere dell’imperatore e si rifugiarono ad Agaunum (l’odierna Saint Maurice-en-Valais, nel cantone Vallese, in Svizzera) (3), cercando di evitare la vendetta di Massimiano che, a capo di truppe fedeli, li raggiunse e ne ordinò lo sterminio. All’uccisione di un uomo su dieci seguiva la proposta dell’abiura; al perdurare del rifiuto seguì il massacro.

Il fatto è ricordato da uno scritto di Eucherio di Lione (sec. V); risulta peraltro che dopo l’editto di Costantino il vescovo Teodoto di Octodurum recuperò le spoglie dei martiri facendole trasportare nella cattedrale di Agaunum.
Pochi furono i superstiti: Cassio, Severino, Secondo e Licinio che ripararono in Italia, trovando scampo a Milano, con loro il Primipilo, il vessillifero Alessandro, colui che aveva in custodia l’aquila, l’insegna della legione che sventolava in battaglia guidando i movimenti dei soldati (Alessandro viene infatti raffigurato con lo stendardo bianco, crociato).

Narra la tradizione che con gli scampati al massacro il Primipilo, Alessandro, riparò in Italia, a Milano (4), dove fu riconosciuto e imprigionato nel luogo dove oggi sorge la basilica di Sant’Alessandro in Zebedia, in piazza di Sant’Alessandro) e qui si rifiutò di abiurare alla fede cristiana come ordinatogli dall’imperatore Massimiano.

Milano, chiesa di S. Alessandro in Zebedea (o Zebedia), nella prima metà dell’Ottocento

Fuggito dalla prigione grazie all’aiuto di Fedele di Como e del vescovo Materno, sulla strada verso Como, secondo la leggenda compì il miracolo di risuscitare un defunto.

Dopo essere stato riconosciuto, catturato e riportato a Milano davanti a Massimiano, costui gli impose allora di sacrificare agli dèi pagani, ma Alessandro abbatté l’ara preparata per il sacrificio agli dei romani, facendo infuriare l’imperatore che lo condannò a morte per decapitazione; la leggenda vuole che il carnefice, il soldato Marziano, non osasse colpirlo poiché Alessandro gli appariva ‘come un monte’ e, per lo spavento, gli si sarebbero irrigidite le braccia: la stessa sorte sarebbe toccata ad altri soldati chiamati ad eseguire la condanna; pertanto fu rimesso in carcere, a morire di stenti, ma riuscì nuovamente a fuggire.

Alessandro passò l’Adda “pedibus siccis”, all’asciutto (passò per Fara Gera D’Adda e Capriate) Alessandro strumento di vittoria sulla persecuzione, “miles strenuus”, atleta della fede, giunse nella località Pretorio della città di Bergamo.

I cristiani in città a quel tempo erano pochi, e per paura di Massimiano si nascondevano; il venerabile cavaliere Alessandro, rifugiatosi in una zona oltre il torrente Morla, nel Borgo chiamato Palazzo, visse in preghiera attirando proseliti e iniziando un’opera di conversione alla fede cristiana degli abitanti della città, tra cui i futuri martiri Fermo e Rustico, parenti di Crotacio.

Lì, secondo tradizione, fu catturato dai miliziani dell’imperatore Massimiano che erano stati sguinzagliati come cani inferociti sulle sue tracce. Gli sgherri dalle mani grondanti sangue, attraverso la bassa città lo trascinarono nel vico intitolato all’antico duca di bergamo: Crotacio (5) dove si ergeva una colonna con la sua statua, e intorno alla quale si diceva nascessero fiori il cui odore risanava gli infermi.

Al Vico Pretorio, ai piedi della statua di Crotacio, era stata allestita un’ara per il sacrificio o per l’esecuzione della condanna a morte (la tradizione vuole che in quell’area si trovasse il giardino di Crotacio, in cui sorgeva un tempio pagano). Alla morte di Crotacio il figlio Lupo vi aveva innalzato due colonne, con la sua statua sull’una ed un’ara per i sacrifici sull’altra.

Davanti alla statua era stata imbandita la mensa coperta di idoli; ad Alessandro fu rivolta l’ennesima richiesta di sacrificare agli dei pagani, pena la morte. Seguì l’ennesimo fermo rifiuto.

Alessandro fu quindi condannato alla decapitazione. La fine, attesa, sperata, salvifica era giunta: egli chiese dell’acqua, si lavò le mani, si inginocchiò e si raccolse in preghiera, infine ringraziò Dio e reclinò il capo offrendolo al boia. Era il 26 agosto 303 d.C.

Nei dì seguenti il martirio, la nobile Grata (6) trovato il corpo di Alessandro raccolse pietosa il capo reciso adagiandolo tra le sue vesti.

La tradizione vuole che infuriata per l’assassinio del giusto distrusse la colonna di Crotacio e insieme ogni segno di idolatria. Al suo posto fece costruire una chiesa (Sant’Alessandro in Colonna).

Con la compagna Esteria e con i suoi servi volle dare sepoltura al martire in un suo podere posto sull’alto dei colli, fuori le mura della città.

Sul luogo del martirio del Santo, Grata fece costruire la Chiesa di Sant’Alessandro in Colonna, la cui denominazione, estesa al borgo confinante con quello di San Leonardo, è fatta risalire al 1133

La strada era faticosa e impervia, il mesto corteo aggirò la salita attraversando il prato disteso ai piedi di Città Alta, dirigendosi verso est.

Fermatosi il gruppo a un crocevia per darsi il cambio , videro stillare dal capo mozzato del martire gocce di prezioso sangue che si trasformavano in fiori al contatto colla terra. Quel luogo prese il nome di Borgo Mugazzone (della Mutazione) e Grata vi costruì una chiesa (S. Alessandro della Croce).

Giunti al podere disteso tra le vigne, all’inizio di Borgo Canale, la nobile Grata dette sepoltura ai resti del Santo, laddove fu eretta la basilica a lui intitolata  (7).

Da quel momento il glorioso martire risplendette come una lucerna sopra un candelabro e coi suoi miracoli illuminò il popolo bergamasco.

Note

(1) “L’uso liturgico delle testimonianze tramandate oralmente venne ripreso da papa Adriano I (772-795). E con inequivocabile fondamento per quanto riguarda sant’Alessandro: infatti, quattro secoli prima ad Agaunum, l’attuale Saint Maurice, nel Vallese, Teodoro (o Teodulo), vescovo di Octodurum, l’attuale Martigny, morto nel 381, individuò il luogo di sepoltura dei martiri Maurizio (assunto nel giugno 1941 a protettore del Corpo degli Alpini da papa Pio XII), Esuperio, Candido e Vittore ed eresse una basilica la cui pianta è stata portata alla luce nel corso di scavi condotti dal 1990 al 1993 sotto la chiesa parrocchiale di Martigny, unitamente a resti romani del II e III secolo e paleocristiani del V secolo. Fu Eucherio, vescovo di Lione dal 432 al 450, a colmare il vuoto storiografico con la sua Passio martyrum Acaunensium, la passione dei martiri acaunensi, un’opera scritta sulla base delle informazioni fornitegli dal vescovo di Sion, Teodoro, e dal vescovo di Ginevra, Isacco. È il più antico documento sul martirio della Legione Tebea guidata da Maurizio del quale Alessandro, secondo Il grande libro dei santi (Vol. I, 1998), era il primipilarius sanctae legionis, il primo centurione (della santa legione Tebea), ovvero il capo della prima centuria e di tutti i centurioni, secondo solo a Maurizio. C’è di più. Già dal IV secolo c’è testimonianza della devozione dei bergamaschi con la costruzione di una chiesa dedicata al martire, fuori dalla cinta muraria dove esisteva una necropoli del municipium romano. Alessandro, patrono di Bergamo, è dunque senza alcun dubbio un martire cristiano della Legione Tebea”.

(2) “L’esistenza di una Legio I Maximiana, anche nota come Maximiana Thebaeorum è riportata nella Notitia Dignitatum. Denis Van Bercham, della università di Ginevra, ha messo in dubbio la veridicità della leggenda della legione Tebea (Van Bercham, Denis, The Martyrdom of the Theban Legion, Basilea, 1956). Questo studioso fece notare che la decimazione era un anacronismo e che il servizio di cristiani in una legione prima di Costantino I era abbastanza raro. Secondo David Woods, professore alla University College Cork, i racconti di Eucherio di Lione sono una completa finzione (Woods, David, The Origin of the Legend of Maurice and the Theban Legion, in Journal of Ecclesiastical History 45 (1994), pp. 385-95). Una nuova ipotesi tende quindi ad identificare il martire Alessandro di Bergamo con uno dei martiri dell’Anaunia (Val di Non). Si tratterebbe quindi di Alessandro compagno di Sisinnio e Martirio, tre chierici originari della Cappadocia inviati dal vescovo Ambrogio da Milano ad evangelizzare la regione dell’Anaunia, su richiesta del vescovo di Trento, Vigilio. I tre furono brutalmente uccisi dai pagani locali e sono per questo venerati come santi e   martiri dalla Chiesa cattolica. Questo collegamento tra il sant’Alessandro di Bergamo e quello dell’Anaunia spiegherebbe inoltre la presenza, tra i colli che costituiscono l’attuale Bergamo alta, di un colle detto di San Vigilio vescovo e di una omonima chiesa a lui dedicata”. Ma Giangaspare Basile, controbatte: “Per dovere di cronaca riportiamo anche le fantasiose teorie di alcuni storici che hanno tentato una agiografia in versione molto ideologica, o identificando il santo con uno dei tre martiri Sisinio, Martirio e, appunto, Alessandro, inviati a canonizzare l’Anaunia (oggi Val di Non) dal vescovo di Trento Vigilio; o addirittura, (come lo storico svizzero Denis Van Bercham e l’inglese David Woods, dell’University College Cork), mettendo in dubbio l’esistenza stessa del martirio della legione Tebea e soprattutto i fatti storici riferibili a sant’Alessandro, definiti “pura fantasia”.

(3) “Secondo Eucherio, vescovo di Lione (c. 434 – 450), questa legione era composta interamente da cristiani e venne spostata da Tebe alla Gallia per assistere l’imperatore Massimiano. Quando Massimiano ordinò di reprimere alcuni galli cristiani la legione si rifiutò e venne decimata (venne ucciso un legionario su dieci). Seguirono altri ordini che la legione rifiutò ancora di  eseguire, sotto l’incoraggiamento di san Maurizio che ne era il comandante; venne quindi ordinata una seconda decimazione ed infine l’intera legione venne sterminata (6600 uomini). Il luogo del massacro fu Agaunum oggi San Maurizio in Vallese, sede dell’omonima abbazia”.

(4) Secondo la sua Passio (BHL, Bibliotheca Hagiographica Latina 275-276-277), Alessandro si rifugiò a Milano.

(5) “I primi secoli del’Era Cristiana quanto alla storia nostra politica sono ancora più d’ogni altro antecedente avvolti nella incertezza, e in una invincibile oscurità. In que’ tempi alcuni nostri scrittori assegnarono alla patria un governo di duchi, de’ quali Crotacio il primo, investito dall’imperator probo, e s. Lupo l’ultimo, che fu padre della beatissima Grata curatrice del corpo di S. Alessandro. Ma sulla erroneità di siffatta opinione, e sulla incompetenza di un tal titolo ai governanti in quell’epoca convien leggere il precitato Codice del canonico Lupo capo IV. e § V.,e altrove.”

(6) “Secondo una tradizione, collegata alla passio leggendaria del vescovo Alessandro, sarebbe vissuta tra il IV e il VI sec.; un’altra tradizione invece afferma che ella visse tra l’VIII e il IX sec. e sarebbe stata figlia di un certo Lupo, duca di Bergamo, vinto e convertito alla fede cattolica da Carlo Magno. La prima G. avrebbe edificato tre chiese in onore di s. Alessandro (S. Alessandro in Colonna, S. Alessandro della Croce e l’altra sul sepolcro del santo) la seconda invece, con l’aiuto della sua potente famiglia e di altri nobili di Bergamo, avrebbe edificato una chiesa su ognuno dei tre colli della città e cioè: S. Eufemia, S. Giovanni e S. Stefano ossia del S. Salvatore (così dice una glossa di un antico codice del]a Biblioteca civica di Bergamo che contiene il Pergaminus di Mosè del Brolo). I Bollandisti del sec. XVIII accettarono la distinzione delle due sante e pubblicarono per primi (Anversa 1748) la Vita Sanctae Gratae, composta tra il 1230 e il 1240 dal b. Pinamonte Pellegrino da Brembate, domenicano, su invito di Grazia d’Azargo badessa del monastero di S. Grata”. Ma la Vita del b. Pinamonte è considerata poco attendibile.
Si legge inoltre : “Per alcuni secoli il corpo di Grata rimase sepolto fuori le mura in Borgo Canale, nella chiesa dell’ospedale a lei stessa attribuito (detta di S. Grata) sulla quale doveva sorgerne un’altra nel sec. XVIII, con il nome di S. Grata inter vites. Il 9 agosto 1027, per opera del vescovo Ambrogio II (alcuni pensano ad Ambrogio III) le spoglie vennero solennemente traslate entro le mura, nella chiesa di S. Maria Vecchia, che fu poi detta di S. Grata alle Colonnette. La traslazione è confermata da alcuni versi incisi sul sepolcro del vescovo Ambrogio: “Praesul Ambrosius meritis et nomine dignus corpus Matronae iusto sepelivit honore Digna fuit coelis Domino Matrona fidelis semper apostolico fungitur et solio”; e anche da un antico martirologio ms. del monastero di S. Grata. Inoltre si rileva che il vescovo Ambrogio (I o III?) la domenica delle Palme. dopo aver benedetto i rami d’ulivo nella cattedrale di S. Alessandro, si portava alla cattedrale di S. Vincenzo e di qui, a ricordo della traslazione di G., anche alla chiesa della santa dove distribuiva un ramo d’olivo benedetto a ciascuna monaca e terminava la funzione”.

(7) La santa, alcuni giorni dopo l’esecuzione, avrebbe trovato le spoglie di Sant’Alessandro, la cui presenza era segnalata da gigli, cresciuti in corrispondenza di alcune gocce del sangue del martire, le avrebbe raccolte e fatte seppellire in un orto della sua famiglia, fuori della città, là dove sarebbe sorta la grande basilica di Sant’Alessandro, poi abbattuta durante la costruzione delle mura venete di Bergamo.

Documenti
Passio Sancti Alexandri Ex manuscripto a Bonino Mombritio publicis juris facto – Da: AA.VV., Exite flores inclyti. Antologia Alessandrina. Testimonianze a s. Alessandro dalle “passiones” ai giorni nostri, Bergamo, 1998, p. 33-36.

Su Crotacio, la colonna e le origini della chiesa sorta successivamente :
Historia Quadripartita di Bergamo Et Suo Territorio, vol. 1, di Celestino Colleoni.

Bortolo Belotti : “Storia di Bergamo e dei Bergamaschi”.

Tradizione apostolica e coscienza cittadina a Milano nel medioevo
e più in generale :
http://www.google.com/search?tbs=bks%3A1&tbo=p&hl=it&q=crotacio

Un libro
Martiri Tebei – Storia e antropologia di un mito alpino, di Massimo Centini.