Le maschere di Arlecchino e di Brighella, nate da Zanni e dalla Commedia dell’Arte
Le maschere storiche che occupano un posto d’onore nella tradizione bergamasca sono Arlecchino, Brighella e Gioppino. Ma mentre le prime due nascono nel Cinquecento con la Commedia dell’Arte (1) ed emigrano a Venezia, quella del trigozzuto Gioppino, nato nell’Ottocento, è interamente bergamasca; sono tutti personaggi che non nascono all’improvviso, ma sono piuttosto il frutto di una lunghissima elaborazione che va al di là della rappresentazione scenica per intrecciarsi con una moltitudine di vicende, umane e storiche.
Le maschere di Arlecchino e Brighella si originano, per così dire, dallo sdoppiamento della figura dello “zanni”, tipo fisso da cui nasceranno alcune delle maschere più importanti della Commedia dell’Arte.
Chi è Zanni
Il termine “zanni”, un diminutivo di Giovanni (strorpiato in Gianni, Zani) indicava nel Rinascimento gli uomini di fatica, che nella Commedia dell’Arte impersonavano i servi buffoni: personaggi rozzi, sguaiati e istintivi, rappresentativi di un’umanità animalesca alla quale si richiedeva in continuazione la trovata comica, il lazzo.
Per essere distinti dagli altri personaggi di ceto più elevato, gli zanni usavano normalmente la lingua incomprensibile e gutturale dei montanari bergamaschi, che insieme alle azioni balorde colpiva la fantasia degli spettatori, sia colti che popolani. Ed è probabile che la parlata “rozza” dei montanari bergamaschi, portasse a considerarli appartenenti a classi sociali inferiori.
Fu soprattutto Venezia la città in cui gli zanni vennero portati sulla scena, come una sorta di parodia dei tanti servi bergamaschi che popolavano la città lagunare, nella quale formavano una vera e propria comunità legata alle proprie radici e alla propria identità.
Dallo zanni della Commedia scaturiranno due varianti: il primo zanni, e cioè il servo astuto (come Frittellino, Beltrame e Brighella), e il secondo Zanni, il servo sciocco (come Arlecchino, Pulcinella, Mezzettino e Truffaldino).
Come vengono rappresentati a Venezia?
Il primo ad essersi inurbato e che rapidamente fa il suo ingresso in laguna è Brighella, la maschera più importante derivante dal Primo zanni della Commedia.
Nato a Bergamo Alta (come egli stesso tiene a precisare), il suo nome deriva dal verbo “brigare”: infatti impersona il servo tuttofare, intrigante, scaltro e opportunista, campione nell’ordire intrighi, insolente con i sottoposti e pronto a beffare il padrone, con il quale è insopportabilmente ossequioso senza preoccuparsi di danneggiare persino i suoi stessi amici.
Tenta di accoppiarsi con le donne (o meglio le servette), senza tanti preamboli. E’ agile, aggressivo e con la parlantina sciolta, facile all’ira e a menar le mani.
Arlecchino (derivante dal Secondo zanni) è il protagonista della seconda urbanizzazione, e al suo arrivo si pone alla ricerca di un proprio connazionale (con il quale possa parlare la lingua natale o il dialetto), che possa ospitarlo, trovargli un lavoro o suggerirgli un modo veloce per riempirsi la pancia o sbarcare il lunario: sulla scena questo amico è Brighella.
Già il vestito rappresenta una prima antitesi caratteriale: mentre Arlecchino è colorato, simbolo di libertà, Brighella è vestito con la livrea di colore bianco e con strisce verdi, metafora di appartenenza al padrone: costume che si vanta di indossare e col quale esercita il suo potere sui servitori semplici.
Arlecchino è bastonato dal padrone ed è l’ultimo dei servi. Brighella è invece il capo e con il padrone è servile.
Arlecchino è agile fisicamente (per evitare le bastonate). L’agilità di Brighella è nel pensare.
Rimane però nel loro cuore la nostalgia di Bergamo, e spesso la ricordano anche nelle commedie di Goldoni.
Grazie alla bravura degli attori che li rappresentano nella Commedia dell’Arte, a divenire più famosi e graditi al pubblico sono i secondi Zanni come Arlecchino, una maschera controversa e ovunque contesa, per l’altissimo lignaggio che si allarga a comprendere vaste aree europee.
Eh sì, perchè una parte di lui è veracemente bergamasca, mentre l’altra è ancor più remota ed affonda le radici in un mito che appartiene all’Europa intera.
La paternità di Arlecchino: Zan Ganassa o Martinelli?
Se il bergamasco Alberto Naselli in arte Zan Ganassa, è stato a lungo creduto l’ideatore della maschera di Arlecchino, studi recenti confermano che la paternità della celeberrima maschera è frutto dell’intuizione geniale di un attore mantovano, Tristano Martinelli (1557-1630), protagonista di prim’ordine della Commedia dell’Arte.
Ad attestarne la paternità può bastare la figura di Arlecchino proposta da Dario Fo nel 1985 nello spettacolo Hellequin Harlekin Arlekin Arlecchino, elaborata grazie ad una ricca ricerca documentale e drammaturgica, condotta in collaborazione con studiosi specialisti di Commedia dell’Arte con l’intento di offrire al pubblico un personaggio più vicino all’Arlecchino delle origini.
Un Arlecchino che non nasce dalla penna di un autore, ma che viene direttamente portato sulle scene, nella Parigi del 1584, da Tristano Martinelli, il quale ne farà il proprio personaggio lungo tutto il corso di una carriera che si dipana tra Cinque e Seicento, portandolo trionfalmente in giro per le principali corti, sui palcoscenici e nelle piazze d’Europa – dalle Fiandre a Londra, da Parigi a Madrid, da Venezia a Firenze – diventando perciò ricco e famoso.
In seguito, dopo che altri l’hanno interpretato nei teatri europei, si è cancellata la memoria di colui che per primo lo aveva portato sulle scene.
La monografia di Siro Ferrone, “Vita e avventure di Tristano Martinelli attore”, uscita nel 2006, si propone di colmare la vistosa lacuna critica legata al creatore di Arlecchino, facendo chiarezza riguardo una maschera dal cammino teatrale luminoso, ma dalla genesi storica oscura. E lo fa attraverso una ricca ricerca documentaria (documenti d’archivio scovati anche nelle biblioteche di mezza Europa, lacerti epistolari e tracce letterarie), interrogando dipinti cinquecenteschi e disegni dell’epoca.
Tristano Martinelli, in fuga dalla peste che nel 1576 travagliava Mantova, non ancora ventenne si reca in tournée in Francia con la sua compagnia (tra cui suo fratello maggiore Drusiano con la moglie Angelica Alberghini), passando per Anversa, una specie di “Venezia del nord” che in quegli anni doveva apparire una sorta di paese della cuccagna “agli attori girovaghi, ai ciarlatani, ai montimpanca, agli acrobati, agli intrattenitori di ogni specie che vi si dirigevano emulando, affascinati, i traffici di merci e di denari” (2).
Nel suo studio Siro Ferrone mostra uno stretto legame tra un documento (un atto di polizia stilato ad Anversa nel settembre 1576, dove Tristiano e il fratello sono costretti a giustificare la loro presenza nelle Fiandre in un periodo particolarmente turbolento per le guerre di religione) e un dipinto fiammingo conservato presso il Museo Baron Gérard di Bayeux, in cui compare un giovanissimo attore dalle fattezze molto somiglianti a quelle di un Tristano Martinelli verosimilmente “non ancora integrato in nessuno dei ruoli fissi della compagnia”.
Il giovane, che nel dipinto “si stringe nelle spalle”, ha già lasciato cadere l’abito cupo che connotava socialmente il facchino, conservando però l’anonima camiciona a falde dello zanni, pezzata di pallidi colori: questo lascia supporre che in quel periodo Tristano avesse già iniziato ad elaborare l’abbigliamento della maschera che lo renderà celebre nel mondo (3).
La compagnia, dopo essere stata a Lione e in Inghilterra giunge a Parigi, dove Tristano partorisce il personaggio di Arlecchino, presentandolo al carnevale del 1584 in un’esibizione nel sobborgo di Saint-Germain alla Foire: un avvenimento annuale divenuto alla moda, sempre più ricco ed affollato, frequentato dal popolino, aristocratici e persino regnanti, che lì si recano per acquisti sfiziosi.
Ed è proprio qui, alla Foire di Parigi che il ventisettenne Tristano esibisce il personaggio da lui creato, attingendo al contesto storico-spettacolare della terra che lo sta ospitando.
Per distinguersi dai tanti zanni in circolazione, Tristano riprende la maschera del povero zanni – che ben conosce per averla chissà quante volte interpretata – e la adegua al gusto dei francesi ma arricchendola di tratti unici ed inediti e caricandola di nuove attrattive, anche grazie alla sua prestanza fisica.
Il suo Arlecchino infatti, se da un lato si ispira molto strettamente alla tradizione degli zanni, dall’altro trova ispirazione nelle maschere della tradizione medievale francese, che rappresentano quell’Hellequin – il diavolo-buffone delle mascherate medioevali -, con cui deve aver familiarizzato nel corso della sua tournée in Francia.
Elabora così una maschera di successo, che s’imporrà nelle corti di tutta Europa.
Riguardo l’origine del nome di Arlecchino, questo si ispira al folclore nordico evocando quello di Hellequin de Boulogne, il cavaliere franco della caccia selvaggia (4), la cui tradizione si sarebbe innestata su quella ancor più antica dell’infernale Herla King, mitico condottiero bretone a capo “di una masnada vagante di spiriti dannati preceduta da una feroce muta di cagnacci latranti” (5).
Una figura diabolica, che le leggende “pongono a capo di masnade composte da torme di fantasmi, spettri, demoni, anch’essi mascherati, osceni, rumorosi, vestiti con colori squillanti, apparizioni notturne e invernali, provenienti dai boschi e dalle profondità della terra, da un altrove indefinito” (6), e che ritroviamo anche nella mitologia scandinava (con Härlenkönig) e nell’Inferno di Dante, dove il diavolo Alichino appare come capo di una schiatta diabolica incaricata di ghermire i dannati.
Diventata un tutt’uno col “re dei diavoli”, la maschera diviene così più “paurosa” ma anche più prestante, grazie alle tante abilità del Martinelli.
Se i principi italiani e stranieri si deliziavano della volgarità animalesca con cui si esprimevano gli zanni dalla parlata bergamasca, Tristano si distingue adottando il suo idioma natale, il mantovano (una lingua aperta a sfumature venete, emiliane, lombarde), prendendo magari a prestito nuove parole straniere acquisite strada facendo, e dando vita a strampalate cacofonie, allitterazioni, onomatopee di sicuro effetto comico.
In scena il linguaggio del corpo si avvantaggia della discreta statura e della guizzante muscolatura che rende Tristano flessuoso e capace di acrobazie di grande effetto (è anche un bravissimo funambolo). Dello zanni conserva perciò le leggere scarpette senza tacco, che gli permettono di compiere le acrobazie tipiche del personaggio.
Sempre in quel carnevale parigino del 1584, abbandona l’anonima camiciona a falde dello zanni – pezzata di pallidi colori – a favore di una sorta di tuta aderente che gli disegna la corporatura ed enfatizza al contempo la sua bravura tecnica. Accentua i colori dei suoi stracci, che moltiplica in omaggio all’abito dei giullari della tradizione francese.
Dello zanni conserva anche la maschera animalesca con i due fori rotondi, la barbetta selvatica, la scarsella e il bastone attaccato alla cintura (il “batòcio”), che utilizza per minacciare ed aggredire i suoi rivali e per accaparrarsi il cibo. Ne risulta una maschera dallo spirito villanesco, che imprime al personaggio una natura quasi bestiale, mossa più da passioni e bisogni elementari che filtrata dalla ragione.
Così la bautta nera che gli ricopre il volto può celare un ghigno satanico, il bitorzolo rosso in fronte è il residuo di un corno satiresco e la barbetta selvatica ricorda le raffigurazioni medievali in tema demoniaco.
L’Arlecchino di Tristano Martinelli è è ora costruito “e la sua ascesa al trono di re ‘dei diavoli, dei pazzi o degli spettri che dir si voglia’ è garantita (8).
L’evoluzione di Arlecchino
La maschera subirà nel tempo un graduale adattamento alla recitazione e ai costumi della tradizione francese, andando via via arricchendosi, nelle diverse esperienze di viaggio, di nuove sfumature, E ciò a seconda delle diverse qualità degli interpreti che più gli han dato voce, corpo, sentimento e a seconda del gusto del pubblico che di applauso in applauso ne ha forgiato l’archetipo popolare.
Dopo Martinelli e dal 1661, Domenico Biancolelli, un italiano naturalizzato francese, ingentilisce il personaggio cambiandogli completamente carattere. L’antico vestito dalle mille toppe viene sostituito da un costume che ricorda le squame di un serpente e che verso il Settecento acquisterà una sempre maggior definizione, permettendo anche una più ampia libertà di movimento. Ma dovremo arrivare a Goldoni per vedere le vere losanghe del costume di Arlecchino (9), che hanno trasformato in ricamo l’antico rattoppo.
Il personaggio di Martinelli è un Arlecchino primordiale, destinato ad evolversi e a spaccarsi nella duplice identità franco-spagnola e in quella, diametralmente opposta, veneziana.
Perchè se nelle raffinate corti di Francia e di Spagna Arlecchino diventa più aggraziato nei modi e nell’aspetto, diventando simbolo di simpatia, scaltrezza e gioiosità, a contatto con la nobiltà veneziana andrà a incarnare l’indole dei Brembani di allora.
Arlecchino in laguna
In laguna Arlecchino acquisisce la semplicità, la rozzezza e la furberia animalesca del mondo contadino bergamasco, di cui porta anche la naturalezza.
Le sue peripezie teatrali, mimiche ed acrobatiche hanno il sentore di quella fame e di quelle privazioni dei suoi conterranei Brembani, che nel Cinquecento lasciavano le valli bergamasche per trovare di che sfamarsi a Venezia, dove svolgevano lavori umili e faticosi e dove venivano scherniti per i modi grossolani e il linguaggio “ridicoloso” e incomprensibile (sarà poi Goldoni, a metà Settecento, ad esaltare l’utilizzo del dialetto e fissare i caratteri delle maschere principali, inducendo Arlecchino e Brighella ad adottare definitivamente la lingua ufficiale della capitale della Repubblica: il dialetto veneziano).
Nella Commedia dell’Arte egli impersona dunque il montanaro orobico giunto a Venezia coi facchini in cerca di lavoro: dimentica il suo dialetto e assume quello lagunare per farsi accettare dai suoi padroni, servendoli e campando la vita (“galantuomo bergamasco” egli si proclama in una nota commedia goldoniana).
E al di là dell’origine fiammingo-piccarda del suo nome, “rimane bergamasco nelle sue origini di zanni della vallata, accoppiato a Brighella, cittadino e smaliziato. Lo attesta tutta la tradizione”, compresa quella dello zanni Alberto Ganassa… (10).
Quella di Arlecchino diventa così una maschera naturalizzata bergamasca, a dispetto del retroterra demoniaco del suo nome e della metamorfosi europea della maschera.
E malgrado ogni passata controversia (11) Bergamo festeggia ancora il Carnevale rievocando e rivivendo le peripezie del “suo” Arlecchino: quel misto di balordaggine e arguzia del contado bergamasco, sposato alla colorita parlata della città lagunare: un veneziano, in fin dei conti, molto “internazionale”.
Note
(1) La nascita della Commedia dell’Arte, coincidente con quella dell’attore professionista, è “stabilita convenzionalmente dalla data di stipula del primo contratto di costituzione di una compagnia di comici. A Padova il 25 febbraio 1545 Ser Maphio, detto Zanini da Padova, e alcuni suo compagni si riuniscono in “fraternal” sodalizio sino alla Quaresima dell’anno successivo, concordando un regolamento per dividere spese e guadagni della loro attività spettacolare” (A cura di Rosanna Brusegan, Premessa di Dario Fo, in “La scienza del teatro – Omaggio a Dario Fo e Franca Rame” – Atti della Giornata di Studi (Università di Verona, 16 maggio 2011). Bulzoni Editore, 2013).
(2) Laura Diafani, L’Arlecchino del Grand siècle, in: Caffè Michelangiolo – Rivista di discussione. Fondatore e direttore Mario Graziano Parri, Pagliai Polistampa. Quadrimestrale – Anno XI – n. 1 – Gennaio-Aprile 2006. Accademia degli Incamminati. Modigliana.
(3) Rosanna Brusegan, Ibidem.
(4) In una commedia, composta ad Arras nel 1276, Le Jeu de la Feuillée di Adam de a Halle, irrompe sulla scena per la prima volta la caccia infernale di Hellequin, “il cavaliere franco della caccia selvaggia, condannato con il suo lugubre seguito di armigeri spettrali ad inseguire eternamente la selvaggina senza mai raggiungerla” U. Zanetti, cit.).
(5) Umberto Zanetti – per il Museo della Valle di Zogno. Il mito dell’uomo selvatico nella montagna bergamasca.
(6) Laura Diafani, Ibidem.
(7) Umberto Zanetti, Ibidem.
(8) Laura Diafani, Ibidem.
(9) Rosanna Brusegan, Ibidem.
(10) Umberto Zanetti, Bergamo d’una volta. Ed. Il Conventino, Bergamo, 1983.
(11) Nel 1904 I Bergamaschi insorsero con tanto di petizioni e manifestazioni di piazza contro le tesi di uno studioso tedesco, Otto Driesen, che voleva Arlecchino originario del Nord Europa e vi fu anche un recente tentaativo, peraltro non riuscito, di “mantovanizzare” la maschera: una maschera della quale Goldoni, ne “Il teatro comico” precisava: “le Brighella et Arlequin ont toujours été Bergamasques”.
Riferimenti essenziali
L’Arlecchino del Grand siècle, di Laura Diafani, in: Caffè Michelangiolo – Rivista di discussione. Fondatore e direttore Mario Graziano Parri, Pagliai Polistampa. Quadrimestrale – Anno XI – n. 1 – Gennaio-Aprile 2006. Accademia degli Incamminati. Modigliana.
A cura di Rosanna Brusegan, Premessa di Dario Fo, in “La scienza del teatro – Omaggio a Dario Fo e Franca Rame” – Atti della Giornata di Studi (Università di Verona, 16 maggio 2011). Bulzoni Editore, 2013.
Lingua e dialetto come espressione dell’altro nella commedia del Cinquecento, Manuela Caniato, K.U.Leuven.
Umberto Zanetti – per il Museo della Valle di Zogno. Il mito dell’uomo selvatico
nella montagna bergamasca.
Eliseo Locatelli, Arlecchino che parla bergamasco. Ed. Corponove, 2016.