Ripensando agli anni d’oro della vecchia Bergamo, ai tempi in cui i centri commerciali erano di là da venire, la mente corre alle bottegucce di allora, così intime e originali, e ai chioschetti di ogni foggia che a frotte rallegravano ogni angolo di strada; chioschetti che negli anni Cinquanta e Sessanta punteggiavano ancora in gran numero la città: ambulanti stanziali e itineranti, la cui tradizione si è mantenuta sino a qualche decennio fa, insieme a quella dei piccoli artigiani che passavano di strada in strada, di cortile in cortile, per la gioia di bambini e massaie: gli ombrellai, il “moleta”, lo spazzacamino, il materassaio, il gelataio, e quanti altri ancora!
I più anziani ricordano ancora la bancarella del castagnaccio in via Angelo Maj, davanti ai giardini delle scuole nel piazzale degli Alpini, dove si rifornivano i ragazzi prima di entrare in classe, nell’agognata attesa dell’intervallo delle dieci.
Davanti al cinema Diana, oppure al S. Orsola, si appostava una vecchina che vendeva delle dure focaccette, liquirizia e “anesini”, le piccole e gustose caramelle sfuse di pura liquerizia.
Venditori di “anesini” ve n’erano un po’ ovunque, alcuni si davano appuntamento davanti allo stadio quando giocava l’Atalanta, altri sul piazzale della stazione ferroviaria e su quello delle stazioni delle Valli.
E poi, da sempre a Bergamo, i venditori di caldarroste, dal momento che le castagne, tipico frutto bergamasco, erano facimente reperibili anche nei boschi che coronano la città – Castagneta e Maresana in primis -, sebbene perlopiù provenissero dalla “patria” delle castagne per eccellenza: Vallalta e Abbazia, frazioni di Albino, oppure Poscante, frazione di Zogno.
Ai primi del Novecento un famoso caldarrostaio era un fruttivendolo di Città Alta, il Nervi: “Nella sua botteguccia si dedicava per nove mesi all’anno soprattutto a vendere castagne. ln particolare famose, tra noi bambini, erano le sue caldarroste che fabbricava sulla soglia del suo negozio, che poi era anche la sua casa. Nell’andare e nel tornare dalla scuola, o dalla chiesa, ci si fermava a guardarlo attizzare il fuoco, rimestare con la paletta forata le castagne scoppiettanti, tagliare opportunamente quelle che erano ancora nel sacco, sempre pronto a riversare con studiata parsimonia nella tasca degli avventori il piccolo misurino di caldarroste caldissime. Gridava sempre e con tutti e nulla dava per nulla; e guai se si tentava di scappare lasciandogli un soldo pestato e di dubbio valore! Lo credevamo cattivo; però, cresciuto, ho poi conosciuto la sua triste storia e le pene della sua miseria e come, nonostante tutto, la sera svuotasse nelle mani di certi poveri quello che rimaneva nel sacchetto che teneva in una cassetta di legno dipinta di verde perché le caldarroste non si raffreddassero. Ora è morto e nella sua botteguccia rimessa a nuovo vendono articoli di musica e da mane a sera un grammofono suona le sgraziate musiche moderne; e i ragazzi ancora si fermano in cerchio fuori da quella soglia. Però non ò più il piccolo mondo d’allora”(2).
Famosa era anche la Giacomina, che vendeva caldarroste in Colle Aperto. Qualcuno la ricorda più in là con gli anni, quando a metà degli anni Sessanta vendeva il pane in via Gombito accanto alla vetrina di Franco Loda.
Anche Cassotti, il fruttivendolo di piazza Mercato delle Scarpe, era famoso per le sue ottime castagne. Qualcuno ricorda anche il caldarrostaio che stazionava con l’ape davanti all’ospedale maggiore.
Ma la venditrice ambulante per antonomasia, nella nostra città, è stata una donna di cui i Bergamaschi conservano un ricordo speciale. Conosciuta da tutti per essere “quella delle angurie e delle caldarroste”, quando nel 1975 un cronista dell’ “Eco” ne rivelò il nome, “I bergamaschi stupirono quel giorno.. stupirono per la rivelazione che quegli appunti contenevano. Perché tutti ‘sta donna delle angurie e delle caldarroste la conoscevano e la salutavano, ma nessuno sapeva il suo nome”.
Annotava il cronista: “E’ difficile dire da quanto tempo la signora Pierina Manera è lì. I passanti sono abituati a vederla al lavoro ‘da tempo immemorabile’. La conoscono, la salutano. Si potrebbe dire che la signora Manera faccia parte del paesaggio. Sia con il freddo di gennaio, sia con il solleone d’agosto, lei è sempre lì. E’ parte integrante del piazzale come il traffico, i palazzi, le vetrine dei negozi”.
Una specie di “monumento” (3).
Una testimonianza di Gianni Gelmini, il “Ricordo di ‘Bröta Facia Bèla’ e di qualcosa che c’era sull’angolo tra Via Zambonate e via Spaventa”, aiuta a far luce riguardo il periodo in cui Pierina Manera comparve davanti all’edificio del Coin: dal racconto si deduce che Pierina fosse la moglie del Bepo, un’ambulante che doveva stazionarvi con la sua baracca almeno dalla metà degli anni Quaranta.
“Quando, accompagnato da mia madre, svoltavo da Via XXVIII Ottobre, che a volte mia madre chiamava ancora Via dei Mille ed oggi è Via Giorgio e Guido Paglia, non vedevo l’ora di arrivare a via Zambonate: mi aspettava “bröta facia bèla’.
Nonostante il traffico in città non fosse molto, quella piazza era veramente trafficata. I tram sferragliavano; auto, furgoni ed anche mezzi trainati da cavalli impegnavano la piazza, occorreva attenzione ad attraversare le vie.
Sull’angolo tra Via Spaventa e Via Zambonate, c’era uno spiazzo abbastanza grande con dei grandi ippocastani e, proprio sull’angolo, tre ‘baracchette’: sul lato di via Spaventa un fiorista, al centro, sull’angolo tra le due vie, un’edicola e sul lato di via Zambonate quella da me preferita, che vendeva dolci, bibite, e d’inverno caldarroste, d’estate granite, anguria e cocco a fette; quella che tutti hanno conosciuto come del Bepo.
Il Bepo, un personaggio tracagnotto, ma sempre sorridente, mi accoglieva con una frase: “se fet bröta facia bèla’ e il motto con cui mi accoglieva, per me, era diventato il suo nome.
Ora, mentre faccio mente locale, mi accorgo in quegli anni quella del Bepo era l’unica struttura assimilabile ad un bar presente sulla piazza, c’era solo una latteria poco più avanti in via Zambonate e un’altra latteria in via XXVIII Ottobre (oggi via Paglia), quest’ultima si trasferì proprio sulla piazza negli anni cinquanta.
Coprì un pezzo delle Roggia Serio a fianco della sagrestia della Chiesa di Santa Lucia e divenne il “Bar Alemagna”, rimasto in funzione fino a quando fu abbattuto (anni ’70?) cambiò tutta la viabilità di Via Zambonate e Via Tiraboschi, qualche anno dopo la copertura completa della Roggia.
La mia storia con “bröta facia bèla” non finisce con la mia infanzia. Se nell’infanzia è stato un personaggio simpatico e passare davanti al suo baracchino era per me un motivo di gioia, con l’adolescenza sono diventato un frequentatore. Per noi ragazzi, con pochi soldi in tasca, d’estate il suo baracchino era diventato il luogo ideale dove, lasciando per un poco le “vasche” del Sentierone, passare un po’ di tempo.
Tutti attorno al suo tavolo di lamiera zincata, irrorato d’acqua corrente, potevamo gustarci delle formidabili fette d’anguria (d’inverno il posto preferito era De Zordo con la sua panna montata e la cioccolata, ma costava un poco di più).
Il tempo passa e le tre baracchette, per restare adeguate ai tempi, si trasformarono in un fabbricato moderno a “L” con la stessa disposizione: sul lato di Via Spaventa il fiorista, al centro il giornalaio e sul lato di Via Zambonate il Bepo. Il fabbricato a “L” lasciava un bello spazio interno, al riparo dal traffico e dagli sguardi curiosi dei passanti e qui trovammo una bella sorpresa: i tavolini, dove potevamo sederci comodamente. Il baracchino del Bepo si era trasformato in un vero proprio Bar, ma la cosa non durò molto.
Presto tutto cambiò, le costruzioni, ancora nuove, furono abbattute, il piazzale scavato e fu innalzata una nuova costruzione, un cubo grigio senza finestre che ancora oggi potete vedere: il Coin, con nella parte interrata un supermercato alimentare, lo Stella.
Il Bepo si ritirò in pensione e sulla piazza rimase solo sua moglie a vendere limoni. Avevo certamente visto questa donna corpulenta con una vasta voglia sulla faccia, ma non l’avevo mai notata fino allora.
Mi sono chiesto che significato potesse avere restare lì ancora con la sua cesta, come potevano giustificare i pochi limoni la sua presenza e mia madre mi diede una spiegazione: sotto i limoni c’erano pacchetti di sigarette!
Un tempo era finito, ma non ne ho avuto modo di accorgermene perché anche per me quel tempo era terminato. Mi ero diplomato, avevo iniziato a lavorare a Bollate al Laboratorio di Ricerche e alla sera, qualche volta, frequentavo l’Università a Milano. La mia vita era cambiata completamente e quelle routine non mi appartenevano più”.
Rossa in viso, Pierina vestiva una lunga palandrana nera per proteggersi dalle scintille della brace, perennemente accesa come quella sigaretta che l’ha accompagnata fino all’ultimo ricordo che abbiamo di lei.
Un’ultima immagine pubblicata in questi giorni sulla mia Pagina Facebook, che ha risvegliato il ricordo, mai sopito, della “regina delle caldarroste”, che con la sua costante e bonaria presenza è arrivata ad essere considerata “un mito”, “un’istituzione”, una figura “indelebile”. Una miriade di pensieri sono volati nell’etere ripensando a quegli anni felici.
Memorabile è il ricordo di questa grande donna, un caro, “indimenticabile personaggio”, per molti considerata una figura della Bergamo d’altri tempi, “una figura storica”. “il simbolo di Bergamo”… “Persona meravigliosa nel cuore di Bergamo”..
“…..mi son chiesta moltissime volte che fine avesse fatto”.
“Grazie x il ricordo siamo diventati vecchi”….
Ricordarla strappa un sorriso e il suo ricordo dolcissimo riporta all’infanzia e alla gioventù di moltissime persone, perché il suo ricordo ha attraversato intere generazioni di Bergamaschi: bambini e anziani, studenti, giovani uomini e giovani donne, che qualche decennio fa passando per il centro la ritrovavano sempre lì, davanti al Coin, “in ogni stagione e con qualsiasi tempo”.
Chi non si è fermato da lei a prendere il cocco e l’anguria in estate e le caldarroste in inverno? “Le sue belle e buone caldarroste mi riscaldavano le mani”.
“Chi mai non aveva mangiato in estate la sue fette di anguria o il rotolo centrale (il massimo delle leccornie)? Era il 1962 o il ’63”.
Tutti la conoscevano e non mancavano di sostare al suo chioschetto per far due chiacchiere mentre gustavano le “boröle” o una fetta d’anguria. “Metteva serenità vederla”, “era una brava persona..”… “Da piccola quando passavo con la mamma la guardavo sempre incantata”…. anche se qualcuno pensava “fosse più vecchia… Forse perché, come tutti noi, l’ho sempre vista fin da bimba, o, forse perché vivere all’aperto segna un po’ il viso”…
Era una tappa fissa per tutti, non solo per chi passeggiava in centro o tornava da scuola, ma anche per gli studenti e le famiglie che vi arrivavano dalla periferia o dalla provincia. Ed era la fermata d’obbligo quando si portava la letterina nella vicina chiesa della Madonna dello Spasimo, chiesa che i bergamaschi – gente che s’affeziona – chiamano semplicemente “di S. Lucia”.
Così amata e popolare da entrare a far parte dell’intercalare bergamasco, che alla domanda:
“Che manera” (in che modo?)
rispondeva:
“che Manera la portaa i carécc in féra!”
oppure:
“Che Manera?
La endìa i limù in féra!”.
Ora sappiamo che con il suo lavoro Pierina mantenne tutta la famiglia; sappiamo che abitava in via Moroni ed aveva due figli, uno di nome Tranquillo, un bel ragazzo purtroppo scomparso prematuramente, “addirittura prima di lei”, e uno di nome Fausto…che “ha fatto per anni il venditore d‘auto..bel personaggio con una famiglia stupenda”.
“Tranquillo lo ebbi come vigilante ai bagni di sole del Polaresco, era un bambino educato,comunicativo che era guardato con un certo rispetto proprio per la notorietà della mamma..”.
“Era una ex collega della mia nonna. Lavoravano da Zopfi e ogni volta che andavo in centro con la mia nonna si fermava sempre a salutarla”…
Si dice inoltre che Pierina avesse una sorella che si chiamava Linda.
“Questi personaggi fanno parte della nostra storia, del nostro essere bergamaschi!”…
Poi un giorno, mentre tutto intorno a noi stava cambiando, il chioschetto è sparito e così com’era arrivata, in silenzio la Pierina se n’è andata.
Qualcuno ha esclamato con rimpianto: “Resuscitatela!”
Qualcun’altro ha dato voce ai suoi pensieri: “Che vita ha fatto”…
“Vi rendete conto che è morta a soli 69 anni, ma la vita l’aveva segnata parecchio…”..
“Bello che in tanti la ricordiamo. ..senza pregiudizi e/o giudizi. L’educazione ci è stata insegnata bene”…
E si continua a parlare di lei….
Da qualche decennio ormai, il chiosco non c’è più. La vita non ferve più come un tempo, all’angolo tra via Zambonate e via Spaventa.
Ma a notte fonda, quando il fragore del traffico si è placato e la piazzetta è completamente deserta, potresti forse intravedere una figura evanescente, Pierina Manera, infagottata nella vecchia palandrana mentre rimesta le caldarroste con un placido sorriso.
Note
(1) Cesare Bordoni per “Giopì” del 31 maggio 2011, in: “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”, di Pilade Frattini e Renato Ravanelli. A cura di Ornella Bramani. Vil. II, UTET, Anno 2013.
(2) Carlo Agazzi, in “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”, cit.
(3) “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”, cit.
Riferimenti
Pilade Frattini, Renato Ravanelli, Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo. A cura di Ornella Bramani. Vol. II, UTET, Anno 2013.
Gianni Gelmini, Il “Ricordo di ‘Bröta Facia Bèla’ e di qualcosa che c’era sull’angolo tra Via Zambonate e via Spaventa”.