Nel magico mondo dei burattinai bergamaschi, fra Otto e Novecento

Presso la bottega del fabbro Scuri, alla base della più bella torre medioevale del Mercato del Fieno…

..la vecchia baracca del Sarzetti sembra rianimarsi, e sulla scena silenziosa i burattini tornano a ballare.

“E si rinnova un rituale magico dal sapore antico in cui un oggetto inerme improvvisamente prende movimento, voce, si anima di vita e diventa spettacolo, arte e sogno. Allora quell’angolo di strada, all’apparenza così comune, diventa un luogo di straordinaria poesia. La magia dura poco, il tempo della rappresentazione; poi tutto svanisce tranne l’emozione  e il sogno” 

A Stefano, mio figlio, oggi un “ragazzo grande”

La tradizione bergamasca della baracca vanta una tradizione antica, che affonda le radici nella Commedia dell’Arte, il teatro d’improvvisazione portato in giro per l’Europa dagli Zanni bergamaschi, da cui scaturirono maschere come Arlecchino, Brighella, Pulcinella.

Anni Settanta: una recita del burattinaio Benedetto Ravasio nel cortile di una cascina a Bonate. I burattinai, girovaghi per natura, ben conoscevano l’arte dell’adattamento e recitavano ovunque: sulle aie delle cascine, negli oratori, nelle osterie e nelle piazze di città e paesi (foto Pepi Merisio)

Una tradizione che si è tramandata per generazioni di padre in figlio e da maestro ad allievo, giungendo a noi non senza fatica, sopravvivendo solo a Bergamo, Napoli e nel territorio compreso tra Parma e Bologna, capitali mondiali dei burattini.

Diretti discendenti – ed ultimi rappresentanti – della Commedia dell’Arte, sono i burattinai bergamaschi dell’Ottocento e del primo Novecento, con i loro magici personaggi e le storie appassionanti e divertenti.

La baracca dei burattini sotto il palazzo della Ragione, immortalata da Tito Terzi

Il loro mondo, sospeso tra arte, stenti, sogno, aspirazioni e fantasia, era semplice e schietto, e della gente interpretava i sentimenti ed i bisogni, le aspirazioni ed i valori, le delusioni, le istanze di giustizia e la voglia di riscatto.

La baracca gioppinoria di uno spettacolo viaggiante, intitolata “Il mago Robante”, una nota rappresentazione burattinesca (Archivio storico fotografico Domenico Lucchetti)

Con l’arrivo del cinema e della televisione, i burattinai scomparvero a poco a poco insieme ai loro burattini, per poi rivivere grazie alla passione e all’estro creativo dei pochi superstiti che hanno saputo fare di quest’arte qualcosa di magico e irrinunciabile.

“La tradizione è tramandare il fuoco, non adorare le ceneri” (Gustav Mahler) è il motto di Daniele Cortesi, qui ritratto con il suo maestro, Benedetto Ravasio, dal quale ha ereditato il mestiere (e la bravura) di burattinaio (foto di Gabriella Ebano)

I PRECURSORI DEI BURATTINAI BERGAMASCHI: ANTICHE TRACCE DI ATTIVITA’ BURATTINESCA

Della vita e dell’attività dei burattinai bergamaschi sappiamo ben poco e di loro, talvolta, non conosciamo neppure le date di nascita e di morte.

La notizia più antica riguarda il burattinaio Angelo Vignola, che presente in città nel 1660 ‘con l’occasione della fiera’ ed esercitando la ‘professione di far ballare alcune piccole figurine dette bamboci’, chiedeva di poter usufruire di una ‘stanza di ragione di questo pubblico sotto il Palazzo Novo’ per i propri spettacoli: si tratta di Palazzo Nuovo, attuale sede della Civica Biblioteca Angelo Mai. La richiesta venne prontamente respinta.

Una splendida veduta su Palazzo Nuovo dal portico del Palazzo della Ragione (Raccolta Gaffuri)

Abbiamo poi notizia della burattinaia Camilla Bissoni detta la Franceschina, che il 22 dicembre 1700 chiedeva di ‘puoter chiudere parte della Loggia sotto il Palazzo Vecchio di Raggione’ allo scopo di ‘far ballare li buratini’ nel Carnevale imminente.

Un’animata Piazza Vecchia ossevata da Vicolo Aquila Nera (Raccolta Gaffuri)

La delibera chiedeva la stipulazione di un’assicurazione per gli eventuali danni arrecati, e la Bissoni prometteva di pagare ‘tutte le spese sì in formare la tramezza, come in distruggerla et ad ogni danno potesse a quello inferire’. Prevedeva inoltre l’obbligo a ‘sgomberare la loggia d’ogni impedimento’ entro i primi giorni di Quaresima, ma la domanda non raggiunse i due terzi dei voti e venne respinta (1).

(1) Francesca Frantappiè, Per teatri non è Bergamo sito.  La Società bergamasca e l’organizzazione dei teatri pubblici tra ‘600 e ‘700. Fondazione per la storia economica e sociale di Bergamo, 2010.

Nonostante parli ormai il dialetto veneziano, nel Settecento Arlecchino è sicuramente ancora il protagonista della scena burattinesca bergamasca

Ancora nel Settecento, negli spazi della Fiera, punto di confluenza della maggioranza dei “forestieri”, al teatro “regolare” (le stagioni operistiche estive e gli spettacoli delle compagnie di attori professionisti) si affianca quello “minore” composto dai teatri dei burattini, presenti insieme ad acrobati, ciarlatani, ammaestratori di animali ed ambulanti con i loro apparecchi proto-cinematografici.

La Fiera raffigurata un secolo dopo da Costantino Rosa

Ma è nell’Ottocento che la presenza di una baracca in Piazza Vecchia diverrà una consuetudine, e ancor’oggi, gli unici spettacoli burattineschi che si tengono in città sono rappresentati sotto le arcate del Palazzo della Ragione.

Nell’Ottocento la presenza di una baracca in Piazza Vecchia diviene una consuetudine e non è un caso se ancor oggi gli unici spettacoli burattineschi che si tengono in città siano rappresentati sotto le medesime arcate

I primi burattinai che danno vita al teatro di figura sono Battista Battaglia e il suo discepolo Pasquale Strambelli, attivi in Piazza Vecchia tra la prima e la seconda metà dell’Ottocento, in piena dominazione austriaca. Con loro Gioppino è rappresentato per la prima volta proprio in Piazza Vecchia, ispirando i versi del poeta Pietro Ruggeri da Stabello (1797-1858),

Il poeta vernacolare Pietro Ruggeri da Stabello (1797-1858)

Questi, nel 1836 intitola La baraca del Battaja il più fortunato fascicolo delle sue Rime Bortolinine (2): un lungo poemetto che vede protagonisti i burattini, con Gioppino la fa da mattatore e la sua “ramorata” – la Margì (Marietta) -, a cui dedica dei versi d’amore, finiti in musica grazie al maestro Aldo Sala (1912-2002), sono reinterpretati da Luciano Ravasio

“Èco di büratì la gran filéna,
composta de Giopì e de Bortolì…”

(2) Bortolino è l’aggettivo con cui nel Settecento i milanesi qualificano i bergamaschi, “che consideravano fin da allora con una certa sufficienza”. Non a caso Manzoni ricorre al nome di Bortolo per designare il cugino bergamasco di Renzo. Il primo fascicolo delle Rime bortoliniane è pubblicato nel 1832 (L. Ravasio).

IL CAPOSTIPITE DEI BURATTINAI: BATTISTA BATTAGLIA, DETTO BATAJA (? – 1834)

Con Battista Battaglia, attivo a Bergamo per circa quindici anni (dal 1820 fino al 1834-35), il trigozzuto Gioppino fa la sua comparsa in Piazza Vecchia, crocevia degli avvenimenti cittadini. E’ lo stesso Ruggeri da Stabello a presentare Gioppino tra le teste di legno che il Battaglia fa muovere nella sua baracca.

Il burattino Gioppino regge tra le mani il proprio burattino. La tradizione legata a Gioppino appare radicata nell’Ottocento, con la tipica figura del “burattino gozzuto, tarchiato e rozzo, famelico e beone, fannullone e bastonatore”, come definito da Umberto Zanetti (disegno di Giovan Battista Galizzi – Archivio storico fotografico Domenico Lucchetti)

Del suo ricco repertorio è nota solo la commedia “Giopì ‘n seganda”, di cui Mazzoleni disse che commuoveva fino alle lacrime.

Battaglia aveva una tale cura e passione, che alcuni anziani riferirono che un tempo, dietro la sua abitazione di via Borgo Canale 21 fossero ben visibili le tracce di un affresco commissionato al pittore Bonomini raffigurante una piccola scena burattinesca.

PASQUALE STRAMBELLI DETTO PASQUALI’ (1804-1865)

Le notizie riguardanti Pasquale Strambelli detto Pasqualì sono state a lungo confuse dalla tradizione popolare con quelle del Battaglia, suo maestro.

Il ponte alla porta di Santa Caterina (foto Rodolfo Masperi – Archivio storico fotografico Domenico Lucchetti)

Strambelli teneva la sua baracca nell’allora popoloso borgo di S. Tomaso e all’entrata del ponte di borgo S. Caterina, ma era presente anche in Piazza Vecchia, dove teneva spettacoli sotto il Palazzo della Ragione da cui, come già aveva fatto il suo maestro, lanciava i suoi feroci strali alla volta degli austriaci,  definiti “pelatori di gelsi”.

Piazza Vecchia, ai tempi Piazza Garibaldi. Gioppino è in qualche modo partecipe dell’epopea risorgimentale, al punto che, secondo il Guerrazzi, ai tempi dell’assedio di Roma del 1849, Garibaldi prendeva “meraviglioso diletto” dalle rappresentazioni gioppinorie di un volontario bergamasco

Sono gli anni della tirannide austriaca e con Pasquale Strambelli la figura di Gioppino si nobilita e si riscatta ammantandosi d’italianità e di patriottismo.

Rappresentato in Piazza Vecchia fra l’esultanza del pubblico Gioppino prese a dileggiare (e a “bastonare di santa ragione”) i gendarmi austriaci, sgominati alla stregua di delinquenti e malfattori.

Due gendarmi nell’allora Piazza Garibaldi (Piazza Vecchia)

Provocazione per la quale Pasqualì venne più volte arrestato e maltrattato finché una sera, dopo l’ennesimo affronto lanciato nel corso di una rappresentazione, mentre gli sbirri erano in procinto di arrestarlo, il pubblico, disposto a muro intorno alla baracca,  riuscì a respingere i gendarmi.

Ufficiali e soldati scolpiti con grande maestria dal prolifico Enrico Manzoni, in una scena raffigurante un accampamento militare

L’eroico evento fu narrato in rima dal poeta Giacinto Gambirasio:

E chêla sira Bèrghem, Iìberada
prima del tép, per mèret del Giopì,
I’ê töta in Piassa Ègia, e I”à portàt,
come ün eròe, ‘n trionfo ‘I Pasqualì!

Per mantenere elevati i valori risorgimentali, senza però rischiare di apparire sfacciatamente contro agli austriaci che esercitavano un rigido controllo tramite la censura, il burattinaio bergamasco dell’epoca mette in risalto, nei propri spettacoli, la figura di un eroe vissuto in precedenza, ai tempi del dominio napoleonico: è Vincenzo Pacchiana detto “Pacì Paciana, ol padrù de la Val Brembana”, continuamente braccato dalle guardie napoleoniche

Strambelli ebbe persino l’ardire di sortire con Gioppino in quel di Zanica, dove la comparsa della maschera era considerata un atroce affronto. Per moltissimo tempo nessun’altro volle seguire il suo esempio: non tutti i burattinai erano disposti a farsi distruggere la baracca!

Ai burattinai Battaglia e Strambelli la tradizione lega le origini del teatro dei burattini bergamaschi, che a lungo si affermerà proprio per l’aver creato con Gioppino un personaggio ben definito e molto popolare.

ANGELO FATUTTI (FATÖT)

Claudio Facheris, Mascherata in Piazza Mercato del Fieno (collezione personale)

Dopo di loro si affermò Angelo Fatutti detto Fatöt (1812-1888), che dava le sue rappresentazioni sotto un andito in piazza Mercato del Fieno. E dal momento che egli, almeno per un certo periodo, diede spettacolo contemporaneamente allo Strambelli, si pensa che nella vicina Piazza Vecchia il posto fosse già occupato da quest’ultimo (o forse Piazza Vecchia gli era stata “interdetta” a causa dei fastidi dati alle autorità).

Un classico degli scenari dei burattinai bergamaschi: Piazza Vecchia (Burattinaio Marziali. Raccolta Scuri, Bergamo)

Il Fatutti inaugurò la stagione dei burattini che davano spettacolo anche in provincia, verso la pianura, non più al seguito di guitti e ciarlatani ma in proprio, come veri e propri artisti girovaghi che dopo aver trascorso l’inverno nelle osterie della città, nella bella stagione prendevano a viaggiare: fu così che Fatutti approdò nel Milanese.

Fatutti fu il primo a portare Gioppino nel capoluogo lombardo, dando origine a una serie di commedie e farse in cui Gioppino e Meneghino comparivano assieme. Persino un burattinaio milanese, Giuseppe Re (attivo dal 1890 al 1920), preferì Gioppino a Meneghino nelle sue rappresentazioni

Come già aveva fatto il Fatöt, anche Alfonso Strambelli (figlio del Pasqualì) e più tardi il Pèia e lo Steenì, vagarono per la Lombardia con baracca e burattini.
A questi grandi burattinai va aggiunto anche Luigi Nespoli che, come vedremo, ebbe un’avventura molto singolare.

BERNARDINO MORO (PEIA)

Anche Bernardo Moro (1838-1902) detto Pèia (continuatore della tradizione burattinesca del Battaglia, di Pasquale Strambelli e di Angelo Fatutti), sconfinò nel capoluogo lombardo recitando in luoghi dai quali i burattinai erano sempre stati esclusi. Con il Pèia, che si faceva chiamare Gioppino I°, s’inaugurò la stagione di quei burattinai bergamaschi che s’imposero nei locali milanesi stabilendovi una sorta di gerarchia facendosi chiamare Gioppino I°, Gioppino II°, ecc. (3).

Bernardo Moro fu molto popolare nel borgo di S. Leonardo, dove tenne rappresentazioni per un decennio, dal 1870 al 1880.

Scorcio di Borgo San Leonardo, con la celebre fontana “Fiascona

Diversamente dai burattinai che lo precedettero e da molti altri che seguirono, Bernardo Moro non era analfabeta o semianalfabeta e si ingegnò a dare un certo tono letterario alle recite, curandone intreccio e linguaggio.

(3) La tradizione venne continuata dal figlio dello Strambelli, Alfonso (che dal padre prese il nome di Pasqualì II°) il quale, nella serie dei bergamaschi che fanno divertire i milanesi con i burattini, assunse il titolo di Gioppino II°. A Milano Alfonso agisce dal 1876 in avanti.

Largo Cinque Vie in Borgo San Leonardo. Il Moro “Piaceva al colto pubblico e all’inclita guarnigione per la cura con la quale elaborava la trama ed infiorava i dialoghi delle sue rappresentazioni. Il suo Gioppino parlava un dialetto colorito, vivo, non improvvisato e strascicato ma denso di vocaboli tipici, di sapide espressioni idiomatiche attinte alla genuina parlata popolare” (Umberto Zanetti)

La sua ambizione lo portò ad impiantare la sua  baracca nel luogo di passeggio pubblico per antonomasia di Bergamo bassa: il boschetto di S. Marta, sul Sentierone.

Il Boschetto di S. Marta in una fotografia del 1920: un’area verde con molte piante d’alto fusto, per lo più ippocastani, abbattuti nell’autunno del 1923 per far posto al nuovo centro piacentiniano (Archivio storico fotografico Domenico Lucchetti)

Quest’angolo della Bergamo dell’Ottocento è rappresentato in un bel dipinto del pittore Gabriele Rosa, con la baracca tra i cittadini che frequentavano il passeggio sul quale si affacciavano gli edifici affastellati attorno all’antica Fiera, con i suoi variopinti Caffè.

La più antica testimonianza del teatro dei burattini a Bergamo in un dipinto di Gabriele Rosa del 1840: spettacolo di burattini sul Sentierone durante la Fiera di Sant’Alessandro. La baracca di Bernardo Moro è ben visibile a sinistra del boschetto di S. Marta, ai confini del quale d’estate egli montava la sua baracca per lasciarvela tutta la stagione. Durante gli intervalli sua moglie passava con il bussolotto tra il pubblico per raccogliere le offerte

ANCORA NELL’OTTOCENTO..

Dopo lo Strambelli, va ricordato il Cannella, che dava i suoi spettacoli nella zona di S. Pancrazio in Città Alta, nel periodo del decadimento economico e sociale del centro storico, ovvero ai tempi in cui erano sorte le prime osterie in cui si mesceva vino ad alta gradazione proveniente dal meridione. Un vino che presto soppiantò i pallidi vinelli locali e che per i vistosi effetti che sortiva faceva dimenticare le tristi condizioni in cui si era ridotta a vivere la parte più umile di Città Alta.

Cannella recitava negli oratori, tenendo a bada anche i ragazzi più turbolenti.

Antica rivendita del “vino forte” nella piazzetta di San Pancrazio (Archivio storico fotografico Domenico Lucchetti)

Vi era poi il cappellaio Corna, che divertiva i bambini nell’oratorio di Sant’Antonino.

Anche “il pio e zelante” Don Luigi Palazzolo (1827-1886) amava allestire spettacoli di burattini per i suoi ragazzi, nell’oratorio di San Filippo Neri di cui fu fondatore: cosa giudicata troppo licenziosa dai giudici del processo canonico e che per poco non gli costò la causa di beatificazione, che fu messa in salvo grazie all’intervento del Papa bergamasco.

Tre teste di burattini appartenute al beato Luigi Palazzolo, la cui baracca era rifornita di un gran numero di crape dé lègn. La tradizione vuole che sia stata la madre, di famiglia nobile, a commissionare a uno scultore l’esecuzione dei burattini utilizzati dal beato per le recite nell’oratorio. Alle sue recite assistevano “con grandissimo piacere” anche negozianti, signori, professionisti, parroci e canonici. Palazzolo accorreva anche in Seminario, e furono frequentissimi gli spettacoli dati ai giovani del collegio S. Alessandro 

Con il Cannella, il Corna e don Palazzolo, si conclude il periodo classico dei grandi burattinai che lavoravano a Bergamo, una sorta di decadenza della “tradizionale arte dei burattini” (tuttavia più accentuata nelle altre città) dovuta all’emigrazione a Milano e al tentativo di affermare i burattini in persona: una moda effimera, che non impedirà – negli anni che precedono la guerra – la fioritura di altri artisti burattinai a partire dal Colombo alla Malpensata, Sisto nel rione di  Campagnola e Melio Minoia in vicolo Aquila Nera a Bergamo Alta, dove morì nel 1942.

IL TEATRINO DEI GOTTI

In questa graziosa composizione risalente al 1901, epoca in cui fu attivo il burattinaio Giuseppe Gotti, la Fontana del Delfino (1526) è ritratta con la Fontana di S. Pancrazio (1549). Nella lunetta dell’arco, in luogo dell’attuale affresco, appare una scritta ormai scomparsa (Archivio storico fotografico Domenico Lucchetti)

Il burattinaio Giuseppe Alessandro Gotti fu attivo tra la seconda metà dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Abitava in Città Alta nella zona di S. Pancrazio, dove in tempi abbastanza recenti un antennista, recatosi sul solaio di un caseggiato per una riparazione, trovò casualmente un vecchio baule zeppo di burattini lasciati dal Gotti.

Un diavolo fatto risalire a Giuseppe Gotti

 

Un burattino fatto risalire a Giuseppe Gotti 

Le poche notizie che riguardano la famiglia di questi burattinai bergamaschi, sono frutto esclusivo di memorie tramandate oralmente, e come spesso accade in questi casi, la verità si confonde spesso con la fantasia. Alcune memorie riportavano infatti l’esistenza di “fratelli Gotti” burattinai; in realtà, Domenico Lucchetti venne a sapere da Serafina Gotti, figlia di Giuseppe Alessandro, che questi era figlio – e non fratello – del burattinaio Massimiliano, vissuto nell’Ottocento al civico 36 di Via Pignolo e proprietario di un “Teatrino Gioppinorio e Marionettistico” (Zanetti, Op. cit.).

Il burattinaio Giuseppe Alessandro Gotti era figlio del burattinaio Massimiliano, vissuto nell’Ottocento al civico 36 di Via Pignolo e proprietario di un “Teatrino Gioppinorio e Marionettistico

Nella foto seguente, il burattinaio Giuseppe Alessandro Gotti è ritratto con la sua famiglia; fa da sfondo l’elegante baracca nella quale lavorava. La cura e la dimensione del “teatrino” suggeriscono che la famiglia Gotti godesse di un certo benessere economico. Sullo scenario, che per la sua qualità venne dipinto presumibilmente da un pittore del tempo, sono raffigurate le maschere della Commedia dell’Arte con al centro Gioppino che suona il tamburo. Si tratta di una delle prime rappresentazioni della nota maschera bergamasca.

1914: il burattinaio Giuseppe Alessandro Gotti ritratto con la famiglia. Giuseppe furoreggiò per diversi anni nelle sale cittadine e certamente nel 1012 dava spettacolo all’Apollo (già Concordia), in Viale Roma (Archivio storico fotografico Domenico Lucchetti)

Alessandro Giuseppe Gotti inaugurò quella che in seguito divenne una consuetudine comune a diversi burattinai bergamaschi: si occupava personalmente dei testi e dell’allestimento della baracca, ma soprattutto della realizzazione delle teste di legno dei suoi burattini, che, sovradimensionate rispetto al consueto repertorio bergamasco (probabilmente in rapporto alle notevoli dimensioni del suo teatrino) diedero vita al famoso detto – cràpa de goti -, sinonimo di “testa di legno” riferito alle cervici dure di comprendonio.

La dinastia venne troncata dall’epidemia di Spagnola che decimò la famiglia subito dopo la fine della prima guerra mondiale, tra il 1918 e il 1919.

Gruppo di burattini probabilmente appartenuto al burattinaio Giuseppe Gotti, noto per bravura e per l’utilizzo di fantocci dalle teste molto grosse e perciò meglio visibili anche da lontano (raccolta privata)

Le memorie riportano che Massimiliano Gotti, il capostipite, era stato allievo di Bernardo Moro (Pèia), dal quale aveva ricevuto in dono delle crape lègn: forse quelle stesse confuse tra i burattini intagliati da Giuseppe, rinvenute in quel solaio di via S. Pancrazio?

Massimiliano era ricordato con nostalgia dal poeta Giacomo Alessandro Gavazzeni in una composizione risalente all’ultima guerra mondiale. In polemica con le norme educative fasciste, il poeta affermava che i ragazzi (bòce) dei suoi tempi non maneggiavano pugnali e moschetti e vedevano i fucili – finti, s’intende – solo nel teatrino del Gotti:

I bòce de chi tép, pié de ardimènt,
no i ghe sia de pügnàl gna de moschècc
e se a guèra i zögàa, i éra bachècc
a ƒurmà töt l’insèm de l’armamènt,
o s’i vedìa di s-cìòp, I’éra dal Gòte,
che l’ dervìa ƒò ‘I sò tèmpio ai becherée,
indóe ‘l Giopì, tra i tante bölerée,
l’ispartìa col tarèl moràl e bòte”
(Zanetti, Op. cit).

Con i Gotti siamo ormai alla vigilia della Grande Guerra e, se ci atteniamo al repertorio di Giovan Battista Locatelli detto Steenì, c’è da credere che Gioppino si schieri ormai tra gli interventisti.

I genitori di Gioppino: Maria Scatolera e Bortolo Socalonga

GIOVANNI NESPOLI

Giovanni Nespoli, artista completo e ottimo impresario di se stesso, d’inverno dava spettacolo  passando per le varie osterie nei quartieri di Bergamo e nei paesi più vicini. Con la bella stagione si metteva in viaggio lungo un percorso ben definito, dai paesi della bassa all’Adda e al Milanese risalendo poi il Comasco. A Boario la sua presenza era richiesta in tutte le stagioni; percorse anche tutta la Valle Camonica e fu di casa a Ponte di Legno. Venne invitato a dare spettacolo alla Villa Reale di Monza quando vi soggiornava re Umberto I con la sua corte

Giovanni Nespoli è il burattinaio d’eccellenza, che visse nel momento migliore per questo genere teatrale di cui vide il lungo decadere. Fu un vero specialista dello spettacolo burattinesco, sia nell’abilità nel muovere i burattini e sia nell’inventiva scenica, utilizzando una gran quantità d’acqua per rappresentare il diluvio universale e inventando una specie di palcoscenico mobile che grazie a una grande ruota di carro gli permetteva di cambiare fulmineamente la scena.

Ricorda Pino Capellini nella sua opera Crape dé lègn, che giunse un momento in cui i burattinai bergamaschi avevano guadagnato un’ottima piazza in quel di Monza, dove si dice vi fosse “Un gran buon pubblico”. Fra costoro Giovanni Nespoli ebbe un’occasione d’oro: dopo esser stato notato da qualcuno della famiglia Reale che alloggiava nella villa dove re Umberto I soggiornava con la sua corte, gli giunse a sorpresa l’invito di presentarsi all’ingresso della reggia con tutto il suo bagaglio. Fu così che la baracca di un bergamasco divertì gli ospiti reali per un certo numero di stagioni.

Non è dato di sapere se Giovanni Nespoli ne ricavò “compensi reali”, ma di certo quelle rappresentazioni costituirono il vertice di una insperata carriera, coronata anche da una sorta di diploma di “burattinaio reale” in pergamena, accompagnato da una medaglia incorniciata sotto vetro che conservò fino alla fine.

Il re e il suo cosigliere, ciambellano o scudiero, di solito usati per la recita del “Don Gusmano”, presentata anche con il titolo “La famiglia gioppinoria alle prese del castello di Pamplona”. I due fantocci appartengono al burattinaio Arturo Marziali (Raccolta Scuri)

Girovagò per tutta la Lombardia, richiesto ovunque, principale attrattiva delle località termali dove soggiornava l’Europa che contava, dormendo spesso sempre in allerta, attento a proteggere l’incasso che andava consegnato alla famiglia.

Conclusa ormai la sua fortuna Nespoli si ridusse a vivere in Borgo Canale, aggirandosi con un carretto da straccivendolo.

Una bellissima cartolina raffigurante Borgo Canale ai primi del Novecento (per gentile concessione dell’Antiquaria Laura Ceruti)

Rinunciò definitivamente ai suoi allestimenti, pressato dalla Società degli Autori (SIAE), che richiedeva soldi ad ogni spettacolo.
Morì quasi in miseria nell’ottobre del 1951, lasciando alla moglie, come unica eredità, soltanto qualche burattino. Quei fantocci di legno furono così cari ad entrambi, che alla morte di lei, che l’aveva molto aiutato nel lavoro, trovarono un burattino nascosto sotto il suo letto. Ricordo di tempi migliori, non aveva mai saputo separarsene.

La locandina del Sarzetti, collocata nello stesso punto dove il burattinaio annunciava, anni or sono, i suoi spettacoli

GIOVAN BATTISTA LOCATELLI, DETTO STEENI‘ (1884-1923)

Collocato da taluni ai primi posti della gerarchia dei grandi burattinai bergamaschi, definito “il principe dei Giopì”, può essere considerato come l’ultimo burattinaio della tradizione dell’Ottocento.

La famiglia gioppinoria (per gentile concessione dell’Antiquaria Laura Ceruti)

Pittore-decoratore era di spirito piacevolissimo e dalle allegre trovate. Riservato per natura, si trasformava quando entrava nella baracca, dove riusciva ad esprimere tutta la sua arguzia e il suo pittoresco senso umoristico, tipicamente bergamasco.

Era il padre del pittore Orfeo Locatelli, che di lui ricordava le mani infilate nei suoi burattini, dei quali otteneva espressioni efficaci che oggi si potrebbero definire metafisiche. Il dialogo, le voci diverse e i vari dialetti erano totalmente prodotti da lui. Il canovaccio della commedia consisteva in un foglietto di registro per ogni atto, un promemoria molto stringato, proprio come nel teatro dell’arte.
“Mi dicevano che scegliendo i burattini per lo spettacolo, mio padre prendesse la testa del fantoccio tra le mani, osservasse per bene la fisionomia del personaggio e, a secondo del tipo, decidesse di assegnargli la voce più adatta”  (Orfeo Locatelli).

Steenì dava spettacolo in un magazzino di Via San Lazzaro al costo di dieci centesimi in platea e il doppio in galleria.

Il burattinaio Giovan Battista Locatelli detto Steenì, chiamato “il principe dei Giopì” (1884-1923). Rappresentava copioni tradizionali e testi creati da lui stesso. Se ne ricordano due: Alla Baionetta! e L’impero della forca, che risalgono alla prima guerra mondiale. Due testi sicuramente a favore dell’intervento contro l’Austria

Dell’attrezzatissimo teatro del burattinaio bergamasco, che disegnava le sue teste di legno per farle poi intagliare artisticamente, non è rimasto nulla. Fu lo stesso Locatelli a disfarsene dolorosamente non volendo più conservare un segno di questa grande passione, perché i medici gli avevano suggerito di non proseguire con una così faticosa attività .

Ne “Il Novecento a Bergamo” si fa menzione dei fratelli Locatelli, considerati “tra i più celebri burattinai del loro tempo”. Costoro ricevevano i “clienti” (cioè coloro che volevano ingaggiarli per qualche recita) nello storico albergo Ponte di Legno in Piazza Pontida, famoso per il suo caffè-ristorante e per i suoi stanzoni ben tenuti ed eleganti. Geo Renato Crippa accenna ai fratelli Locatelli, famosi pittori decoratori e celebri burattinai, descritti come “Tipi genialissimi (…) e molto apprezzati (che) ascoltavano sorridendo agli inviti di teatrini presso i quali dovevano recarsi. Togliendosi dal portafoglio la distinta delle loro esibizioni: commedie, drammi, monologhi, la sciorinavano davanti agli occhi stupiti degli ingaggiatori. Recitavano, seduta stante, i pezzi più azzeccati della loro ‘produzione’; allora il silenzio incombeva sui presenti, data l’arguzia e la vivacità delle quali sfoggiavano i ‘maestri’ travolgendo l’improvvisato uditorio. Siccome, d’urgenza, si spargeva la notizia della recitazione, nei negozi vicinori: salumieri, fruttivendoli, carbonai, merciai, armaioli, formaggiai, bastavan pochi istanti perchè l’albergo straripasse”

 

La locandina di Luigi Cristini 

GLI ANNI FRA LE DUE GUERRE

La Grande Guerra era destinata a sconvolgere pure il quieto mondo provinciale di Bergamo e molti burattinai partirono per il fronte; qualcuno di loro non appena gli fu possibile innalzò rudimentali baracche nelle retrovie. Era uno dei pochi divertimenti consentiti alle truppe.

Le due rudimentali teste di burattini vennero fabbricate per un improvvisato spettacolo allestito per intrattenere i combattenti a poca distanza dal fronte durante la Prima guerra mondiale (Raccolta Angelini)

I burattinai giravano anche negli ospedali e nei convalescenziari, regolarmente richiesti dal personale medico per sostenere il morale dei feriti e degli ammalati. E così Capellini scrive che a Martinengo, in fondo al lungo corridoio di una villa della “bassa” bergamasca, una baracca allietava la convalescenza dei soldati, che si raccoglievano disciplinati nella improvvisata platea. Il fronte era lontano, si poteva sorridere e ridere alle facezie di Gioppino, pensando al giorno in cui tutto sarebbe finito. Dietro le file dei soldati italiani si affacciavano, sparuti e malandati, dei prigionieri austriaci, anche loro feriti e o ammalati e in convalescenza. La guerra stava per finire o doveva essere finita da poco. Nella gran sarabanda conclusiva, Gioppino prendeva a bastonate e a gran testate il “tugnì“, il soldato austriaco. E quei prigionieri sorridevano anche loro. Senza molta allegria forse, ma con la speranza che presto avrebbero preso la strada di casa.

Alcuni vecchi burattinai sparirono nel periodo della guerra, altri invece si cimentarono per la prima volta col pubblico (come Domenico Rinaldi).

Anche Bigio Milesi, il popolare pasticcere  Bigio di San Pellegrino Terme, cominciò a far ballare i burattini durante la Grande Guerra. La sua lunga vicenda artistica ebbe inizio quando un giorno suo padre, che era al fronte, a sorpresa gli fece recapitare a casa da un conoscente un sacco che conteneva fantocci e teste di legno, di cui il Bigio non sapeva altro. Portò lo spettacolo burattinesco a notevoli livelli, interpretando il suo Gioppino con signorilità e arguzia. Gli fece da maestro il cugino Irmo Milesi, altra figura popolare di burattinaio.

Tre bellissimi fantocci della raccolta del famoso burattinaio-pasticcere di San Pellegrino, Bigio (Luigi) Milesi. I due a sinistra sono i più antichi e risalgono all’Ottocento

 

Nato a Bergamo nel 1905, Bigio ha raccolto pazientemente una gran quantità di burattini dispersi  “perché il cugino lrmo li aveva avuti dal Gotti, il quale li aveva dati il Pèia”, scriveva Umberto Zanetti

IRMO MILESI

Irmo Milesi cercò di migliorare lo spettacolo, dandogli dei canoni e sperimentando pure delle forme nuove di rappresentazione. Raccoglitore e autore di testi, preparò anche una commedia da far recitare a burattini viventi. Intagliava lui stesso le teste dei suoi burattini, con risultati notevoli. Dipendente dell’Istituto Arti Grafiche di Bergamo, non era costretto a una vita girovaga per campare e per anni egli dominò incontrastato nel salone del Mutuo Soccorso.

Una pagina di un canovaccio appartenuto al burattinaio Irmo Milesi. Questi testi vennero sicuramente scritti nell’Ottocento. Alla grande stanza della Società di Mutuo Soccorso, si accede direttamente passando per il cortile che si apre su via Zambonate. Fu il crocevia di innumerevoli vicende di burattinai negli anni ’20 e ’30 e là lrmo Milesi rivelò le sue eccellenti doti di burattinaio 

Burattinaio ufficiale del dopolavoro, era quello che riceveva i maggiori consensi e che aveva il pubblico più attento e appassionato.

Locandina del burattinaio Luigi Cristini. L’epoca è 1932-’35 (Raccolta fratelli Cristini, Bergamo) 

Poi vi fu l’EMIGRAZIONE, la baracca venne abbandonata dal suo pubblico, restando solitaria nei cortili e sotto gli androni, dove i burattini giacevano abbandonati. Tanti bergamaschi partirono emigranti e capitava che la baracca si ricomponesse anche nei paesi più lontani. Era di casa in Svizzera, in Francia o in Germania e comparve anche negli Stati Uniti e in Argentina.

Ai tempi di via Zambonate, il pubblico non mancava e tanti burattinai facevano a gara per portarvi le loro rappresentazioni.

La sede del Mutuo Soccorso in via Zambonate, nel 1921. La fotografia rappresenta un momento di grande festa (con banda musicale) dell’Associazione Proletaria Escursionisica ospitata nel caseggiato del Mutuo Soccorso

Ormai avanti negli anni, vi tenne spettacolo anche il Nespoli, mentre Carlo Sarzetti e Pietro Spreafico contesero il primo posto ad Irmo Milesi.

Alla morte di questi subentrò Domenico Rinaldi, uscito terzo a un concorso al quale aveva partecipato quasi per caso, rappresentando “I tre principi di Salerno”.

Locandina del burattinaio Sarzetti, probabilmente ereditata dal burattinaio Gotti, di cui fu allievo

DOMENICO RINALDI (MENECH)

Domenico Rinaldi detto Mènech, all’età di 14 anni, dopo un periodo di apprendistato cominciò a far ballare i burattini nell’oratorio di Borgo Palazzo, dove era nato e dove ormai più nessuno a causa della guerra teneva spettacoli. Ricevette in dono dal curato una cassa di burattini, vecchi e ammaccati, per far divertire i ragazzi.

Il burattinaio Domenico Rinaldi, detto Ménech con il Gioppino portato in scena nel corso di decine e decine di rappresentazioni. Egli cominciò l’attività nel 1916 a soli 14 anni, dopo l’apprendistato attraverso Colombo, Gotti, Salvi, Steenì, Lecchi, Pasqualì

Ma ormai il cinema faceva sentire la sua concorrenza, almeno in città, mentre in provincia il burattinaio poteva ancora trovare un buon numero di spettatori. Il mestiere di burattinai ora poteva solo servire ad integrare una paga, ma non più a sfamare un’intera famiglia.

L’ultimo che in quei tempi provò a vivere esclusivamente degli incassi di questo genere di spettacolo fu Luigi Cristini, che ebbe come maestro il Milesi. Ricevuto un indennizzo alla “Magrini” in seguito a un infortunio, lasciò il proprio lavoro e si mise in proprio con i burattini.

Le teste di questi burattini, appartenuti al burattinaio Luigi Cristini, sono tutte opera del falegname bergamasco Enrico Mazzoleni detto Rissolì. Questi, oltre che essere un abile burattinaio fu uno splendido intagliatore. Luigi Cristini, dal 1932 al 1935 tentò la grande avventura correndo da un paese all’altro in bicicletta. L’esito di tante speranze fu però gramo e dovette rinunciare alla libera professione di burattinaio. Conservò però i suoi burattini per tutta la vita

 

Giuseppe Garibaldi, un garibaldino, un frate e due briganti, per “La foresta del terrore” (Raccolta Cristini)

Ormai un’altra guerra incalzava, qualche burattinaio vi si trovò coinvolto, altri persero tutto l’apparato o vi rinunciarono definitivamente. Alla fine quelli che sopravvissero e che avrebbero potuto riprendere si potevano contare sulla punta delle dita.

Via Borgo Santa Caterina, angolo via Pitentino, nel 1938

L’immediato DOPOGUERRA segnò quasi una ripresa dello spettacolo. Finita l’era del Mutuo Soccorso si aprì quella di Enrico Manzoni, detto Rissolì.

Uno spettacolo del burattinaio Carlo Sarzetti sul colle della Maresana, davanti a un’osteria. L’autore dello scatto, effettuato subito dopo la Seconda guerra mondiale, è Diego Lucchetti, padre del noto fotografo e collezionista bergamasco Domenico. Nel ’40 e nel ’41 Sarzetti soleva dare spettacolo alla Maresana nelle occasioni di Pasquetta e Ferragosto, o anche per la festa della chiesetta che sorge sul colle. Si noti la brocca del quarto di vino fra le mani dello spettatore in piedi al centro dell’immagine (Archivio storico fotografico Domenico Lucchetti, Museo storico di Bergamo)

ENRICO MANZONI DETTO OL RISSOLI’

Enrico Manzoni, con uno dei tanti burattini usciti dal suo laboratorio

Enrico Manzoni, altro “principe dei burattini” fu abilissimo nel “far parlare” i suoi burattini, affascinava grandi e piccini per lo più nel suo laboratorio di falegname in via Ermete Novelli, dove gli spettacoli si tennero per un paio d’anni.
La bottega era uno stanzone zeppo di ferri del mestiere coi quali Manzoni, intagliava i suoi bellissimi burattini.

Brighella, Arlecchino e Gioppino, tre dei tanti burattini usciti dal laboratorio di Enrico Manzoni detto Rissolì, abilissimo e fantasioso intagliatore di teste

I suoi spettacoli erano il risultato di una elaborazione artistica fatta a più mani. Al Manzoni si affiancarono i pittori Arturo Bonfanti e Orfeo Locatelli (figlio dello Steenì), l’architetto Pippo Pinetti, l’avvocato Davide Cugini, i poeti dialettali Giacinto Gambirasio e Pietro Astolfi, che gli suggerivano spunti per imbastire le trame delle rappresentazioni.

Alle pareti della bottega pendevano “pesanti mascheroni della commedia e, con i muscoli contratti in arcigne espressioni, paurose maschere della tragedia. E poi aquile grifagne, festoni pingui di frutta decorativa, paffuti angelotti, teste di giovani e di vecchi in cornici massicce o sottili; ma soprattutto bellissimi, splendidi burattini intagliati dalle sapienti mani di questo fenomenale burattinaio” (5).

Spostati gli attrezzi e collocata la baracca, Manzoni faceva circolare piccoli inviti a stampa con impresso l’annuncio della recita. Ad ogni suo spettacolo affluiva una ressa variegata, nella quale non mancavano artisti e professionisti: spettatori abituali erano Guido Piovene (che a Bergamo aveva dedicato un bellissimo reportage) e Renato Simoni, che giungevano appositamente da Milano. Quest’ultimo “gli commissionò nel 1951 dieci statuette lignee raffiguranti altrettanti personaggi tipici del mondo burattinesco, da Arlecchino a Brighella, da Meneghino a Gioppino. ll committente pagò la commissione in rate mensili e – particolare curioso – il Rissolì ricevette il vaglia postale dell’ultima rata lo stesso giorno in cui i giornali diffondevano la notizia della morte di Renato Simoni”, racconta Umberto Zanetti.

Quei burattini sono ora al Museo del Teatro della Scala di Milano.

(5) Luigi Medici, L’Eco di Bergamo, 20 novembre 1958.

L’invito ad una recita fatto stampare appositamente dal falegname Enrico Manzoni, che teneva spettacolo nello stanzone del suo laboratorio 

E’ sempre Luigi Medici a descrivere uno degli spettacoli del Rissolì, tenuto nel suo laboratorio nel 1946. “La sera dell’annunciata rappresentazione la grande officina di falegnameria si riempì in pochi minuti di tutto un pubblico ciarliero e simpaticissimo. C’era, nell’officina, uno spirito rusticano, di Hans Sacs: qualcosa di artigiano, di medioevale con quelle lanterne che illuminavano scialbamente la baracca che i apriva in un angolo. Tre panche, davanti alla baracca, erano riservate agli spettatori privilegiati: i bambini. Gli altri spettatori stavano lungo le pareti pigiati in piedi o semiseduti sulle poche panchine rimaste nel laboratorio svuotato dei banchi artigiani e degli utensili di lavoro. C’era pur sempre un’aria di teatro vero e proprio.
Quando lo spettacolo cominciò, rimase illuminata solo la baracca. Tra le colonnine del proscenio ecco spiccare il sipario (dipinto dallo stesso Rissolì) con la nitida veduta del profilo di Città Alta. Come si alzò il sipario apparve Giopì, non so se scolpito dal Rissolì su disegno suo o dell’amico pittore Bonfanti: l’occhio vivo, la bocca semiaperta con qualche dente in ordine sparso, l’immancabile bacolo. Capii come Renato Simoni si fosse innamorato di queste maschere. E subito lo spettacolo entrò nel vivo: c’era da assistere a una corrida con il Giopì che faceva il torero. Un divertimento per tutti. Quante risate! Una serata indimenticabile”.

Un bellissimo Gioppino, il cui legno pare materia viva, è uscito dalle mani del versatile falegname-intagliatore Enrico Manzoni, il quale ha rivestito un ruolo importante nel teatro bergamasco dei burattini negli anni immediatamente successivi alla fine della Seconda guerra mondiale. Le recite tenute nel suo laboratorio di via Novelli a Bergamo richiamarono un pubblico di professionisti e di intellettuali

In qualche copione venne anche affrontato (con grandi manganellate) il periodo fascista e vi fu anche una rappresentazione dedicata alla vecchia questione, che tanto faceva discutere i bergamaschi, dell’ubicazione della tomba di Bartolomeo Colleoni. Questione sfociata nel clamoroso episodio dell’arca trovata nella basilica di Santa Maria Maggiore, e della quale Manzoni e compari intrecciarono un esilarante canovaccio.

Il discusso ritrovamento del 12 gennaio 1950. Mons. Locatelli scopre la massiccia arca lapidea in granito interrato nel pavimento di Santa Maria Maggiore: fu convocato il rabdomante Malachia, che i bambini di Città Alta credevano un mago perché ipnotizzava le galline (dal racconto di Domenico Lucchetti)

Probabilmente furono gli ultimi episodi locali rappresentati nella baracca dei burattini. Attorno al 1948-’49 questa serie di recite era già conclusa e v’era stata una dispersione dei vari componenti del gruppo.

Ma il Manzoni continuò a intagliare serie su serie di splendidi burattini, che finirono in casa di appassionati e di amici. Ne scolpì per il Ducato di Piazza Pontida, che dopo gli stenti della guerra offrì numerose occasioni di incontro e di divertimento.

Un’epoca di cambiamenti radicali, che avrebbe spazzato via tradizioni e consuetudini, si stava avvicinando a grandi passi: il declino dei burattini, già accentuato con la guerra, fu totale con l’arrivo della TELEVISIONE.

In Città Alta qualcosa sopravvisse. C’erano ancora l’imbianchino Carlo Sarzetti, che portava qua e là la sua baracca quando la brutta stagione gli impediva di lavorare. Pasquale Brignoli, un emigrande rientrato con la baracca dalla Francia, dove aveva imparato a dar spettacolo tra i lavoratori bergamaschi.
Pucci Mazzoleni, uno straccivendolo, che girava con un carretto trainato da un ronzino spelacchiato.
Melio Minoia, aggiustatore di ombrelli e di zoccoli.

C’era anche qualcuno nei vecchi borghi, come Piero Spreafico, un altro imbianchino, che teneva spettacolo nelle osterie di Borgo Santa Caterina, di via San Tomaso e in via N. Sauro.
E Arturo Marziali, un decoratore e pure abile intagliatore di teste di burattini.

CARLO SARZETTI

Sarzetti, dopo aver percorso la Bergamasca e la pianura verso Milano e Cremona spostandosi con un motocarro, dava spettacolo in uno stanzone nella stessa via Tassis.

Il burattinaio Carlo Sarzetti nella sua abitazione di via Tassis, a Bergamo Alta

Il Sarzetti era quello di maggior spicco. In realtà fu uno dei continuatori della grande tradizione bergamasca.

Allievo del Gotti, da lui aveva ereditato la grande baracca con la quale il suo maestro aveva vinto il primo premio a un concorso bandito a Milano.

Il grande, sovradimensionato teatrino di Carlo Sarzetti, che la tradizione vuole appartenesse in origine a Giuseppe Gotti, il quale lo lasciò a Sarzetti, suo allievo. Con questo teatrino Sarzetti vinse a Milano un concorso regionale per la più bella baracca di burattini (Raccolta Scuri)

Negli ultimi anni non si muoveva più da Città Alta e dava spettacolo in uno stanzone, prima in via Salvecchio, poi in via Tassis.

Il burattinaio Carlo Sarzetti nella sua abitazione di via Tassis, a Bergamo Alta (Museo storico di Bergamo) 

In passato aveva girato in lungo e in largo per la provincia, usando il motocarro di un amico, con il quale il Sarzetti si spostava insieme all’amico e fido aiutante, Vittorio Moioli, detto Bachetì, uno degli ultimi burattinai che ancora sopravvivono.

Bachetì, al secolo Vittorio Moioli, all’opera durante uno spettacolo in un’immagine di qualche decennio fa

Ma nonostante il Sarzetti con la sua abilità richiamasse ancora il pubblico, la vita per i burattinai era ormai dura, gli incassi erano scarsi e spesso bisognava accontentarsi anche di pagamenti in natura.

Vittorio Moioli, detto Bachetì, uno degli ultimi burattinai rimasti della generazione novecentesca

 

Vittorio Moioli con i suoi burattini, accanto a Lele Scuri, collezionista di baracche e crape de lègn

Quando si recavano nella “bassa” bergamasca nel periodo del raccolto, ai tempi in cui le cascine erano affollate di braccianti, capitava che il fattore di qualche azienda agricola offrisse loro, in cambio di uno spettacolo tenuto sulle aie dei grandi cascinali, un piatto di minestra, un fiasco di vino, una filza di cotechini, un po’ di pancetta o di salame. E di giorno capitava di restar sul posto a dare una mano a lavorare nei campi.

I burattini in cascina a Bonate (Bg) nel 1966 (foto Pepi Merisio)

Sarzetti scomparve nel 1970 dopo aver invano lottato, oltre che contro la concorrenza della televisione, con la tassa che la Siae richiedeva ogni volta che dava spettacolo.
Non capiva perchè dovesse sborsare soldi in questo modo: per lui era una di quelle gabelle che Gioppino spazzava via a suon di bastonate.

Il baule utilizzato da Carlo Sarzetti per il trasporto dei burattini. Anche le teste usate dal Sarzetti (in origine aiutante dei Gotti e ai quali subentrò dopo la morte) erano di notevoli dimensioni. Una caratteristica comunque tipicamente bergamasca (Raccolta Angelini) 

Di queste tradizioni, dell’incredibile, vario, fantasioso mondo della baracca e dei burattini, è rimasto ben poco. In parecchie province non c’è più un solo burattinaio. Nessuno si è mai curato li raccoglierne l’eredità, testimonianze o testi.
Qua e là sopravvivono vecchi burattinai, ma i loro spettacoli vengono considerati alla stregua di passatempo per bambini.

Nella Bergamasca, Pino Capellini, vera e proprie miniera d’informazioni, immagini e aneddoti, ricorda Bigio Milesi e Domenico Rinaldi che, pur avanti negli anni, davano ancora spettacoli.

La scena, che  rappresenta la piazzetta del Delfino, veniva usata anche per farvi comparire il padre di Gioppino e di Pantalone prima della partenza di Gioppino (dalla commedia “Per Milano in cerca di moglie”). Raccolta Bigio Milesi, S. Pellegrino Terme

Un terzo è Vittorio Moioli, aiutante del Sarzetti che, data l’età, solo in rare occasioni ne continua la tradizione.

“Occhi attoniti di bambini, sorrisi di mamme, risate squillanti di giovanotti dai sedici ai settant’anni: una lampada illumina il proscenio mentre il posto del pubblico, sotto i portici del Palazzo della Ragione, rimane in ombra come nei teatri moderni. Tre squilli di campanello annunciano l’inizio dello spettacolo. Un rumore di panche e di sedie rimosse, qualche colpo di tosse, poi il silenzio. Si alza il sipario e appare la scena, dipinta dallo stesso burattinaio che tiene tutti i ruoli, compreso quello di pittore. Protagonista è Gioppino, che esce dalle quinte e si inchina agli spettatori con una delle sue movenze più burlesche. Applausi. Lui li tronca battendo forte il bacolo sul ripiano della ribalta. La baracca ha uno scossone e ondeggia un poco, ma poi riprende la sua stabilità e la rappresentazione incomincia” (Sereno Locatelli Milesi) 

C’è poi Giuseppe Fugini, appassionato dilettante di Brembate Sotto, il paese del grande professionista Benedetto Ravasio, noto a livello nazionale, purtroppo scompaso.

BENEDETTO RAVASIO

Il burattinaio bergamasco Benedetto Ravasio, uno dei grandi burattinai del Novecento
 

Ravasio, originario di Bonate Sotto, si colloca nella scia dei burattinai di un tempo, collocandosi tra i più illustri operanti nel secolo scorso, come Sarzetti, Nespoli, Manzoni, Cristini e Luigi Milesi detto il “Bigio”.

Pina e Benedetto Ravasio

Allievo del Nespoli, iniziò a dare i primi spettacoli negli oratori, ma la sua vera attività ebbe inizio nel Dopoguerra.

Benedetto Ravasio e la moglie Giuseppina durante l’allestimento di uno spettacolo tenuto sotto il portico del Palazzo della Ragione in Piazza Vecchia

 

Benedetto Ravasio e la moglie Giuseppina sotto il portico del Palazzo della Ragione in Piazza Vecchia

 

Benedetto Ravasio all’opera, sotto il portico del Palazzo della Ragione a Bergamo. Amava profondamente il suo mestiere, di cui conosceva l’intrinseco segreto

 

I burattini di Benedetto Ravasio in Piazza Vecchia

Di giorno al lavoro, di sera in giro con la baracca nelle trattorie, all’aperto, negli oratori. Quando decise di dedicarsi totalmente a questo spettacolo venne affiancato validamente dalla moglie, Pina, che a lungo lo aiutò nella baracca. Lei tagliava e cuciva i vestiti e insieme a lui montava gli spettacoli e interpretava i ruoli femminili.

Una intensa immagine di Pina, compagna di vita nonché insostituibile collaboratrice di Benedetto Ravasio, nel dare voce ai personaggi femminili, animare i burattini (dei quali confezionava gli abiti), contribuendo anche alla scrittura dei testi

Davvero un gran personaggio, “con quella sua aria bohèmienne, la sua zazzera d’artista, i baffoni grigi, la sua cravatta Lavellière, la sua fecondia, la sua vivacità indomita, la sua simpatia contagiosa”.

Benedetto Ravasio con il suo Gioppino

I suoi itinerari lo portarono anche fuori provincia, seguendo le orme del Nespoli, soprattutto a Monza dove restò a lungo tra il 1952 e il 1953.

Dalla sua bottega in Piazza Vecchia, Domenico Lucchetti seguiva attentamente gli spettacoli che si succedevano sotto il Palazzo della Ragione

Poi arrivò la televisione e il suo gran guasto. Per quasi due anni l’attività di Benedetto subì una battuta d’arresto: impossibile allestire uno spettacolo per trovare spettatori.

La ripresa fu lenta, ma sicura. Si fece un nome a Milano, percorse a lungo il Comasco, andò a recitare in Svizzera. Il centro dei suoi interessi restò però Milano, dove per sette anni di seguito tenne rappresentazioni al Circolo dei Piccoli presso il negozio “Motta” in Piazza del Duomo.

Piazza Vecchia, anni ’70: Benedetto Ravasio e il suo Gioppino

Nel 1972 approdò alla televisione: fu la sua rivincita dopo quei due anni in cui lo schermo televisivo aveva fatto morire lo spettacolo dei burattini.

La baracca di Benedetto Ravasio sotto le arcate del Palazzo della Ragione negli anni ’70

Ravasio fu quasi unico nel genere: attore istintivo e geniale, dotato di una bellissima voce, fu abile anche nell’uso di scalpelli e pennello, scolpendo e decorando da sé le teste dei burattini e dipingendo gli scenari. Si occupava della musica (suonava il mandolino ed il violino) e scriveva i copioni delle sue rappresentazioni.

Benedetto Ravasio

Artista sensibile e in sintonia con il pubblico, ne intuiva i gusti modificando le tragedie e i drammi del repertorio tradizionale lasciando sempre più spazio alle commedie e alle fiabe, più consone ai nuovi canoni della comunicazione.

Rivolto perlopiù a bambini e alle loro famiglie, un po’ come fece Goldoni ripulì la tradizionale parlata triviale di Gioppino, sgrossandola della parte rozza e pesante ma mantenendo le caratteristiche del personaggio rude e un po’ rozzo ma simpatico.

Un’intenso ricordo di Benedetto Ravasio

Pina e Benedetto Ravasio hanno conservato e tramandato ai posteri la tradizione, in un periodo in cui le principali compagnie di burattinai appendevano definitivamente al chiodo le proprie crape de lègn: grazie a loro, quella manciata di burattinai professionisti oggi attivi sul territorio, continuano a preservare l’arte burattinesca consentendo al pubblico di conoscere ed apprezzare una tradizione viva da circa due secoli, che affonda le proprie radici nella cinquecentesca Commedia dell’Arte ed è perciò assolutamente da preservare e valorizzare.

Il teatrino di Daniele Cortesi, erede artistico di Benedetto Ravasio nonchè il più noto burattinaio bergamasco contemporaneo, sotto il porticato del Palazzo della Ragione

 

Il teatrino di Daniele Cortesi, sotto il porticato del Palazzo della Ragione

La ventennale esperienza di organizzazione di rassegne teatrali promosse dalla Fondazione Benedetto Ravasio, si qualifica nella rassegna estiva “Borghi e Burattini” inserita nella cornice di Piazza Vecchia e di numerose piazze dei comuni bergamaschi.

I burattini, una passione di famiglia. Fondazione Ravasio

A Bonate Sotto, paese natale di Benedetto, la Fondazione indice il premio “Benedetto Ravasio”, rivolto ad una giovane compagnia che meglio si sia distinta tra quelle presenti nel panorama nazionale.

 

Riferimenti principali

Devo molte notizie ed  immagini a due meravigliosi libri di Pino Capellini, dei quali consiglio la lettura per la vastità e la completezza della ricerca e per le ricchissime testimonianze iconografiche:
– Pino Capellini, Baracca e Burattini, Bergamo, Grafica Gutemberg, 1977.
– Pino Capellini, Crape dé lègn, Litostampa Istituto Grafico srl – Bergamo, 2002.
– Pilade Frattini, Renato Ravanelli, Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo. UTET, 2003.
– Umberto Zanetti, Bergamo d’una volta, Il Conventino.

Il chiostro di Santa Marta: dall’antico splendore alle suggestioni di oggi

Il cuore pulsante della città si articola in una miriade di strade, viuzze, edifici, piccoli e grandi monumenti, così familiari da consentirci di elencarne mentalmente il susseguirsi.

Ma nel suo trambusto vi è ancora uno scrigno, così raccolto e silenzioso, da sfuggire ai nostri frettolosi sguardi: è il chiostro di S. Marta, uno degli angoli più belli e suggestivi, celato nella galleria incastonata tra le mura del Centro piacentiniano e che sopravvissuto a secoli di turbolente vicende, è ancor’oggi capace di evocare un’atmosfera quasi sacrale.

Piazza Vittorio Emanuele II. A sinistra  della Torre dei Caduti e del Palazzo della ex-Banca Popolare di Bergamo si diparte la galleria aperta tra l’imbocco di via Crispi e la torre, celando al suo interno il chiostro di S. Marta

Dalla dolce armonia delle logge e delle arcate spira ancora un’aria di assorto raccoglimento, acuito dalla posizione appartata che ne fa un luogo insolito e  senza tempo, un’oasi di quiete al centro di un via vai che non conosce sosta.

Il chiostro è quanto sopravvive di un complesso trecentesco di inusitata bellezza, che un tempo era parte integrante di un’articolata struttura sacra comprendente la chiesa e il convento.

Lo sguardo si perde gradevolmente fra colonnati, arcate, capitelli, affreschi e graffiti

Come fu destino di altri monasteri, nel corso del tempo il complesso ha cambiato più volte destinazione d’uso, segnato da un destino multiforme. Basti pensare anche solo al vicino monastero di SS. Lucia e Agata, demolito nel 1825 per edificare il palazzo della famiglia Frizzoni, casata di imprenditori e manifatturieri svizzeri che tra il 1836 e il 1840 vi avevano costruito il palazzo di famiglia (attuale sede del Municipio di Bergamo).

Veduta del tratto nord della Contrada di Prato, verso S. Leonardo, con a sinistra il convento e la chiesa medioevali di S. Lucia e S. Agata e a destra il convento delle suore domenicane di S. Marta, in gran parte demolito nel 1915 per l’edificazione dell’allora Banca Mutua Popolare (incisione realizzata intorno al 1815 – Proprietà Conte G. Piccinelli, Milano)

Il suo splendore fu grande, attraversando secoli intensi e convulsi di storia, fino al Settecento, quando le truppe napoleoniche, nel quadro di una serie di soppressioni dei diritti civili e religiosi compiuti nel nome del “progresso e della libertà”, lo spogliarono della sua funzione iniziale tramutandolo in Caserma e ospedale militare.

Le piante antiche ci restituiscono l’aspetto originario del complesso monastico, che nella Pianta della città e borghi esterni di Bergamo dell‘architetto Giuseppe Manzini del 1816 è indicato come Caserma. Sono ben visibili, a sinistra del grande quadrilatero della vecchia Fiera, i due chiostri di S. Marta

Di lì, in un serrato processo di decadenza, durante il governo austriaco il convento si tramutò in deposito militare e verso la fine dell’Ottocento fu ridotto in parte nuovamente a Caserma e in parte ad albergo.

Luigi Bettinelli – L’assalto alla caserma di S. Marta nel 1848

 

Il complesso di S. Marta. Dietro il coro della chiesa, dopo la soppressione del convento era stato aperto l’albergo Cavour, che fu dismesso tra il 1886 e il  1890 per ampliare la caserma stanziata nei locali del complesso monastico (Racc. Gaffuri

 

Via Roma: l’albergo Cavour, ricavato nel coro della chiesa di S. Marta, poi occupato dal Palazzo della ex Banca Popolare di Bergamo, posto dietro la Torre dei Caduti

Negli anni della prima guerra mondiale, in cui la tanto deprecata tessera razionava il consumo dei viveri, il chiostro e gli edifici annessi ospitarono gli spacci municipali: l’Annona:

“Era grande il via vai faccendiero di chi si recava all’annona a fare provviste: si saliva un paio di bassi gradini prima di entrare sotto il porticato ad archi tondi che ne sosteneva un secondo. La superficie del cortile era a selciato e torno torno girava un basso parapetto. La calce che imbiancava le pareti lasciava scoperti punti dove l’antichità era meglio manifestata attraverso laceri affreschi, scoloriti e indecisi; e l’erba serpeggiava”.
(Domenico Magni)

Mercatino addossato all’esterno del convento di Santa Marta, ora Ubi Banca (Foto Cesare Villa)

Infine, il complesso venne sacrificato alla riqualificazione dell’area con la costruzione del Centro piacentiniano, e ciò a partire dal 1915, quando fu pietosamente abbattuta la chiesa e parzialmente demolito il monastero, ormai trasandato e deperito.

La demolizione della chiesa di S. Marta

Il chiostro, risparmiato alla furia del piccone venne  acquisito dalla  Banca Bergamasca di Depositi e Conti Correnti (poi intitolata alla Milano Assicurazioni ed infine alla Banca Popolare di Bergamo), che ne impedì il degrado attraverso il restauro compiuto nel 1926 dall’ing. Luigi Angelini, uno dei più autorevoli e fecondi professionisti bergamaschi della prima metà del XX secolo.

La Banca Bergamasca, oggi sede dell’Ubi Banca

Questi, dopo l’abbattimento di casa Caffi per l’apertura della radiale S. Marta-Rotonda dei Mille, con una trovata urbanistica geniale propose la sistemazione di un nuovo passaggio, creando la galleria che collega l’imbocco di via Crispi (lato Sentierone) con piazza Vittorio Veneto.

Casa Caffi, abbattuta nel 1922 per l’apertura della radiale S. Marta-Rotonda dei Mille, attuale via Crispi

Fu così risparmiato l’isolamento del luogo, schiudendo alla città il chiostro con la sequenza armoniosa delle arcate che si susseguono fra le logge quattrocentesche, ponendo fine alle molte polemiche legate a quella di facciata che era stata proposta da Piacentini.

Il chiostro di S. Marta e  la sede della Ubi Banca sullo sfondo. La disposizione di porticati a loggia sovrapposti, ricalca la semplicità delle sue prime proprietarie, che preferirono uno stile sobrio, semplice e lineare. L’inevitabile usura del tempo e degli agenti atmosferici ha richiesto un secondo intervento di restauro, terminato nel 1991, affidato all’architetto Sandro Angelini, figlio dell’ideatore del progetto della galleria

Con la sua bellezza e la raccolta intimità, il chiostro si fonde armoniosamente agli effetti di luce, ai chiaroscuri, alle simmetrie equilibrate create dalle piazze, dai porticati e dai passaggi circostanti, accrescendo il valore estetico e lo spessore storico nello spazio del centro progettato da Piacentini.

 

UN TUFFO NEL PASSATO

“Nel silenzio S. Marta è nata, nel silenzio, senza clamori,

sembrava essersi appassita per lunghi secoli,

nel silenzio, ancora, esprime oggi la sua dolce elegia,

con una delicatezza che potremmo definire congenita,

quasi a non voler turbare i nostri passi:

l’importante è sapere che c’è,

che le sue pietre respirano ancora,

come un magico cuore nel cuore della città…”.

(F. Carpinteri, Il chiostro oltre la grata)

Il complesso domenicano di S. Marta aveva visto la luce dopo l’avvento della Signoria viscontea, in un periodo in bilico tra le lotte intestine delle grandi casate dei ghibellini e dei guelfi che avevano cristallizzato lo sviluppo del centro direzionale (città alta, dove nei quartieri nobili si moltiplicavano torri e case fortificate) e il diffondersi della ricchezza in Italia, con lo sviluppo dei commerci, che a Bergamo vedeva fiorire l’attività mercantile e  prevalere il ceto borghese.

Nonostante i gravi conflitti che opprimevano la vita cittadina, la città bassa esprimeva una forte vitalità ed un progresso costante e la Fiera diveniva sempre più vivace e redditizia.

Su di una parete del chiostro di S. Marta compare affrescato Il Disegno dell’Insigne Fabrica della Fiera di Bergamo (1732- 1739), ricavato da un’incisione all’acquaforte di Gaetano Le Poer conservato presso la Biblioteca A. Mai di Bergamo, nella Raccolta Gaffuri

In questo clima, angustiato dalle lotte di fazione e segnato da una cruda e serrata competizione economica, molte persone trovavano nella quiete del chiostro una risposta all’angoscia della loro esistenza.

“Facciata della Chiesa e quartiere di S.ta Marta – dopo la riduzione del presente anno. Colta dal vero da N. Mangili il 24 novembre 1886 per….” (disegno a matita)

Lungo il corso del Trecento la città si costellava così di nuove sedi conventuali, che si affiancavano al discreto numero dei preesistenti conventi benedettini: gli Umiliati, già stanziati alla Magione (Masone) e a S. Bartolomeo, si insediarono a S. Tommaso; i Francescani, già stanziati al monastero di S. Francesco presso la Rocca, si insediarono alle Grazie, alla Rocchetta e a Rosate; i Domenicani, da tempo stanziati a S. Stefano al Fortino, si insediarono anche al Matris Domini, a Santa Marta e a Santa Lucia; gli Eremitani a Sant’Agostino; iDisciplini Bianchi alla Maddalena; i Celestini a Santo Spirito e in borgo Santa Caterina (1).

Fu in questo clima che nacquero la chiesa e il convento che le Suore Domenicane vollero dedicare a S. Marta, da sempre, con il fratello Lazzaro, la santa “ospedaliera” per eccellenza, per aver sperimentato la malattia suprema (la morte) e la guarigione (la resurrezione di Lazzaro), per via della loro opera di assistenza ai malati. E benchè non vi siano notizie certe, sembra che in epoca protocristiana la zona scelta fosse adibita ad ospedale (2).

Il monastero di S. Marta è dunque il terzo dell’Ordine domenicano a Bergamo, dopo quello maschile di S. Stefano del 1226 e quello femminile di S. Maria Matris Domini del 1273.

Possiamo osservarlo nella veduta prospettica di Alvise Cima, che fedelmente ci restituisce l’immagine della Bergamo medioevale, dove il convento sembra essere il perno attorno a cui ruotano tutte le vie che si diramano per raggiungere il cuore del borgo S. Leonardo.

Porzione della veduta prospettica di Alvise Cima, da Borgo S. Leonardo a S. Marta, compresi nella cerchia medioevale delle Muraine

Il monastero, fondato attorno al 1340, fu ampliato nel Quattrocento per poter ospitare fino a cinquanta consacrate domenicane, mentre la chiesa fu consacrata nel 1357.

Particolare della Contrada di Prato (attuale Piazza Matteotti) intorno al 1815 (Racc, Conte G, Piccinelli), con il Convento delle Suore Domenicane di S. Marta

Secondo le fonti, era composto da due grandi chiostri dai lunghi colonnati, di cui quello quadrato grande corrisponde a quello che vediamo oggi, reso rettangolare  dai restauri e dalle integrazioni compiute da Luigi Angelini negli anni Venti del Novecento.

Le trasformazioni subite dal complesso monastico sono illustrate in un affresco presente sulle pareti del chiostro.

“Come era il Convento di S. Marta in Bergamo”. Pianta e prospetto del complesso di S. Marta, con le trasformazioni avvenute nel tempo. L’affresco compare su una parete del chiostro

Vi era inoltre una vastissima ortaglia estesa dalle mura fino a all’ospedale di S. Antonio nel prato di Sant’Alessandro, con viti, alberi da frutto e varie altre coltivazioni, solcata da una seriola “che permetteva la presenza nei pressi di filatoi, tintorie e mulini” (3).

Particolare nella veduta di Alvise Cima, conservata presso il Museo Storico di Bergamo sito in Piazza Vecchia. Il complesso monastico di S. Marta è orientato ad est come qualsiasi sito di culto in Medioevo. Sono raffigurati i due chiostri, mentre la chiesa risulta priva del portichetto antistante l’ingresso, documentato nel 1720. La vasta ortaglia di pertinenza è attraversata da una seriola

La chiesa, che assunse la sua forma definitiva nel 1637, raccoglieva diverse reliquie provenienti anche dal complesso domenicano maschile di S. Stefano, (demolito per la costruzione delle mura veneziane), ed era ricca di paramenti e decori anche grazie alle facoltose famiglie delle religiose che provvedevano a sostenerne le spese o a fare ingenti donazioni (4).

L’interno della bella chiesa di S. Marta nell’Ottocento, nel periodo in cui era stata trasformata in caserma (per l’immagine: M. Mencaroni Zoppetti, cit. in bibliografia)

 

L’interno della chiesa di S. Marta nell’Ottocento, nel periodo in cui era stata trasformata in caserma (per l’immagine: M. Mencaroni Zoppetti, cit. in bibliografia)

Il porticato in fronte la facciata della chiesa le venne aggiunto nel 1672. Lo ritroviamo ancora in alcune fotografie risalente ai primi del Novecento, accanto al Boschetto di Santa Marta.

Primi del Novecento. Parte del complesso di S. Marta visto da piazza Cavour, con il portichetto antistante la chiesa. A destra, il boschetto di S. Marta (Bergamo nelle vecchie cartoline, D. Lucchetti)

Nel 1915, al momento della demolizione dell’ex monastero la Banca Bergamasca  provvide a recuperare e catalogare gli antichi affreschi della chiesa. Oggi, tre strappi sono esposti lungo le pareti dal Salone delle Capriate, nel Palazzo della Ragione in Piazza Vecchia, mentre i rimanenti sono conservati negli uffici e nel chiostro dell’Ubi Banca in Viale Roma.

Uno strappo di decorazione muraria di fine ‘300 presente sulle pareti del chiostro di S. Marta

 

PASSEGGIANDO FINO AL CHIOSTRO

La breve passeggiata che separa i portici di Piazza Vittorio Emanuele II dalla galleria è un’esperienza sensoriale che val la pena di essere vissuta. La piazza,  un’estensione naturale del Sentierone, riecheggia con la lunga sequenza dei suoi porticati le archeggiature settecentesche della demolita Fiera, affacciata su quello che un tempo era chiamato Prato di Sant’Alessandro.

Accanto all’imbocco della galleria noterete l’ingresso della Banca Popolare, ora Ubi Banca, che invita ad ammirare i vasti interni illuminati da ampie vetrate decorate. Ad oggi resta una tra le più rappresentative, ospitando pregevoli opere di artisti bergamaschi dell’800 e del ‘900, oltre a significativi lavori di artisti moderni contemporanei.

Il nuovo salone della ex Banca Popolare di Bergamo, ampliato ad opera dell’ingegnere ed architetto Luigi Angelini, fu aperto nel dicembre del 1923. All’interno della Sede si può ammirare un particolare spazio dedicato, una sorta di museo itinerante dove vengono sapientemente collocati a rotazione alcuni fra i più importanti capolavori artistici di proprietà della Banca

Le emozioni che vi attendono, sono anticipate da un caleidoscopio di impressioni suscitate dall’ariosa ed elegante galleria, impreziosita da marmi lucenti e da ampi lucernari, che sprigionano una luce calda gradevole e avvolgente.

La galleria di Santa Marta

 

Un lucernario nella galleria

A poco a poco vi si svelerà l’ingresso appartato del chiostro, che vi trasmetterà la sensazione di trovarvi in un luogo dove il tempo si è fermato; la Banca Popolare lo rende accessibile gratuitamente ogni prima domenica del mese, mettendo a disposizione anche una guida per una visita della durata di 15 minuti.

Uno dei tanti allestimenti artistici temporanei ospitati nel chiostro di S. Marta

E’ un’occasione per ammirare le antiche testimonianze storiche, artistiche e culturali custodite sulle pareti, così come le installazioni permanenti che dall’incontro con questo luogo risultano pienamente valorizzate: il “Grande Cardinale seduto” (1984) di Giacomo Manzù  (tema sviluppato dallo scultore in oltre 300 rappresentazioni), “Le Suore che comunicano” (1971) di Elia Ajolfi (gia’ docente di scultura alla Carrara), e il curioso monolite di granito nero “Untitled” o “Parabola” (2004) dell’artista anglo-indiano Anish Kapoor, dove il contemporaneo rispecchia e fa rilucere l’antico.

Le installazioni permanenti realizzate per il chiostro da Giacomo Manzù, Elia Ajolfi e Anish Kapoor. Con l’essenzialità della sua forma, il monolite (“Parabola”), grande conca specchiante, si inserisce armoniosamente nel sobrio spazio quattrocentesco riflettendo i colonnati e restituendone al visitatore, affascinato dai bagliori che produce, l’immagine capovolta

 

Il gruppo de “Le suore che comunicano”, rievoca un momento della antica vita quotidiana delle monache nel Convento. Sullo sfondo, l’opera di Manzù

Qualsiasi momento della giornata val bene una sosta, in questo piccolo angolo segreto che sembra voler invitare a non dimenticare il proprio passato: anche la sera, quando è totalmente immerso nel silenzio e nell’atmosfera irreale delle sue luci soffuse.

Note

(1) A. Fumagalli, Op. Cit.

(2) F. Carpinteri, Op. Cit.

(3) T. Rossi, Op. Cit.

(4) T. Rossi, Op. Cit.

Fonti

Alberto Fumagalli, “Bergamo. Origini e vicende storiche del centro antico”. Rusconi, 1981, Milano.

Tosca Rossi, “A volo d’uccello – Bergamo nelle vedute di Alvise Cima – Analisi della rappresentazione della città trà XVI e XVIII secolo”, Litostampa, Bergamo, 2012.

Francesco Carpinteri, “Il chiostro oltre la grata”. Qui a Bergamo: mensile della città, Anno 1, n. 6.

Maria Mencaroni Zoppetti (a cura di), L’Ospedale nella città – Vicende storiche e architettoniche della Casa Grande di S. Marco. Collana: Storia della sanità a Bergamo – 1. Fondazione per la Storia Economica e Sociale di Bergamo.

Il boschetto di Santa Marta e l’ippocastano che non c’è più

Ai giorni nostri il Sentierone è una lunga ed elegante vetrina che siamo soliti attraversare in fretta, ma un tempo era un luogo d’incontro dove tutto invitava a rallentare il passo.

Il viale Vittorio Emanuele – così si chiamava la Strada Ferdinandea dopo l’Unità d’Italia – era diviso a metà da un lato dall’antica Fiera, un grande centro commerciale ante litteram nel cuore della città, e, dall’altro, dal “Boschetto” di Santa Marta, un rigoglioso triangolo verde compreso tra il il lungo viale e via XX Settembre, che si allungava verso via Borfuro all’altezza del monumento di Lorenzo Mascheroni.

Inizi Novecento, Porta Nuova: la Strada Ferdinandea, così chiamata in omaggio all’imperatore austriaco ed alla sua visita in città, avvenuta nel 1838

Al soleggiato Sentierone e al trambusto della Fiera, luogo di contrattazioni e divertimenti, si contrapponeva il verde cupo del boschetto che per quasi un secolo ha ristorato intere generazioni di borghigiani e persino, in più occasioni, gli invasori, specie dopo la ripiantumazione nel 1849 della sua metà inferiore verso lo sbocco di via Borfuro.

1920: Piazza Cavour e il Boschetto di Santa Marta, per quasi un secolo luogo di ritrovo estivo alla cui ombra si ripararono passanti e perditempo. A sinistra, il busto di Lorenzo Mascheroni, inaugurato nel settembre del 1897

Fittamente piantato a ippocastani, il “Boschetto” celava al suo interno la chiesa e il monastero trecenteschi delle Domenicane, custodendo sotto la sua ombra discreta anche alcuni di quei monumenti che ora si trovano sparsi nel centro cittadino: quello di Cavour, quello di Lorenzo Mascheroni e l’obelisco, svettante altissimo nell’attuale piazza Vittorio Veneto.

Il monumento marmoreo a Cavour, inaugurato nel 1913 dal re Vittorio Emanuele III, cambiò più volte domicilio essendo stato persino nei giardinetti presso il Municipio vecchio, “coperto di una leggera patina verde-vergogna” (Luigi Pelandi). Accanto, è ancora visibile il portico della chiesa di S. Marta

 

La chiesa e il Boschetto di S. Marta, con  il busto eretto alla memoria di Lorenzo Mascheroni

L’obelisco, che tutti credono attribuito a Napoleone Bonaparte, in realtà era stato eretto in precedenza in onore del podestà e vice capitano della Repubblica Veneta  Gianfranco Correr (che in quel periodo stava lasciando la città), per essersi tanto prodigato durante la grave carestia del 1775. A seguito dell’invasione francese del 1797 l’obelisco venne dedicato a Napoleone, ma nel 1801, con l’occupazione austro-russa della città, l’intestazione venne rimossa. In seguito, il ritorno delle truppe francesi in Bergamo riportò il nome di Napoleone sull’obelisco dal quale peraltro venne cancellato intorno al 1815.

Trafiletto tratto da “Un giorno a Bergamo, guida della città”, 1892

Ma le peripezie dell’intitolazione non finiscono qui e  il seguito lo scopriremo presto.

Piazza Vittorio Veneto con l’Obelisco dedicato “A Bonaparte l’Italico 1797”. L’attuale medaglione che decora il dado del basamento è opera di Costante Coter ed è stato posto soltanto nel 1939

Nel bel mezzo del “Boschetto”, ch’era liberamente aperto a tutti, per anni aveva dimorato una famiglia di girovaghi con una carrozza sgangherata. E a dimostrazione della libertà concessa al luogo, il ramaio Cornali, che qui aveva la sua bottega, era solito appendere sui rami degli ippocastani le gabbie dei volatili che catturava: un piccolo arbitrio sul quale il Comune chiudeva un occhio.

Acquaforte di Sandro Angelini (“Bergamo d’altri tempi” – Istituto Italiano d’Arti Grafiche – Bergamo).

Al boschetto era stata anche eretta la prima edicola della città e verso il 1875 si era stanziato con un chiosco-baraccone il libraio Bortolo Fantini detto Ol Barbù, un tipo bonario, gran compratore e rivenditore di libri usati, presso cui talvolta si poteva acquistare a buon mercato qualche antica edizione abbastanza rara. Con i suoi libri il buon Fantini aveva così istituito una biblioteca circolante.

“Boschetto di S.ta Marta visto dal lato ovest. 1887”. Disegno a matita

Ma in una brutta notte primaverile del 1884 un incendio gli portò via ogni cosa e da allora dovette arrangiarsi a vendere merce di vario genere, aggirandosi col suo carretto.

Nelle sere d’estate, Bernardo Moro, detto Pèia, allestiva ai confini del boschetto la sua  baracca di burattini; durante gli intervalli la moglie passava fra il pubblico porgendo in una mano il bussolotto per raccogliere le offerte e reggendo con l’altra una lanterna.

Quest’angolo della Bergamo dell’Ottocento è rappresentato in un quadro del pittore Gabriele Rosa, con la baracca tra i cittadini che frequentavano il passeggio sul quale si affacciavano gli edifici affastellati attorno all’antica Fiera, con i suoi variopinti Caffè.

La baracca di Bernardo Moro nella più antica testimonianza del teatro dei burattini a Bergamo in un dipinto di Gabriele Rosa del 1840, intitolato “Spettacolo di burattini sul Sentierone durante la Fiera di Sant’Alessandro”

Questo stato di grazia perdurò fino a che, all’inizio degli anni Venti, non si avviarono le demolizioni nell’area per far posto agli edifici del centro piacentiniano.

Bergamo, 1922-1924: una fase della demolizione degli edifici dell’antica Fiera, per far posto al nuovo centro di Città Bassa progettato dal giovane architetto romano Marcello Piacentini

Insieme agli edifici della Fiera si decise di abbattere anche il Boschetto di Santa Marta e con esso il “piantù”, uno splendido esemplare di ippocastano cresciuto regolarmente, come natura comanda, senza alcun taglio dei rami alla base ed altre riduzioni alla chioma, e di cui solo le immagini possono restituirci  la bellezza e la maestosità.

Il maestoso ippocastano che svettava sul Sentierone accanto al complesso di S. Marta, abbattuto il 19 novembre del 1923 a seguito dell’apertura di via Crispi e della realizzazione della Banca Bergamasca, che prese il posto del demolito complesso conventuale (Raccolta Lucchetti)

Furono in molti in quel 1923 a chiedere che “ol piantù” fosse risparmiato, ma non vi furono ragioni: l’abbattimento dell’amato monumento verde, che era stato il simbolo di un’epoca e di un luogo, lasciò un vuoto incolmabile  nell’animo dei Bergamaschi.

“Era l’ultimo testimone vivente del buon tempo passato: all’ombra ristoratrice dei suoi rami fronzuti, quante generazioni avevano riposato, ed avevano sognato!

Fanciulli, si giocava a rimpiattino dietro l’enorme tronco; giovanotti, si faceva all’amor platonico con la morosetta del core; vecchi, si rievocava il passato, chiacchierando, fra una pipata e l’altra! Povero, grande amico piantone! Se n’è andato andato anche lui…” (Sereno Locatelli Milesi).

L’abbattimento del “piantù”, avvenuto il 19 novembre del 1923 fra il commosso rimpianto della cittadinanza. Alle sua spalle l’obelisco e la Torre dei Caduti in costruzione

Tutti rimpiansero le quiete passeggiate sul Sentierone, gli assolati pomeriggi estivi trascorsi nella gradevole penombra del boschetto e le lunghe serate passate chiacchierando con gli amici sotto le enormi fronde di quello che tutti ormai chiamavano ol piantù.

In quell’occasione, anche “La Rivista di Bergamo” diede voce all’ippocastano sacrificato:

“Bergamaschi carissimi, sono il più formidabile campione degli ippocastani di secolari memorie che stano cadendo sotto la scure. Quale sventura! Sotto l’ombra ospitale dei nostri rami quanti tra voi, grandi e piccini, avete trascorso ore serene di riposo, soprattutto in estate. Ed è questa la vostra riconoscenza? Stiamo cadendo sotto i colpi della scure uno dopo l’altro; fino a ieri avevamo però sperato di non essere tutti sacrificati alle nuove bellezze edilizie di Bergamo. Invece non c’è pietà. Addio, boschetto di Santa Marta! Lo confesso: egoisticamente mi illudevo che le mie maestose forme e lo splendore candido della mia veste quandè primavera bastassero a salvarmi; e mi ero rassegnato ad assistere impotente alla fine dei miei confratelli. Invece, toccherà anche a me. Qui tra l’altro Bergamo mi volle quando non contava più di trentamila anime; e ora i suoi sessantamila abitanti mi sopprimono. Ma lasciatemelo dire: prima della fine di questo secolo, allorquando i cittadini saranno centoventimila, io sarei salito tanto alto nel cielo da costituire, con numerosi figli miei, il più meraviglioso ornamento della natura di Bergamo. Peccato, centomila volte peccato” (1).

Così, quando si decise di abbattere anche l’ultimo albero superstite del Boschetto per far posto a una una banca, anche il “Merica”, famoso cantastorie di Bergamo, si sbizzarrì dedicandogli una delle sue canzoni più accorate.

Su questo terreno si era deciso di costruire la sede della Banca Bergamasca di Depositi e Conti Correnti, abbattendo sia il boschetto che gran parte del convento di Santa Marta, di cui fortunatamente si salvò il chiostro, oggi celato nell’elegante galleria omonima.

Febbraio 1923: la posa della prima pietra della Banca Bergamasca, nella zona di S. Marta. A edificio ultimato, la cerimonia di inaugurazione, prevista per i primi giorni del mese, fu rimandata in segno di lutto dopo il disastro della diga del Gleno, avvenuto proprio il primo dicembre

La costruzione della banca rientrava nella seconda fase dei lavori per il nuovo centro: un lotto che coprì 2383 metri quadri dell’area e si elevò sino a quattro piani fuori terra (oltre gli ammezzati), con portici su tutti e quattro i lati e con una spesa iniziale prevista di tre milioni e mezzo, da ultimarsi in tre anni.

Un carro della Ote, con un grosso trasformatore elettrico, verosimilmente avviato verso la stazione ferroviaria, si ferma per una foto ricordo davanti alla Torre dei Caduti di nuova costruzione, affiancata sulla destra dal palazzo già della Banca Bergamasca (ora Ubi Banca), inaugurato nel 1926 su progetto di Marcello Piacentini ma affidata a Giovanni Muzio per l’architettura e la decorazione interna

Già nel 1924 il nuovo centro aveva assunto un carattere che lasciava intravedere, sull’area del vecchio Prato di S. Alessandro, il suo armonioso ed elegante aspetto.

Nella aerofotografia del 1924 il centro piacentiniano si avvia a compimento: sono costruite la Banca d’Italia e la Torre dei Caduti (di Marcello Piacentini), la Camera di Commercio (di Luigi Angelini); nel 1925 sarà aperto il blocco di edifici sul Sentierone (di Marcello Piacentini). E’ in costruzione il Palazzo di Giustizia (di Marcello Piacentini, con la direzione di Ernesto Suardo). Accanto al Palazzo di Giustizia, di fronte al Teatro Nuovo, tra il 1927 e il 1928, sarà costruito quello che doveva essere il Palazzo delle Poste e Telegrafi (di Marcello Piacentini)-(M. Mencaroni Zoppetti – a cura di – L’Ospedale nella città – Vicende storiche e architettoniche della Casa Grande di S. Marco. Collana: Storia della sanità a Bergamo – 1. Fondazione per la Storia Economica e Sociale di Bergamo)

A sancire il nuovo status politico-urbanistico di Bergamo Bassa, si elevava la Torre dei Caduti, dedicata alla memoria e all’onore dei caduti bergamaschi e costruita anche per esaltare e consolidare il nazionalismo unitario, come esplicitamente detto nel discorso di inaugurazione pronunciato da Mussolini il 27 ottobre 1924.

La messa in opera sulla torre dei Caduti della statua della Vittoria, opera dello scultore Faino (“Bergamo nelle vecchie fotografie”, D. Lucchetti)

 

Lo scenografico balcone della Torre dei Caduti nel giorno della sua inaugurazione, il 27/10/1924, avvenuta alla presenza di Mussolini. Nell’immagine figura anche Antonio Locatelli, non ancora podestà di Bergamo (Archivio fotografico – Fondazione Bergamo nella Storia)

 

Il bagno di folla di Benito Mussolini, attorniato dalle autorità militari e civili, dopo l’inaugurazione della Torre dei Caduti, destinata a diventare il simbolo di Città Bassa (Archivio fotografico – Fondazione Bergamo nella Storia)

Il gioiellino che aveva preso il posto dell’amato giardino entrò cosi a far parte del nuovo centro, ormai affacciato alla “modernità”. Bergamo perdeva il suo Boschetto, ma grazie alla lungimiranza dei progettisti e degli amministratori dell’epoca, lasciava ai posteri una magnifica, invidiabile vista su Città Alta.

1930 circa: “Il nuovo centro della fiera”. “Schierata e raggruppata sulle sue splendide mura come un diadema su una nobile fronte. ella pare dire al Borgo che sta ai suoi piedi, sempre più ricco, sempre più prosperoso di industrie e di commerci: ‘Tu trionferai a patto che io sia in vista. Più diverrai possente e più vorrai evitare l’onta e il danno de i tuoi abitatori, alzando gli occhi, non vedano più la Madre’. E il comandamento è stato obbedito. E ora, man mano che i lavori si avviano a soluzione, il progetto Piacentini dà al nuovo centro un aspetto architettonico abbastanza sobrio per evitare ogni contrasto sgradevole con la scena squisitamente pittoresca dell’altura” (Ettore ]anni, per “Emporium”)-(Ph “Bergamo nelle vecchie fotografie”, D. Lucchetti)

 

Note

(1) Dal numero di settembre-ottobre del 1923, “La Rivista di Bergamo”.

Riferimenti

“Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. Di Pilade Frattini e Renato Ravanelli. A cura di Ornella Bramani – Vol. II. UTET. Anno 2013.

“La Rivista di Bergamo”, numero di settembre-ottobre del 1923

“Bergamo di una volta”, Umberto Zanetti. Ed. Il Conventino.

Giovanni Signorelli detto “il Merica”: il cantastorie di Bergamo

1920: il cantastorie Giuseppe Signorelli detto Merica nei pressi del Duomo

Con il Merica, una tipica macchietta cittadina vissuta fra fine Ottocento e la prima metà Novecento, gli autori e le cronache del tempo ebbero di che sbizzarrirsi.

Era, nel ritratto che di lui fece Umberto Zanetti, “un omino dinoccolato alto si e no un metro, che cantava con una vocetta agra, in falsetto, accompagnandosi con una chitarra più grande di lui”.

La sua “lirica”, che sgorgava dal suo genio, commentò argutamente i fatti cittadini per tutto un cinquantennio di storia bergamasca, elevandosi dall’ebbrezza lieve dei vinelli delle colline o tra i purissimi aspri vapori del più autentico “trani”.

Rivendita di vini pugliesi in piazzetta S. Pancrazio (da “Bergamo nelle vecchie fotografie” – D. Lucchetti)

Tutta Bergamo lo conosceva ma nessuno, proprio nessuno, sapeva il suo vero nome. “Merica” – spiegò una volta il “cantore” – per via di una bisavola che si chiamava Maria Degna Merita e che aveva gli tramandato il nome, storpiato “in forza di chissà quali occulte leggi di antonomasia matronimica”, scrisse Vajana.

Si sapeva che era nato in SanTomaso, in anni lontanissimi, e ch’era figlio di un poverissimo cocchiere.

Via S. Tomaso nel 1910, con la donna che ha appena attinto l’acqua dalla fontanella (da “Bergamo nelle vecchie cartoline” di D. Lucchetti)

La sua bruttezza, “quasi disdicevole”, lo anticipò sin da bambino. Tutto di lui promuoveva al riso: magro impiccato, era alto come un paracarro, aveva le gambe sproporzionatamente corte e storte, malgrado le impaludasse civettuolmente in un giacchettone sproporzionatamente lungo. La sua camminata insicura ed ondeggiante tradiva un difetto alle ginocchia, che scontrandosi si respingevano a vicenda. “Gambestorte” e “crapadrecia”, si era compiaciuto definirsi.

“Ol Merica” nel commiato di Vajana

Il busto striminzito reggeva un cranio dalla forma marcata e pressata alle tempie; un visetto da infante, dominato da uno strano naso sottile da cui si allungava una barbetta appuntita e scomposta. Due occhietti vivacissimi e pungenti, quasi da topo, rallegravano quella specie di viso mobilissimo.

Le cronache si accaniscono descrivendo una bocca, “dalle labbra turgide e di un rosso rancido”, somigliante a “una ferita da taglio inferto da uno spadone medioevale”. Povero Merica. Parlava biascicando e il suo balbettio gli lasciava delle vistose bolle bianche ai lati della bocca, che risucchiava con movimenti suoi particolari. Nonostante ciò, anche quando serrava i denti digrignando fino all’esasperazione, riusciva simpatico a tutti.

Tra una canzone e l’altra aveva trovato il tempo di portare all’altare…. – c’è chi dice quattro, c’è chi dice cinque e c’è chi dice sette – donne, e di vederle poi dipartirsi nel regno dell’eternità: curiosamente, aveva sempre pronunciato il suo ‘sì’ mentre l’altra parte era in fin di vita. Sicchè ogni rito nuziale si era trasformato in un rito funebre, al termine del quale, “ol Merica” offriva da bere agli amici.

Il passeggio in Fiera nel 1902

Le di lui descrizioni sono a dozzine, ma fra tutte, quella di Geo Renato Crippa – che ai tipi bergamaschi dedicò esilaranti e commoventi capitoli – è senz’altro la più ricca e gustosa: nessuno meglio di lui – grande conoscitore delle storie e delle “macchiette” della città – avrebbe potuto né ignorare né lasciarsi sfuggire l’occasione ghiotta di descrivere il Merica.

La madre, una brava donna, illudendosi di farne un bravo artigiano l’aveva affidato a un ciabattino di Borgo Santa Caterina non badando che nello stanzino del “padrone”, fra banchetto, forme, ferri, pece, corde e scarpe, facevan bella vista alla parete due chitarre (una abbastanza passabile, l’altra vecchia e tarlata ma di buon suono) che avevano attirato le amorose attenzioni del giovinetto.

Il ponte di Borgo Santa Caterina

Non appena il “principale” sortiva dal bugigattolo, il nostro cercava di addestrarsi alla bell’e meglio e appassionatamente, e quando udiva qualche suono azzeccato si agitava all’impazzata meravigliandosi, fino a quando, dagli e ridagli e straziando le povere corde all’infinito, finì col realizzare un sogno cullato per settimane e mesi: accordare chitarra e canto fino ad acquistare una certa abilità, che perfezionò con qualche strana maestria.

Scrisse Crippa che “Per non disturbare i suoi di casa – vivevano in una stanza sola in quattro – esercitarsi nel ‘cesso’, all’esterno di una loggetta, fu invenzione prelibata. Questo posto, diceva, era il suo conservatorio, la scuola primaria della sua ‘genialità’ musicale”. Vi canticchiava la notte, cercando di adattare motivi popolari a testi di sua invenzione “amorosi o romantici, scelti in racconti di quartiere o raccolti nella miseria dei rimbrotti, delle accuse, delle stravaganze e delle irriquiete denuncie d’un volto rattrappito”.

Sicchè, “spingerlo a farsi conoscere, dopo averne constatata la bravura, fu operazione infame di un gruppo di buontemponi, decisi a scortarlo nelle osterie, sullo sterrato di piazza Baroni al tempo della Fiera, davanti ai caffè dei signori e sul Sentierone”.

Città Alta domina sul Sentierone con la Fiera e l’Ospedale di S. Marco e la chiesa di S. Bartolomeo (da “Bergamo nelle vecchie cartoline” di D. Lucchetti)

Gli rimediarono così una giacca degna del suo nuovo ruolo, “magari di velluto ed un cappello verde alpino con fior di penna”.

Il lato della Fiera sull’attuale Largo Belotti (da “Bergamo nelle vecchie fotografie – D. Lucchetti)

Scortato dalla feroce compagnia, fece la sua prima apparizione pubblica nel suo borgo in due locali “di pregio”: il “Gamberone” e l’Angelo”.

Entrato nelle sale, così conciato, gli urlarono di andarsene alla svelta.

Borgo S. Caterina. Nei pressi si trovavano, poco distanziate fra loro, le trattorie delle Tre Corone, dell’Angelo, del Gambero e della Scopa (in “Bergamo nelle vecchie fotografie” di D. Lucchetti)

Ma imperterrito, con i suoi imbonitori pronti a difenderlo – “gente conosciuta (un macellaio e due salumieri)” – cominciò timidamente a cantare accompagnandosi alla chitarra scalcinata e “dati due strattoni, iniziò la sua tiritera con energia infuocata. Risa reiterate, battimani, ‘forza’, salutarono la esibizione, mentre, stordito ed in lacrime, l’artista non sapeva se accettare i bicchieri di vino che gli venivano porti da diverse parti: un successo”.

1910 circa: scoricio di Borgo S. Caterina (da “Bergamo nelle vecchie cartoline” – D. Lucchetti)

Da quella sera la fama del “cantastorie” percorse l’intera città, dai borghi a Piazza Vecchia e poi ancora giù, in Viale Roma: nei trani, nelle osterie, nei caffè di periferia, lo attendevano, passandosi parola.

Il gioco delle bocce in una trattoria di Bergamo, 1890 (da “Bergamo nelle vecchie fotografie” – D. Lucchetti)

E così il suo repertorio mutò con destrezza e dalle fiabe d’amore passò ad improvvisare i fatti cittadini, commentandoli come un Pasquino redivivo.

“Verdi” – scrisse Umberto Ronchi – lo avrebbe assunto come Rigoletto, un Rigoletto generoso, tutto lepidezza e fantasia improvvisatrice”.

L’ometto, agli applausi non ci teneva affatto; voleva soldoni lui, quelli di rame: solidi, pesanti, colla bella faccia di Vittorio Emanuele.

Ol Merica in una caricatura del “Giupì” (da L. Pelandi, Attraverso le vie di Bergamo scomparsa II – La Strada Ferdinandea, 1963)

Il castigamatti, “conquistava i suoi “affezionati” accusando prefetto, sindaco, amministratori, vigili, agenti del dazio, di non mantenere le promesse, di aumentare i prezzi delle derrate, di non pulire a dovere le strade, di impicciarsi in cose non di loro pertinenza, di permettere abusi nella applicazione delle tasse, nel non affannarsi a chiedere al governo di Roma il raddoppio della linea ferroviaria per Treviglio, di aumentare i tabacchi, il sale, i francobolli, i ‘trams’ e le cambiali.

Le giostre in tempo di Fiera (da “Bergamo nelle vecchie fotografie” – D. Lucchetti)

Bastava la pubblicazione di un manifesto con nuove ordinanze civiche o militari perchè il Merica, cantante analfabeta, chiesti ragguagli a conoscenti, schiattasse in imprecazioni e querele; uno spasso”.

1925 circa: il Sentierone (da “Bergamo nelle vecchie cartoline” – D. Lucchetti)

Quando la guerra chiamò il popolo a raccolta, imbracciò la sua chitarra come un mitra e con la sua vocetta agra intonò il suo canto di battaglia:

“Viva l’Italia

la gran nassiù

che la combàt

per la resù”.

Il rifugio antiaereo scavato in Piazza Dante

 

Porta Nuova nel 1940. Sulla fronte dei tempietti si legge: “Il passato è già dietro le nostre spalle. L’avvenire è nostro” e “Disciplina Concordia e Lavoro per la ricostruzione della Patria”

Tra gli avvenimenti accompagnati dal suo lieto e canoro commento, famosa è la nascita del nuovo centro cittadino e di tutti gli edifici che spuntavano come funghi a ridosso delle Mura.

La Fiera in demolizione (1922-’24) e la nascita del centro piacentiniano

 

La Fiera in demolizione (1922-’24)

Del rinnovamento sontuoso della sua Bergamo egli ne fu entusiasta, ma la sua gioia fu mortificata dalla tristezza che attribuì alle sue vecchie amiche Mura:

“Che’ diràl chèl curnisù

Quando l’vé la primaera?

Vederàl piö i farfale

a vulà sota la féra?”

Panorama di Bergamo, 1938

Per far posto all’allora palazzo della Banca Bergamasca, sorta in prossimità del chiostro di Santa Marta, venne schiantato un ippocastano che per quasi un secolo aveva assistito a tutte le vicende bergamasche. Si trattava del “piantù” nel Boschetto di Santa Marta, uno stupendo gigante alla cui ombra ristoratrice si erano ritemprati vecchi pensionati e ai cui romantici effluvi si erano confortati dalle sartine ai soldatini.

1920 circa: il centro direzionale della ‘Nuova Fiera’ (Da “Bergamo nelle vecchie cartoline” di D. Lucchetti)

Quando lo vide crollare con schianto formidabile, compose un brano memorabile:

“Nel bosch de Santa Marta

a gh’era ü vècc piantù

per mèt sö öna strassa d’banca

I l’à mandat a reboldù”

La “strassa d’ banca” era la Banca Bergamasca, fallita e poi occupata dal Banco Ambrosiano, sorta in luogo del complesso monastico di S. Marta.

Il Sentierone e i suoi rigogliosi giardini negli anni ’30

Le due statue poste ai lati dell’appena inaugurato Palazzo di Giustizia, Il “Diritto” e la “Legge”, furono invece così nominate:

“Gh’è dò bèle statue

sura ü pedestalì

la siura l’è padruna

chèl biòt l’è l’inquilì”

Il Palazzo di Giustizia in Piazza Dante, da poco edificato

Che le sue argomentazioni fossero in prosa o in rima nessuno se ne accorgeva: per le folle egli era la bocca della verità, il fustigatore, il difensore della poveraglia, l’inquisitore”,

“Bravo, bravo”, gli urlavano, soprattutto se avvinazzate.

La sua acredine degenerava in lamentela disperata verso gli amministratori dei luoghi pii – ospedali, manicomio,“Clementina” – verso i quali gridava come un ossesso a difesa di sordomuti e poveri ciechi, del brefotrofio e relativa “ruota” e di ragazze-madri. Non c’era modo di trattenerlo.

Il fronte della fabbrica cinquecentesca (demolita nel 1937) dell’Ospedale vecchio di S. Marco: oggi, del grande complesso un tempo parte del quadrilatero della vecchia Fiera, è rimasta solo la chiesa che porta lo stesso nome

 

Il Manicomio Provinciale entrò in servizio dopo che fu chiuso, nel 1892, il manicomio di Astino. La ripresa fotografica è anteriore al 1905 (da “Bergamo nelle vecchie cartoline” – D. Lucchetti)

 

Marzo 1915: il trasloco della Pia Casa di Ricovero delle “Grazie” (ex convento degli Zoccolanti ed ora Credito Bergamasco) al nuovo edificio della Clementina. Nelle “Grazie” subentrò l’ospedale militare della CRI (da “Bergamo nelle vecchie cartoline” – D. Lucchetti)

 

Il Piazzale Porta Nuova con l’ex convento degli “Zoccolanti”: Casa di ricovero “di Grassie” sino al 1915, poi ospedale militare della CRI. Annullo postale del 14 – 7 – 1919 (da “Bergamo nelle vecchie cartoline” – D. Lucchetti)

Lo ammansivano assicurando che si sbagliava e con gran fatica lo invitavano a consolarsi: ringraziava e una volta placato soggiungeva, quasi ilare: ‘Vi canterò la storia della Girometta, quella che, per amore, di chiappe ne vendette una fetta’.

Un gorgoglìo, in fondo alla gola, lo quietava prima di sgusciarsela recriminando”.

La Fiera settecentesca e il Sentierone. serie, riservata al mercato francese, fu stampata in tricromia dall’Istituto Italiano d’Arti Grafiche nel 1905 ca. (da “Bergamo nelle vecchie cartoline” di D. Lucchetti)

Con la fede e con i santi era però impossibile tendergli un agguato, e lo seppe, una sera, una certa Paola, famosa passeggiatrice, che tentandolo a sproposito ricevette in cambio una sberla ben assestata.

Sempre avvolto in un pastrano raccattato che gli arrivava alle ginocchia, continuò a cantare finché la voce non divenne fioca e scheggiata fino a ridursi in miseria: “dopo il giro col piattello in mano, notava i pochi centesimi raccolti, borbottava sostenendo che egli non meritava di esser schiavo o sottomesso ad alcuno, ma degno di rispetto nel suo intenso lavorìo di giudice delle malefatte altrui, che egli rivelava da cittadino cosciente ed ardito. Non scherzava lui e non mentiva, o buffoni”.

Persa quasi totalmente la vista, si aggirava per le vie della città accompagnato da una povera fanciulla, anch’essa mezza cieca, perpetrando tristemente “i racconti di giorni perduti, di sindaci morti da anni, del dazio sparito, di denari senza valore e di inutili bazzecole”.

Ebbe però un lampo di poesia alla morte di Antonio Locatelli, scomparso in un agguato in Africa mentre era in missione a Lekemti compiendo voli di ricognizione per far sì che le truppe italiane non cadessero nelle imboscate delle milizie dei Ras finanziati dagli inglesi.

1920 ca. Questa cartolina, con Antonio Locatelli ed il suo inseparabile S.V.A., non è una vera e propria cartolina commerciale, ma è interessante poichè sul retro porta il visto della “censura fotografica” militare. La più grossa impresa sportiva di Locatelli fu la “prima trasvolata delle Ande”. Compì l’impresa di andata e ritorno tra il 31 luglio ed il 5 agosto 1919, effettuando anche il primo servizio di posta aerea tra l’Argentina e il Cile” (da “Bergamo nelle vecchie cartoline” di D. Lucchetti)

Atterrato in una radura, fu ucciso a tradimento con tutto il suo seguito e del suo corpo non si seppe più nulla “e per ciò, come degli antichi eroi, ben si può dire che il suo corpo, forse arso, trapassò nei leggendari empirei del simbolo”. Ebbe a dire Bortolo Belotti.

Era il 1936 e per Bergamo fu un terribile trauma; anche il Merica, ormai vecchio e misero, lo pianse con dolore sincero.

“Il cuore, consunto, gli dettò una geremiade, mezzo angosciosa, mezzo gloriosa. Forse fu la sola e garbata elegìa sfociata in devoto dolore; la balbettava piangendo, sicuramente affranto:

Me pianze, me pianze,
l’è mort, l’è mort, ol poèr Tunì.
I la brüsat i nigher,
selvaggi de nu dì.
L’era grand e bu, mei del pà bianc.
Bel, bel coma un angelì.
Me pianze, me pianze, ol me poer Tunì”

Morì con un rammarico, quello di non saper comporre musica (“Potevo diventare un Donizetti”…). La morte lo colse all’inizio del 1943 dopo una breve malattia e fu annunciata da un necrologio dell’”Eco”: una colonna e mezza che l’avvocato Alfonso Vajana volle dedicare al povero cantastorie di San Tomaso.

Il Merica l’aveva invitato a comunicare la sua dipartita ai suoi ignari cittadini, nel momento in cui avrebbe per sempre posato la sua chitarra stanca: “Io lo compresi e lo feci con tenerezza. Del resto se l’era meritata…..: aveva servito, a modo suo, parecchie generazioni di bergamaschi, prodigando molto canto, attimi di serenità ed un po’ di sorriso”.

Contenendo a stento la tristezza, nell’angusta prigione del suo corpo breve e storto.

 

RIFERIMENTI

Geo Renato Crippa, Il “Merica, in “Bergamo così (1900 – 1903?)”.

Alfonso Vajana, “Uomini di Bergamo”, Vol II. Edizioni Orobiche, Bergamo.

Il busto a Lorenzo Mascheroni

Signori

In nome del Comitato per un ricordo a Lorenzo Mascheroni, ho l’onore di consegnare al sindaco di Bergamo questo busto opera di scalpello valente. I sottoscrittori, col porre questo ricordo, credettero non solo di compiere un atto doveroso, ma pensavano che se nulla si fosse fatto a Bergamo avrebbe potuto essere giustamente accusata di ingiustificabile, colpevole obblio verso uno dei suoi figli più illustri.

Primi del Novecento. Piazza Cavour con il monumento a Lorenzo Mascheroni (1750-1800), inaugurato nel 1897. Illustre illuminista, fu professore di matematica all’università di Pavia. Accanto al monumento, il complesso di Santa Marta, parzialmente demolito nel 1915, e l’omonimo “Boschetto”

Con queste parole di Gianforte Suardi, presidente del comitato per l’erezione del monumento, iniziò la cerimonia per la consegna del busto alla Municipalità.

Parole che a prima vista sembrerebbero di lode alla città perché inaugurava un monumento al Mascheroni, ma che in realtà erano un rimprovero.

Piazza Cavour, con il monumento a Mascheroni, e il Sentierone

Se non ci fosse stato quel comitato promotore, il nome del letterato sarebbe stato dimenticato, tanto é vero che sebbene il comitato si fosse costituito nel lontano 1892, patrocinato dal Casino degli Artisti, Operai e Professionisti, in cinque anni riuscì a raccogliere solo 1533,80 lire, più 112,95 d’interessi, e di conseguenza non poté che ordinare allo scultore Ernesto Bazzarro, milanese, un monumento, anzi, se vogliamo essere precisi un busto, del valore di milleseicento lire.

Il busto è bello, anche se è stato adoperato marmo di Candoglia con venature rossigne; d’altra parte l’artista era valente, faceva infatti parte della terna emersa dal concorso per il monumento al Donizetti.

Il busto di Lorenzo Mascheroni, in marmo di Candoglia, è posto su una base di stile composito, anch’essa in marmo, ed è opera dello scultore milanese Ernesto Bazzaro, che fece parte della “Scapigliatura” milanese 

Il Mascheroni scolpito è molto somigliante, somiglianza però, se vogliamo credere ai giornalisti dell’epoca, fortuita in quanto all’inizio lo scultore aveva modellato un naso che trasformava completamente il viso del letterato.

Caso volle che mentre si stava sistemando il monumento in luogo, si ruppe la gru, il busto cadde e si scheggiò il naso; lo scultore, presente, provvide alla riparazione e da essa sortì questo naso camuso che rese i lineamenti più somiglianti.

Particolare del busto a Lorenzo Mascheroni, opera di Ernesto Bazzaro

Ma per tornare al rimprovero di Gianforte Suardi alla cittadinanza, possiamo intravederlo anche nello svolgimento della cerimonia di inaugurazione, fatta alla chetichella senza nessun apparato speciale; mancava la solita sfilata di associazioni, di personalità e di autorità, anzi quest’ultime rimasero sino quasi all’ultimo in municipio per poi rifugiarsi all’ombra del boschetto di santa Marta in attesa dell’inizio della cerimonia.

Il monumento a Lorenzo Mascheroni e il Boschetto di Santa Marta

Il 5 settembre del 1897 era una giornata calda e lo scoprimento del busto, discorsi e musica, non durarono che mezz’ora. Due bande suonavano per l’inaugurazione e nello stesso tempo fungevano anche da calamita per i cittadini che, in quella giornata di festa passeggiavano numerosi per il Sentierone.

Inaugurazione del monumento a Lorenzo Mascheroni, 5 settembre 1897

Non stupisce quindi il fatto che allo scoprimento del busto ci fosse un solo battimano e che Gianforte Suardi si soffermasse nel suo discorso di consegna del monumento soprattutto sulla vita di Lorenzo Mascheroni forse nel timore, per non dire convinzione, che molti dei presenti non la conoscessero e che qui riportiamo: Lorenzo Mascheroni, nato nel 1750 nella tranquilla e romita ma casa di Castagneta, a vent’anni – vestito già l’abito sacerdotale – è professore di retorica e, poco appresso, di eloquenza, di fisica, di filosofia nel collegio mariano: è già valente, gentile poeta.

Lorenzo Mascheroni, primo di quattro figli, nacque nella località di Castagneta, – propaggine collinare a oriente del centro storico di Bergamo -, il 13 maggio 1750 da Maria Ceribelli e Giovanni Paolo. Il padre, discendente da una modesta famiglia originaria della Val Brembana, si era costruito una discreta fortuna nel commercio, cui dovette la nomina a quaderniere della Camera fiscale di Bergamo

Datosi con tutta la forza del poderoso suo ingegno allo studio delle matematiche, nel 1785 pubblicava l’opera sua magistrale “Nuove ricerche sull’equilibrio delle volte” che lo pone a paro de’ matematici più illustri e inviandone una copia a Paolina Suardo Grismondi, la decantata Lesbia Cidonia, la accompagna con versi squisiti, che lo pongono a paro dei poeti più rinomati.

Ritratto di Lesbia Cidonia (Paolina Secco Suardo Grismondi), nata a Bergamo nel 1746 e morta nel 1801. Bella e colta, fu onorata da molti uomini illustri; ricevette fama dal poemetto di L. Mascheroni. L’indimenticabile invito a Lesbia è del 1793

Rivelatosi con quest’opera, al mondo scientifico, Pavia lo vuole professore di matematica nel suo ateneo. L’amore della gloria e la guerra sorda e continua che alcuni colleghi gli muovono in patria lo determinano ad allontanarsi dalla madre vecchia dal fratello pazzo, dai suoi cari luoghi.

Nella nuova residenza il poeta scrive l’indimenticabile invito a Lesbia, che gli ottiene le lodi del Parini, lo scienziato le note al calcolo integrale di Eulero, alcune opere minori e la geometria del compasso, che gli attira l’ammirazione del Bonaparte, gli procura i famigliari colloqui col generale nella tranquillità della villa di Mombello, donde è balzato nella vita politica. Siamo nel 1797: orfà precisamente un secolo.

Nominato membro del corpo legislativo a lui si deve, in gran parte, il nuovo piano di pubblica istruzione della Cisalpina; è inviato a Parigi a partecipare ai lavori della Commissione, nominata dai vari stati per l’unificazione dei pesi e delle misure. Caduta la Cisalpina, perduta la cattedra, ridotto perciò in strettezze, il Mascheroni deve cercare nell’insegnamento di che campare la vita. I disagi, le fatiche del nuovo stato nel rigido inverno parigino, i dolori per le sventure della patria lo fanno cadere ammalato e lo trascinano alla tomba. Il vincitore di Marengo, dopo la strepitosa vittoria, restituisce al Mascheroni la cattedra di Pavia: e il nostro grande concittadino, dal letto di morte detta, con effusione di cuore, la lettera di ringraziamento, ma la sua mano non ha più la forza di apporvi la firma. Si spegne nel luglio del 1800.

La lapide a Lorenzo Mascheroni, all’Università di Pavia (1808) – Foto Giovanni Dall’Orto

Bonaparte fa ritardare i funerali dal mezzogiorno alle sei per potervi intervenire, e ne è solo impedito dalle sue gravi occupazioni. L’istituto di Francia si fa rappresentare da La Place, De-Lambre, Prony e Le Gendre, che sorreggono i quattro angoli del drappo mortuario. Vincenzo Monti, piangendo, getta le ultime manate di terra sulla fossa del poeta, suo collega ed amico. L’Italia perde prematuramente un letterato, un poeta, uno scienziato, un politico, un uomo dalle più elette virtù, un patriota”.

 

Nota

Autore del testo: Arnaldo Gualandris, Busto a Lorenzo Mascheroni, in “Monumenti e colonne di Bergamo”, a cura del Circolo Culturale G. Greppi. Bergamo, 1976 (con introduzione di Alberto Fumagalli).