Reportage fotografico di Maurizio Scalvini
Gli abitanti di Clanezzo la chiamavano la “Fucina del Diavolo” per via dei bagliori infernali sprigionati dalla fucina annerita dalla fuliggine e per il tonfo cupo del martello che colpiva ritmicamente il metallo, che venne utilizzato anche per forgiare armi destinate alla Repubblica di Venezia.
Più recentemente la fucina era tenuta attiva da numerosi “maestri” artigiani che si dedicavano alla produzione di attrezzi agricoli come vanghe, pale ed altro ancora.
fino a qualche decennio fa capitava ancora di sentir rimbombare nella valle il ritmato rumore del maglio. Il signor Giuseppe Personeni, ultimo magliaro, ogni tanto tornava, per passione, nei luoghi dove aveva trascorso una vita e dove aveva sapientemente lavorato il ferro, dando alla luce gli ormai ultimi attrezzi di una lunga e proficua serie.
Mastro Personeni portò avanti l’attività fino alla metà degli anni ’80 e della sua fucina è rimasta testimonianza nel film datato 1965 “E venne un uomo”, dedicato alla vita di Papa Giovanni XXIII, del famoso regista bergamasco Ermanno Olmi che qui girò alcune scene, probabilmente affascinato dalla bellezza e dalla “integrità storica” del luogo, rimasto quasi inalterato nei secoli.
Grazie alle riprese di questo film, ma anche grazie ad alcune foto d’epoca, possiamo ancora oggi fare un tuffo nel passato e vedere come si lavorava nella fucina di Clanezzo nel cuore degli anni Sessanta (1).
Anche se oggi non c’è più il rumore del maglio e le grandi ruote sono a pezzi, la suggestione del luogo è immutata, benché sia estremamente pericoloso anche solo avvicinarsi all’edificio, ormai cadente e pericolante.
Quando il maglio ancora era in funzione, all’ultima curva del sentiero l’incanto veniva rotto dallo stridore delle mole e dal cupo battito del maglio: un rumore antico, interrotto dal battito sonoro di un martello sull’incudine.
L’ultimo ostacolo, il fiume, veniva superato su un secolare passaggio elastico, incerto, dall’aria provvisoria: quattro cavi d’acciaio, sui quali erano gettate piccole assi, la metà delle quali rotte o addirittura mancanti.
Effettuato il pericolante passaggio, al rumore che aveva segnalato la presenza dell’officina si aggiungeva quello delle acque impiegate per muovere le grandi ruote, sistemate sul lato lungo della costruzione. L’acqua dell’Imagna, guidata da canaletti e scivoli, veniva adoperata dall’officina e restituita al fiume, poco più avanti.
L’interno sembrava la fucina di Vulcano: stretto, piccolo, basso e nero l’ingresso. Poi, una stanza adibita a magazzino e poi ancora il camerone e cioè la fucina, dove trionfava il nero del carbone accumulatosi da sempre. Alta fino al soffitto, con un lucernario e due alte finestrelle, invasa da ogni sorta di macchine, con un ballatoio che percorreva tre lati della costruzione.
I raggi del sole che penetrano dalle aperture scoprivano angoli che avevano dell’incredibile e particolari della meccanica senza età, che sembravano nati con il ferro, come se fra quelle pietre il tempo non fosse passato e l’acqua fosse il solo motore possibile.
Ogni macchina riceveva energia dall’acqua attraverso due grandi ruote a pale, una collegata ai ruotismi delle mole e di una sega circolare, la seconda ad un enorme maglio.
Un terzo impianto idrico con un complicato quanto semplice principio a sifone forniva un violento soffio d’aria per alimentare la forgia, che in antico serviva anche per fondere i materiali ferrosi provenienti da Valnegra.
Il pezzo forte era senz’altro il maglio, che la leggenda fa risalire a tempi lontanissimi. Si componeva di un forte albero di grosso fusto, lungo circa due metri, che a un terzo della lunghezza portava un anello “claudicante” con due perni che la Bibbia descrive fedelmente chiamandolo “boga”.
Nella parte anteriore il blocco di ferro, dalla caratteristica forma a testa d’asino, che batteva su un piedistallo anch’esso in ferro. Dietro il maglio terminava in una rastrematura che in posizione di riposo appoggiava su delle sporgenze metalliche infisse in un grosso albero posto trasversalmente, direttamente collegato con la ruota ad acqua. Quando questo secondo albero cominciava a ruotare le sporgenze sollevavano la testa del maglio lasciandola poi sfuggire. A seconda della quantità d’acqua che veniva rovesciata sulle pale della ruota si determinava la velocità di battuta del maglio, non la potenza, che era sempre uguale.
Il cupo e rapido battito del pesante maglio era un suono caratteristico e inimitabile. Ad ogni colpo le vecchie pietre vibravano (2).
IL MAGLIO OGGI
Se fino a qualche decennio fa, il maglio e i suoi dintorni erano caratterizzati dalla presenza di manufatti che evidenziavano l’utilizzo continuo della fucina, dopo la cessazione delle attività si sono verificati deterioramenti e atti vandalici, sia alle attrezzature che all’edificio stesso.
Oggi, come mostrato dalle immagini, il caseggiato che per secoli ha ospitato il maglio di Clanezzo è completamente rovinato e abbandonato: tutti i precedenti tentativi di preservare questa importante realtà storica sono stati inefficaci; il comune non può intervenire perché l’immobile è di proprietà privata e un recupero pare improbabile. Immutata è invece la suggestione del luogo.
LE ORIGINI DEL MAGLIO
L’edificio del maglio, con le sue grosse pietre squadrate ha un’origine molto antica, risalente al XIII secolo: la fucina infatti era stata impiantata in una costruzione precedentemente utilizzata come mulino, come si evince da un un documento del 1296, redatto nel periodo in cui il latifondo di Clanezzo era appannaggio del vescovo di Bergamo (3).
La lavorazione del ferro ebbe invece inizio nel 1548 ad opera di Magistrum Alexandrum Venturini di Villa d’Ogna, come si evince da un documento rivenuto presso l’Archivio di Stato di Bergamo (4), nel quale si legge che l’edificio necessitava già di tante cure manutentive.
A quei tempi il proprietario del maglio era Gian Giacomo Buscoloni, figlio di quel Bernardino, originario di Almenno, che nel 1539 aveva acquistato la tenuta di Clanezzo dall’Istituto della Pietà (quest’ultimo, l’aveva venduta per le gravi difficoltà economiche causate dalle guerre del Cinquecento). Gian Giacomo subentrava al padre nella conduzione degli affari e con ogni probabilità si districava bene in quanto riuscì ad acquistare nuove terre nel circondario. Egli, il 28 giugno del 1551 aveva ottenuto con decreto ducale il privilegio dell’esenzione dal dazio per la condotta del ferro crudo, di rottami, scaglie e carboni. I dazi per il ferro infatti erano così alti che molti abbandonavano la professione, ed essendo la montagna molto povera, dovevano lasciare le terre ed emigrare nel Milanese (5) .
CARLO CAMOZZI, PRODUTTORE DI CANNONI
Ma fu nel Settecento che dalla fucina di Clanezzo uscirono armi in gran quantità, che venivano trasportate a Venezia per essere utilizzate per la difesa di terra e per armare le navi della flotta. Oltre alle armi, la fucina produceva anche molto ferro lavorato.
A produrre le armi per conto di Venezia era Carlo Camozzi di Bordogna (6), figlio di quel Marco che nel 1701 aveva preso in affitto, dal conte Leopardo Martinengo da Barco, la tenuta di Clanezzo, compresi il castello, il porto e l’edificio della fucina, cui era tenuto a provvedere, ad esclusione dei muri e del tetto.
Nel 1711 Carlo, da tempo instradato dalla sua famiglia nell’arte della lavorazione del ferro, aveva rilevato dal padre la gestione della fucina di Clanezzo e di quella di Strozza, avviando nel 1712 una fabbrica di cannoni a Lizzone, presso la Ventolosa di Villa d’Almè: numerosi atti notarili pubblicati nel libro di Diego e Osvaldo Gimondi (7), attestano che per decenni, nella fucina di Lizzone vennero fabbricati numerosi cannoni e rispettive munizioni per conto di Venezia – impegnata in quel periodo nella guerra contro il “nemico turco” -, e che nei periodi di scarsa produzione, Carlo Camozzi era autorizzato a fabbricare armi anche per il Ducato di Milano (8).
Data la cospicua ed eccellente produzione, alla fonderia della Ventolosa (9) si attribuì una forte rilevanza militare, ma d’altro canto non mancano testimonianze che attestano una vivace attività anche presso il maglio di Clanezzo, dove, se dobbiamo credere alle parole di G. Rosa, la produzione di cannoni e di proiettili era iniziata nel 1706 (10), ed era ancora in atto nel 1749, nel periodo in cui anche la fabbrica di armi di Gromo produceva spade e altre armi da punta e taglio, come risulta dalle relazioni inviate a Venezia dai Rettori (11).
Anche l’abate G. Battista Angelini, nativo di Strozza, dove risiedette nel periodo dell’attività svolta dal Camozzi, nella sua celebre opera “Bergamo descritta a mosaico”, descrisse in versi la fucina di Clanezzo. Dalla sua opera apprendiamo che la fucina produceva molto ferro che, in verghe, piastre e cerchi veniva venduto alla fiera di Almenno, e che la fabbricazione di armi era molto fruttuosa, considerati i continui venti di guerra che spazzavano la Repubblica.
Dalla fucina uscivano palle da bombarde, colubrine e cannoni (12), di cui l’Angelini descrive i passaggi che della fusione portano allo stampaggio e alla successiva prova del fuoco.
Prima di essere venduti, i pezzi venivano collaudati sul posto, quindi per la valle spesso si udivano i rimbombi prodotti dagli scoppi: “Di palle da bombarde, e colubrine/Si fa qui sotto ‘l getto, e ‘l getto de cannoni”. Solo uno dei tanti operai rimase vittima durante questi esperimenti (13).
OLTRE ALLE ARMI, LA PIETRA FOCAIA
Nel territorio di Ubiale, polo di monte dell’attuale comune di Ubiale Clanezzo, si cavava tra l’altro una pietra utilizzata come focaia, che battendola faceva spruzzi e faville. Veniva venduta alla fiera a caro prezzo, perché era pregevole e si poteva paragonare alla pietra di Calcedonia: nelle case serviva da “accendino”, ma era molto usata anche in ambito militare perché perfetta per l’archibugio, un antenato del fucile con il quale si procedeva allo sparo con l’ausilio di un acciarino composto da un pezzo d’acciaio e da una pietra focaia (14).
Una pietra simile, era il quarzo estratto ad Ubiale fino agli anni Sessanta, che doveva trovarsi nei pressi della vecchia cava in località Coste, ora ricoperta da una fitta vegetazione (la tramoggia è ancora visibile lungo la strada che porta ai ponti di Sedrina).
DOVE SI TROVA L’EDIFICIO DEL MAGLIO
Il maglio non è facile da scoprire. Si trova sotto l’antico Castello di Clanezzo, in una stretta valletta là dove l’Imagna disegna un’ansa. Vi si accede seguendo il sentiero che conduce alla Centrale elettrica, svoltando però a sinistra anziché proseguire la discesa. Ed è sulla riva sinistra del torrente che, quando gli alberi sono spogli, si può scorgere un grosso caseggiato solitario: è l’antichissima fucina di Clanezzo.
Per raggiungerla bisogna costeggiare parte del muro di cinta del Castello e proseguire per la chiesa e via S Gottardo, da dove, svoltando a sinistra per via Marconi, si incontra un lungo ed antico edificio adibito ad abitazioni.
Oltrepassato il caseggiato si svolta nuovamente a sinistra per via della Centrale: qui la strada lascia il posto ad una sterrata, attrezzata con guardrail, che scende fino alla valletta dell’Imagna e che consente di avvistare in lontananza la dismessa Centrale elettrica di Clanezzo.
Mantenendosi sulla sponda sinistra del torrente, in parte scavato tra le falde della roccia, in pochi minuti si arriva alla vecchia Centrale, da tempo in disuso, e costeggiando il muro di cinta dell’edificio si raggiunge il punto di captazione dell’acqua dell’antico canale che indirizzava le acque del torrente Imagna alla grande fucina del ferro.
Per vedere quel che ne rimane, arrivati al cancello della centrale anziché proseguire in discesa si procede a sinistra su uno stretto sentiero e in pochi minuti si arriva alla costruzione, in completo abbandono: ormai ridotto ad un edificio decadente e quasi diroccato, col tempo verrà invaso dalla vegetazione. La prudenza consiglia a chiunque volesse recarsi sul posto di tenersi a debita distanza dall’edificio, che racchiude fra le sue mura la bellezza di oltre sette secoli di storia.
Note
(1) La documentazione fotografica conservata dal “Museo delle Storie di Bergamo nell’Archivio Fotografico Sestini”, abbraccia invece un arco di tempo che va dal 1960 al 2000. La collezione è stata resa possibile soprattutto grazie alle fotografie di grandi artisti e fotoreporter contemporanei come Pepi Merisio (1931-2021), Pier Achille Terzi, detto Tito (1936-2010), ed altri. Nei loro scatti, questi grandi fotografi sono riusciti a catturare suggestive pagine di storia, che altrimenti sarebbero andate perdute.
(2) Per la descrizione dell’itinerario e della fucina, Paolo Impellizzeri e Marco Antonio Solari per il Giornale di Bergamo del 5 novembre 1967.
(3) Un documento del 1296 riporta che un certo “Cagniginus de clenezio de brembilla” pagava già allora al vescovo di Bergamo, Giovanni di Scanzo, un fitto per poter condurre ad una casa vicina all’Imagna acqua “…sufficintem tribus rotis molendinorum”, cioè sufficiente per azionare tre ruote da molino (Umberto Gamba, “Ubiale Clanezzo. Storia di una comunità”. Ferrari Editrice, Anno 2000).
(4) Cinzia Gamba, Stefania Mauri, Tesi di Laurea dal titolo: I magli nella Bergamasca: L’esempio di Clanezzo. Anno accademico 1995/96. Contiene notizie dettagliate sul maglio di Clanezzo e sulla lavorazione del ferro nella bergamasca. Presso l’Archivio di Stato di Bergamo gli architetti Cinzia Gamba e Stefania Mauri hanno trovato un documento riguardante la disputa sorta tra il proprietario del luogo (il Buscoloni) e il Magistrum Alexandrum Venturini di Villa d’Ogna, magliaro, redatto dal notaio A. Rescanzi in data 23 novembre 1548. Il Venturini chiedeva la riduzione delle spese di affitto quantificate in duecento lire imperiali, perché aveva dovuto sostenere le spese di manutenzione dell’edificio (U. Gamba, op. cit.).
(5) Dalle relazioni dei rettori veneti emerge che il ferro della Val Brembilla veniva portato nel Milanese, facendo diminuire guadagni, lavoro e numero delle maestranze: la popolazione si trasferiva quindi in altri stati per procurarsi il vitto. Alla metà del ‘700, la concorrenza delle miniere scoperte nel Milanese e nel Piemontese aveva procurato un grave danno alla debole economia locale. Vent’anni dopo il prodotto del ferro non è più abbondante, non per deficienza di vene, ma per il costo dell’estrazione. Nel 1787 il capitano e vice podestà Bartolomeo Mora sollecita il Senato affinché ridia vitalità alla produzione di ferro nei forni, i quali sono chiusi o lavorano al minimo; fa presente che per far funzionare un forno (escavazione, trasporto, carbone e fusione), lavorano circa 300 persone e in una fucina al massimo 8, perciò non si deve favorire l’importazione di ferro, ma bisogna farlo produrre nella valle (U. Gamba, op. cit.).
(6) Originaria di Bordogna, in alta Valle Brembana, la famiglia Camozzi si occupava da tempo di metallurgia e fu una delle ultime ad operare con grande risonanza sul territorio brembano. Tale famiglia nel XVII secolo ramifica la sua discendenza in Valle Imagna, precisamente a Strozza, trasferendosi in seguito a Clanezzo, dove nel 1701 Marco Camozzi, con i figli Carlo e Gabriele, prende in affitto dal conte Leopardo Martinengo da Barco, per nove anni, la tenuta di Clanezzo, risiedendo probabilmente nel palazzo (il suddetto contratto di locazione sarà ripetuto con Carlo Camozzi nel 1724). Nel 1702, Marco gestisce, oltre la fucina di Clenezzo, anche quella di Strozza (Diego e Osvaldo Gimondi, “Villa d’Almè – dal Settecento al secondo dopoguerra”. Ferrari Editrice, Clusone, 1998, pagg. 31 e segg.).
(7) Nel corso del secolo la Serenissima, alla necessità di armamenti nuovi da impiegarsi contro i turchi, non trovando adeguata risposta dalle fonderie bresciane che affrontavano un momento di grave crisi, induce i governanti veneti a rivolgersi a Carlo Camozzi, il quale nel 1712 propone alla Serenissima la creazione di un nuovo impianto di forni e uno schema di contratto attraverso il quale si impegna a consegnare, annualmente, per dodici anni, quaranta cannoni di diverso calibro e rispettive munizioni. Nel giugno del 1712 Carlo avvia la sua fabbrica di cannoni, trasferendo la sua dimora a Lizzone. Si legge nel testo che “Il ritrovamento di un ingente numero di documenti notarili ci testimonia senza alcun dubbio che, contrariamente a quanto sino ad oggi affermato…il loco della Fondaria de canoni del signor Carlo Camozzi, era “posta di là dal Brembo Comune d’Almenno Santo Salvatore distretto di Bergamo. Si tratta di quella fascia di terreno sulla sinistra del fiume chiamata Lizzo, o Lizzone che, proprio con l’installazione della fabbrica di cannoni prese il nome di Fonderia….”, dove Carlo trasferì la propria dimora e dove risulta abitare ancora nel 1735. Egli, prima di dedicarsi alla produzione di cannoni, era stato occupato in qualità di maestro presso la fonderia di Tiburzio Bailo (D. e O. Gimondi, op. cit.) a Sarezzo, in Val Trompia (BS), il primo fornitore nazionale di cannoni in ferro e rispettivi proiettili per il naviglio della Repubblica di Venezia, “per la quale produsse più di 470 cannoni tra il 1689 ed il 1702” (…) “Venezia trovò un nuovo fornitore in Carlo Camozzi dopo un tentativo fallito di realizzare i cannoni in ferro direttamente nel proprio Arsenale (1718-1719)”. Carlo Camozzi “creò una nuova industria a Clanezzo nel bergamasco, attiva dal 1722 ai primi anni Quaranta del Settecento” (Cannone veneziano da 40 libbre (sottili)). Le alterne vicende belliche alternate ad anni di lunghe tregue, segnarono il declino del Bailo, che alla ripresa delle ostilità turche si trovarono nell’impossibilità di fornire i cannoni, in quanto i fabbricati erano andati in rovina, i forni smantellati e la Serenissima non intendeva finanziare un ripristino oneroso. Il momento fu propizio al Camozzi, che nel 1712 decise di mettersi in proprio, proponendo a Venezia la costruzione di un forno nella zona pianeggiante fra Clanezzo e Oltre Brembo (come era chiamata la località Fonderia fino al 1884). I cannoni del Camozzi erano in ferro fuso ed avevano il notevole vantaggio di avere un costo inferiore a quelli di bronzo. Nel 1714, dopo il collaudo favorevole dei primi esemplari, Venezia ordinò quaranta cannoni all’anno per dodici anni a cui fecero seguito negli anni successivi altre commesse per centinaia di pezzi per una quantità totale di oltre 1900 cannoni di vario calibro (da Villa d’Almè informa. Notiziario del Comune di Villa d’Almè. Anno 3. Giugno 2021. N. 6).
(8) Ciò avvenne anche nel 1727, dopo che Venezia raggiunse una certa stabilità in terraferma e dopo la sconfitta di Morea, con la quale i Turchi non rappresentavano più una minaccia sul mare (D. e O. Gimondi, op. cit.).
(9) Un atto notarile, in cui si allude ad una “compagnia vecchia della fonderia”, fa intendere che nel 1730 nella proprietà siano intervenuti dei cambiamenti e cioè che sia cambiata la ragione sociale (anche se un documento relativo a una deliberazione del governo veneziano in cui vengono ordinati duecento cannoni di ferro in Bergamasca, lascia intendere che nel 1736 i Camozzi risultano essere i “Partitanti” della nuova “ditta”). Negli anni seguenti le notizie sono sempre più rare. La fabbrica dei cannoni alla Ventolosa era ancora in piena attività nel 1742. Non è dato di sapere quando La fonderia finì di adempiere alle sue originarie funzioni. “Il Belotti afferma che il grande impianto dove si producevano i cannoni per Venezia, successivamente non ebbe fortuna e rimase quasi inattivo, riducendosi alla semplice produzione di falci”. Dei Camozzi, come si apprende da una Ducale del 1736, “conosciamo la nuova destinazione: Bergamo. Carlo, lasciata l’incombenza ai figli che erano divenuti a loro volta ‘maestri’ della fonderia, morì, cosa che non possiamo confermare, verso il 1767”. “Con la fine della produzione dei cannoni presso la fonderia del Lizzone, l’industria metallurgica andò segnando il passo, trascinando con sé anche quella mineraria che, grazie appunto alla fonderia, per oltre mezzo secolo, aveva permesso la sopravvivenza di molte miniere della valle” (D. e O. Gimondi, op. Cit.). Altrove si legge che gli ordini si esaurirono nel 1743, quando Venezia non era più minacciata dal pericolo turco (da Villa d’Almè informa, op. cit.).
(10) G. Rosa, Notizie statistiche della Provincia di Bergamo in ordine storico., pag. 133. Tip. Pagnoncelli 1858 Bergamo. Nel testo si legge che la Serenissima “…soccorse alla decadenza di nostra metallurgia, aprendo nel 1605 una fonderia di cannoni e di proiettili a Brescia, nel 1706 altra simile a Ventolosa e Clanezzo presso Bergamo e di proprietà Camozzi, nel 1776 un’altra a Castro presso Lovere”. Ma da quanto osservato sinora, in base agli atti notarili consultati dali fratelli Gimondi (op. cit.), per la Ventolosa la produzione dei cannoni si avvia dal giugno del 1712. Altrove si legge invece che Carlo Camozzi “creò una nuova industria a Clanezzo nel bergamasco, attiva dal 1722 ai primi anni Quaranta del Settecento” (Cannone veneziano da 40 libbre (sottili)).
(11) Il Lanfranchi” (Giacinto Lanfranchi, “I cannoni di Bergamo hanno allontanato il turco dall’Europa”. Atti dell’Ateneo (in), vol. XXX, anno 1957/59) scrive che ‘Venezia, nel 1721, al 22 giugno, ordina “al Camozzi mortai da 40 che non erano urgenti perché solo il 22 febbraio dell’anno seguente, inviò a Clanezzo, i disegni dei letti per montarli” e che “Dopo questa fornitura, la fonderia ebbe parecchi mesi di arresto con grave danno per il Camozzi obbligato a tenere la maestranza inoperosa”. E’ di questo periodo (1721) “il riconoscimento, a motivo della bontà delle armi prodotte a Lizzone, che Venezia concesse al Camozzi, il diritto di collaudare i suoi pezzi sul posto” (D. e O. Gimondi, op. Cit.). Umberto Gamba cita invece le relazioni dei rettori veneti Alvise Contarini e Nicolò Erizzo. Nella relazione del rettore veneto Alvise Contarini II, del 10 giugno 1749 si legge che nel territorio della provincia, oltre alle altre fucine, vi è la fabbrica di armi di Gromo che “….produce spade et altre armi da punta e taglio militari e la fondaria dell’artiglieria situata in Claneso…”, mentre Nella relazione del rettore veneto Nicolò Erizzo, del 20 dicembre 1754, è scritto che nel territorio vi sono 45 fucine e 9 forni nella valle di Scalve e Brembana e 28 nella Valle Seriana, in più la fonderia delle artiglierie che esiste in “Clenezzo” (Istituto di Storia Economica dell’Università di Trieste, Relazione dei Rettori veneti in terraferma XII Podesteria e Capitanato di Bergamo, Vol. XII, 1978, rispettivamente pag. 685 e pag. 718. In U. Gamba, op. Cit.)
(12) Le bombarde, già conosciute dal 1300 e diffusesi nel 1400, erano formate da due tubi di ferro coassiali, uno grosso che conteneva il proiettile, in genere una palla di pietra, e l’altro più stretto, dove veniva messa la carica. Modificato in seguito il disegno e perfezionato il funzionamento, nel XV secolo presero il nome di cannoni. Le colubrine comparvero più tardi. Lunghe e strette, all’inizio si portavano a mano, in seguito vennero montate su di un affusto. Avevano questo nome, perché le prime prodotte rappresentavano sull’altorilievo di volata un sepente (colubro). Anch’esse in seguito vennero sostituite dai cannoni, più efficienti e potenti (U. Gamba, op. cit.).
(13) Vincenzo Marchetti (a cura), “Angelini Giovanni Battista erudito bergamasco del Settecento”. Quaderni del centro documentazione beni culturali IV, Ferrari Grafiche, Clusone 1991, pagg. 95 e 96.
(14) V. Marchetti o.c. pagg. 96 e 97.
Riferimenti principali
Umberto Gamba, “Ubiale Clanezzo. Storia di una comunità”. Ferrari Editrice, Anno 2000.
D. e O. Gimondi, “Villa d’Almè – dal Settecento al secondo dopoguerra”. Ferrari Editrice, Clusone, 1998, pagg. 31 e segg.
Nota alle immagini
Le fotografie relative al reportage realizzato da Pepi Merisio negli anni 1965/’66, sono di proprietà dell’Ente AESS (Archivio di Etnografia e Storia Sociale della Regione Lombardia), che ne conserva le copie digitali.
Le fotografie recenti, relative agli anni 2018 e 2024, sono realizzate da Maurizio Scalvini.