Bergamo negli anni del “boom” tra Carosello, motori e le Rumi, le moto dell’artista-imprenditore

Volendo ricercare l’atmosfera dei mitici anni del “Boom”, cosa vi verrebbe in mente? I Beatles per esempio, che all’inizio degli anni Sessanta imperversavano in ogni angolo del mondo: i loro dischi andavano a ruba, le ragazze canticchiavano Michelle e Let it Be o si scatenavano con Yellow Submarine, Ob-La-Di Ob-La Da e Sgt. Pepper, che gracchiavano alla radio o sui vinili acquistati da Andreini o alla Casa della musica.

La Casa della Musica in via Roma

E ben presto cominciarono a emulare il mitico quartetto di Liverpool, portando i capelli a caschetto e decretando inesorabilmente la fine del ciuffo alla Elvis, benchè i più “grandi” preferissero gettonare i classici di Fred Bongusto o di Peppino di Capri.

Ragazze che fumano (propr. Museo Storico di Bergamo, fondo Domenico Lucchetti)

 

Gli anni Cinquanta sono anche gli anni della seconda scoperta dell’America: il rock and roll, il flipper, i blue-jeans, la Coca Cola, il jukebox. Nella foto, Mina, conosciuta allora con lo pseudonimo di Baby Gate

Erano gli anni della minigonna, del flipper e del biliardo al Diurno o al bar Anselmo, del Balzer e del Nazionale e dei cinema del centro.

 

In un bar della città negli anni del “boom”

 

L’nterno di un bar in città, forse Guarany (propr. Museo Storico di Bergamo)?

 

Motociclisti in piazza Matteotti (Foto Gentili)

Nella Bergamo puritana e clericale, negli anni di don Camillo e Peppone rigorosamente targata “DC”, La dolce vita di Fellini proiettata al Capitol suscitò scandalo e stupore: Venne introdotto nel vocabolario italiano un nuovo termine, quello di “paparazzo”.

Il russo Jurij Gagarin, il 12 aprile del 1961 affrontava, dalla navicella Vostok 1, il primo volo orbitale con un essere umano a bordo, compiendo un’intera orbita ellittica attorno alla Terra e comunicando alla base che il cielo era molto scuro e che “la Terra è blu. ..che meraviglia, è incredibile!”. Una volta espulso dall’abitacolo venne paracadutato a terra ed osannato dal mondo intero.

Ma il mondo esultò ancor di più e non chiuse occhio il 21 luglio del ’69, quando con Neil Amstrong l’uomo posò per la prima volta i piedi sulla luna, comunicando a terra: “qui Base della Tranquillità. La Eagle è atterrata!”.

Con l’equipaggio della Apollo 11, composto da Neil Armstrong, Michael Collins, e Buzz Aldrin, l’uomo posò per la prima volta il piede sulla luna (Dal Corriere della Sera, per gentil.ma concessione di Marta Volta)

 

Negli anni Cinquanta, in città si diffonde rapidamente il flipper, uno sgargiante antenato dei videogame importato dagli Stati Uniti e che in Italia raggiungerà il suo periodo di massima espansione nel decennio successivo. A Bergamo se ne contarono quasi duecento. Bastavano 50 lire per giocare con cinque palline e raggiunto un dato punteggio si otteneva una partita gratis

Bei tempi, con tanta voglia di crescere, sognare e riscattarsi in un futuro che sarebbe stato sicuramente luminoso.

Al bar Flora, in Piazza Vecchia

 

Sul leone del protiro di S. Maria Maggiore. Le donne indossavano in genere gonne sotto il ginocchio e calze in nylon e portavano i capelli piuttosto corti. Per loro la Bottega del Profumo in via Torquato Tasso metteva a disposizione prodotti raffinati come il rossetto della “Voirnet”. Nel ’54 in particolare esplose la moda femminile della linea H, con un chiaro richiamo ad Audrey Hepburn

 

Porta Nuova, 1947. Ancora negli anni Cinquanta, tra gli uomini furoreggiavano le scarpe bicolori, o bianco e nero o beige e “marron”, come nell’immagine

 

Agli uomini bastava acquistare la molto reclamizzata Brillantina Linetti o il Brylcreem, antesigano del gel per capelli. Aleggiava nell’aria un profumo di brillantina alla violetta

Ma di tempo per crescere ce n’era e intanto sognavamo incollati alla tivù, con  Carosello e la Mucca Carolina.

Erano i tempi del “Grandi Magazzini” e delle “Novità”, come la Moplen, scaturita da una magica e indistruttibile composizione chimica che aveva stravolto il gusto e il modo di vivere degli italiani: era stata inventata da un bergamasco d’adozione, Giulio Natta, che grazie alla sua “formula magica” ottenne nel ’63 il Nobel per la chimica.

Erano tempi di benessere diffuso e di grande ottimismo e la disoccupazione era in continuo calo, così come il prezzo della benzina e dello zucchero. L’Eco costava 40 lire . Negli anni Cinquanta vi fu il boom dei matrimoni e nelle nascite; l’aborto era ancora illegale e la pillola contraccettiva era ancora di là da venire.

Notturna, 1950. Anche se risparmiata dai bombardamenti aerei massicci, nella Bergamo degli anni Cinquanta non mancavano tracce del conflitto. “Tracce soprattutto di miseria dopo tanti anni di pasti frugali, surrogato di caffe, Idrolitina, scarpe risuolate. Tempo al tempo e la vita diventò meno agra; e nell’ultima loro parte gli anni Cinquanta spalancarono le porte alla frenesia dei consumi, che cominciarono a distruggere la civiltà contadina, che illusero con parole come “boom” e “miracolo economico” (da Il Novecento a Bergamo, cit.)

Bergamo era un grande paese. Con la fiduciosa “benedizione” dei genitori, i ragazzini andavano a scuola da soli senza che i genitori intasassero il traffico per scorrazzarli con il Suv. Scorrazzavano, casomai, liberi come l’aria per il centro, dove a carnevale si “bastonavano allegramente con quegli assurdi manganelli di plastica vuota” e a Santa Lucia si ingozzavano “di frittelle più unte dei capelli di un punk”, come ebbe a scrivere Marco Cimmino sul “Giopì”.

La cavalchina

Con la diffusione della ricchezza arrivarono le vetturette popolari, simboli indiscussi dell’ottimismo messo in circolo dal miracolo economico: nel ’55 le prime Fiat 600 e poco dopo le 500.

Con la ricostruzione del secondo dopoguerra e il miracolo economico,  la produzione automobilistica era diventata  l’industria trainante del paese, visto che l’accresciuta presenza di autoveicoli alimentava un considerevole “indotto”: il petrolio, le autostrade, i pneumatici, le officine, i servizi di manutenzione e le attività commerciali.

Officina meccanica nell’area dell’attuale Palazzo della Libertà

 

I collegamenti accorciarono le distanze, anche culturali, tra i luoghi della città, in cui intere aree presero vita. E mentre le campagne cominciavano a spopolarsi, a Bergamo nascevano nuovi quartieri: a Valtesse (Conca Fiorita), alla Celadina, in viale Venezia, il Monterosso; si costruivano fognature, si asfaltavano strade

“Poco importa” se la diffusione del mezzo privato ha aggravato il debito pubblico italiano e favorito la crescente congestione del traffico stradale: con la 600 i bergamaschi avevano scoperto la libertà di muoversi!

Via Paleocapa, 1953. Il 24 giugno del 1952 fu fatto effettuare da “L’Eco di Bergamo” un piccolo censimento della circolazione all’incrocio fra viale Roma (poi viale Papa Giovanni) e via Paleocapa, per cinque minuti in totale, dalle 10,30 alle 10.35. Si contarono così 51 automobili (di cui 5 guidate da donne), 73 motociclette, 12 camion, 9 corriere, 5 carri trainati da cavalli, 3 carri condotti a mano, 2 filobus, 98 biciclette e 127 pedoni (da un resoconto apparso su L’Eco di Bergamo del 27 ottobre 1953, in Il Novecento a Bergamo, cit.).

 

All’inizio degli anni ’50 circolavano ancora molte biciclette ed anche molti filobus. Nel ’53 si contavano in città 24 filobus e 17 autobus in servizio su diciassette linee (da un resoconto apparso su L’Eco di Bergamo del 27 ottobre 1953, in Il Novecento a Bergamo, cit.).

L’abitacolo era poco spazioso, è vero, e  il motore rumoroso, ma c’era posto per moglie, figlio, i nonni e la vecchia zia. E magari anche per il cane.

La 600 multipla risolse il problema del trasporto “per tutta la famiglia” e per le comunità

E poi via! Tutti a scorrazzare per la Bergamasca, per laghi e montagne, e a scoprire le belle città lombarde nonostante le strade fossero un po’ strette, spesso ancora a schiena d’asino, e con pochi distributori di benzina.

Roncobello nel 1962

 

Gromo nel 1961

Con l’automobile la gente scoprì anche le prime code e i primi ingorghi sulle strade delle vacanze e delle gite domenicali….

Foppolo nel 1961

 

Rifugio Torcola, 1966

….ed anche in città il traffico cominciò a creare qualche problema, soprattutto di parcheggio.

Via XX Settembre, 1964

 

 

Sulla modestissima 600 si spostarono masse di persone con una intensità impensabile, al punto da portare in primo piano il ‘problema autostrada’, le cui dimensioni erano quelle di una qualsiasi strada provinciale. E con notevole preveggenza si mandò avanti un progetto di raddoppio.

Via Autostrada (Archivio Wells)

 

Il cantiere dell’autostrada negli anni ’50

 

L’inizio dei lavori di raddoppio della circonvallazione delle Valli, dove sorgono il campo sportivo Coni, la sede del Comando dei Carabinieri, stazioni di servizio, abitazioni private, fabbricati commerciali

Nel capoluogo orobico il primo carico di Fiat 600 arrivò il 12 marzo del ’55 e insieme alle 500 cominciarono presto ad impadronirsi della città.

Le zebre a Bergamo (1960/61). Le prime zebre si videro negli anni Cinquanta, quando per la prima volta si rese necessario regolare il traffico con una segnaletica moderna che consentisse ai pedoni di attaversare in sicurezza. Anche la rete tranviaria si rinnovò sostituendo ai traballanti tram “un moderno e celere servizio di filobus e di autobus”

 

Una Fiat 600 sulle Mura

 

Un’irriconoscibile piazza Mercato del Fieno, non ancora adibita a parcheggio

L’esordio della 600 – un evento strepitoso -, fu presentato in Televisione  in un cortometraggio preparato da Cinefiat, e  non appena messa in vendita riscosse un successo senza precedenti non solo per il diffuso ottimismo generato dal miracolo economico, ma anche per il sistema rateale messo a punto dalla SAVA.

 

Via Locatelli nel 1950

 

La 600 costava 640.000 lire (equivalente a una dozzina di milioni sul finire del Novecento), quando – come  ricorda Vittorio Feltri -, “Gli stipendi a quel tempo variavano tra le sessanta e le centomila lire al mese; e così non pochi si sottoposero a sacrifici inumani (diete comprese) per acquistare la formidabile macchina. Fu così che la 600 invase ogni contrada e ogni strada; in città come in provincia, in pianura e nelle vallate. Tutti al volante! Anche per andare dal tabaccaio all’angolo c’era chi non poteva fare a meno delle quattro ruote” (1).

In quel periodo c’era il filobus verde, con il suo muso curvo e i fari rotondi. In una Bergamo in cui ancora resisteva l’eco dello sferragliare dei tram, i filobus stupivano in particolare la loro silenziosità: “..sembrava un rottame desolato e infatti venne presto sostituito dagli autobus arancioni. Però non consumava benzina, non inquinava ed era silenzioso. Costava poco e lo prendevano in tanti. Oggi lo chiamerebbero ‘trasporto urbano veloce’ e lo gabellerebbero per l’ultima novità della tecno-ecologia. I nostri nonni, senza tante balle, c’erano già arrivati!” (Marco Cimmino, “Giopì”, 15/01/2010, in Il Novecento a Bergamo, cit.).

E fu così che,  pensando a questo enorme bacino di potenziale clientela, la Fiat meditò la realizzazione di una super-utilitaria, i cui costi di acquisto, uso e manutenzione potessero essere compatibili con il modesto bilancio delle famiglie operaie: nel ’57 arrivò la 500, discendente della Topolino e perciò l’automobile di minor costo della gamma, fissato a 490.000 lire, pari a circa 13 stipendi di un operaio.

La Topolino a Bergamo

 

Targa BG 48

 

Targa BG 59

 

Piazza Pontida e la Topolino negli anni ’30 (Archivio Wells)

Piacque da subito la 500, divenendo un fenomeno sociale pari alla 600 o forse più. C’era chi l’acquistava perché non poteva permettersi altro e c’era chi la comprava perché poteva permettersi tutto.

Via Suardi negli anni del “boom”

Il boom delle vendite, culminò negli anni Sessanta col crescente benessere degli italiani e non conobbe pause; un evento senza precedenti che incarnò anche il sogno dei giovanissimi che potevano permettersi di “andare oltre” lo scooter.

L’auto (magari acquistata a fior di cambiali) divenne anche uno strumento di lavoro, in particolare per il pendolare, stanco di scomodità, attese e di ritardi.

Via Rosa negli anni Sessanta

 

Via Corridoni all’imbocco di via Suardi

 

Viale Giulio Cesare

Nel giro di pochi mesi i veicoli in circolazione a Bergamo crebbero del 20/%, raddoppiando rapidamente.

Ma nonostante i tempi di diffuso benessere e il prezzo della benzina in continuo calo, molti italiani non potevano ancora permettersi l’acquisto di un’auto, continuando a preferire le motociclette, più a portata di portafoglio.

Donne in bicicletta in Borgo S. Caterina (propr. Museo Storico di Bergamo) In quei primi anni Cinquanta la maggioranza viaggiava in bicicletta. Le donne erano attente a coprirsi le gambe quando la gonna svolazzava troppo “maliziosamente”

 

Gli uomini affrancavano con una molletta i pantaloni dal grasso nero della catena

Perciò negli anni del boom per le strade impazzavano le Vespe e le Lambrette, divise da una rivalità paragonabile solo a quella che a volte animava i tifosi. Le “divisioni” del resto andavano molto di moda in quegli anni, gli anni dei dilemmi: Coppi o Bartali? La Callas o la Tebaldi? La Vespa o la Lambretta? La Loren o la Lollobrigida?

Si racconta che “gli scooter avessero messo in un angolo le cosiddette moto ‘normali’, con due selle allineate, quella posteriore molto rialzata, e i paraschizzi: “due traballanti rettangoli di lamiera posti ai lati della forcella. Un insulto all’estetica, ma anche alla velocità” (2).

Proprietà Museo Storico di Bergamo

Avevano soppiantato anche  le celeberrimi biciclette “motorizzate” come Cucciolo e Mosquito, alle quali veniva applicato un piccolo motore.

La produzione del Cucciolo era iniziata a Borgo Panigale a partire dal marzo 1946. Era il primo prodotto motociclistico della Ducati

Il Cucciolo, che nel ’46 costava poco meno di quarantamila lire, “Veniva venduto in scatola insieme a una sorta di barattolo che fungeva da serbatoio e a un grosso pedale con la corona della ruota all’interno. Poteva essere montato su qualsiasi tipo di bicicletta e soltanto i meccanici lo sapevano fare.

Non scoppiettava, frullava” sulle strade disastrate della Bergamo di allora, fino a quaranta chilometri orari, e con un litro di benzina riusciva a percorrere settanta chilometri, mentre il Mosquito, suo diretto concorrente, costava quattromila lire in meno ma consumava il doppio e funzionava con una miscela più cara della benzina” (3).

Quando a Bergamo arrivarono gli scooter,  i meccanici, che ancora prestavano assistenza  in officine ricavate in piccoli locali, si improvvisarono “motonoleggiatori”affittandoli – previa una fulminea lezione di guida – a coloro che non se ne potevano permettere l’acquisto: “Per la verità il meccanico si preoccupava più che altro che il cliente avesse la carta di identità e conoscesse l’equilibrio delle due ruote. Del resto non c’era traffico, né regole vincolanti a parte il tenere la destra. All’inizio la Vespa non aveva neanche la targa” (4).

L’ultimo carretto in circolazione a Bergamo-città

Ogni anno, il 17 gennaio, in occasione della festa di S. Antonio Abate gli “scooteristi” si mettevano in coda sul sagrato della chiesa di S. Marco, in attesa di far benedire la motocicletta insieme a frotte di automobili e di animali, come i magnifici cavalli della Casali Trasporti.

La benedizione delle automobili per la festa di S. Antonio a Bergamo

 

Nel 1960 davanti al Donizetti

 

Borgo S. Caterina (propr. Museo Storico di Bergamo)

 

UN’AVVENTURA TARGATA RUMI

C’erano anche le moto “made in Bergamo” prodotte dalla Rumi, che negli anni Cinquanta portò Bergamo nel mondo, sia per i molti record sportivi conquistati, e sia per l’ammirazione ovunque suscitata per la capacità di incarnare il prestigioso miracolo italiano del dopoguerra.

All’inizio furono accolte con parecchio scetticismo ma ben presto dimostrarono una notevole versatilità e riscossero successo sul mercato primeggiando nel campo delle competizioni, dove si distinsero in particolare nelle gare di “Regolarità”.

Squadra ufficiale Rumi nel 1952 (“Cent’anni di Sport a Bergamo”)

Come non ricordare, oltre agli scooter Rumi,  gli originali modelli da turismo e fuoristrada che segnarono i dodici anni della produzione della Casa: Turismo, Sport, Competition SS 52 detto il “Gobbetto”, Regolarità 1^ e 2^ Serie, Bicarburatore SS, G.T. – Granturismo, Diana, Junior, Regolarità Sei Giorni, Junior Gentleman. C’era persino il motofurgone leggero, inizialmente di 125 c.c., prodotto nel 1950.

I leggendari scooter esordirono nel ’51 con lo Scoiattolo, una motoleggera prodotta in quattro serie, con scocca avvolgente, ruote da 14″ e motore da 125 cc.

Scoiattolo (1951-’57) La scocca avvolgeva tutte le parti meccaniche e riparava il conducente dalle intemperie ed offrendo un elevato grado di protezione e confort anche al passeggero. Non riscosse un gran successo, nonostante la versione con avviamento elettrico fosse un piccolo capolavoro di meccanica. Il motore, ancorato alla scocca in lamiera, fu modificato ’53, potenziato e migliorato anche esteticamente

Nel ’54 fu la volta di Formichino, un gioiellino biposto da 125 centimetri cubici, che riscosse grande successo commerciale. In entrambi, i motori derivavano dai modelli Turismo e Sport, progettati dal geniale Pietro Vassena.

Dal Catalogo Rumi (“Cent’anni di Sport a Bergamo”)

Con Formichino, si era lanciata la sfida ai due colossi che ai tempi dominavano il mercato con la Vespa e la Lambretta. Costava 138.000 lire, contro le centocinquantamila della Vespa 125 del 1955.

La shilouette, un formicone metallico, fu plasmata con la creta da Donnino attorno al motore, ottenendo un modello assolutamente ricercato e originale, com’era nello stile di Casa Rumi. Rimase in produzione sino alla chiusura del reparto motociclette delle Fonderie Officine Rumi, avvenuta nel 1960.

Formichino del 1955 (prodotto tra il 1954 e il 1960). La carrozzeria portante, in lega d’alluminio, era troncata in due parti, imbullonate al carter del propulsore posto al centro collegando rigidamente i due tronconi. La parte anteriore era a sua volta suddivisa in due gusci incorporando il serbatoio, la forcella e il faro, mentre la carenatura posteriore costituiva il piano d’appoggio per le selle e il parafango della ruota motrice. Nel tempo vennero apportate alcune trasformazioni. Fu disponibile dapprima con motore da 125 cc e poi da 150 cc, in diverse versioni (Sport, Economica, Lusso e per le competizioni, riscuotendo un discreto successo anche grazie alla vittoria del ventinovesimo Bol d’Or) nei colori avorio, blu corsa, giallo avorio, argento, grigio Rumi, oro-bianco, azzurro cielo, rosso corsa

 

LA STORIA

Manifesto pubblicitario delle fonderie Rumi (da “Guida di Bergamo” del 1929).

La fabbrica, che si trovava fra le vie San Bernardino e Moroni, era stata fondata nel primo Novecento come officina meccanica e fonderia specializzata nella lavorazione del bronzo da Achille Rumi, industriale della ghisa dal 1908.

Bergamo, Fonderia Officine Rumi. Nell’Archivio della CCIAA di Bergamo, serie Registro ditte c/o Fondazione famiglia Legler, la Fonderia Rumi Achille, Via Osio 56, è registrata come “aperta l’08/04/1925 e cessata il 02/03/ 1935” (“Cent’anni di Sport a Bergamo”)

Donnino, figlio del fondatore,  dall’età di dodici anni lavorava come garzone di bottega alla fonderia, di cui dovette occuparsi in prima persona non ancora ventenne.

Nuovo Stabilimento Rumi, 1938 (Autore: Antonio Gelmini, per gentile concessione di Gianni Gelmini)

Nel frattempo, formatosi all’Accademia Carrara – le prime opere, già degne d’attenzione,  risalgono agli anni Venti –  la sua passione per l’arte dovrà attendere un tempo più propizio per esprimersi con la fioritura di una produzione che ha saputo rapportarsi con le novità della moderna pittura europea, senza perdere nulla dei valori espressivi della tradizione locale.

Nuovo Stabilimento Rumi, 1938 (Autore: Antonio Gelmini, per gentile concessione di Gianni Gelmini)

Attraverso la conduzione dell’azienda fondata dal padre e grazie alle sue straordinarie doti imprenditoriali, Donnino seppe legare il suo nome a una fortunata e innovativa stagione dell’industria bergamasca.

Nuovo Stabilimento Rumi, 1938 (Autore: Antonio Gelmini, per gentile concessione di Gianni Gelmini)

 

Nuovo Stabilimento Rumi, 1938 (Autore: Antonio Gelmini, per gentile concessione di Gianni Gelmini)

 

Nuovo Stabilimento Rumi, 1938 (Autore: Antonio Gelmini, per gentile concessione di Gianni Gelmini)

 

Nuovo Stabilimento Rumi, 1938 (Autore: Antonio Gelmini, per gentile concessione di Gianni Gelmini)

Grazie ad una intelligente e qualificata diversificazione produttiva,  intorno agli anni ’40 l’azienda aveva raggiunto,  dai dieci operai della fonderia paterna, un migliaio di dipendenti.

Bergamo, in via Gian Battista Moroni, stabilimento Rumi (F.O.R. Fonderie Officine Rumi). Con la conduzione di Donnino Rumi, figlio del fondatore, nel 1955 l’azienda – di 72.000 metri quadrati – era divenuta la più importante della città, offrendo lavoro a 1500 unità (Per l’immagine: “Cent’anni di Sport a Bergamo”)

Durante il conflitto mondiale, le forze tedesche requisirono la fabbrica e ne controllarono la produzione,  riconvertendola nella realizzazione di eliche marine, periscopi, torpedini ed armamenti. Ed ecco spiegato il marchio storico della Rumi: un’elica marina, un’ancora e un periscopio.

Il Marchio della Rumi

Ma il rifiuto di Donnino di riconvertire la propria industria per scopi bellici, ne fece un partigiano latitante che, catturato nel ’43, fu rinchiuso nel carcere di Sant’Agata di Bergamo dove, nonostante il dramma personale, non rinunciò a coltivare la sua passione per l’arte.

Donnino Rumi (1906-1980), in una rara immagine che lo ritrae. Nella sua vicenda artistica spesso, per scelta, isolato, ha saputo coltivare la genialità di un talento che oggi appare ancora più meritevole di attenzione e di considerazioni positive, nel divenire degli studi sull’arte del ‘900 a Bergamo

Liberato dopo due anni di prigionia potè finalmente porsi alla guida dell’azienda, ma con la necessità di riconvertire interamente la produzione, che dalle eliche e i periscopi dell’anteguerra passò alla fabbricazione di macchinari per l’industria alimentare e per quella cinematografica e di ottime macchine tessili (telai e cardatrici) nonchè motociclette di altissima qualità.

Donnino Rumi, Autoritratto con modelle, olio su tela (Donnino Rumi, un pittore “francese” a Bergamo. 29 agosto-28 settembre 2008, Bergamo, Sala Manzù. Catalogo a cura di Fernando Noris)

Nello scenario della ricostruzione, l’Italia necessitava di mezzi di locomozione a basso costo e dai consumi contenuti, e fu così che nel 1949 iniziò la fabbricazione delle motoleggere RUMI, con le quali Donnino diede il via all’avventura della  brillante Casa bergamasca destinata a rappresentare uno dei marchi italiani che contribuirono alla motorizzazione della nazione.

L’interno dello stabilimento Rumi (“Cent’anni di Sport a Bergamo”)

Un’avventura che si svolse nell’arco di un ciclo ultradecennale, e che fece volare alto il nome di Bergamo nel mondo.

Donnino Rumi, Autoritratto, olio su tela (Donnino Rumi, un pittore “francese” a Bergamo. 29 agosto-28 settembre 2008, Bergamo, Sala Manzù. Catalogo a cura di Fernando Noris)

L’indiscusso ed inimitabile gusto stilistico di Donnino, unito all’elevato sapere acquisito dalle maestranze della fonderia paterna, contribuirono a far decollare la giovane e innovativa azienda, che presto, nell’indistinta pletora di piccoli e grandi costruttori del periodo, si distinse per le raffinatezze tecniche e stilistiche delle sue motoleggere , definite le “moto dell’artista” per le linee fortemente caratterizzate.

Fra le numerose peculiarità, “Il sofisticato e inconsueto motore bicilindrico, il moderno e leggero telaio, l’utilizzo di tecnologie innovative nonché di materiali speciali” (5).

“E poi quel particolare ‘rumore’ del motore….

‘Un rumore affascinante’.

Una moto, insomma, ‘dal fascino singolare’. Tutto concorreva a rendere la moto Rumi ‘un caso del tutto speciale nella storia della motocicletta. Anche il colore, la forma, la penetrazione nell’aria” (6).

Un’altra singolarità delle moto Rumi, era la significativa avvertenza che le accompagnava alla vendita e che la dice lunga sulla “filosofia” civica e imprenditoriale di Donnino: “La Casa fa appello al senso civico dei possessori di motomezzi Rumi affinché rispettino al massimo grado la silenziosità dei propri motori. Sono state impartite precise disposizioni a tutte le stazioni di servizio affinchè non venga riconosciuta alcuna assistenza, né gratuita né a pagamento, a quei possessori di motomezzi Rumi che abbiano volontariamente alterato le marmitte dei silenziatori o vuotate le stesse della lana di vetro” (7).

Lo scooter “Elegante, Confortevole, Silenzioso”

La prima motoleggera uscita dalla catena di montaggio della Rumi si deve all’incontro tra l’artista-imprenditore Rumi e il geniale Pietro Vassena, tecnico e motonautico definito “il Giulio Verne dell’ingegneria motociclistica italiana”, che incaricato della progettazione dei prototipi intuì con estrema lucidità il giusto indirizzo verso il quale concentrare la ricerca.

Pietro Vassena, lecchese, tecnico motonautico, già famoso per aver stabilito nel marzo del 1948,con il suo sommergibile tascabile C3, il record mondiale di immersione scendendo nelle acque del lago di Como alla pofondità di 412 metri (photocredit ecco-lecco)

Dalla perfetta unione delle due menti creative scaturì il modello Turismo, la prima Rumi in assoluto equipaggiata con un motore a due tempi, bicilindrico (2 cilindri da 6 cavalli) che coniugava in modo assolutamente inedito l’innovazione meccanica ad un accattivante design.

Eravamo nel ’49, e da poco aveva preso avvio la ricostruzione post-bellica. Il prototipo di cui Vassena aveva progettato il propulsore racchiudeva tutte le caratteristiche peculiari che contraddistinsero le Rumi per tutto il decennio successivo, dando l’avvio alla brillante avventura della Casa legata al mito del suo patron.

AMISA, 1949 prototipo. Il prototipo del modello Turismo viene presentato nel dicembre del 1949 al Salone del Ciclo e del Motociclo di Milano, ed esposto nella sua versione definitiva nel marzo 1950 alla mostra del Ciclo e Motociclo di Bergamo nonchè al 27° Salone di Milano nell’aprile dello stesso anno. Venne realizzato in associazione temporanea con la piccola casa motociclistica milanese AMISA, ma data la il scarsa capacità produttiva di questa la Rumi decise di produrla in proprio. Le consegne al pubblico iniziarono nell’aprile del ’50 ma già ad ottobre uscì una versione modificata nei colori, mentre a novembre fu presentato un nuovo modello migliorato sia nelle prestazione che nella ciclistica

 

TURISMO (1950-1956). Caratteristiche peculiari, il motore montato su un telaio in tubi a culla aperta, i validissimi pistoni con deflettore e le relative camere di scoppio lenticolari, le efficientissime forcelle per affrontare percorsi facili o severi. Questo modello poteva essere fornito dai concessionari, su richiesta, con sidecar il fusione d’alluminio dell’azienda Durapid di Roma. Fu poi sostituito dal modello Diana (1955-1958). Nel 1953, l’anno più propizio per la Casa motociclistica bergamasca, il classico bicilindrico viene modificato per dar vita alla “media” cilindrata: nasce così la 200 GT Granturismo e per la prima volta sulla moto compare il marchio con la firma personale serigrafata di Donnino Rumi, modificata negli anni successivi. Venne prodotta solo fino al 1956, a causa della forte concorrenza con case motociclistiche più celebri nelle medie cilindrate

L’anno successivo (1951), alla prima Rumi si affiancò la produzione in serie dell’ancor più prestante modello Sport, senza dubbio il modello più rappresentativo e di maggior successo della Casa, che inaugurò in quell’occasione la sua avventura nel mondo della competizione motociclistica.

SPORT (1950-1958). Il propulsore appariva notevolmente migliorato e dotato di pistoni con un particolare deflettore, brevettato dalla Casa, che successivamente fu montato da tutti i modelli Rumi. Negli anni successivi il modello viene migliorato apportando modifiche prima al carburatore poi al cambio e infine nella parte ciclistica, migliorando il molleggio posteriore e infine montando indistruttibili cerchi in ferro Aimon. La produzione cessò nel 1958

Nel frattempo, con un modello chiamato semplicemente Regolarità la Rumi si rivolse anche ad una nuova disciplina – paragonabile agli attuali Enduro -, partecipando con successo al neonato Trofeo della Regolarità, che si svolgeva in parte sui severi percorsi delle valli bergamasche.

REGOLARITA‘ (1952-1954) 1^ e 2^ Serie. Il marchio Rumi fu precursore anche nel campo delle motociclette fuori strada con Regolarità, che partiva dal più robusto telaio del Competition SS 52 alias “Gobbetto” (1951-1955), adattandolo alle nuove esigenze agonistiche pur mantenendo il manubrio basso e molte delle caratteristiche di serie. Nella primavera del 1953 venne lanciato un modello più aggiornato, rimasto in gara fino al 1955. Del modello Regolarità vennero prodotti pochissimi esemplari proprio perchè rivolto esclusivamente ai severi percorsi previsti dalle competizioni

 

COMPETITION SS 52 alias “Gobbetto” (1951-1955), così chiamato per via del caratteristico serbatoio prolungato oltre la testa della forcella  incorporante il portanumero. Nato nel ’51 specificatamente per le corse, aveva un motore potente ed affidabile collaudato a fondo in molte gare di “Regolarità” e in alcune di velocità. La sua produzione cessò nel 1955 e fu fabbricato in una cinquantina di esemplari circa, esportati anche in Inghilterra, Francia, Svezia, Argentina e Stati Uniti

Nel ’53 la Casa presentò anche il modello Bicarburatore SS (variante stradale spinta del modello Sport), omologata per le gare di velocità della III categoria (considerate le più impegnative del tempo),  vide in numerose occasioni il gradino più alto del podio venendo superato soltanto, dopo il 1955, dalla prestigiosa Junior, il cui modello d’indole spiccatamente corsaiola fu presentato nel 1955 e prodotto sino al 1959.

JUNIOR (1955-1959). Motoleggera corsaiola ispirata al potente e affidabile Bicarburatore, ma modificata nel telaio e nelle sospensioni. Il capacissimo serbatoio è disegnato dallo stesso Rumi. Nel 1959 viene sostituita dalla Gentleman (prodotta fino al 1962)

Nel 1955, in vista della partecipazione ufficiale alla massacrante Sei Giorni Internazionale di Regolarità in Inghilterra, fece la sua comparsa la Regolarità Sei Giorni (1955-1960), una vera e moderna moto da fuoristrada che con quattro partecipanti si assicurò quattro medaglie d’oro.

REGOLARITA’ SEI GIORNI (1955-1960)

 

LA FINE

Dopo aver prodotto nel ’55 la più sofisticata ed efficiente macchina da fuoristrada esistente al mondo, la Rumi – la cui produzione motociclistica e di macchine tessili andava a gonfie vele – era ormai la fabbrica più importante della città e tra le più importanti a livello provinciale.

Ma fu segnata da una ingentissima perdita finanziaria causata da sconvolgimenti politici in Argentina, che causarono la perdita di ingenti forniture di macchine tessili portandola progressivamente al totale dissesto economico (8).

Malgrado tutti gli sforzi compiuti, il 1960 decretò la fine di tutta la produzione Rumi,  e verso il ’62, dopo aver tentato senza successo il lancio di un nuovo scooter in due versioni (98 e 125 cc), l’azienda fu posta in liquidazione. Terminava così, drasticamente e inesorabilmente, la gloriosa avventura delle Fonderie Officine Rumi, una delle più interessanti fabbriche metalmeccaniche italiane del dopoguerra.

Stabilimento Rumi in via Moroni (“Cent’anni di Sport a Bergamo”)

Da quel momento, e con una punta di amarezza, il suo patron, Donnino Rumi, si dedicò interamente all’attività artistica nella sua Bergamo, che lo vide operoso e attivo e dove si spense il 17 agosto 1980.

Donnino Rumi, Autoritratto, olio su tela. Nella molteplicità degli interessi coltivati da Donnino Rumi, la pittura rivela di essere stata il sogno di tutta la sua esistenza. L’amorosa attenzione alla poesia della sua terra e l’acuta indagine condotta attorno alla figura umana, a partire dai numerosi e significativi Autoritratti, ne fanno un raffinato interprete del suo tempo e delle condizioni più autentiche del vivere umano (Donnino Rumi, un pittore “francese” a Bergamo. 29 agosto-28 settembre 2008, Bergamo, Sala Manzù. Catalogo a cura di Fernando Noris)

Le motociclette Rumi circolarono per ancora diversi anni e fino alla fine degli anni Sessanta continuarono a rivaleggiare con le più belle moto del mondo,  ma non più in grado, ormai, di rispondere alle rivali divenute sempre più aggressive.

Si era purtroppo concluso prematuramente un ciclo costellato di successi, ma troppo breve rispetto all’elevatissimo potenziale di cui la Casa era dotata.

A distanza di oltre mezzo secolo da quel lontano 1950, con il loro stile innovativo e spiccatamente  glamur, le Rumi restano modernissimi esempi della migliore scuola di design motociclistico italiano, per il concentrato tale di innovazioni che han fatto di quei motori qualcosa di unico e irripetibile, inserendo a pieno titolo la Casa bergamasca fra le migliori case motociclistiche italiane del dopoguerra.

Le motociclette Rumi, il 25 marzo del corrente anno sono state messe all’incanto proprio a Bergamo. Alcune provenivano dalla Collezione Migliazzi (importante collezione privata emiliana composta da oltre 40 esemplari di motociclette degli anni ’40 ’50’ e ’60), e Sandro Binelli, Capo Dipartimento Automotive di Finarte, commentando questo importante traguardo ha auspicato che una cordata di imprenditori bergamaschi acquistasse l’intera collezione per farne un museo a Bergamo, la città che ha dato alla luce le indimenticabili moto dell’artista Donnino Rumi.

NOTE

(1) Pilade Frattini e Renato Ravanelli, Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo. A cura di Ornella Bramani. Vol. II, UTET, anno 2013.

(2) Il Novecento a Bergamo, cit.

(3) Il Novecento a Bergamo, cit.

(4) Il Novecento a Bergamo, cit.

(5) Simone Crippa, Arte a Bergamo, 1945-1959.

(6) Il Novecento a Bergamo, cit.

(7) Il Novecento a Bergamo, cit.

(8) Perdita legata a una rilevantissima commessa ricevuta dal Governo Argentino poco prima dei disordini causati dal colpo di stato militare che esautorò l’allora presidente argentino Juan Domingo Peron.

Bibliografia

Pilade Frattini e Renato Ravanelli, Il Novecento a Bergamo. A cura di Ornella Bramani. Vol. II, UTET, anno 2013.

Laura Civinini, Francesco Cortesi, Sara Locatelli, Gianluigi Ravasio, Andrea Spolti, Bergamo, il grande secolo.

Simone Crippa, Arte a Bergamo, 1945-1959.

Rumi, Motociclismo, fasc. 2, 1952.

Rumi la moto dell’artista – Riccardo Crippa – 2005.

Rumi, Edizioni Bolis, Bergamo 1983.

Aurelio Locati, Cent’anni di sport a Bergamo. Bolis, 1985-’86.

Catalogo Moto Finarte, Bergamo, 25 marzo 2018.

Pierina Manera, caldarrostaia, nel ricordo dei Bergamaschi

Ripensando agli anni d’oro della vecchia Bergamo, ai tempi in cui i centri commerciali erano di là da venire,  la mente corre alle bottegucce di allora, così intime e originali,  e ai chioschetti di ogni foggia che a frotte rallegravano ogni angolo di strada; chioschetti che negli anni Cinquanta e Sessanta punteggiavano ancora in gran numero la città: ambulanti stanziali e itineranti, la cui tradizione si è mantenuta sino a qualche decennio fa, insieme a quella dei piccoli artigiani che passavano di strada in strada, di cortile in cortile, per la gioia di bambini e massaie: gli ombrellai, il “moleta”, lo spazzacamino, il materassaio, il gelataio, e quanti altri ancora!

Il chioschetto itinerante di un gelataio, ritratto in via XX Settembre negli anni Cinquanta

I più anziani ricordano ancora la bancarella del castagnaccio in via Angelo Maj, davanti ai giardini delle scuole nel piazzale degli Alpini, dove si rifornivano i ragazzi prima di entrare in classe, nell’agognata attesa dell’intervallo delle dieci.

1954: il calzolaio ambulante Francesco Gasparini, chiamato da tutti “Cesco Gasparì”

 

Arrotino (“Moleta”) in Piazza Vecchia. Risiedeva in via F.lli Cairoli

 

Il carretto dei Lavandai in piazza Mercato delle Scarpe

 

La “stadera”, la bilancia del fruttivendolo ambulante

Davanti al cinema Diana, oppure al S. Orsola, si appostava una vecchina che vendeva delle dure focaccette, liquirizia e “anesini”, le piccole e gustose caramelle sfuse di pura liquerizia.

Anni Cinquanta, bancarelle in Porta Nuova

 

Bancarelle in piazza S. Anna, 1960

 

Un banchetto di frutta in via Gombito, anni Sessanta

Venditori di “anesini” ve n’erano un po’ ovunque, alcuni si davano appuntamento davanti allo stadio quando giocava l’Atalanta, altri sul piazzale della stazione ferroviaria e su quello delle stazioni delle Valli.

Il formaggiaio Albino, sotto la loggia del mercato tra via Gomito e Piazza Angelini, realizzata nel 1942. Fotografia di Giuseppe Preianò

 

La bancarella dei libri usati, davanti al teatro Donizetti. Fotografia di Giuseppe Preianò

 

Il fioraio di via XX Settembre. Anni ’80. Fotografia di Giuseppe Preianò

E poi, da sempre a Bergamo, i venditori di caldarroste, dal momento che le castagne, tipico frutto bergamasco, erano facimente reperibili anche nei boschi che coronano la città – Castagneta e Maresana in primis -, sebbene perlopiù provenissero dalla “patria” delle castagne per eccellenza:  Vallalta e Abbazia, frazioni di Albino, oppure Poscante, frazione di Zogno.

1939: camino con nicchie laterali in un’abitazione popolare nei borghi di Bergamo (Raccolta Lucchetti).”Quando arrivava il tempo, in famiglia ci si radunava tutti intorno all’ampio camino a far caldarroste. Noi bambini, a turno, si scuoteva la padella forata ripiena di castagne fino che si annerivano, quasi rompendosi metà in corrispondenza dell’apposito taglio. Dopo averle raccolte in un sacco posto sul tavolo della cucina, si dava inizio all’abbuffata e il papà distribuiva misuratamente un po’ di vino a tutti. Alle raccomandazioni della mamma perchè non esagerasse, rispondeva: “Come si fa a gustare le borole se non innaffiate con un po’ di rosso” (1)

Ai primi del Novecento un famoso caldarrostaio era un fruttivendolo di Città Alta, il Nervi: “Nella sua botteguccia si dedicava per nove mesi all’anno soprattutto a vendere castagne. ln particolare famose, tra noi bambini, erano le sue caldarroste che fabbricava sulla soglia del suo negozio, che poi era anche la sua casa. Nell’andare e nel tornare dalla scuola, o dalla chiesa, ci si fermava a guardarlo attizzare il fuoco, rimestare con la paletta forata le castagne scoppiettanti, tagliare opportunamente quelle che erano ancora nel sacco, sempre pronto a riversare con studiata parsimonia nella tasca degli avventori il piccolo misurino di caldarroste caldissime. Gridava sempre e con tutti e nulla dava per nulla; e guai se si tentava di scappare lasciandogli un soldo pestato e di dubbio valore! Lo credevamo cattivo; però, cresciuto, ho poi conosciuto la sua triste storia e le pene della sua miseria e come, nonostante tutto, la sera svuotasse nelle mani di certi poveri quello che rimaneva nel sacchetto che teneva in una cassetta di legno dipinta di verde perché le caldarroste non si raffreddassero. Ora è morto e nella sua botteguccia rimessa a nuovo vendono articoli di musica e da mane a sera un grammofono suona le sgraziate musiche moderne; e i ragazzi ancora si fermano in cerchio fuori da quella soglia. Però non ò più il piccolo mondo d’allora”(2).

Il negozio del fruttivendolo Nervi in via Gombito, ai primi dei Novecento

Famosa era anche la Giacomina, che vendeva caldarroste in Colle Aperto. Qualcuno la ricorda più in là con gli anni, quando a metà degli anni Sessanta vendeva il pane in via Gombito accanto alla vetrina di Franco Loda.

Colle Aperto, la caldarrostaia Giacomina chiamata “la fornarina”, ricordata come una persona gentile e riservata (Raccolta Lucchetti)

Anche Cassotti, il fruttivendolo di piazza Mercato delle Scarpe, era famoso per le sue ottime castagne. Qualcuno ricorda anche il caldarrostaio che stazionava con l’ape davanti all’ospedale maggiore.

La famiglia Cassotti, fruttivendoli in piazza Mercato delle scarpe, in una fotografia risalente agli anni Sessanta

Ma la venditrice ambulante per antonomasia, nella nostra città, è stata una donna di cui i Bergamaschi conservano un ricordo speciale. Conosciuta da tutti per essere “quella delle angurie e delle caldarroste”, quando nel 1975 un cronista dell’ “Eco” ne rivelò il nome, “I bergamaschi stupirono quel giorno.. stupirono per la rivelazione che quegli appunti contenevano. Perché tutti ‘sta donna delle angurie e delle caldarroste la conoscevano e la salutavano, ma nessuno sapeva il suo nome”.

Un balzo indietro nel tempo: fruttivendolo davanti alla chiesa di S. Marta, 1924

Annotava il cronista: “E’ difficile dire da quanto tempo la signora Pierina Manera è lì. I passanti sono abituati a vederla al lavoro ‘da tempo immemorabile’. La conoscono, la salutano. Si potrebbe dire che la signora Manera faccia parte del paesaggio. Sia con il freddo di gennaio, sia con il solleone d’agosto, lei è sempre lì. E’ parte integrante del piazzale come il traffico, i palazzi, le vetrine dei negozi”.

Una specie di “monumento” (3).

Una testimonianza di Gianni Gelmini, il “Ricordo di ‘Bröta Facia Bèla’ e di qualcosa che c’era sull’angolo tra Via Zambonate e via Spaventa”, aiuta a far luce riguardo il periodo in cui Pierina Manera comparve davanti all’edificio del Coin: dal racconto si deduce che Pierina fosse la moglie del Bepo, un’ambulante che doveva stazionarvi con la sua baracca almeno dalla metà degli anni Quaranta.

“Quando, accompagnato da mia madre, svoltavo da Via XXVIII Ottobre, che a volte mia madre chiamava ancora Via dei Mille ed oggi è Via Giorgio e Guido Paglia, non vedevo l’ora di arrivare a via Zambonate: mi aspettava “bröta facia bèla’.

Com’era via Paglia intorno al 1910. La via si chiamava Via dei Mille e successivamente Via XXVIII Ottobre (Raccolta Lucchetti)

Nonostante il traffico in città non fosse molto, quella piazza era veramente trafficata. I tram sferragliavano; auto, furgoni ed anche mezzi trainati da cavalli impegnavano la piazza, occorreva attenzione ad attraversare le vie.

Largo Medaglie d’Oro nei giorni di mercato

 

Mercatini in via Zambonate , nel 1960

Sull’angolo tra Via Spaventa e Via Zambonate, c’era uno spiazzo abbastanza grande con dei grandi ippocastani e, proprio sull’angolo, tre ‘baracchette’: sul lato di via Spaventa un fiorista, al centro, sull’angolo tra le due vie, un’edicola e sul lato di via Zambonate quella da me preferita, che vendeva dolci, bibite, e d’inverno caldarroste, d’estate granite, anguria e cocco a fette; quella che tutti hanno conosciuto come del Bepo.

Veduta su Largo Medaglie d’Oro, com’era negli anni Cinquanta. Da sinistra: un vespasiano con a fianco una torretta (che fungeva da ripostiglio per gli attrezzi degli operai incaricati alla pulizia), il fioraio Bombardieri, un’edicola in metallo, e, a destra, l’insegna del negozio Gummis. Tra l’edicoletta e Gummis vi era il chioschetto del Bepo (non visibile nell’immagine): difficile stabilire esattamente da quanto fosse lì, sicuramente almeno dalla metà degli anni Quaranta. L’edificio posto dietro il fioraio fu abbattuto per costruire il Coin (Foto Wells)

 

Largo Medaglie d’Oro nel 1954. A sinistra dell’edicola, dietro l’albero, si intravede, seminascosto, il chioschetto del Bepo, che vendeva dolci e bibite; d’inverno caldarroste, d’estate granite, anguria e cocco a fette. La sua presenza in loco è testimoniata ancora sul finire degli anni Cinquanta

Il Bepo, un personaggio tracagnotto, ma sempre sorridente, mi accoglieva con una frase: “se fet bröta facia bèla’ e il motto con cui mi accoglieva, per me, era diventato il suo nome.

A destra della foto, il chiosco del Bepo, in Largo medaglie d’Oro, davanti alla palazzina abbattuta per far posto al Coin

Ora, mentre faccio mente locale, mi accorgo in quegli anni quella del Bepo era l’unica struttura assimilabile ad un bar presente sulla piazza, c’era solo una latteria poco più avanti in via Zambonate e un’altra latteria in via XXVIII Ottobre (oggi via Paglia), quest’ultima si trasferì proprio sulla piazza negli anni cinquanta.

La foto, risalente al 1961, riprende la zona di Largo Medaglie d’oro all’inizio di via Zambonate, posta sulla sinistra. Di fronte, sorge attualmente il Coin. L’edificio, con le sue botteghe, è stato demolito nel 1969 e attualmente l’area è occupata un palazzo moderno, sede di una banca (si veda la foto sottostante).  La strada sulla destra è diventata il passaggio pedonale che da largo Medaglie d’Oro si immette in via XX Settembre passando accanto alla chiesa dello Spasimo, che i Bergamaschi chiamano affettuosamente “chiesa di Santa Lucia”. All’epoca la palazzina ospitava diversi negozi, ormai “storici”, come Gummis, uno dei due negozi di Stival Verde e la Casa del Bambino. (Archivio Wells)

 

Largo Medaglie d’Oro com’è oggi (da “L’Eco di Bergamo”)

 

Una piccola, curiosa divagazione, che consente di capire com’era la zona di Largo Medaglie d’Oro all’imbocco di via Zambonate nel 1900, prima dell’abbattimanto delle Muraine. Vi sorgeva l’omonimo portello del dazio, successivamente ampliato per esigenze di traffico. Nel cancello, spalancato solo per il passaggio dei carri, era aperto un passaggio per i pedoni, che venivano controllati dagli agenti del dazio i quali si riparavano nei due piccoli edifici posti a lato della cancellata. Si noti la palazzina, posta dietro la torretta di sinistra, demolita negli anni Sessanta per far posto al Coin

Coprì un pezzo delle Roggia Serio a fianco della sagrestia della Chiesa di Santa Lucia e divenne il “Bar Alemagna”, rimasto in funzione fino a quando fu abbattuto (anni ’70?) cambiò tutta la viabilità di Via Zambonate e Via Tiraboschi, qualche anno dopo la copertura completa della Roggia.

La zona posta di fronte al Coin  (Largo Medaglie d’Oro )nel 1954. Accanto al vespasiano, il basso edificio  il fiorista Bombardieri che nasconde la vista dell’edicola. A destra dell’immagine è visibile il Bar Alemagna, con davanti una piccola rotatoria, mentre all’estrema sinistra campeggia l’insegna “Linoleum” del negozio Gummis. Tra Gummis e la torretta, indicato da una freccia gialla, il chiosco del Bepo con il suo teloncino spiovente (Archivio Wells).

 

Gli abbattimenti da questo lato di Largo Medaglie d’Oro hanno consentito la creazione del passaggio pedonale che si immette in via XX Settembre passando accanto alla chiesa dello Spasimo (o “di S. Lucia”)

La mia storia con “bröta facia bèla” non finisce con la mia infanzia. Se nell’infanzia è stato un personaggio simpatico e passare davanti al suo baracchino era per me un motivo di gioia, con l’adolescenza sono diventato un frequentatore. Per noi ragazzi, con pochi soldi in tasca, d’estate il suo baracchino era diventato il luogo ideale dove, lasciando per un poco le “vasche” del Sentierone, passare un po’ di tempo.

Largo Medaglie d’Oro, sul retro della chiesa dello Spasimo (Archivio Storylab)

Tutti attorno al suo tavolo di lamiera zincata, irrorato d’acqua corrente, potevamo gustarci delle formidabili fette d’anguria (d’inverno il posto preferito era De Zordo con la sua panna montata e la cioccolata, ma costava un poco di più).

La “Casa del Bambino”in Largo Medaglie d’Oro nel periodo natalizio

Il tempo passa e le tre baracchette, per restare adeguate ai tempi, si trasformarono in un fabbricato moderno a “L” con la stessa disposizione: sul lato di Via Spaventa il fiorista, al centro il giornalaio e sul lato di Via Zambonate il Bepo. Il fabbricato a “L” lasciava un bello spazio interno, al riparo dal traffico e dagli sguardi curiosi dei passanti e qui trovammo una bella sorpresa: i tavolini, dove potevamo sederci comodamente. Il baracchino del Bepo si era trasformato in un vero proprio Bar, ma la cosa non durò molto.

Presto tutto cambiò, le costruzioni, ancora nuove, furono abbattute, il piazzale scavato e fu innalzata una nuova costruzione, un cubo grigio senza finestre che ancora oggi potete vedere: il Coin, con nella parte interrata un supermercato alimentare, lo Stella.

La zona di Largo Medaglie d’Oro attualmente occupata dal Coin. Al posto della vecchia edicoletta ne è sorta una moderna, tuttora esistente, e al posto della palazzina ormai abbattuta, è sorto il grande edificio del Coin. Il chiosco del Bepo non c’è più

 

Lavori edili in Largo Medaglie d’Oro

Il Bepo si ritirò in pensione e sulla piazza rimase solo sua moglie a vendere limoni. Avevo certamente visto questa donna corpulenta con una vasta voglia sulla faccia, ma non l’avevo mai notata fino allora.
Mi sono chiesto che significato potesse avere restare lì ancora con la sua cesta, come potevano giustificare i pochi limoni la sua presenza e mia madre mi diede una spiegazione: sotto i limoni c’erano pacchetti di sigarette!

Pierina alla Fiera di Sant’Antonio con le collane di biligòcc, immortalata dal grande fotografo bergamasco Tito Terzi. Il suo piccolo chiosco ha stazionato a lungo in Largo Medaglie d’Oro, davanti ai grandi magazzini Coin

 

Pierina Manera con il suo chiosco alla Fiera di Sant’Antonio: biligòcc e limoni

Un tempo era finito, ma non ne ho avuto modo di accorgermene perché anche per me quel tempo era terminato. Mi ero diplomato, avevo iniziato a lavorare a Bollate al Laboratorio di Ricerche e alla sera, qualche volta, frequentavo l’Università a Milano. La mia vita era cambiata completamente e quelle routine non mi appartenevano più”.

Il fioraio davanti alla gastronomia Ghisalberti, in via XX Settembre, nel 1965  (foto di Gianni Gelmini)

Rossa in viso, Pierina vestiva una lunga palandrana nera per proteggersi dalle scintille della brace, perennemente accesa come quella sigaretta che l’ha accompagnata fino all’ultimo ricordo che abbiamo di lei.

La lapide di Pierina Manera, nel Cimitero Monumentale di Bergamo

Un’ultima immagine pubblicata in questi giorni sulla mia Pagina Facebook, che ha risvegliato il ricordo, mai sopito, della “regina delle caldarroste”, che con la sua costante e bonaria presenza è arrivata ad essere considerata “un mito”, “un’istituzione”, una figura “indelebile”. Una miriade di pensieri sono volati nell’etere ripensando a quegli anni felici.

Memorabile è il ricordo di questa grande donna, un caro, “indimenticabile personaggio”, per molti considerata una figura della Bergamo d’altri tempi, “una figura storica”. “il simbolo di Bergamo”… “Persona meravigliosa nel cuore di Bergamo”..

“…..mi son chiesta moltissime volte che fine avesse fatto”.

“Grazie x il ricordo siamo diventati vecchi”….

Ancora nel 1985 Pierina era presente in città con il suo chiosco. Fotografia di Stefano Bombardieri

Ricordarla strappa un sorriso e il suo ricordo dolcissimo riporta all’infanzia e alla gioventù di moltissime persone, perchè il suo ricordo ha attraversato intere generazioni di Bergamaschi: bambini e anziani, studenti, giovani uomini e giovani donne, che qualche decennio fa passando per il centro la ritrovavano sempre lì, davanti al Coin, “in ogni stagione e con qualsiasi tempo”.

Chi non si è fermato da lei a prendere il cocco e l’anguria in estate e le caldarroste in inverno? “Le sue belle e buone caldarroste mi riscaldavano le mani”.

Una splendida immagine di Pierina alle prese con i biligòcc

“Chi mai non aveva mangiato in estate la sue fette di anguria o il rotolo centrale (il massimo delle leccornie)? Era il 1962 o il ’63”.

Qualcuno la chiamava anche “la Limonera”, perchè oltre alle angurie d’estate vendeva “limoni tanto belli e buonissimi” ….”e quel signore in quella foto che compra l’anguria dovrebbe essere mio zio Antonio….che coincidenza!!!”… …. “Che bello vedere questa foto, la ricordo perfettamente ed è stato un emozionante tuffo nei ricordi”…

Tutti la conoscevano e non mancavano di sostare al suo chioschetto per far due chiacchiere mentre gustavano le “boröle” o una fetta d’anguria. “Metteva serenità vederla”, “era una brava persona..”… “Da piccola quando passavo con la mamma la guardavo sempre incantata”…. anche se qualcuno pensava “fosse più vecchia… Forse perché, come tutti noi, l’ho sempre vista fin da bimba, o, forse perché vivere all’aperto segna un po’ il viso”…

“Dal negozio dei miei, bastava percorrere un pezzettino di via Zambonate ed ero subito lì”…

Era una tappa fissa per tutti, non solo per chi passeggiava in centro o tornava da scuola, ma anche per gli studenti e le famiglie che vi arrivavano dalla periferia o dalla provincia. Ed era la fermata d’obbligo quando si portava la letterina nella vicina chiesa della Madonna dello Spasimo, chiesa che i bergamaschi – gente che s’affeziona – chiamano semplicemente “di S. Lucia”.

Aspettando Santa Lucia (Archivio Storylab)

 

I doni per la festa di S. Lucia in Città Alta, nel 1968

Così amata e popolare da entrare a far parte dell’intercalare bergamasco, che alla domanda:

“Che manera” (in che modo?)

rispondeva:

“che Manera la portaa i carécc in féra!”

oppure:

“Che Manera?

La endìa i limù in féra!”.

“Vi ricordate anche il gelataio della galleria dell’upim? Certo .. E come era buona quella panna montata con la spolvetatina di cannella!!! Mitico! Un tributo!” (Fotografia di Giuseppe Preianò)

Ora sappiamo che con il suo lavoro Pierina mantenne tutta la famiglia; sappiamo che abitava in via Moroni ed aveva due figli, uno di nome Tranquillo, un bel ragazzo purtroppo scomparso prematuramente, “addirittura prima di lei”, e uno di nome Fausto…che “ha fatto per anni il venditore d‘auto..bel personaggio con una famiglia stupenda”.

“Tranquillo lo ebbi come vigilante ai bagni di sole del Polaresco, era un bambino educato,comunicativo che era guardato con un certo rispetto proprio per la notorietà della mamma..”.

“Era una ex collega della mia nonna. Lavoravano da Zopfi e ogni volta che andavo in centro con la mia nonna si fermava sempre a salutarla”…

Si dice inoltre che Pierina avesse una sorella che si chiamava Linda.

“Questi personaggi fanno parte della nostra storia, del nostro essere bergamaschi!”…

Pierina Manera nel 1985, in una delle ultime immagini che la vedono occupata al suo chiosco. Fotografia di Stefano Bombardieri

Poi un giorno, mentre tutto intorno a noi stava cambiando, il chioschetto è sparito e così com’era arrivata, in silenzio la Pierina se n’è andata.

Qualcuno ha esclamato con rimpianto: “Resuscitatela!”

Qualcun’altro ha dato voce ai suoi pensieri: “Che vita ha fatto”…

“Vi rendete conto che è morta a soli 69 anni, ma la vita l’aveva segnata parecchio…”..

“Bello che in tanti la ricordiamo. ..senza pregiudizi e/o giudizi. L’educazione ci è stata insegnata bene”…

E si continua a parlare di lei….

Da qualche decennio ormai, il chiosco non c’è più. La vita non ferve più come un tempo, all’angolo tra via Zambonate e via Spaventa.

Ma a notte fonda, quando il fragore del traffico si è placato e la piazzetta è completamente deserta, potresti forse intravedere una figura evanescente, Pierina Manera, infagottata nella vecchia palandrana mentre rimesta le caldarroste con un placido sorriso.

Note

(1) Cesare Bordoni per “Giopì” del 31 maggio 2011, in: “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”, di Pilade Frattini e Renato Ravanelli. A cura di Ornella Bramani. Vil. II, UTET,  Anno 2013.

(2) Carlo Agazzi, in “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”, cit.

(3) “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”, cit.

Riferimenti

Pilade Frattini, Renato Ravanelli, Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo. A cura di Ornella Bramani. Vol. II, UTET,  Anno 2013.

Gianni Gelmini, Il “Ricordo di ‘Bröta Facia Bèla’ e di qualcosa che c’era sull’angolo tra Via Zambonate e via Spaventa”.

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