Nel magico mondo dei burattinai bergamaschi, fra Otto e Novecento

Presso la bottega del fabbro Scuri, alla base della più bella torre medioevale del Mercato del Fieno…

..la vecchia baracca del Sarzetti sembra rianimarsi, e sulla scena silenziosa i burattini tornano a ballare.

“E si rinnova un rituale magico dal sapore antico in cui un oggetto inerme improvvisamente prende movimento, voce, si anima di vita e diventa spettacolo, arte e sogno. Allora quell’angolo di strada, all’apparenza così comune, diventa un luogo di straordinaria poesia. La magia dura poco, il tempo della rappresentazione; poi tutto svanisce tranne l’emozione  e il sogno” 

A Stefano, mio figlio, oggi un “ragazzo grande”

La tradizione bergamasca della baracca vanta una tradizione antica, che affonda le radici nella Commedia dell’Arte, il teatro d’improvvisazione portato in giro per l’Europa dagli Zanni bergamaschi, da cui scaturirono maschere come Arlecchino, Brighella, Pulcinella.

Anni Settanta: una recita del burattinaio Benedetto Ravasio nel cortile di una cascina a Bonate. I burattinai, girovaghi per natura, ben conoscevano l’arte dell’adattamento e recitavano ovunque: sulle aie delle cascine, negli oratori, nelle osterie e nelle piazze di città e paesi (foto Pepi Merisio)

Una tradizione che si è tramandata per generazioni di padre in figlio e da maestro ad allievo, giungendo a noi non senza fatica, sopravvivendo solo a Bergamo, Napoli e nel territorio compreso tra Parma e Bologna, capitali mondiali dei burattini.

Diretti discendenti – ed ultimi rappresentanti – della Commedia dell’Arte, sono i burattinai bergamaschi dell’Ottocento e del primo Novecento, con i loro magici personaggi e le storie appassionanti e divertenti.

La baracca dei burattini sotto il palazzo della Ragione, immortalata da Tito Terzi

Il loro mondo, sospeso tra arte, stenti, sogno, aspirazioni e fantasia, era semplice e schietto, e della gente interpretava i sentimenti ed i bisogni, le aspirazioni ed i valori, le delusioni, le istanze di giustizia e la voglia di riscatto.

La baracca gioppinoria di uno spettacolo viaggiante, intitolata “Il mago Robante”, una nota rappresentazione burattinesca (Archivio storico fotografico Domenico Lucchetti)

Con l’arrivo del cinema e della televisione, i burattinai scomparvero a poco a poco insieme ai loro burattini, per poi rivivere grazie alla passione e all’estro creativo dei pochi superstiti che hanno saputo fare di quest’arte qualcosa di magico e irrinunciabile.

“La tradizione è tramandare il fuoco, non adorare le ceneri” (Gustav Mahler) è il motto di Daniele Cortesi, qui ritratto con il suo maestro, Benedetto Ravasio, dal quale ha ereditato il mestiere (e la bravura) di burattinaio (foto di Gabriella Ebano)

I PRECURSORI DEI BURATTINAI BERGAMASCHI: ANTICHE TRACCE DI ATTIVITA’ BURATTINESCA

Della vita e dell’attività dei burattinai bergamaschi sappiamo ben poco e di loro, talvolta, non conosciamo neppure le date di nascita e di morte.

La notizia più antica riguarda il burattinaio Angelo Vignola, che presente in città nel 1660 ‘con l’occasione della fiera’ ed esercitando la ‘professione di far ballare alcune piccole figurine dette bamboci’, chiedeva di poter usufruire di una ‘stanza di ragione di questo pubblico sotto il Palazzo Novo’ per i propri spettacoli: si tratta di Palazzo Nuovo, attuale sede della Civica Biblioteca Angelo Mai. La richiesta venne prontamente respinta.

Una splendida veduta su Palazzo Nuovo dal portico del Palazzo della Ragione (Raccolta Gaffuri)

Abbiamo poi notizia della burattinaia Camilla Bissoni detta la Franceschina, che il 22 dicembre 1700 chiedeva di ‘puoter chiudere parte della Loggia sotto il Palazzo Vecchio di Raggione’ allo scopo di ‘far ballare li buratini’ nel Carnevale imminente.

Un’animata Piazza Vecchia ossevata da Vicolo Aquila Nera (Raccolta Gaffuri)

La delibera chiedeva la stipulazione di un’assicurazione per gli eventuali danni arrecati, e la Bissoni prometteva di pagare ‘tutte le spese sì in formare la tramezza, come in distruggerla et ad ogni danno potesse a quello inferire’. Prevedeva inoltre l’obbligo a ‘sgomberare la loggia d’ogni impedimento’ entro i primi giorni di Quaresima, ma la domanda non raggiunse i due terzi dei voti e venne respinta (1).

(1) Francesca Frantappiè, Per teatri non è Bergamo sito.  La Società bergamasca e l’organizzazione dei teatri pubblici tra ‘600 e ‘700. Fondazione per la storia economica e sociale di Bergamo, 2010.

Nonostante parli ormai il dialetto veneziano, nel Settecento Arlecchino è sicuramente ancora il protagonista della scena burattinesca bergamasca

Ancora nel Settecento, negli spazi della Fiera, punto di confluenza della maggioranza dei “forestieri”, al teatro “regolare” (le stagioni operistiche estive e gli spettacoli delle compagnie di attori professionisti) si affianca quello “minore” composto dai teatri dei burattini, presenti insieme ad acrobati, ciarlatani, ammaestratori di animali ed ambulanti con i loro apparecchi proto-cinematografici.

La Fiera raffigurata un secolo dopo da Costantino Rosa

Ma è nell’Ottocento che la presenza di una baracca in Piazza Vecchia diverrà una consuetudine, e ancor’oggi, gli unici spettacoli burattineschi che si tengono in città sono rappresentati sotto le arcate del Palazzo della Ragione.

Nell’Ottocento la presenza di una baracca in Piazza Vecchia diviene una consuetudine e non è un caso se ancor oggi gli unici spettacoli burattineschi che si tengono in città siano rappresentati sotto le medesime arcate

I primi burattinai che danno vita al teatro di figura sono Battista Battaglia e il suo discepolo Pasquale Strambelli, attivi in Piazza Vecchia tra la prima e la seconda metà dell’Ottocento, in piena dominazione austriaca. Con loro Gioppino è rappresentato per la prima volta proprio in Piazza Vecchia, ispirando i versi del poeta Pietro Ruggeri da Stabello (1797-1858),

Il poeta vernacolare Pietro Ruggeri da Stabello (1797-1858)

Questi, nel 1836 intitola La baraca del Battaja il più fortunato fascicolo delle sue Rime Bortolinine (2): un lungo poemetto che vede protagonisti i burattini, con Gioppino la fa da mattatore e la sua “ramorata” – la Margì (Marietta) -, a cui dedica dei versi d’amore, finiti in musica grazie al maestro Aldo Sala (1912-2002), sono reinterpretati da Luciano Ravasio

“Èco di büratì la gran filéna,
composta de Giopì e de Bortolì…”

(2) Bortolino è l’aggettivo con cui nel Settecento i milanesi qualificano i bergamaschi, “che consideravano fin da allora con una certa sufficienza”. Non a caso Manzoni ricorre al nome di Bortolo per designare il cugino bergamasco di Renzo. Il primo fascicolo delle Rime bortoliniane è pubblicato nel 1832 (L. Ravasio).

IL CAPOSTIPITE DEI BURATTINAI: BATTISTA BATTAGLIA, DETTO BATAJA (? – 1834)

Con Battista Battaglia, attivo a Bergamo per circa quindici anni (dal 1820 fino al 1834-35), il trigozzuto Gioppino fa la sua comparsa in Piazza Vecchia, crocevia degli avvenimenti cittadini. E’ lo stesso Ruggeri da Stabello a presentare Gioppino tra le teste di legno che il Battaglia fa muovere nella sua baracca.

Il burattino Gioppino regge tra le mani il proprio burattino. La tradizione legata a Gioppino appare radicata nell’Ottocento, con la tipica figura del “burattino gozzuto, tarchiato e rozzo, famelico e beone, fannullone e bastonatore”, come definito da Umberto Zanetti (disegno di Giovan Battista Galizzi – Archivio storico fotografico Domenico Lucchetti)

Del suo ricco repertorio è nota solo la commedia “Giopì ‘n seganda”, di cui Mazzoleni disse che commuoveva fino alle lacrime.

Battaglia aveva una tale cura e passione, che alcuni anziani riferirono che un tempo, dietro la sua abitazione di via Borgo Canale 21 fossero ben visibili le tracce di un affresco commissionato al pittore Bonomini raffigurante una piccola scena burattinesca.

PASQUALE STRAMBELLI DETTO PASQUALI’ (1804-1865)

Le notizie riguardanti Pasquale Strambelli detto Pasqualì sono state a lungo confuse dalla tradizione popolare con quelle del Battaglia, suo maestro.

Il ponte alla porta di Santa Caterina (foto Rodolfo Masperi – Archivio storico fotografico Domenico Lucchetti)

Strambelli teneva la sua baracca nell’allora popoloso borgo di S. Tomaso e all’entrata del ponte di borgo S. Caterina, ma era presente anche in Piazza Vecchia, dove teneva spettacoli sotto il Palazzo della Ragione da cui, come già aveva fatto il suo maestro, lanciava i suoi feroci strali alla volta degli austriaci,  definiti “pelatori di gelsi”.

Piazza Vecchia, ai tempi Piazza Garibaldi. Gioppino è in qualche modo partecipe dell’epopea risorgimentale, al punto che, secondo il Guerrazzi, ai tempi dell’assedio di Roma del 1849, Garibaldi prendeva “meraviglioso diletto” dalle rappresentazioni gioppinorie di un volontario bergamasco

Sono gli anni della tirannide austriaca e con Pasquale Strambelli la figura di Gioppino si nobilita e si riscatta ammantandosi d’italianità e di patriottismo.

Rappresentato in Piazza Vecchia fra l’esultanza del pubblico Gioppino prese a dileggiare (e a “bastonare di santa ragione”) i gendarmi austriaci, sgominati alla stregua di delinquenti e malfattori.

Due gendarmi nell’allora Piazza Garibaldi (Piazza Vecchia)

Provocazione per la quale Pasqualì venne più volte arrestato e maltrattato finché una sera, dopo l’ennesimo affronto lanciato nel corso di una rappresentazione, mentre gli sbirri erano in procinto di arrestarlo, il pubblico, disposto a muro intorno alla baracca,  riuscì a respingere i gendarmi.

Ufficiali e soldati scolpiti con grande maestria dal prolifico Enrico Manzoni, in una scena raffigurante un accampamento militare

L’eroico evento fu narrato in rima dal poeta Giacinto Gambirasio:

E chêla sira Bèrghem, Iìberada
prima del tép, per mèret del Giopì,
I’ê töta in Piassa Ègia, e I”à portàt,
come ün eròe, ‘n trionfo ‘I Pasqualì!

Per mantenere elevati i valori risorgimentali, senza però rischiare di apparire sfacciatamente contro agli austriaci che esercitavano un rigido controllo tramite la censura, il burattinaio bergamasco dell’epoca mette in risalto, nei propri spettacoli, la figura di un eroe vissuto in precedenza, ai tempi del dominio napoleonico: è Vincenzo Pacchiana detto “Pacì Paciana, ol padrù de la Val Brembana”, continuamente braccato dalle guardie napoleoniche

Strambelli ebbe persino l’ardire di sortire con Gioppino in quel di Zanica, dove la comparsa della maschera era considerata un atroce affronto. Per moltissimo tempo nessun’altro volle seguire il suo esempio: non tutti i burattinai erano disposti a farsi distruggere la baracca!

Ai burattinai Battaglia e Strambelli la tradizione lega le origini del teatro dei burattini bergamaschi, che a lungo si affermerà proprio per l’aver creato con Gioppino un personaggio ben definito e molto popolare.

ANGELO FATUTTI (FATÖT)

Claudio Facheris, Mascherata in Piazza Mercato del Fieno (collezione personale)

Dopo di loro si affermò Angelo Fatutti detto Fatöt (1812-1888), che dava le sue rappresentazioni sotto un andito in piazza Mercato del Fieno. E dal momento che egli, almeno per un certo periodo, diede spettacolo contemporaneamente allo Strambelli, si pensa che nella vicina Piazza Vecchia il posto fosse già occupato da quest’ultimo (o forse Piazza Vecchia gli era stata “interdetta” a causa dei fastidi dati alle autorità).

Un classico degli scenari dei burattinai bergamaschi: Piazza Vecchia (Burattinaio Marziali. Raccolta Scuri, Bergamo)

Il Fatutti inaugurò la stagione dei burattini che davano spettacolo anche in provincia, verso la pianura, non più al seguito di guitti e ciarlatani ma in proprio, come veri e propri artisti girovaghi che dopo aver trascorso l’inverno nelle osterie della città, nella bella stagione prendevano a viaggiare: fu così che Fatutti approdò nel Milanese.

Fatutti fu il primo a portare Gioppino nel capoluogo lombardo, dando origine a una serie di commedie e farse in cui Gioppino e Meneghino comparivano assieme. Persino un burattinaio milanese, Giuseppe Re (attivo dal 1890 al 1920), preferì Gioppino a Meneghino nelle sue rappresentazioni

Come già aveva fatto il Fatöt, anche Alfonso Strambelli (figlio del Pasqualì) e più tardi il Pèia e lo Steenì, vagarono per la Lombardia con baracca e burattini.
A questi grandi burattinai va aggiunto anche Luigi Nespoli che, come vedremo, ebbe un’avventura molto singolare.

BERNARDINO MORO (PEIA)

Anche Bernardo Moro (1838-1902) detto Pèia (continuatore della tradizione burattinesca del Battaglia, di Pasquale Strambelli e di Angelo Fatutti), sconfinò nel capoluogo lombardo recitando in luoghi dai quali i burattinai erano sempre stati esclusi. Con il Pèia, che si faceva chiamare Gioppino I°, s’inaugurò la stagione di quei burattinai bergamaschi che s’imposero nei locali milanesi stabilendovi una sorta di gerarchia facendosi chiamare Gioppino I°, Gioppino II°, ecc. (3).

Bernardo Moro fu molto popolare nel borgo di S. Leonardo, dove tenne rappresentazioni per un decennio, dal 1870 al 1880.

Scorcio di Borgo San Leonardo, con la celebre fontana “Fiascona

Diversamente dai burattinai che lo precedettero e da molti altri che seguirono, Bernardo Moro non era analfabeta o semianalfabeta e si ingegnò a dare un certo tono letterario alle recite, curandone intreccio e linguaggio.

(3) La tradizione venne continuata dal figlio dello Strambelli, Alfonso (che dal padre prese il nome di Pasqualì II°) il quale, nella serie dei bergamaschi che fanno divertire i milanesi con i burattini, assunse il titolo di Gioppino II°. A Milano Alfonso agisce dal 1876 in avanti.

Largo Cinque Vie in Borgo San Leonardo. Il Moro “Piaceva al colto pubblico e all’inclita guarnigione per la cura con la quale elaborava la trama ed infiorava i dialoghi delle sue rappresentazioni. Il suo Gioppino parlava un dialetto colorito, vivo, non improvvisato e strascicato ma denso di vocaboli tipici, di sapide espressioni idiomatiche attinte alla genuina parlata popolare” (Umberto Zanetti)

La sua ambizione lo portò ad impiantare la sua  baracca nel luogo di passeggio pubblico per antonomasia di Bergamo bassa: il boschetto di S. Marta, sul Sentierone.

Il Boschetto di S. Marta in una fotografia del 1920: un’area verde con molte piante d’alto fusto, per lo più ippocastani, abbattuti nell’autunno del 1923 per far posto al nuovo centro piacentiniano (Archivio storico fotografico Domenico Lucchetti)

Quest’angolo della Bergamo dell’Ottocento è rappresentato in un bel dipinto del pittore Gabriele Rosa, con la baracca tra i cittadini che frequentavano il passeggio sul quale si affacciavano gli edifici affastellati attorno all’antica Fiera, con i suoi variopinti Caffè.

La più antica testimonianza del teatro dei burattini a Bergamo in un dipinto di Gabriele Rosa del 1840: spettacolo di burattini sul Sentierone durante la Fiera di Sant’Alessandro. La baracca di Bernardo Moro è ben visibile a sinistra del boschetto di S. Marta, ai confini del quale d’estate egli montava la sua baracca per lasciarvela tutta la stagione. Durante gli intervalli sua moglie passava con il bussolotto tra il pubblico per raccogliere le offerte

ANCORA NELL’OTTOCENTO..

Dopo lo Strambelli, va ricordato il Cannella, che dava i suoi spettacoli nella zona di S. Pancrazio in Città Alta, nel periodo del decadimento economico e sociale del centro storico, ovvero ai tempi in cui erano sorte le prime osterie in cui si mesceva vino ad alta gradazione proveniente dal meridione. Un vino che presto soppiantò i pallidi vinelli locali e che per i vistosi effetti che sortiva faceva dimenticare le tristi condizioni in cui si era ridotta a vivere la parte più umile di Città Alta.

Cannella recitava negli oratori, tenendo a bada anche i ragazzi più turbolenti.

Antica rivendita del “vino forte” nella piazzetta di San Pancrazio (Archivio storico fotografico Domenico Lucchetti)

Vi era poi il cappellaio Corna, che divertiva i bambini nell’oratorio di Sant’Antonino.

Anche “il pio e zelante” Don Luigi Palazzolo (1827-1886) amava allestire spettacoli di burattini per i suoi ragazzi, nell’oratorio di San Filippo Neri di cui fu fondatore: cosa giudicata troppo licenziosa dai giudici del processo canonico e che per poco non gli costò la causa di beatificazione, che fu messa in salvo grazie all’intervento del Papa bergamasco.

Tre teste di burattini appartenute al beato Luigi Palazzolo, la cui baracca era rifornita di un gran numero di crape dé lègn. La tradizione vuole che sia stata la madre, di famiglia nobile, a commissionare a uno scultore l’esecuzione dei burattini utilizzati dal beato per le recite nell’oratorio. Alle sue recite assistevano “con grandissimo piacere” anche negozianti, signori, professionisti, parroci e canonici. Palazzolo accorreva anche in Seminario, e furono frequentissimi gli spettacoli dati ai giovani del collegio S. Alessandro 

Con il Cannella, il Corna e don Palazzolo, si conclude il periodo classico dei grandi burattinai che lavoravano a Bergamo, una sorta di decadenza della “tradizionale arte dei burattini” (tuttavia più accentuata nelle altre città) dovuta all’emigrazione a Milano e al tentativo di affermare i burattini in persona: una moda effimera, che non impedirà – negli anni che precedono la guerra – la fioritura di altri artisti burattinai a partire dal Colombo alla Malpensata, Sisto nel rione di  Campagnola e Melio Minoia in vicolo Aquila Nera a Bergamo Alta, dove morì nel 1942.

IL TEATRINO DEI GOTTI

In questa graziosa composizione risalente al 1901, epoca in cui fu attivo il burattinaio Giuseppe Gotti, la Fontana del Delfino (1526) è ritratta con la Fontana di S. Pancrazio (1549). Nella lunetta dell’arco, in luogo dell’attuale affresco, appare una scritta ormai scomparsa (Archivio storico fotografico Domenico Lucchetti)

Il burattinaio Giuseppe Alessandro Gotti fu attivo tra la seconda metà dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Abitava in Città Alta nella zona di S. Pancrazio, dove in tempi abbastanza recenti un antennista, recatosi sul solaio di un caseggiato per una riparazione, trovò casualmente un vecchio baule zeppo di burattini lasciati dal Gotti.

Un diavolo fatto risalire a Giuseppe Gotti

 

Un burattino fatto risalire a Giuseppe Gotti 

Le poche notizie che riguardano la famiglia di questi burattinai bergamaschi, sono frutto esclusivo di memorie tramandate oralmente, e come spesso accade in questi casi, la verità si confonde spesso con la fantasia. Alcune memorie riportavano infatti l’esistenza di “fratelli Gotti” burattinai; in realtà, Domenico Lucchetti venne a sapere da Serafina Gotti, figlia di Giuseppe Alessandro, che questi era figlio – e non fratello – del burattinaio Massimiliano, vissuto nell’Ottocento al civico 36 di Via Pignolo e proprietario di un “Teatrino Gioppinorio e Marionettistico” (Zanetti, Op. cit.).

Il burattinaio Giuseppe Alessandro Gotti era figlio del burattinaio Massimiliano, vissuto nell’Ottocento al civico 36 di Via Pignolo e proprietario di un “Teatrino Gioppinorio e Marionettistico

Nella foto seguente, il burattinaio Giuseppe Alessandro Gotti è ritratto con la sua famiglia; fa da sfondo l’elegante baracca nella quale lavorava. La cura e la dimensione del “teatrino” suggeriscono che la famiglia Gotti godesse di un certo benessere economico. Sullo scenario, che per la sua qualità venne dipinto presumibilmente da un pittore del tempo, sono raffigurate le maschere della Commedia dell’Arte con al centro Gioppino che suona il tamburo. Si tratta di una delle prime rappresentazioni della nota maschera bergamasca.

1914: il burattinaio Giuseppe Alessandro Gotti ritratto con la famiglia. Giuseppe furoreggiò per diversi anni nelle sale cittadine e certamente nel 1012 dava spettacolo all’Apollo (già Concordia), in Viale Roma (Archivio storico fotografico Domenico Lucchetti)

Alessandro Giuseppe Gotti inaugurò quella che in seguito divenne una consuetudine comune a diversi burattinai bergamaschi: si occupava personalmente dei testi e dell’allestimento della baracca, ma soprattutto della realizzazione delle teste di legno dei suoi burattini, che, sovradimensionate rispetto al consueto repertorio bergamasco (probabilmente in rapporto alle notevoli dimensioni del suo teatrino) diedero vita al famoso detto – cràpa de goti -, sinonimo di “testa di legno” riferito alle cervici dure di comprendonio.

La dinastia venne troncata dall’epidemia di Spagnola che decimò la famiglia subito dopo la fine della prima guerra mondiale, tra il 1918 e il 1919.

Gruppo di burattini probabilmente appartenuto al burattinaio Giuseppe Gotti, noto per bravura e per l’utilizzo di fantocci dalle teste molto grosse e perciò meglio visibili anche da lontano (raccolta privata)

Le memorie riportano che Massimiliano Gotti, il capostipite, era stato allievo di Bernardo Moro (Pèia), dal quale aveva ricevuto in dono delle crape lègn: forse quelle stesse confuse tra i burattini intagliati da Giuseppe, rinvenute in quel solaio di via S. Pancrazio?

Massimiliano era ricordato con nostalgia dal poeta Giacomo Alessandro Gavazzeni in una composizione risalente all’ultima guerra mondiale. In polemica con le norme educative fasciste, il poeta affermava che i ragazzi (bòce) dei suoi tempi non maneggiavano pugnali e moschetti e vedevano i fucili – finti, s’intende – solo nel teatrino del Gotti:

I bòce de chi tép, pié de ardimènt,
no i ghe sia de pügnàl gna de moschècc
e se a guèra i zögàa, i éra bachècc
a ƒurmà töt l’insèm de l’armamènt,
o s’i vedìa di s-cìòp, I’éra dal Gòte,
che l’ dervìa ƒò ‘I sò tèmpio ai becherée,
indóe ‘l Giopì, tra i tante bölerée,
l’ispartìa col tarèl moràl e bòte”
(Zanetti, Op. cit).

Con i Gotti siamo ormai alla vigilia della Grande Guerra e, se ci atteniamo al repertorio di Giovan Battista Locatelli detto Steenì, c’è da credere che Gioppino si schieri ormai tra gli interventisti.

I genitori di Gioppino: Maria Scatolera e Bortolo Socalonga

GIOVANNI NESPOLI

Giovanni Nespoli, artista completo e ottimo impresario di se stesso, d’inverno dava spettacolo  passando per le varie osterie nei quartieri di Bergamo e nei paesi più vicini. Con la bella stagione si metteva in viaggio lungo un percorso ben definito, dai paesi della bassa all’Adda e al Milanese risalendo poi il Comasco. A Boario la sua presenza era richiesta in tutte le stagioni; percorse anche tutta la Valle Camonica e fu di casa a Ponte di Legno. Venne invitato a dare spettacolo alla Villa Reale di Monza quando vi soggiornava re Umberto I con la sua corte

Giovanni Nespoli è il burattinaio d’eccellenza, che visse nel momento migliore per questo genere teatrale di cui vide il lungo decadere. Fu un vero specialista dello spettacolo burattinesco, sia nell’abilità nel muovere i burattini e sia nell’inventiva scenica, utilizzando una gran quantità d’acqua per rappresentare il diluvio universale e inventando una specie di palcoscenico mobile che grazie a una grande ruota di carro gli permetteva di cambiare fulmineamente la scena.

Ricorda Pino Capellini nella sua opera Crape dé lègn, che giunse un momento in cui i burattinai bergamaschi avevano guadagnato un’ottima piazza in quel di Monza, dove si dice vi fosse “Un gran buon pubblico”. Fra costoro Giovanni Nespoli ebbe un’occasione d’oro: dopo esser stato notato da qualcuno della famiglia Reale che alloggiava nella villa dove re Umberto I soggiornava con la sua corte, gli giunse a sorpresa l’invito di presentarsi all’ingresso della reggia con tutto il suo bagaglio. Fu così che la baracca di un bergamasco divertì gli ospiti reali per un certo numero di stagioni.

Non è dato di sapere se Giovanni Nespoli ne ricavò “compensi reali”, ma di certo quelle rappresentazioni costituirono il vertice di una insperata carriera, coronata anche da una sorta di diploma di “burattinaio reale” in pergamena, accompagnato da una medaglia incorniciata sotto vetro che conservò fino alla fine.

Il re e il suo cosigliere, ciambellano o scudiero, di solito usati per la recita del “Don Gusmano”, presentata anche con il titolo “La famiglia gioppinoria alle prese del castello di Pamplona”. I due fantocci appartengono al burattinaio Arturo Marziali (Raccolta Scuri)

Girovagò per tutta la Lombardia, richiesto ovunque, principale attrattiva delle località termali dove soggiornava l’Europa che contava, dormendo spesso sempre in allerta, attento a proteggere l’incasso che andava consegnato alla famiglia.

Conclusa ormai la sua fortuna Nespoli si ridusse a vivere in Borgo Canale, aggirandosi con un carretto da straccivendolo.

Una bellissima cartolina raffigurante Borgo Canale ai primi del Novecento (per gentile concessione dell’Antiquaria Laura Ceruti)

Rinunciò definitivamente ai suoi allestimenti, pressato dalla Società degli Autori (SIAE), che richiedeva soldi ad ogni spettacolo.
Morì quasi in miseria nell’ottobre del 1951, lasciando alla moglie, come unica eredità, soltanto qualche burattino. Quei fantocci di legno furono così cari ad entrambi, che alla morte di lei, che l’aveva molto aiutato nel lavoro, trovarono un burattino nascosto sotto il suo letto. Ricordo di tempi migliori, non aveva mai saputo separarsene.

La locandina del Sarzetti, collocata nello stesso punto dove il burattinaio annunciava, anni or sono, i suoi spettacoli

GIOVAN BATTISTA LOCATELLI, DETTO STEENI‘ (1884-1923)

Collocato da taluni ai primi posti della gerarchia dei grandi burattinai bergamaschi, definito “il principe dei Giopì”, può essere considerato come l’ultimo burattinaio della tradizione dell’Ottocento.

La famiglia gioppinoria (per gentile concessione dell’Antiquaria Laura Ceruti)

Pittore-decoratore era di spirito piacevolissimo e dalle allegre trovate. Riservato per natura, si trasformava quando entrava nella baracca, dove riusciva ad esprimere tutta la sua arguzia e il suo pittoresco senso umoristico, tipicamente bergamasco.

Era il padre del pittore Orfeo Locatelli, che di lui ricordava le mani infilate nei suoi burattini, dei quali otteneva espressioni efficaci che oggi si potrebbero definire metafisiche. Il dialogo, le voci diverse e i vari dialetti erano totalmente prodotti da lui. Il canovaccio della commedia consisteva in un foglietto di registro per ogni atto, un promemoria molto stringato, proprio come nel teatro dell’arte.
“Mi dicevano che scegliendo i burattini per lo spettacolo, mio padre prendesse la testa del fantoccio tra le mani, osservasse per bene la fisionomia del personaggio e, a secondo del tipo, decidesse di assegnargli la voce più adatta”  (Orfeo Locatelli).

Steenì dava spettacolo in un magazzino di Via San Lazzaro al costo di dieci centesimi in platea e il doppio in galleria.

Il burattinaio Giovan Battista Locatelli detto Steenì, chiamato “il principe dei Giopì” (1884-1923). Rappresentava copioni tradizionali e testi creati da lui stesso. Se ne ricordano due: Alla Baionetta! e L’impero della forca, che risalgono alla prima guerra mondiale. Due testi sicuramente a favore dell’intervento contro l’Austria

Dell’attrezzatissimo teatro del burattinaio bergamasco, che disegnava le sue teste di legno per farle poi intagliare artisticamente, non è rimasto nulla. Fu lo stesso Locatelli a disfarsene dolorosamente non volendo più conservare un segno di questa grande passione, perché i medici gli avevano suggerito di non proseguire con una così faticosa attività .

Ne “Il Novecento a Bergamo” si fa menzione dei fratelli Locatelli, considerati “tra i più celebri burattinai del loro tempo”. Costoro ricevevano i “clienti” (cioè coloro che volevano ingaggiarli per qualche recita) nello storico albergo Ponte di Legno in Piazza Pontida, famoso per il suo caffè-ristorante e per i suoi stanzoni ben tenuti ed eleganti. Geo Renato Crippa accenna ai fratelli Locatelli, famosi pittori decoratori e celebri burattinai, descritti come “Tipi genialissimi (…) e molto apprezzati (che) ascoltavano sorridendo agli inviti di teatrini presso i quali dovevano recarsi. Togliendosi dal portafoglio la distinta delle loro esibizioni: commedie, drammi, monologhi, la sciorinavano davanti agli occhi stupiti degli ingaggiatori. Recitavano, seduta stante, i pezzi più azzeccati della loro ‘produzione’; allora il silenzio incombeva sui presenti, data l’arguzia e la vivacità delle quali sfoggiavano i ‘maestri’ travolgendo l’improvvisato uditorio. Siccome, d’urgenza, si spargeva la notizia della recitazione, nei negozi vicinori: salumieri, fruttivendoli, carbonai, merciai, armaioli, formaggiai, bastavan pochi istanti perchè l’albergo straripasse”

 

La locandina di Luigi Cristini 

GLI ANNI FRA LE DUE GUERRE

La Grande Guerra era destinata a sconvolgere pure il quieto mondo provinciale di Bergamo e molti burattinai partirono per il fronte; qualcuno di loro non appena gli fu possibile innalzò rudimentali baracche nelle retrovie. Era uno dei pochi divertimenti consentiti alle truppe.

Le due rudimentali teste di burattini vennero fabbricate per un improvvisato spettacolo allestito per intrattenere i combattenti a poca distanza dal fronte durante la Prima guerra mondiale (Raccolta Angelini)

I burattinai giravano anche negli ospedali e nei convalescenziari, regolarmente richiesti dal personale medico per sostenere il morale dei feriti e degli ammalati. E così Capellini scrive che a Martinengo, in fondo al lungo corridoio di una villa della “bassa” bergamasca, una baracca allietava la convalescenza dei soldati, che si raccoglievano disciplinati nella improvvisata platea. Il fronte era lontano, si poteva sorridere e ridere alle facezie di Gioppino, pensando al giorno in cui tutto sarebbe finito. Dietro le file dei soldati italiani si affacciavano, sparuti e malandati, dei prigionieri austriaci, anche loro feriti e o ammalati e in convalescenza. La guerra stava per finire o doveva essere finita da poco. Nella gran sarabanda conclusiva, Gioppino prendeva a bastonate e a gran testate il “tugnì“, il soldato austriaco. E quei prigionieri sorridevano anche loro. Senza molta allegria forse, ma con la speranza che presto avrebbero preso la strada di casa.

Alcuni vecchi burattinai sparirono nel periodo della guerra, altri invece si cimentarono per la prima volta col pubblico (come Domenico Rinaldi).

Anche Bigio Milesi, il popolare pasticcere  Bigio di San Pellegrino Terme, cominciò a far ballare i burattini durante la Grande Guerra. La sua lunga vicenda artistica ebbe inizio quando un giorno suo padre, che era al fronte, a sorpresa gli fece recapitare a casa da un conoscente un sacco che conteneva fantocci e teste di legno, di cui il Bigio non sapeva altro. Portò lo spettacolo burattinesco a notevoli livelli, interpretando il suo Gioppino con signorilità e arguzia. Gli fece da maestro il cugino Irmo Milesi, altra figura popolare di burattinaio.

Tre bellissimi fantocci della raccolta del famoso burattinaio-pasticcere di San Pellegrino, Bigio (Luigi) Milesi. I due a sinistra sono i più antichi e risalgono all’Ottocento

 

Nato a Bergamo nel 1905, Bigio ha raccolto pazientemente una gran quantità di burattini dispersi  “perché il cugino lrmo li aveva avuti dal Gotti, il quale li aveva dati il Pèia”, scriveva Umberto Zanetti

IRMO MILESI

Irmo Milesi cercò di migliorare lo spettacolo, dandogli dei canoni e sperimentando pure delle forme nuove di rappresentazione. Raccoglitore e autore di testi, preparò anche una commedia da far recitare a burattini viventi. Intagliava lui stesso le teste dei suoi burattini, con risultati notevoli. Dipendente dell’Istituto Arti Grafiche di Bergamo, non era costretto a una vita girovaga per campare e per anni egli dominò incontrastato nel salone del Mutuo Soccorso.

Una pagina di un canovaccio appartenuto al burattinaio Irmo Milesi. Questi testi vennero sicuramente scritti nell’Ottocento. Alla grande stanza della Società di Mutuo Soccorso, si accede direttamente passando per il cortile che si apre su via Zambonate. Fu il crocevia di innumerevoli vicende di burattinai negli anni ’20 e ’30 e là lrmo Milesi rivelò le sue eccellenti doti di burattinaio 

Burattinaio ufficiale del dopolavoro, era quello che riceveva i maggiori consensi e che aveva il pubblico più attento e appassionato.

Locandina del burattinaio Luigi Cristini. L’epoca è 1932-’35 (Raccolta fratelli Cristini, Bergamo) 

Poi vi fu l’EMIGRAZIONE, la baracca venne abbandonata dal suo pubblico, restando solitaria nei cortili e sotto gli androni, dove i burattini giacevano abbandonati. Tanti bergamaschi partirono emigranti e capitava che la baracca si ricomponesse anche nei paesi più lontani. Era di casa in Svizzera, in Francia o in Germania e comparve anche negli Stati Uniti e in Argentina.

Ai tempi di via Zambonate, il pubblico non mancava e tanti burattinai facevano a gara per portarvi le loro rappresentazioni.

La sede del Mutuo Soccorso in via Zambonate, nel 1921. La fotografia rappresenta un momento di grande festa (con banda musicale) dell’Associazione Proletaria Escursionisica ospitata nel caseggiato del Mutuo Soccorso

Ormai avanti negli anni, vi tenne spettacolo anche il Nespoli, mentre Carlo Sarzetti e Pietro Spreafico contesero il primo posto ad Irmo Milesi.

Alla morte di questi subentrò Domenico Rinaldi, uscito terzo a un concorso al quale aveva partecipato quasi per caso, rappresentando “I tre principi di Salerno”.

Locandina del burattinaio Sarzetti, probabilmente ereditata dal burattinaio Gotti, di cui fu allievo

DOMENICO RINALDI (MENECH)

Domenico Rinaldi detto Mènech, all’età di 14 anni, dopo un periodo di apprendistato cominciò a far ballare i burattini nell’oratorio di Borgo Palazzo, dove era nato e dove ormai più nessuno a causa della guerra teneva spettacoli. Ricevette in dono dal curato una cassa di burattini, vecchi e ammaccati, per far divertire i ragazzi.

Il burattinaio Domenico Rinaldi, detto Ménech con il Gioppino portato in scena nel corso di decine e decine di rappresentazioni. Egli cominciò l’attività nel 1916 a soli 14 anni, dopo l’apprendistato attraverso Colombo, Gotti, Salvi, Steenì, Lecchi, Pasqualì

Ma ormai il cinema faceva sentire la sua concorrenza, almeno in città, mentre in provincia il burattinaio poteva ancora trovare un buon numero di spettatori. Il mestiere di burattinai ora poteva solo servire ad integrare una paga, ma non più a sfamare un’intera famiglia.

L’ultimo che in quei tempi provò a vivere esclusivamente degli incassi di questo genere di spettacolo fu Luigi Cristini, che ebbe come maestro il Milesi. Ricevuto un indennizzo alla “Magrini” in seguito a un infortunio, lasciò il proprio lavoro e si mise in proprio con i burattini.

Le teste di questi burattini, appartenuti al burattinaio Luigi Cristini, sono tutte opera del falegname bergamasco Enrico Mazzoleni detto Rissolì. Questi, oltre che essere un abile burattinaio fu uno splendido intagliatore. Luigi Cristini, dal 1932 al 1935 tentò la grande avventura correndo da un paese all’altro in bicicletta. L’esito di tante speranze fu però gramo e dovette rinunciare alla libera professione di burattinaio. Conservò però i suoi burattini per tutta la vita

 

Giuseppe Garibaldi, un garibaldino, un frate e due briganti, per “La foresta del terrore” (Raccolta Cristini)

Ormai un’altra guerra incalzava, qualche burattinaio vi si trovò coinvolto, altri persero tutto l’apparato o vi rinunciarono definitivamente. Alla fine quelli che sopravvissero e che avrebbero potuto riprendere si potevano contare sulla punta delle dita.

Via Borgo Santa Caterina, angolo via Pitentino, nel 1938

L’immediato DOPOGUERRA segnò quasi una ripresa dello spettacolo. Finita l’era del Mutuo Soccorso si aprì quella di Enrico Manzoni, detto Rissolì.

Uno spettacolo del burattinaio Carlo Sarzetti sul colle della Maresana, davanti a un’osteria. L’autore dello scatto, effettuato subito dopo la Seconda guerra mondiale, è Diego Lucchetti, padre del noto fotografo e collezionista bergamasco Domenico. Nel ’40 e nel ’41 Sarzetti soleva dare spettacolo alla Maresana nelle occasioni di Pasquetta e Ferragosto, o anche per la festa della chiesetta che sorge sul colle. Si noti la brocca del quarto di vino fra le mani dello spettatore in piedi al centro dell’immagine (Archivio storico fotografico Domenico Lucchetti, Museo storico di Bergamo)

ENRICO MANZONI DETTO OL RISSOLI’

Enrico Manzoni, con uno dei tanti burattini usciti dal suo laboratorio

Enrico Manzoni, altro “principe dei burattini” fu abilissimo nel “far parlare” i suoi burattini, affascinava grandi e piccini per lo più nel suo laboratorio di falegname in via Ermete Novelli, dove gli spettacoli si tennero per un paio d’anni.
La bottega era uno stanzone zeppo di ferri del mestiere coi quali Manzoni, intagliava i suoi bellissimi burattini.

Brighella, Arlecchino e Gioppino, tre dei tanti burattini usciti dal laboratorio di Enrico Manzoni detto Rissolì, abilissimo e fantasioso intagliatore di teste

I suoi spettacoli erano il risultato di una elaborazione artistica fatta a più mani. Al Manzoni si affiancarono i pittori Arturo Bonfanti e Orfeo Locatelli (figlio dello Steenì), l’architetto Pippo Pinetti, l’avvocato Davide Cugini, i poeti dialettali Giacinto Gambirasio e Pietro Astolfi, che gli suggerivano spunti per imbastire le trame delle rappresentazioni.

Alle pareti della bottega pendevano “pesanti mascheroni della commedia e, con i muscoli contratti in arcigne espressioni, paurose maschere della tragedia. E poi aquile grifagne, festoni pingui di frutta decorativa, paffuti angelotti, teste di giovani e di vecchi in cornici massicce o sottili; ma soprattutto bellissimi, splendidi burattini intagliati dalle sapienti mani di questo fenomenale burattinaio” (5).

Spostati gli attrezzi e collocata la baracca, Manzoni faceva circolare piccoli inviti a stampa con impresso l’annuncio della recita. Ad ogni suo spettacolo affluiva una ressa variegata, nella quale non mancavano artisti e professionisti: spettatori abituali erano Guido Piovene (che a Bergamo aveva dedicato un bellissimo reportage) e Renato Simoni, che giungevano appositamente da Milano. Quest’ultimo “gli commissionò nel 1951 dieci statuette lignee raffiguranti altrettanti personaggi tipici del mondo burattinesco, da Arlecchino a Brighella, da Meneghino a Gioppino. ll committente pagò la commissione in rate mensili e – particolare curioso – il Rissolì ricevette il vaglia postale dell’ultima rata lo stesso giorno in cui i giornali diffondevano la notizia della morte di Renato Simoni”, racconta Umberto Zanetti.

Quei burattini sono ora al Museo del Teatro della Scala di Milano.

(5) Luigi Medici, L’Eco di Bergamo, 20 novembre 1958.

L’invito ad una recita fatto stampare appositamente dal falegname Enrico Manzoni, che teneva spettacolo nello stanzone del suo laboratorio 

E’ sempre Luigi Medici a descrivere uno degli spettacoli del Rissolì, tenuto nel suo laboratorio nel 1946. “La sera dell’annunciata rappresentazione la grande officina di falegnameria si riempì in pochi minuti di tutto un pubblico ciarliero e simpaticissimo. C’era, nell’officina, uno spirito rusticano, di Hans Sacs: qualcosa di artigiano, di medioevale con quelle lanterne che illuminavano scialbamente la baracca che i apriva in un angolo. Tre panche, davanti alla baracca, erano riservate agli spettatori privilegiati: i bambini. Gli altri spettatori stavano lungo le pareti pigiati in piedi o semiseduti sulle poche panchine rimaste nel laboratorio svuotato dei banchi artigiani e degli utensili di lavoro. C’era pur sempre un’aria di teatro vero e proprio.
Quando lo spettacolo cominciò, rimase illuminata solo la baracca. Tra le colonnine del proscenio ecco spiccare il sipario (dipinto dallo stesso Rissolì) con la nitida veduta del profilo di Città Alta. Come si alzò il sipario apparve Giopì, non so se scolpito dal Rissolì su disegno suo o dell’amico pittore Bonfanti: l’occhio vivo, la bocca semiaperta con qualche dente in ordine sparso, l’immancabile bacolo. Capii come Renato Simoni si fosse innamorato di queste maschere. E subito lo spettacolo entrò nel vivo: c’era da assistere a una corrida con il Giopì che faceva il torero. Un divertimento per tutti. Quante risate! Una serata indimenticabile”.

Un bellissimo Gioppino, il cui legno pare materia viva, è uscito dalle mani del versatile falegname-intagliatore Enrico Manzoni, il quale ha rivestito un ruolo importante nel teatro bergamasco dei burattini negli anni immediatamente successivi alla fine della Seconda guerra mondiale. Le recite tenute nel suo laboratorio di via Novelli a Bergamo richiamarono un pubblico di professionisti e di intellettuali

In qualche copione venne anche affrontato (con grandi manganellate) il periodo fascista e vi fu anche una rappresentazione dedicata alla vecchia questione, che tanto faceva discutere i bergamaschi, dell’ubicazione della tomba di Bartolomeo Colleoni. Questione sfociata nel clamoroso episodio dell’arca trovata nella basilica di Santa Maria Maggiore, e della quale Manzoni e compari intrecciarono un esilarante canovaccio.

Il discusso ritrovamento del 12 gennaio 1950. Mons. Locatelli scopre la massiccia arca lapidea in granito interrato nel pavimento di Santa Maria Maggiore: fu convocato il rabdomante Malachia, che i bambini di Città Alta credevano un mago perché ipnotizzava le galline (dal racconto di Domenico Lucchetti)

Probabilmente furono gli ultimi episodi locali rappresentati nella baracca dei burattini. Attorno al 1948-’49 questa serie di recite era già conclusa e v’era stata una dispersione dei vari componenti del gruppo.

Ma il Manzoni continuò a intagliare serie su serie di splendidi burattini, che finirono in casa di appassionati e di amici. Ne scolpì per il Ducato di Piazza Pontida, che dopo gli stenti della guerra offrì numerose occasioni di incontro e di divertimento.

Un’epoca di cambiamenti radicali, che avrebbe spazzato via tradizioni e consuetudini, si stava avvicinando a grandi passi: il declino dei burattini, già accentuato con la guerra, fu totale con l’arrivo della TELEVISIONE.

In Città Alta qualcosa sopravvisse. C’erano ancora l’imbianchino Carlo Sarzetti, che portava qua e là la sua baracca quando la brutta stagione gli impediva di lavorare. Pasquale Brignoli, un emigrande rientrato con la baracca dalla Francia, dove aveva imparato a dar spettacolo tra i lavoratori bergamaschi.
Pucci Mazzoleni, uno straccivendolo, che girava con un carretto trainato da un ronzino spelacchiato.
Melio Minoia, aggiustatore di ombrelli e di zoccoli.

C’era anche qualcuno nei vecchi borghi, come Piero Spreafico, un altro imbianchino, che teneva spettacolo nelle osterie di Borgo Santa Caterina, di via San Tomaso e in via N. Sauro.
E Arturo Marziali, un decoratore e pure abile intagliatore di teste di burattini.

CARLO SARZETTI

Sarzetti, dopo aver percorso la Bergamasca e la pianura verso Milano e Cremona spostandosi con un motocarro, dava spettacolo in uno stanzone nella stessa via Tassis.

Il burattinaio Carlo Sarzetti nella sua abitazione di via Tassis, a Bergamo Alta

Il Sarzetti era quello di maggior spicco. In realtà fu uno dei continuatori della grande tradizione bergamasca.

Allievo del Gotti, da lui aveva ereditato la grande baracca con la quale il suo maestro aveva vinto il primo premio a un concorso bandito a Milano.

Il grande, sovradimensionato teatrino di Carlo Sarzetti, che la tradizione vuole appartenesse in origine a Giuseppe Gotti, il quale lo lasciò a Sarzetti, suo allievo. Con questo teatrino Sarzetti vinse a Milano un concorso regionale per la più bella baracca di burattini (Raccolta Scuri)

Negli ultimi anni non si muoveva più da Città Alta e dava spettacolo in uno stanzone, prima in via Salvecchio, poi in via Tassis.

Il burattinaio Carlo Sarzetti nella sua abitazione di via Tassis, a Bergamo Alta (Museo storico di Bergamo) 

In passato aveva girato in lungo e in largo per la provincia, usando il motocarro di un amico, con il quale il Sarzetti si spostava insieme all’amico e fido aiutante, Vittorio Moioli, detto Bachetì, uno degli ultimi burattinai che ancora sopravvivono.

Bachetì, al secolo Vittorio Moioli, all’opera durante uno spettacolo in un’immagine di qualche decennio fa

Ma nonostante il Sarzetti con la sua abilità richiamasse ancora il pubblico, la vita per i burattinai era ormai dura, gli incassi erano scarsi e spesso bisognava accontentarsi anche di pagamenti in natura.

Vittorio Moioli, detto Bachetì, uno degli ultimi burattinai rimasti della generazione novecentesca

 

Vittorio Moioli con i suoi burattini, accanto a Lele Scuri, collezionista di baracche e crape de lègn

Quando si recavano nella “bassa” bergamasca nel periodo del raccolto, ai tempi in cui le cascine erano affollate di braccianti, capitava che il fattore di qualche azienda agricola offrisse loro, in cambio di uno spettacolo tenuto sulle aie dei grandi cascinali, un piatto di minestra, un fiasco di vino, una filza di cotechini, un po’ di pancetta o di salame. E di giorno capitava di restar sul posto a dare una mano a lavorare nei campi.

I burattini in cascina a Bonate (Bg) nel 1966 (foto Pepi Merisio)

Sarzetti scomparve nel 1970 dopo aver invano lottato, oltre che contro la concorrenza della televisione, con la tassa che la Siae richiedeva ogni volta che dava spettacolo.
Non capiva perchè dovesse sborsare soldi in questo modo: per lui era una di quelle gabelle che Gioppino spazzava via a suon di bastonate.

Il baule utilizzato da Carlo Sarzetti per il trasporto dei burattini. Anche le teste usate dal Sarzetti (in origine aiutante dei Gotti e ai quali subentrò dopo la morte) erano di notevoli dimensioni. Una caratteristica comunque tipicamente bergamasca (Raccolta Angelini) 

Di queste tradizioni, dell’incredibile, vario, fantasioso mondo della baracca e dei burattini, è rimasto ben poco. In parecchie province non c’è più un solo burattinaio. Nessuno si è mai curato li raccoglierne l’eredità, testimonianze o testi.
Qua e là sopravvivono vecchi burattinai, ma i loro spettacoli vengono considerati alla stregua di passatempo per bambini.

Nella Bergamasca, Pino Capellini, vera e proprie miniera d’informazioni, immagini e aneddoti, ricorda Bigio Milesi e Domenico Rinaldi che, pur avanti negli anni, davano ancora spettacoli.

La scena, che  rappresenta la piazzetta del Delfino, veniva usata anche per farvi comparire il padre di Gioppino e di Pantalone prima della partenza di Gioppino (dalla commedia “Per Milano in cerca di moglie”). Raccolta Bigio Milesi, S. Pellegrino Terme

Un terzo è Vittorio Moioli, aiutante del Sarzetti che, data l’età, solo in rare occasioni ne continua la tradizione.

“Occhi attoniti di bambini, sorrisi di mamme, risate squillanti di giovanotti dai sedici ai settant’anni: una lampada illumina il proscenio mentre il posto del pubblico, sotto i portici del Palazzo della Ragione, rimane in ombra come nei teatri moderni. Tre squilli di campanello annunciano l’inizio dello spettacolo. Un rumore di panche e di sedie rimosse, qualche colpo di tosse, poi il silenzio. Si alza il sipario e appare la scena, dipinta dallo stesso burattinaio che tiene tutti i ruoli, compreso quello di pittore. Protagonista è Gioppino, che esce dalle quinte e si inchina agli spettatori con una delle sue movenze più burlesche. Applausi. Lui li tronca battendo forte il bacolo sul ripiano della ribalta. La baracca ha uno scossone e ondeggia un poco, ma poi riprende la sua stabilità e la rappresentazione incomincia” (Sereno Locatelli Milesi) 

C’è poi Giuseppe Fugini, appassionato dilettante di Brembate Sotto, il paese del grande professionista Benedetto Ravasio, noto a livello nazionale, purtroppo scompaso.

BENEDETTO RAVASIO

Il burattinaio bergamasco Benedetto Ravasio, uno dei grandi burattinai del Novecento
 

Ravasio, originario di Bonate Sotto, si colloca nella scia dei burattinai di un tempo, collocandosi tra i più illustri operanti nel secolo scorso, come Sarzetti, Nespoli, Manzoni, Cristini e Luigi Milesi detto il “Bigio”.

Pina e Benedetto Ravasio

Allievo del Nespoli, iniziò a dare i primi spettacoli negli oratori, ma la sua vera attività ebbe inizio nel Dopoguerra.

Benedetto Ravasio e la moglie Giuseppina durante l’allestimento di uno spettacolo tenuto sotto il portico del Palazzo della Ragione in Piazza Vecchia

 

Benedetto Ravasio e la moglie Giuseppina sotto il portico del Palazzo della Ragione in Piazza Vecchia

 

Benedetto Ravasio all’opera, sotto il portico del Palazzo della Ragione a Bergamo. Amava profondamente il suo mestiere, di cui conosceva l’intrinseco segreto

 

I burattini di Benedetto Ravasio in Piazza Vecchia

Di giorno al lavoro, di sera in giro con la baracca nelle trattorie, all’aperto, negli oratori. Quando decise di dedicarsi totalmente a questo spettacolo venne affiancato validamente dalla moglie, Pina, che a lungo lo aiutò nella baracca. Lei tagliava e cuciva i vestiti e insieme a lui montava gli spettacoli e interpretava i ruoli femminili.

Una intensa immagine di Pina, compagna di vita nonché insostituibile collaboratrice di Benedetto Ravasio, nel dare voce ai personaggi femminili, animare i burattini (dei quali confezionava gli abiti), contribuendo anche alla scrittura dei testi

Davvero un gran personaggio, “con quella sua aria bohèmienne, la sua zazzera d’artista, i baffoni grigi, la sua cravatta Lavellière, la sua fecondia, la sua vivacità indomita, la sua simpatia contagiosa”.

Benedetto Ravasio con il suo Gioppino

I suoi itinerari lo portarono anche fuori provincia, seguendo le orme del Nespoli, soprattutto a Monza dove restò a lungo tra il 1952 e il 1953.

Dalla sua bottega in Piazza Vecchia, Domenico Lucchetti seguiva attentamente gli spettacoli che si succedevano sotto il Palazzo della Ragione

Poi arrivò la televisione e il suo gran guasto. Per quasi due anni l’attività di Benedetto subì una battuta d’arresto: impossibile allestire uno spettacolo per trovare spettatori.

La ripresa fu lenta, ma sicura. Si fece un nome a Milano, percorse a lungo il Comasco, andò a recitare in Svizzera. Il centro dei suoi interessi restò però Milano, dove per sette anni di seguito tenne rappresentazioni al Circolo dei Piccoli presso il negozio “Motta” in Piazza del Duomo.

Piazza Vecchia, anni ’70: Benedetto Ravasio e il suo Gioppino

Nel 1972 approdò alla televisione: fu la sua rivincita dopo quei due anni in cui lo schermo televisivo aveva fatto morire lo spettacolo dei burattini.

La baracca di Benedetto Ravasio sotto le arcate del Palazzo della Ragione negli anni ’70

Ravasio fu quasi unico nel genere: attore istintivo e geniale, dotato di una bellissima voce, fu abile anche nell’uso di scalpelli e pennello, scolpendo e decorando da sé le teste dei burattini e dipingendo gli scenari. Si occupava della musica (suonava il mandolino ed il violino) e scriveva i copioni delle sue rappresentazioni.

Benedetto Ravasio

Artista sensibile e in sintonia con il pubblico, ne intuiva i gusti modificando le tragedie e i drammi del repertorio tradizionale lasciando sempre più spazio alle commedie e alle fiabe, più consone ai nuovi canoni della comunicazione.

Rivolto perlopiù a bambini e alle loro famiglie, un po’ come fece Goldoni ripulì la tradizionale parlata triviale di Gioppino, sgrossandola della parte rozza e pesante ma mantenendo le caratteristiche del personaggio rude e un po’ rozzo ma simpatico.

Un’intenso ricordo di Benedetto Ravasio

Pina e Benedetto Ravasio hanno conservato e tramandato ai posteri la tradizione, in un periodo in cui le principali compagnie di burattinai appendevano definitivamente al chiodo le proprie crape de lègn: grazie a loro, quella manciata di burattinai professionisti oggi attivi sul territorio, continuano a preservare l’arte burattinesca consentendo al pubblico di conoscere ed apprezzare una tradizione viva da circa due secoli, che affonda le proprie radici nella cinquecentesca Commedia dell’Arte ed è perciò assolutamente da preservare e valorizzare.

Il teatrino di Daniele Cortesi, erede artistico di Benedetto Ravasio nonchè il più noto burattinaio bergamasco contemporaneo, sotto il porticato del Palazzo della Ragione

 

Il teatrino di Daniele Cortesi, sotto il porticato del Palazzo della Ragione

La ventennale esperienza di organizzazione di rassegne teatrali promosse dalla Fondazione Benedetto Ravasio, si qualifica nella rassegna estiva “Borghi e Burattini” inserita nella cornice di Piazza Vecchia e di numerose piazze dei comuni bergamaschi.

I burattini, una passione di famiglia. Fondazione Ravasio

A Bonate Sotto, paese natale di Benedetto, la Fondazione indice il premio “Benedetto Ravasio”, rivolto ad una giovane compagnia che meglio si sia distinta tra quelle presenti nel panorama nazionale.

 

Riferimenti principali

Devo molte notizie ed  immagini a due meravigliosi libri di Pino Capellini, dei quali consiglio la lettura per la vastità e la completezza della ricerca e per le ricchissime testimonianze iconografiche:
– Pino Capellini, Baracca e Burattini, Bergamo, Grafica Gutemberg, 1977.
– Pino Capellini, Crape dé lègn, Litostampa Istituto Grafico srl – Bergamo, 2002.
– Pilade Frattini, Renato Ravanelli, Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo. UTET, 2003.
– Umberto Zanetti, Bergamo d’una volta, Il Conventino.

La Casa di Arlecchino sulla Via Mercatorum: mille e un motivo per visitare Oneta

Reportage fotografico di Maurizio Scalvini

DALLA VIA MERCATORUM ALLA CASA DI ARLECCHINO 

Percorrendo la provinciale della Valle Brembana e superato il paese di San Giovanni Bianco,  la strada che si immette in Val Taleggio si dirige verso un grumo di vecchi edifici dove – si dice – sia la casa di Arlecchino, la celebre maschera della Commedia dell’Arte naturalizzata bergamasca (o meglio, brembana).

Adagiato ai piedi del monte Concervo, il borgo di Oneta si staglia a baluardo della Via Mercatorum sul percorso che conduce a Cornello dei Tasso. Sopra, la frazioncina di Brembella e a sinistra di Oneta, sulla  collinetta boscosa è il campanile della chiesa di Sentino

Vi si arriva in automobile, prendendo una breve deviazione dal sesto tornante della strada che sale a Pianca.

Oneta (indicata in basso a destra) e il suo circondario, adagiato ai piedi dei Monti Concervo e Venturosa (disegno di Stefano Torriani). Imboccata la strada per la Val Taleggio, dopo poche centinaia di metri si svolta a destra per Oneta

Oppure, la si raggiunge a piedi o in bicicletta immettendosi nella pista ciclopedonale della Valle Brembana,  a nord di San Giovanni Bianco, finchè dopo un centinaio di metri non si incontra  un pannello indicativo.

Percorrendo la ciclovia della Valle Brembana, superata la galleria e il centro abitato di San Giovanni Bianco, sulla sinistra si imbocca la Via Mercatorum (segnalata)

Con un sovrappasso, si scavalca la ciclabile per immettersi sull’importante svincolo della storica Via Mercatorum, sul percorso che da Oneta condurrà a Cornello dei Tasso.

Il piccolo borgo di Oneta, frazione di San Giovanni Bianco, collocato lungo un importante svincolo della Via Mercatorum, che da Oneta conduce al borgo di Cornello dei Tasso, importante sede di mercato e sosta nel medioevo

Raggiunta la piazzetta centrale del  minuscolo borgo di Oneta, ecco quella che dall’Ottocento è detta “Casa di Arlecchino”, una solida dimora signorile in pietra a vista, alla quale si accede mediante una suggestiva gradinata.

La Casa di Arlecchino a Oneta in un disegno di Luigi Angelini (1916)

La dimora si staglia a baluardo dell’antica Via Mercatorum, che le corre a fianco.

La “Casa di Arlecchino” a Oneta (di proprietà del Comune di San Giovanni Bianco), nel Palazzo che fu dei nobili Grataroli, si staglia a baluardo dell’antica Via Mercatorum, una vera e propria mulattiera, visibile a destra dell’immagine

Il palazzo, di origine medioevale, aveva probabilmente una funzione di difesa del borgo collocato lungo la Via Mercatorum, una mulattiera lastricata che durante il medioevo collegava Bergamo alla Valtellina salendo dalla bassa Valle Seriana ed immettendosi nella Valle Brembana percorrendo le poco agevoli Vie Alte, prima che alla fine del Cinquecento la Serenissima  realizzasse sul fondovalle il più comodo tracciato della “Priula”, che collegava direttamente il capoluogo alla Valtellina attraverso il passo S. Marco.

La Via Mercatorum, strada d’accesso per Oneta, lungo la quale transitavano e facevano tappa i mercanti che da Bergamo e dalla pianura risalivano le valli, diretti verso i Grigioni e il nord-Europa. Ogni giorno vi transitavano anche contadini, artieri, funzionari, persone di ogni grado e ceto sociale, ed è possibile che siano passate di qui  anche le tante compagnie di attori della Commedia dell’Arte, nel loro viaggio verso i teatri delle corti francesi

La posizione strategica, la struttura delle pareti esterne e la pianta dell’edificio, lasciano intendere che originariamente fosse una casa fortificata; tanto che sulla parete destra del salone interno è ancora visibile una fessura verticale,  testimoniante la presenza di una torre di avvistamento affacciata sullo storica via di transito.

La “Casa di Arlecchino”, la casa “veneta” della Valle Brembana, appartenuta al casato dei Grataroli, che vantava grandi ricchezze acquisite a Venezia, di cui portarono anche il gusto architettonico ravvisabile nei bei portali a tutto sesto, nelle finestre archiacute in pietra lavorata e nell’arco trilobato che addolciscono la facciata principale, dettagli che han fatto del palazzo l’unico esempio di architettura veneta in Valle Brembana

Le origini del Palazzo signorile invece risalgono Quattrocento, quando fu  ristrutturato e ampliato per essere terminato nel Seicento con l’aggiunta della cucina. I proprietari del palazzo erano i membri della nobile famiglia Grataroli, una potente casata locale il cui cognome è storicamente diffuso in Valle Brembana e in Valtellina.

I GRATAROLI

Già nel XIV secolo i Grataroli occupavano posti di rilievo a S. Giovanni Bianco (1) e alternandosi con i Boselli, altro nobile casato sangiovannese, non lasciarono scoperte neppure le cariche religiose. Con i vicini Tasso del Cornello (quelli che daranno veste d’impresa ai servizi postali in Italia ed in Europa), convengevano poi reciproche intese di nozze e scambio di beni dotali.

Di pari passo anche le mire espansionistiche dei Grataroli andarono ben oltre gli ambiti della valle e già alla fine del Quattrocento la loro residenza a Bergamo non era più solo occasionale (soprattutto se consideriamo che già nel 1286 in città risiedeva un Ottobonus de Gratarolis de Honeta): li ritroviamo in via Pignolo (nel cui borgo si stanziano anche i Tasso), strada d’accesso alla città alta, colonizzata nel Cinquecento da borghesi che si erano arricchiti principalmente grazie al commercio dei panni di lana e delle sete, in prevalenza nuovi ricchi sollevati dalle attività mercantili e nobili residenti entro le mura, che non trovavano spazi per edificare nuovi edifici con giardino.

Bergamo era la prima piazza dove mettere a profitto le loro risorse, e pur non disdegnando l’esercizio della mercatura che li aveva resi fiorenti, furono medici, giuristi, avvocati e notai.

Palazzo Grataroli, in via Pignolo a Bergamo, fatta costruire nel 1515 dal medico Pellegrino Grataroli, originario di San Giovanni Bianco (morto di peste nel 1528), padre del medico Guglielmo, nato nel 1516, autore nel 1561 della prima guida che affrontò il tema del viaggio proponendo ai viaggiatori un corretto stile di vita che, se osservato, doveva essere utile a prevenire malattie ed incidenti. Sospettato dall’Inquisizione per i suoi viaggi, le frequentazioni, i manoscritti di alchimia e di scienze naturali che andava raccogliendo, dovette abbandonare la città e trasferirsi a Basilea, dove viene nominato decano della facoltà di medicina, dove mantiene stretti legami con Calvino e dove muore nel 1568. Il palazzo è la fusione di due distinti edifici di cui il primo, salendo da Città Bassa e indicato al civico 72; alla progettazione del palazzo dovette intervenire l’architetto Isabello. Il salone fu la sede del Circolo artistico, fondato dai Grataroli e frequentato da personaggi illustri

Ovviamente l’ambizione dei Grataroli di Oneta non poteva ignorare Venezia – che allora era ai vertici del panorama culturale ed economico europeo -, dove li ritroviamo dal Quattrocento ascritti al patriziato locale e dove ressero per ben due volte il segretariato dogale (2).

Considerate queste vicende, possiamo perciò immaginare quanto lo status sociale dei Grataroli presupponesse la presenza a Venezia di ben più di un servo condotto a loro seguito, la cui storia si intreccia strettamente con l’esodo dei bergamaschi in laguna.

Ormai lontani dal paese natio, i Grataroli avevano nobilitato il palazzo, dove probabilmente tornavano per la villeggiatura, quasi ad ostentare concretamente il potere acquisito.

Oneta, palazzo Grataroli. Finestra con arco trilobato nella facciata principale, di chiara impronta veneziana

 

Oneta, palazzo Grataroli. Finestra archiacuta in pietra lavorata, sormontata dall’affresco di un Angelo

LA CAMERA PICTA

I Grataroli fecero decorare la casa con pregevoli affreschi, visibili ancor oggi entrando nel grande salone: la “Camera Picta”. Gli affreschi, anonimi e databili alla seconda metà del XV secolo, testimoniano l’ascesa della famiglia attraverso l’intercessione dei santi guaritori legati alla devozione popolare e con la rappresentazione di un torneo cavalleresco dove i Grataroli, che si distinguono per la presenza di una gratarola (una grattugia) disegnata sul loro scudo, sconfiggono i nemici dimostrando il loro potere alle famiglie nobiliari della Valle, raffigurate negli stemmi che contornano la scena.

La Camera Picta di Casa Grataroli è dunque un esempio unico in Val Brembana per la vivace dialettica sacro-profana che enfatizza l’autorità dei padroni di casa.

La Camera Picta di palazzo Grataroli. Gli affreschi della Camera Picta nella Casa di Arlecchino, tutti risalenti al tardo Quattrocento, vennero rimossi attorno al 1939 dal parroco di S. Giovanni Bianco, Don Davide Brighenti, che provvide a farli restaurare. Dal 2002, a seguito del restauro della casa, gli affreschi sono ritornati in sede a ricomporre il fascino originario che li consacrò più di cinque secoli fa

Lasciandosi guidare dall’ordine che si snoda in senso orario appena oltre l’ingresso principale, il ciclo compositivo si apre con il più autorevole affresco tra quelli religiosi: Cristo sul sepolcro tra Maria e Giovanni.

A sinistra il Cristo sul sepolcro tra Maria e Giovanni; a destra, il Martirio di San Simonino, precedentemente depositato presso il Museo Diocesano di Bergamo. In onore di San Giovanni Evangelista si chiamavano Giovanni, Gioan, Zan, molti giovani del posto, in omaggio ai santi patroni delle rispettive parrocchie d’appartenenza: quegli stessi costretti ad emigrare a Venezia a causa delle scarse risorse della valle. Il nome di Giovanni è associato a particolari funzioni apotropaiche o a chiari indici semantici; la Chiesa cattolica, sovrapponendosi ai riti pagani, lo calendarizza in prossimità dei due solstizi

 

Cristo sul sepolcro tra Maria e Giovanni; il Martirio di San Simonino

Nella rappresentazione del torneo cavalleresco, i Grataroli sconfiggono i nemici dimostrando il loro potere ai maggiori casati della Valle (dai Boselli ai Tasso e dai Torriani ai Rota..), raffigurati nei medaglioni dei fregi decorativi che contornano la scena nella cornice superiore delle pareti. Non è azzardato supporre che in questa camera si celebrasse l’assise del potere locale, che vedeva appunto al vertice i Grataroli.

Il torneo cavalleresco (“Giostra in campo aperto”) mostra un preciso riferimento riguardo i proprietari dell’edificio nella “gratarola” (grattugia) raffigurata sulla bardatura del cavallo che sorregge il cavaliere vincitore. L’affresco è particolarmente significativo per la non comune estensione (quasi cinque metri) nonchè per il realismo e l’immediatezza dei gesti e delle figure colte nel vivo della zuffa cavalleresca

 

La “gratarola” affrescata sulla bardatura del cavallo che sorregge il cavaliere vincitore

 

Giostra in campo aperto

 

Gli armigeri: a sinistra il Guerriero di Casa Grataroli con la gratarola affrescata sullo scudo. A destra un anonimo Guerriero con elmo, che indossa una schermatura meno coriacea, con gli schinieri che tratteggiano esili incroci di losanghe su cui, a posteriori, un Arlecchino avrebbe potuto idealmente sovrapporre la trama del suo costume. Al suo fianco, uno sbiadito galletto gli dà le spalle, vigilando col piglio di chi debba scendere in campo da un momento all’altro per difendere il motto sapienzale affrescato sopra la finestra: “lo galo non canta senza rason ma li homeni….senza rasna”, volendo probabilmente scoraggiare ogni irragionevole intemperanza e con ciò richiamando il personaggio di Arlecchino

 

Il pannello illustrativo dei due armigeri

 

Con il suo canto il gallo scandiva non solo il succedersi dei giorni ma anche i termini per chi volesse redimersi da false contraddizioni: un sigillo un po’ criptato della  personalità di Arlecchino? Anche Callot, per dare vivacità ai balli degli Zanni ripropose nelle sue incisioni gli inchini, gli assalti e le ardite ritrosie di goliardici galli in baruffa. Inoltre, già in epoca romana era sua l’esclusiva rappresentanza di quelle terre d’oltralpe che ad Arlecchino non dispiacevano per essergli state più volte prodighe di lauti guadagni

 

I santi taumaturghi: San Sebastiano e Sant’Antonio abate, rispettivamente protettori contro le pestilenze e l’herpes zoster. L’immagine isolata del leone “addomesticato” potrebbe simboleggiare il grado di inserimento dei Grataroli nelle strutture della Serenissima. I due Santi (insieme a S. Rocco), venivano invocati anche dalla comunità dei Bergamaschi immigrati a Venezia

 

Il pannello illustrativo di San Sebastiano e Sant’Antonio abate

Nella Camera Picta i Grataroli provano a loro modo a bilanciare diverse ed opposte tendenze, soppesando istanze di ragion pratica con usanze pagane e credenze religiose.

E come in una scena teatrale è sacra l’idea di autorappresentarsi per quello che si è e si vorrebbe essere, senza sfuggire a quello che la storia e gli altri diranno di noi.

SOTTILI LEGAMI TRA I GRATAROLI E GLI ZANNI

Ma tra i Grataroli che approdarono a Venezia, alcuni si dedicarono anche ad attività più comuni, come quell’Angelo Grataroli, che con la moglie Balsarina Tassis gestiva all’inizio del Cinquecento l’osteria “alla Campana” in Rialto, uno straordinario crogiolo di eccentrche diversità, la cui gestione fu bergamasca per più di un tentennio costituendo un punto di ritrovo per gli immigrati bergamaschi: lo apprendiamo da Marin Sanudo, il famoso cronista veneto che ne era proprietario (sua figlia Bianca aveva sposato Angelo Gratarol, forse nipote dell’ostessa Balsarina). Teniamolo bene a mente.

BERGAMASCHI A VENEZIA

Fra Quattro e Cinquecento molti abitanti delle varie città del dominio veneto di terraferma si trasferirono nella ricca Venezia, dove godevano dello stato di cittadini de intus, che permetteva loro di commerciare, di aprire bottega, di esercitare le professioni liberali e di avere accesso alle Arti: erano in prevalenza bergamaschi, che a Venezia formavano una comunità molto numerosa, i componenti dell’Arte della seta e quelli dell’Arte della lana, e molti garzoni bergamaschi erano iscritti in particolare alle Arti “vittuarie”, cioè legate al cibo).

Appena sopra la contrada di Oneta, il leone di San Marco apposto sul porticato laterale della chiesa di Sentino (frazione di San Giovanni Bianco), suggella il prestigio raggiunto a Venezia dalla famiglia Benzoni, particolarmente attiva nella Compagnia dei Corrieri Veneti e nel fiorente commercio della seta. L’epigrafe (1476) fu dettata da Pietro Benzoni, un fornaio titolare di un’arca funeraria nella chiesa di S. Paolo a Venezia e ricco benefattore della comunità d’origine, a dimostrazione che l’iniziativa imprenditoriale non mancava a nessuno

Del loro lavoro la città non poteva fare a meno, tanto più che avevano messo a frutto l’atavica solidarietà montanara, costituendo in laguna efficienti compagnie di lavoro e di mutua assistenza che contribuivano a garantire ai committenti risultati sicuri e soddisfacenti. Si trattava dunque di una comunità coesa ed ben organizzata, attaccata alle proprie radici e alla propria identità.

SERVITORI E FACCHINI

Dalle valli bergamasche arrivavano anche numerosi servitori e facchini addetti al trasporto di merci pesanti (tra questi i brentatori che trasportano vino) e, dal XV secolo in poi, erano tutti e solo bergamaschi gli scaricatori (bastagi) che gestivano il movimento delle merci alla Dogana di mare.

I bastagi, una quarantina alla fine del Quattrocento, sotto la supervisione di officiali nominati dai Savi della mercanzia gestivano tutte le operazioni che si svolgevano in quell’area: scaricavano le merci dalle navi, le pesavano, controllavano i colli e calcolavano l’ammontare dei dazi dovuti.

Ben retribuiti, essi godevano della fiducia delle autorità e da queste ottenevano che l’ingresso nel loro consorzio fosse riservato solo a parenti e compaesani.

Facchino da “Degli habiti antichi et moderni di diverse parti del mondo” di Cesare Vecellio (1521-1601(, stampato a Venezia nel 1589 presso Damian Zenero

DA FACCHINO A ZANNI

Come nasce Zanni, la trasposizione teatrale del facchino bergamasco inurbato a Venezia?

I numerosi valligiani brembani che si inurbavano un po’ da sprovveduti nella raffinata e opulenta Venezia erano abbastanza goffi e non c’è da stupirsi che fossero presi in giro.

Le caratteristiche che li accomunavano, entrarono a far parte della nascente letteratura popolare della laguna, dando pretesto ai motivi caricaturali ripresi nei canovacci della Commedia dell’Arte, con la tipica figura del servitore bergamasco tuttofare – rozza, sguaiata, tonta e dalla parlata rude, aspra e cadenzata – che si afferma sulla scena nel Cinquecento.

Come attori sembravano favoriti perché sapevano condire di briosità tanto i ritmi di lavoro quanto le pause di ristoro e le feste rituali ed inoltre la versatilità pressoché insostituibile del loro linguaggio ben si prestava alla comicità.

Nasce così il tipo comico dello Zanni, versione veneta del nome Gianni, vezzeggiato in Zani, molto diffuso tra i contadini del lombardo-veneto da dove venivano la maggior parte dei servitori dei nobili e dei ricchi mercanti veneziani.

Locandina nella Casa di Arlecchino a Oneta di San Giovanni Bianco. Nel Cinquecento si afferma sulla scena teatrale il tipo comico del servo bergamasco ridicolo e buffone, con il suo dialetto ostico e la sua parlata ricca di doppi sensi. Afflitto da fame insaziabile lo Zanni è campione del bere e del mangiare, impersona i bisogni fisiologici, gli appetiti sessuali, contrapposto alla vecchiaia del Magnifico, ricco e gretto mercante di cui è servitore. E chi è Zani, se non il tipico contadino brembano, costretto dalla miseria e dalle carestie ad emigrare nella città lagunare (di cui Bergamo è suddita dal 1428), in cerca di lavoro e di fortuna?

 L’OSTERIA “ALLA CAMPANA” IN RIALTO, DI ANGELO GRATAROLI DI ONETA

Marin Sanudo ci fa sapere che nell’Osteria “alla Campana” in Rialto, gestita dal brembano Grataroli con la moglie Balsarina Tassis (poi rimasta vedova), si davano convegno le Compagnie della Calza, formate da giovani patrizi che organizzavano feste, spettacoli di piazza e cerimonie ufficiali della Serenissima, dove i facchini bergamaschi che lavorano a Venezia trasportano e facevano muovere i cavalli di legno, gli animali fantastici, gli apparati scenici, partecipado, a volte, alla messa in scena con balli e canti.

Ed è forse questa loro attività che li lega alla maschera, perchè in quelle occasioni si promuovevano anche recite di commedie alla villanesca e alla bergamasca (poi divenute un vero e proprio genere teatrale, non più patrimonio esclusivo dei bergamaschi), con attori che si facevano apprezzare nell’interpretazione buffonesca dei facchini bergamaschi, al centro della satira popolare (3).

Punto di ritrovo per la comunità dei bergamaschi erano le osterie gestite dai compaesani, come quella all’insegna della Campana, a Rialto (dove i mercanti bergamaschi e veneziani acquistavano le merci pregiate provenienti da tutto il Mediterraneo), condotta per molti anni dalla vedova di Angelo Grataroli. Un’incisione di Giovanni Ambrogio Brambilla (1583) ritrae una “generosa” Balsarina, intenta a dirigere la cucina per il pasto de Zan Trippù (nel suo abito da facchino brembano) quando prese moglie. Il gioco scenico mette a fuoco quella perspicace  femminile che più tardi suggerirà a Goldoni la fortunata trama de “La Locandiera” dove un’ostessa di polso tiene le strette redini del comando dopo che Goldoni ha nobilitato la figura della donna nel teatro

Troviamo quindi un’altra connessione, questa volta reale e concreta, tra i Grataroli e Zanni, il padre putativo di Arlecchino, personaggio dal quale Tristano Martinelli attinge largamente nella Francia del Cinquecento, dove dà forma alla celebre maschera.

DA ZANNI AD ARLECCHINO

Zanni in Francia assume un nuovo nome e si arricchisce nella personalità attraverso la maschera di Arlecchino, che tuttavia ne mantiene i caratteri e le radici.

Harlequin. Incisione francese sec. XVII, nella Casa di Arlecchino a Oneta di San Giovanni Bianco. Come osservato qui, la maschera di Arlecchino è nata dal mantovano Tristano Martinelli che ha operato una sorta di “fusione” tra la maschera dell’Hellequin francese (prendendo il nome a prestito da saghe leggendarie) e quella dello Zanni bergamasco

E se Arlecchino se ne va per conto suo in giro per l’Europa, a Venezia conserva il codice genetico, che prevede l’uso del Bergamasco, “in parte per la rustica assonanza con le origini del tipo e in parte per l’effetto comico di chi s’arrabattava a districarne i suoni con l’ausilio di una vivace mimica espressiva” (4).

La prima stanza del museo, dedicata alla maschera di Arlecchino, a Oneta di San Giovanni Bianco. Non possiamo negare intraprendenza, la tenacia e l’affiatamento solidale dei Bergamaschi, che sognano di poter restare per sempre a Venezia…senza però dover lavorare: non è questa la molla, l’intuizione scenica che farà la fortuna di Arlecchino in tutto il mondo?

Del resto, quando Martinelli approda in Francia, il personaggio di Zanni era già stato ampiamente sdoganato da attori come Alberto Naselli (Ferrara 1543-1585), uno dei primi capocomici della Commedia dell’Arte, di molta fortuna e vasta notorietà, che incontriamo per la prima volta come Zan Ganassa (un’intrigante declinazione di Zanni, scaturita dalla volontà di “dare spasso” e far smascellare – sganassare – dalle risa) nella primavera del 1568 alla corte del duca di Mantova, divenendo famoso presso le corti di Francia e Spagna dove Naselli sfruttò abilmente le caratteristiche emergenti dello zanni bergamasco, che aveva dalla sua il fascino della novità, cui si aprivano varchi altrimenti inaccessibili.

Affermato mediatore tra gli umori di piazza e le raffinatezze di corte, Zan Ganassa danzava alla bergamasca e parlava il “bergamasco internazionale” degli Zanni i servitori bergamaschi che allora affollavano la città lagunare, di cui esisteva una florida letteratura, riecheggiante l’eloquio brembano, a partire dallo spassoso lamento di Alberto Ganassa sopra la morte di un pidocchio, “di lingua bergamasca ridotta nella italiana toscana”, raccolto da Cesare Rao nelle sue “argute e facete lettere” (Brescia, 1584).

Il Museo della Casa di Arlecchino conserva una selezione di maschere dei personaggi della Commedia dell’Arte. Restaurata tra la fine degli anni ’80 e ’90, la casa è stata oggetto di un’accurata operazione di recupero storico-museale che avvalora la tradizione brembana della maschera. Attualmente è gestita dalla cooperativa OTER-OrobieTourism

Sia lo Zanni del ferrarese Alberto Naselli e sia l’Arlecchino creato dall’attore mantovano Tristano Martinelli appartengono al mondo degli “Zani”, diventando famose in tutta Europa.

Del resto lo stesso Goldoni, esaltando l’utilizzo del dialetto e fissando i caratteri delle maschere principali, induce Arlecchino e Brighella ad adottare definitivamente la lingua ufficiale della capitale della Repubblica: il dialetto veneziano, scrivendo: “Le Pantalon a toujours été Vénitien, le Docteur a toujours été Bolonnois, le Brighella et Arlequin ont toujours été Bergamasques”: l’assenza di documenti che possano comprovare la validità del rapporto tra Bergamo e Arlecchino non può quindi invalidare il perdurare di una tradizione indiscussa e consolidata, avvalorata persino dall’autorità di Goldoni (5).

I MALINTESI RIGUARDO ALBERTO NASELLI IN ARTE ZAN GANASSA…CON SORPRESA

Una radicata tradizione, riferita nell’Ottocento da Ignazio Cantù (non si sa bene sulla scorta di quale fonte), vuole che nella casa di Oneta sia vissuto per qualche tempo il ferrarese Naselli/Zan Ganassa, a lungo creduto erroneamente l’ideatore della maschera di Arlecchino nonchè nativo di Bergamo (e c’è chi lo crede tuttora se dobbiamo dar conto persino di una tesi di laurea, recentemente consultata dalla scrivente), dando luogo all’ipotesi secondo la quale egli sarebbe vissuto nel palazzo di Oneta.

Il termine “ganassa” del resto – afferma Eliseo Locatelli – è così bergamasco da aver tratto a lungo in inganno molti studiosi e critici che lo hanno ritenuto il vero cognome di Zanni, anche perchè nei paesi di Valle Brembana c’era davvero chi rispondeva all’appellativo anagrafico di Ganassa (6).

La vicenda che legherebbe Naselli ad Oneta però riguarda la sua definitiva uscita di scena seguita alla brillante permanenza in Spagna, che Naselli abbandona senza un motivo apparente nel 1584 – all’età di 42 anni – per tornarsene ricco e famoso in Italia, dove se ne perdono immediatamente le tracce.

Una voce lo vorrebbe rifugiato in terra bergamasca nella patria degli Zanni, sotto la protezione di qualche signorotto locale che ne avrebbe custodito l’anonimato: un’ipotesi che non escluderebbe la candidatura della casa di Oneta, nei pressi della quale – udite, udite – tra le insenature dei boschi sovrastanti si trova la località di Nasèi, il cui toponimo potrebbe appunto tradire la sopravvenuta agnazione (legame di parentela in linea maschile, tra i discendenti maschi dello stesso padre) dei Naselli.

Un caso, una coincidenza?

Resta il fatto che i ricercatori non sono riusciti a trovare a Ferrara nessun atto di morte o di successione che lo riguardasse (7).

Carica di queste memorie e di queste considerazioni, la Casa di Arlecchino, pur non potendo rivendicare la naturalità anagrafica della maschera bergamasca, si pone a crocevia di un lungo processo di sedimentazione dei presupposti ambientali e culturali che ne animarono il personaggio, rendendolo protagonista nei teatri di piazza e di corte.

L’UOMO SELVATICO NELLA CASA DI ONETA: UNA NON CASUALE MATRICE ANTROPOLOGICA

Sopra le scale d’ingresso del palazzo, nella sua collocazione originaria attira la nostra attenzione la curiosa figura affrescata di un uomo rude e vestito di pelli che brandisce un bastone, minacciando di prendere a randellate eventuali malintenzionati.

Si tratta probabilmente dell’opera di un buon pittore locale della fine del Cinquecento (quindi coeva o leggermente posteriore rispetto agli affreschi della Camera Picta), il cui originale è oggi custodito all’interno del palazzo, nella cucina.

L’affresco dell’Uomo Selvatico, posto all’ingresso del palazzo. La funzione attribuitagli era quella di sorvegliare, proteggere e difendere i padroni di casa

Gli studiosi lo fanno risalire all’Homo Selvadego, un mito di retaggio celtico, le cui radici sono riconducibili alla preistoria indoeuropea; una figura ancestrale diffusa in entrambi i versanti delle comunità alpine (compresa la montagna bergamasca), la cui immagine veniva talvolta raffigurata all’interno o all’esterno delle case, a scopo apotropaico o intimidatorio (anche Bartolomeo Colleoni aveva il suo “selvatico” presso il castello a Malpaga).

Il Selvatico raffigurato ad Oneta (un esempio unico nella Bergamasca),  potrebbe anche tramandarci le sembianze di un proprietario della casa, fattosi raffigurare con i tratti del selvatico per simboleggiare il suo attaccamento alla cultura alpina.

L’espressione del volto lascia trapelare una forte intensità di sguardo. Capelli e barba sono irsuti e rossicci ed anche il corpo è avvolto da un manto villoso. In basso si intravede un paesaggio rurale, mentre in alto, l’intenso blu del cielo è attraversato da bande di nuvole corrugate, quasi a voler disegnare inquietanti visioni oniriche e a dare conferma dell’ammonizione dell’homo selvadego scritta in un cartiglio nella parte superiore della rappresentazione: “Chi no è de chortesia, non intrighi in casa mia. Se ge venes un poltron, ghe darò del mio baston”.

Ad Oneta il Selvatico sembra pretendere l’osservanza della “chortesia”, una vera e propria adesione alle regole ferree di quel torneo “cortese” che sancì la supremazia dei padroni di casa. Secondo l’uso del tempo, non era poi un’idea inconsueta e strana quella che il Selvatico, come custode dell’autorità dei Grataroli, presiedesse ad eventi augurali e a cerimonie di consacrazione del potere dinastico

Essendo il palazzo situato lungo la trafficata Via Mercatorum, era opportuno che i viandanti fossero ammoniti a non bussare alla porta senza una valida ragione: quale migliore immagine di quella dell’uomo selvatico per tenere lontani gl’importuni e i seccatori? E chi meglio di lui, che aveva confidenza con la magia, poteva salvaguardare la casa dagl’influssi maligni? (8).

La Via Mercatorum dalla Camera Picta, con il portico d’ingresso della chiesa

 

L’affresco originale dell’Homo Selvadego, conservato nella cucina della Casa di Arlecchino

 

Particolare dell’Uomo Selvatico nella Casa di Arlecchino a Oneta.

Nella Bergamasca, dove è chiamata òm di bosch, la figura dell’Homo Selvadego è testimoniata da centinaia di leggende raccolte in tempi diversi a Cirano di Gandino, a Cà San Marco, a Santa Brigida, a Gromo, a Selvino e in Val Taleggio.

L’uomo selvatico è una metafora della natura, della vegetazione che nasce e che muore, degli animali che vanno in letargo e si risvegliano. La sua presenza è da ricondurre nelle grotte e negli anfratti inaccessibili, in luoghi isolati di montagna come il bosco. Parlava in rima ed amava i proverbi e conosceva i segreti della natura: era un esperto pastore e un maestro dell’arte casearia (quella che più di altre permetteva di sopravvivere nei territori più aspri ed isolati); era depositario di conoscenze antiche per la conservazione dei cibi e delle carni, il ricorso alle erbe medicinali, l’apicoltura, il taglio dei boschi, la produzione delle carbonaie, l’estrazione dei minerali e la forgiatura dei metalli.

Nelle rappresentazioni più antiche, il Selvatico è spesso raffigurato anche con corna di animali: i mandriani che frequentavano i pascoli di Mezzoldo, di Cà San Marco e della Val Gerola, narravano la leggenda del Gigiàt, l’uomo dei boschi, in un tempo in cui vi era pacifica convivenza fra il selvatico e il civile. Il passo che separa la Val Brembana dalla Valtellina è tuttora detto Pass de l’Umì (9)

Fu associato a una figura terribile a cui ricondurre le paure, ma fu anche simbolo dell’armonia uomo-natura collocandosi tra l’umano, il selvaggio e il divino. L’Homo Selvadego può essere ricondotto ad alcuni archetipi come il dio Pan, uomo-capro divinità dei pastori e delle greggi; i Satiri, esseri mitologici dalle gambe caprine, coperti di pelo e abitatori dei boschi; il dio Silvano, dio dei boschi, delle campagna e degli armenti; Ercole, eroe dalla grande forza considerato custode e difensore di case e città.

Con l’affermarsi del cristianesimo le divinità della natura furono rilette alla luce delle nuove esigenze culturali e pedagogiche. Alcuni soggetti religiosi furono associati agli ambienti silvestri e nella mentalità popolare mantennero i caratteri dell’Homo Selvadego, creando una confusa sovrapposizione di poteri e ruoli.

Basti pensare alle figure degli eremiti come Sant’ Antonio abate o Sant’ Onofrio spesso rappresentati coperti di pelle di animali oppure irsuti, che ben si adattavano ad essere confusi con l’Homo Selvadego per il tipo di vita che conducevano.

A Santa Brigida esiste un’altra raffigurazione del Selvatico, datato 1478, che veste i panni di S. Onofrio provato da 70 anni di vita nel deserto, opera dei Baschenis di Averara. Quindi anche da noi, attraverso la pittura si è diffusa la simbologia dell’Uomo Selvatico nel delicato equilibrio che corre tra fede e paganesimo, tra scienza e credenze, tra mito e storia

Di nuovo a firma dei Baschenis l’Uomo Selvatico è presente a Sacco di Cosio Valtellino, in Val Gerola, dove non esita a presentarsi: “Ego sonto un homo salvadego per natura chi me offende ge fo pagura”, e tutto intorno sparge massime di saggezza popolare come quella che ad Oneta caratterizza il canto del gallo.

Egli appare accanto al tema devozionale della Pietà, che vede  raffigurati San Giovanni Evangelista e Sant’Antonio abate nella classica iconografia di rustico eremita che verrà ripetuta anche a Oneta.

Già nel 1464 Batestinus e Simon Baschenis avevano firmato a Sacco, all’imbocco della Val Gerola la camera picta di Casa Vaninetti dove accanto  compare la figura del Selvatico

Anche altri santi furono associati all’Homo Selvadego, come San Cristoforo, santo diffuso e venerato nelle vallate alpine, abitante dei boschi, generalmente dipinto sulle facciate delle chiese a protezione dei viaggiatori, come ad Oneta, dove lo vediamo raffigurato sul porticato della chiesa del Carmine, fatta costruire intorno al 1473 dalla famiglia Grataroli: un omone grande e grosso che guada i fiumi con Gesù Bambino sulle spalle, posto a protezione dei viandanti della Via Mercatorum.

Ad Oneta il Selvatico assume così i toni rassicuranti del Santo, a sostegno dei vivi che dovevano affrontare viaggi lunghi e pericolosi.

L’affresco di San Cristoforo sulla parete della chiesa di Oneta

Del mito dell’uomo selvatico in Bergamasca, chiamato pagano perché verosimilmente legato ad antichi culti precristiani, cogliamo solo qualche debole frammento sopravvissuto a un occultamento, ad una cancellazione avvenuta molto tempo fa e ferocemente perseguita dall’uomo civile, che l’ha demonizzato espropriandolo giorno dopo giorno del suo territorio.

Ed è proprio in questo vasto processo di emarginazione che si è ravvisato un rapporto tra il Sevatico e la figura dell’ Arlecchino delle origini – caratterizzato da una goffa e istintiva animalità – entrambi ridicolizzati e irrisi per i loro aspetti grotteschi: le strane foglie che tappezzano l’abito del primo Arlecchino (quello di Tristano Martinelli), secondo Dario Fo “le ha l’uomo selvaticus, l’uomo della foresta, che era un’altra maschera soprattutto di tutta l’Europa centrale. Allora niente a che vedere con il discorso dell’Arlecchino con le toppe, questo viene molto più tardi..” (10).

Antica maschera arlecchinesca. Parigi, Grand-Opéra. Se nell’Arlecchino di oggi possiano svelare l’impronta originaria dello Zanni, questi è a sua volta debitore delle riminiscenze inferiche del Selvatico, le cui connessioni antropologiche con la maschera di Arlecchino sono parte di un lungo processo, frutto di continui e molteplici contributi

In effetti, ”il batocio ligneo che gli pende al fianco richiamerebbe il bastone del selvatico, l’abito versicolore rimanderebbe ai riti pagani del risveglio primaverile della natura feconda: chi apriva la processione nei campi si adornava di strisce di stoffa di vari colori onde propiziare lo sbocciare dei fiori (11), allo stesso modo con cui il Selvatico strepitava nei roghi marzolini  per i germogli di primavera.

I roghi marzolini?

Nelle economie rurali i roghi di fine inverno coincidevano con il bisogno di bruciare le sterpaglie accumulate; la cenere avrebbe fertilizzato i campi da cui, al tiepido sole di primavera, sarebbero spuntati i primi fili d’erba.

Ma prima di spegnersi i fuochi disegnavano nell’aria le forme più strane e tutti ne traevano auspici che concordavano o meno con sopite credenze pagane. Le impressioni più strane restavano comunque un segreto che ognuno custodiva con la speranza o il terrore che si avverasse.

Quando i roghi vennero  inquadrati in forme di costumanza sociale, anche per arginare possibili devianze malefiche questi passarono dai campi alle piazze dove, nei ritmi incalzanti del carnevale, le fiamme presero ad avvolgere fantocci di paglia e stracci (simboleggianti il Selvatico/òm di bosch), che dovevano rappresentare i mali dell’inverno: un allettante invito a scrollarsi di dosso malaugurati sortilegi (e propiziare l’avvento primaverile come promessa di abbondanti raccolti), che al ritmo di balli infuocati sarebbero stati inghiottiti dalle fiamme che anticipavano l’imminente digiuno quaresimale.

A Bergamo, nelle manifestazioni popolari e propiziatorie di Mezza Quaresima la figura dell’òm di bosch è tuttora presente nel rogo sacrificale della Vecchia, mentre un tempo, nella piazzetta del Delfino veniva bruciato il fantoccio del pòer Piéro

I roghi, passati ormai alle piazze, sono preceduti dalla lettura del bando con cui il Selvatico-Arlecchino bacchetta tutto quello che di volta in volta non va per il verso giusto.

A San Giovanni Bianco, la sopravvissuta ritualità del Selvatico culmina con il Rogo di Arlecchino, celebrato la sera del Martedì Grasso, ultimo giorno di carnevale

ALLARGANDO LO SGUARDO D’INTORNO 

Se la Casa di Arlecchino è il principale investimento di attrazione turistica di Oneta, basta allargare lo sguardo per scoprire che le potenzialità del borgo vanno ben oltre.

La porzione affrescata sopra San Cristoforo

Guardiamoci intorno: lo splendido borgo, formato da un grumo di case accoglie il visitatore in un’atmosfera d’altri tempi, con le vie porticate sulle quali si affacciano portali in pietra e ballatoi in legno rusticamente intagliati.

La piazzetta di Oneta, sulla quale si affaccia la Casa di Arlecchino a ridosso della quale, fino a pochi anni fa,  abitava più di una famiglia Zani, col cognome bene in vista sulla porta d’ingresso

 

Il lato di palazzo Grataroli (Casa di Arlecchino), collocato lungo il viottolo selciato della Via Mercatorum. Il piano terra del palazzo ospita una suggestiva Taverna-Osteria

La chiesa del Carmine, fatta costruire dai Grataroli e intitolata inizialmente alla Natività di Maria, con il suo grande e già osservato San Cristoforo, posto a protezione dei viandanti della Via Mercatorum.

La chiesa e il portico affrescati di Oneta, accanto alla Casa di Arlecchino

Stretta tra le viuzze e i selciati pietrosi, la piccola chiesa custodisce due tele di Carlo Ceresa (XVII secolo) e pregevoli affreschi eseguiti dai pittori erranti della Val Brembana, divenuti famosi in tutta Europa.

Interno della chiesa del Carmine, un edificio quattrocentesco che ha mantenuto, malgrado successive trasformazioni, buona parte delle strutture originarie, come la torre campanaria

 

Affresco del XV secolo nella chiesa di Oneta – Ph. Tarcisio Bottani

 

Carlo Ceresa, “Madonna del Carmelo” nella chiesa di Oneta – Ph. Polo Culturale Mercatorum e Priula

 

Carlo Ceresa, “Natività della Vergine” nella chiesa di Oneta – Ph. Polo Culturale Mercatorum e Priula

Sotto alla Casa di Arlecchino vi è poi una Taverna, che invita il visitatore a deliziarsi con prodotti locali di altissima qualità: provare per credere.

I portici di Palazzo Grataroli, oggi “Taverna di Arlecchino”

LA VALLE BREMBANA, UNA VALLE APERTA ALLE INFLUENZE EUROPEE 

La visita al borgo offre innumerevoli possibilità in uno scenario insolito e ricco di bellezze tutte ancora da scoprire, offrendo suggestivi spunti anche dal punto di vista escursionistico proprio grazie alla sua felice collocazione lungo la Via Mercatorum,  dove transitavano i mercanti che risalivano le valli verso i Grigioni e il Nord Europa, prima che venisse realizzata la Strada Priula.

Palazzo Grataroli (Casa di Arlecchino) e uno scorcio dell’antica Via Mercatorum, il cui declino cominciò al termine del XVI secolo quando la Repubblica di Venezia costruì la via Priula per questioni militari e per migliorare i propri commerci con la Valtellina. La via Mercatorum però non fu mai totalmente abbandonata, tanto che ancora oggi sono percorribili lunghi tratti di questa strada, a volte addirittura inglobati nella viabilità ordinaria

 

Sulle pareti esterne della “Casa di Arlecchino” un leone sorregge la “gratarola”

Lungo questa strada, percorribile da carovane di muli, i viandanti potevano trovare ospitalità e ristoro nelle stazioni che si trovavano presso Trafficanti, Serina, Cornello (luogo di mercato), Piazza Brembana, Averara e il valico di S. Marco.

La Via Mercatorum, un’articolata rete di sentieri che si sviluppavano in quota, già attivi ai tempi dell’impero Romano e meglio delineati nel medioevo, collegava Bergamo alla Valtellina salendo dalla bassa Val Seriana: da Monte di Nese la vecchia cavalcatoria (percorribile solo con le cavalcature o a piedi) raggiungeva la Valle Brembana passando per Selvino, Serina e Dossena (in cui era presente la prima pieve della Valle che ebbe il ruolo di chiesa battesimale per tutto il territorio brembano) e da lì raggiungeva Cornello, sede dell’unico mercato della media Valle Brembana fino alla prima metà del XV secolo.  A partire dal Cinquecento iniziò la sua decadenza, causata dalla costruzione della Strada Priula, il nuovo asse viario da Bergamo alla Valtellina, costruita a partire dal 1592

Dopo aver percorso suggestive borgate, una volta raggiunta Oneta il tracciato prosegue, ben conservato, verso Cornello dei Tasso, in età medioevale sede di un importante mercato (testimoniato dal percorso porticato) e luogo di passaggio obbligato in quanto cerniera fra la bassa Valle Brembana, e la valle ‘Oltre la Goggia’.

L’edificio porticato che s’incontra uscendo da Oneta in direzione Cornello dei Tasso, lungo la Mercatorum

 

La Via Mercatorum ad Oneta, sulla strada per Cornello dei Tasso, raggiungibile tramite una bellissima passeggiata di 30/50′. L’itinerario, lungo il quale è possibile rifornirsi di acqua potabile, è  percorribile anche in mountain bike

Lungo il facile tragitto, prevalentemente pianeggiante, si attraversano prati e boschi d’incanto, ruscelli e cappelle, fino a che il sentiero selciato, oltrepassato  un ponticello raggiunge il culmine del dosso sul quale sorge la piccola chiesa di Sant’Anna – posta a circa metà percorso – in contrada Piazzalina.

Le ampie praterie che anticipano la contrada Piazzalina

 

La piccola chiesa di S. Anna in contrada Piazzalina, a circa 20 minuta da Oneta

Dalla chiesa di Sant’Anna il percorso prosegue in discesa, attraversa la Valle dei Mulini e giunge al borgo di Cornello dei Tasso.

A una trentina di minuti da Oneta, dalla Valle dei Mulini spunta il campanile della chiesa di Cornello dei Tasso, il borgo che ha dato i natali alla celebre famiglia a cui si deve l’organizzazione del servizio postale moderno e dalla quale discende il poeta Torquato Tasso

 

La via acciottolata diretta al borgo di Cornello dei Tasso

Una volta raggiunto il borgo di Cornello è possibile seguire un nuovo itinerario che si snoda lungo le contrade legate alla famiglia Tasso (e non solo), o proseguire lungo la Via Mercatorum verso i passi e le antiche dogane venete, che pongono questa valle come punto di riferimento per tutti gli antichi commerci e scambi culturali dell’Italia con il resto d’Europa: potrete così  immaginare, volendo, anche le carovane delle compagnie comiche itineranti della Commedia dell’Arte.

Sono davvero tanti i borghi, le cascine, le chiesette, i grumi di case e le contrade che questi luoghi verdissimi e silenziosi offrono al visitatore desideroso di armonizzarsi con un contesto dove il tempo pare essersi fermato: le bellezze di Oneta e dei suoi dintorni, ricchi di preziose valenze storiche, paesaggistiche e naturalistiche, valgono ben più di una visita ed è sicuro che ne rimarrete contagiati.

CULTURA E TURISMO 

La Casa conserva una selezione di maschere dei personaggi della commedia dell’arte e ospita, dal 2015, un teatro stabile di burattini della Compagnia del Riccio, in cui sono messe in scena brevi storie in occasione delle visite guidate delle scolaresche e di eventi particolari. Funge da palcoscenico naturale per numerose rappresentazioni legate al festival teatrale tematico dal titolo “Le Vie della Commedia”, che si svolge ogni anno, da Luglio ad Agosto, nell’intento di riscoprire e consolidare le vere potenzialità artistiche e storiche della  Valle. E’ inoltre in procinto di ospitare la preziosa tradizione Ottocentesca e Novecentesca dei Burattini Artigianali della Valle Brembana, in collaborazione con l’Università di Bergamo, la Fondazione Benedetto Ravasio dei Burattini storici bergamaschi ed altri enti di ricerca e documentazione.

Il Museo è inoltre sede di laboratori didattici e di visite guidate (riconducibili a diversi itinerari, ad esempio verso il borgo di Cornello o Dossena), seguendo la Via Mercatorum. Laboratori e visite guidate sono organizzati dal Polo Culturale “Mercatorum e Priula / vie di migranti, artisti, dei Tasso e di Arlecchino”, nato nel 2015 da una convenzione firmata dai Comuni brembani di Camerata Cornello, San Giovanni Bianco e Dossena per valorizzare i beni artistici, architettonici, storici, ambientali del territorio.

Note

(1) Secondo le fonti dell’Archivio Storico di Bergamo, nel 1310 è console a San Giovanni Bianco Guglielmo de Gratarolis e nel 1313 si conferma nello stesso ruolo un tale Pasino de Gratarolis (Eliseo Locatelli, Arlecchino che parla bergamasco. Ed. Corponove, Bergamo, 2016).

(2) Gli annali della Serenissima registrano nel 1640 Gerolamo Grataroli come segretario del doge Francesco Erizzo ed altrettanto sarà nel 1691 per Pietro Antonio Grataroli, nominato segretario del doge Francesco Morosini (Eliseo Locatelli, Op. cit.).

(3) Il Cinquecento e l’età veneta.

(4) Eliseo locatelli, Ibidem.

(5) Il teatro comico

(6) Per gli atti dell’archivio parrocchiale di Serina, “Ganassa” era il vero cognome; per altri era semplicemente un soprannome (come Buratinus e Maschera – degni di altrettanti etimi zanneschi – estrapolati da T. Salvetti dalle carte del notaio sangiovannese Giovan Francesco Raspis, della prima metà del Cinquecento (Eliseo Locatelli, Op. cit.).

(7) Eliseo locatelli, Ibidem.

(8) Umberto Zanetti, Il mito dell’Uomo Selvatico nella montagna bergamasca.

(9) Umberto Zanetti, Ibidem.

(10) A cura di Rosanna Brusegan, Premessa di Dario Fo, in “La scienza del teatro – Omaggio a Dario Fo e Franca Rame” – Atti della Giornata di Studi (Università di Verona, 16 maggio 2011). Bulzoni Editore, 2013.

(11) Umberto Zanetti, Ibidem.

Bibliografia e sitografia

Tarcisio Salvetti San Giovanni Bianco e le sue contrade Ferrari Editore

Felice Riceputi, Storia della Valle Brembana. Dalle origini al XIX secolo, Corponove, Bergamo, 2011.

Eliseo Locatelli, Arlecchino che parla bergamasco. Ed. Corponove, Bergamo, 2016.

Umberto Zanetti, Il mito dell’Uomo Selvatico nella montagna bergamasca.

A cura di Maria Mencaroni Zoppetti et al., Il Cinquecento – Bergamo e l’età veneta. Sestante Edizioni, Bergamo, 2012.

Alle radici di Gioppino, la maschera squisitamente bergamasca

Diversamente da Arlecchino e da Brighella, maschere “internazionali” e d’alto lignaggio che ormai da tempo parlano il dialetto veneziano, Gioppino appartiene alla più genuina tradizione popolare bergamasca dalla connotazione local e “sovranista”: coerente con sé stesso, ha sempre parlato il dialetto della sua terra ed è rimasto un popolano fiero, sagace, patriota e religioso.

Gioppino e Arlecchino in una cartolina del 1907 (Raccolta privata Luigi Angelini)

Gioppino fa la sua comparsa proprio quando, con i moti degli anni trenta dell’800, il popolo bergamasco non si identifica più in Arlecchino ed in Brighella e reclama un nuovo eroe, che presto diventa popolare per il tenace spirito d’indipendenza e per l’abitudine a risolvere ogni contesa a suon di randellate.

Il suo abito verde con bordature rosse – chiaro riferimento ai colori della bandiera italiana – gli fa assumere esplicitamente toni a favore degli ideali risorgimentali e critici nei confronti del potere costituito rappresentato dagli stranieri invasori: gli Austriaci.

Cartolina del 1930 (Raccolta privata Luigi Angelini). L’abito di Gioppino si compone di una giubba di grosso panno verde bordata di rosso (come il cappello, al quale è aggiunta una fettuccia volante), pantaloni verdi alla zuava, una camicia bianca aperta fino a scoprire il ventre, calzettoni rigati bianchi e rossi e scarponi ai piedi. Porta sempre con sé il suo bastone, pronto a distribuire botte ai prepotenti

Da noi assume una tale popolarità da designare con il suo nome i burattini in generale, e grazie al poeta Pietro Ruggeri da Stabello (1797-1858), che Luciano Ravasio definisce il “promoter di Gioppino”, “la figura del burattino trigozzuto e l’aggettivo ‘gioppinorio’ diventano l’equivalente di tutto ciò che è bergamasco (1).

Pietro Ruggeri da Stabello (1797-1858)

Proprio grazie a un suo componimento del 1842 (“Gran sògn gioppinorio”), apprendiamo che la sua patria è Zanica (Sanga), che ha compiuto quarant’anni, vanga, zappa e fa il facchino.

E’ nato da Bortolo Söcalonga e Maria Scatoléra; ha un fratello, Giacomì, mentre la moglie si chiama Marietta detta Margì (che ama, anche se non disdegna la compagnia di altre donne) e dalla loro relazione nasce il Bortolì de Sanga detto anche Pissambràga. I suoi nonni materni sono Bernardo e Bernarda.

La famiglia gioppinoria in una deliziosa cartolina dei primi del Novecento

Ciò che lo rende immediatamente riconoscibile sono i tre grossi gozzi che gli deformano il collo e che egli chiama orgogliosamente “granate” o “splendidi coralli”, ostentandoli non come un difetto fisico ma come veri e propri gioielli o persino come un blasone di famiglia, che vorrebbe tramandare al figlio.

Considera i suoi gozzi le sedi della propria sapienza e ne fa motivo di lazzi e argute trovate, suscitando ilarità: “L’è la tropa inteligènsa chè la ga stàa mia ‘ndèl sèrvèl, è alura ol Padre Eterno al ma la mètida chè sota”.

Questa caratteristica, creduta erroneamente causata da cretinismo, è dovuta all’ingrossamento della ghiandola tiroidea, provocato da un’alimentazione povera di sali iodio, malattia un tempo molto diffusa nella Bergamasca per effetto della denutrizione.

Curiosamente, anche se non c’è nessuna connessione, la malformazione di Gioppino è stata spesso associata allo stemma araldico della famiglia di Bartolomeo Colleoni, che in analogia con il patronimico raffigura nientemeno che tre testicoli, divenuti simbolo del potere, della virilità e della forza militare del condottiero che nel Quattrocento fu a servizio di Venezia.

Mè i me ciama tocc Giöpì, ma ‘l mé nò,m l’è Giosepì/Fiöl del Bòrtol Söcalonga e Maria Scatolera, cera gnöca/maritat a Margi e con ü fiöl de nom Bortolì/So de rassa bergamsca/che la sgòba e la trabasca/I mestér i fò ‘mpó töcc/meno chèi ch’i me fa fadiga/fó ‘l possibel de fai miga/Per l’onùr del Coleù/gh’ó tri góss sóta ‘l crapù/Galantòm del có zó ai pé/mé robàt ó mai del mé/ma se ‘ncóntre quach balóss/col tarèl ghe rómpe i óss/Mange ‘nguàl sènsa fermàm/e piö mange sènte fam/‘n quanto al còrp, a ‘ndó gran bé/tat denàcc come dedré/Se öri vèdem a mangià, invidém qualch dé a disnà!

Oltre ai gozzi, ciò che lo rende facilmente riconoscibile è la corporatura tozza e robusta, con quel faccione rubicondo e gioioso su cui si dipinge una bocca spalancata in un costante sorriso.

Incarna il classico contadino sempliciotto, amante delle donne, del vino e del buon cibo, rozzo nei modi e nel linguaggio e pronto a suonarle di santa ragione ai prepotenti e a chi cerca di ostacolare i suoi piani, anche se in fondo è di buon cuore ed è sempre protettivo verso i deboli e gli oppressi.

Polènta e osèi, salame, cotechini e buon vinello: il cibo preferito di Gioppino 🙂

Se la tradizione legata alla maschera di Arlecchino e Brighella nasce con la Commedia dell’Arte verso la fine del Cinquecento, non possiamo che chiederci da dove spunti la figura di Gioppino, la cui tradizione sembra essersi radicata nel corso dell’Ottocento con la tipica figura del “burattino gozzuto, tarchiato e rozzo, famelico e beone, fannullone e bastonatore” (2), che appare negli spettacoli burattineschi di Piazza Vecchia, in piena dominazione austriaca.

Locandina del burattinaio Carlo Sarzetti in Bergamo Alta

 

Eppure sembra comparire qualcosa di molto simile già nel 1531, quando il pittore Fermo Stella realizza il grande affresco della Crocefissione, conservato presso la chiesa di S. Bernardino a Caravaggio dove, ai piedi della croce compare un soldato dal viso grottesco e dal petto scoperto, che innalza verso il Cristo una lancia sormontata da una spugna intrisa di aceto: il milite esibisce tre grossi gozzi (patologia notoriamente orobica) e una stupefacente somiglianza con Gioppino.

Tramezzo centrale della chiesa di S. Bernardino a Caravaggio: la “Crocefissione” di Fermo Stella, realizzata nel 1531

 

La “Crocefissione” di Fermo Stella, realizzata nel 1531

Probabilmente Fermo Stella, caravaggino soggetto a Milano, affida tale compito a un bergamasco perchè Milano è acerrima nemica dell’avamposto “venetorobico” (3).

Particolare della “Crocefissione” di Fermo Stella nella chiesa di S. Bernardino a Caravaggio. Negli anni Trenta, Sereno Locatelli Milesi sostenne che si trattasse della più antica raffigurazione di Gioppino

 

Uno spettacolo del burattinaio Carlo Sarzetti sul colle della Maresana, subito dopo la Seconda guerra mondiale. L’autore dello scatto è Diego Lucchetti, padre del noto fotografo e collezionista bergamasco Domenico

Sempre nel Cinquecento, ritroviamo un altro possibile riferimento a Gioppino in un sonetto bergamasco (inneggiante vernaccia e casoncelli), dove non manca un’allusione a un certo Jopilach (4).

Nel Carnevale del 1662 descritto dall’abate Angelini compare poi un certo Tone, i cui segni distintivi, le salsicce e il fiasco di vino in mano, ricordano molto da vicino quelli della maschera di Gioppino: “chi si traveste, al nostro dir, da Tone con la salsiccia e con un’otre in mano, parla milenso e gira dondolone” (5).

1928: l’orchestra dei “Gioppini” di Redona

Ma se vogliamo esagerare e scavare ancor di più alla ricerca del suo “progenitore ancestrale”, dobbiamo rivolgerci ancora una volta al mito dell’Uomo Selvatico (“om di bosch” nella Bergamasca) descritto da Umberto Zanetti, il quale afferma che al di là dell’aspetto esteriore di Gioppino, che risponde a quella dei contadini dei tempi andati e che del selvatico conserva ormai solo l’inseparabile bastone (cui dovette aggiungersi il gozzo per colmo d’irrisione), “il suo contegno, le sue ingenuità, la sua rustica semplicioneria frammista ad insospettabili soprassalti d’astuzia, le sue improvvise accensioni, le sue ironie, il proverbiale appetito, l’incondizionata ammirazione per il gentil sesso sono tutti tratti distintivi derivati dal selvatico. Si è sempre ritenuto che il burattino bergamasco sia nato fra la fine del Settecento ed i primi dell’Ottocento ma la sua genesi dovrebbe risalire ad un’epoca ben precedente se rispondente all’intento di ridicolizzare la memoria del selvatico presso i ceti popolari” (6).

Note

(1) Luciano Ravasio, Gioppino, scarpe grosse e cervello fino

(2) Umberto Zanetti,  Bergamo d’una volta. Ed. Il Conventino, Bergamo, 1983.

(3) Luciano Ravasio, Gioppino, scarpe grosse e cervello fino

(4) Ibidem.

(5) Bergamo in terza rima di Giovan Battista Angelini del 1720. Da: Francesca Frantappiè, “Per teatri non è Bergamo sito – La società bergamasca e l’organizzazione dei teatri pubblici tra ‘600 e ‘700”. Fondazione per la Storia Economica e Sociale di Bergamo – Collana Studi di Storia della Società, dell’Economia e delle Istituzioni Bergamasche.

(6) Umberto Zanetti, Il mito dell’Uomo Selvatico nella montagna bergamasca. Museo della Valle di Zogno.

Sitografia

Lingua e dialetto come espressione dell’altro nella commedia del Cinquecento, Manuela Caniato, K.U.Leuven.

Ol Giopì de Sanga”, associazione zanichese che valorizza la figura dell’eroe trigozzuto, intraprendendo anche l’esperienza di lavoro in “baracca.

Il Teatro del Gioppino”, compagnia d’attore di Zanica, propone commedie dialettali in musica, sempre con riferimenti diretti a Gioppino.

Quel che c’è di bergamasco in Arlecchino (antropologia di una maschera)

Le maschere di Arlecchino e di Brighella, nate da Zanni e dalla Commedia dell’Arte

Le maschere storiche che occupano un posto d’onore nella tradizione bergamasca sono Arlecchino, Brighella e Gioppino. Ma mentre le prime due nascono nel Cinquecento con la Commedia dell’Arte (1) ed emigrano a Venezia, quella del trigozzuto Gioppino, nato nell’Ottocento, è interamente bergamasca; sono tutti  personaggi che non nascono all’improvviso, ma sono piuttosto il frutto di una lunghissima elaborazione che va al di là della rappresentazione scenica per intrecciarsi con una moltitudine di vicende, umane e storiche.

Le maschere della Commedia dell’Arte. Per gentile concessione di Laura Ceruti

Le maschere di Arlecchino e Brighella si originano, per così dire, dallo sdoppiamento della figura dello “zanni”, tipo fisso da cui nasceranno alcune delle maschere più importanti della Commedia dell’Arte.

Chi è Zanni

Il termine “zanni”, un diminutivo di Giovanni (strorpiato in Gianni, Zani) indicava nel Rinascimento gli uomini di fatica, che nella Commedia dell’Arte  impersonavano i servi buffoni: personaggi rozzi, sguaiati e istintivi, rappresentativi di un’umanità animalesca alla quale si richiedeva in continuazione la trovata comica, il lazzo.

Gli Zanni Beppe Nappa e Frittellino. L’abito dello zanni riprende quello dei facchini, degli operai del porto o dei campi, con larghi pantaloni e camicioni bianchi o grigi, di tela grezza, spesso luridi e sgualciti e legati in vita da corde sfilacciate. Il viso è nascosto da maschere animalesche, talvolta incorniciate da ispide barbe. Le gambe possenti, la postura incurvata, l’ampio movimento delle braccia, la bocca sempre aperta a causa di una fame insaziabile (riproduzione a olio di un disegno dei “Balli di Sfessania” di Callot. Anonimo, scuola bolognese, fine Seicento)

Per essere distinti dagli altri personaggi di ceto più elevato, gli zanni usavano normalmente la lingua incomprensibile e gutturale dei montanari bergamaschi, che insieme alle azioni balorde colpiva la fantasia degli spettatori, sia colti che popolani.  Ed è probabile che la parlata “rozza” dei montanari bergamaschi, portasse a considerarli appartenenti a classi sociali inferiori.

Capitano Spezzamonti e Zanni Bagattino (riproduzione a olio di un disegno dei “Balli di Sfessania” di Callot. Anonimo, scuola bolognese, fine Seicento)

Fu soprattutto Venezia la città in cui gli zanni vennero portati sulla scena, come una sorta di parodia dei tanti servi bergamaschi che popolavano la città lagunare, nella quale formavano una vera e propria comunità legata alle proprie radici e alla propria identità.

Gli Zanni impenitenti (incisione del XVI secolo, Raccolta Fossard)

Dallo zanni della Commedia scaturiranno due varianti: il primo zanni, e cioè il servo astuto (come Frittellino, Beltrame e Brighella), e il secondo Zanni, il servo sciocco (come Arlecchino, Pulcinella, Mezzettino e Truffaldino).

“Carlo Goldoni con Arlecchino e Brighella” Affresco sec. XVIII di Marco Gozzi (1759-1839) già nel cortile della Casa di Lavoro della Congregazione di Carità, in via Vagine, 2 a Bergamo (Città Alta). Non si sa se l’affresco sia stato commissionato per rievocare il soggiorno bergamasco di Goldoni e neppure se sia stato il pittore ad attribuirgli questo titolo, in quanto il soggetto, prima dello strappo, era inserito in una campitura più ampia con altre maschere (si veda l’immagine sottostante). E’ una coincidenza, il fatto che Marco Gozzi (professore di paesaggio all’Accademia di Brera e pittore emerito delle collezioni asburgiche) sia nato e cresciuto a S. Giovanni Bianco nella contrada Sentino, che si trova poco oltre la “Casa di Arlecchino“? Questo compiacente ritratto del Goldoni è un velato tentativo di pacificare antiche beghe familiari? Secondo Eliseo Locatelli (Op. cit.) gli ascendenti di Marco Gozzi non dovevano poi essere troppo forestieri rispetto a quelli del commediografo Carlo Gozzi, il principale antagonista della riforma goldoniana e pungente avversario in amore di quel tale Pierantonio Gratarol, che pure aveva origini brembane

 

Come vengono rappresentati a Venezia?

Il primo ad essersi inurbato e che rapidamente fa il suo ingresso in laguna è Brighella, la maschera più importante derivante dal Primo zanni della Commedia.

Nato a Bergamo Alta (come egli stesso tiene a precisare), il suo nome deriva dal verbo “brigare”: infatti impersona il servo tuttofare, intrigante, scaltro e opportunista, campione nell’ordire intrighi, insolente con i sottoposti e pronto a beffare il padrone, con il quale è insopportabilmente ossequioso senza preoccuparsi di danneggiare persino i suoi stessi amici.

Tenta di accoppiarsi con le donne (o meglio le servette), senza tanti preamboli. E’ agile, aggressivo e con la parlantina sciolta, facile all’ira e a menar le mani.

Arlecchino (derivante dal Secondo zanni) è il protagonista della seconda urbanizzazione, e al suo arrivo si pone alla ricerca di un proprio connazionale (con il quale possa parlare la lingua natale o il dialetto), che possa ospitarlo, trovargli un lavoro o suggerirgli un modo veloce per riempirsi la pancia o sbarcare il lunario: sulla scena questo amico è Brighella.

Figurina Liebig, edita nel 1890. L’abito di Arlecchino con losanghe disposte ordinatamente in un caleidoscopio di colori accesi. L’abito contrasta con la mascherina nera dal naso camuso, le profonde occhiaie e le piccole orbite. Al cappellaccio sformato di feltro si aggiunge una piuma ciondolante in segno di beffa. Nella cintura vi è la “scarsela” (dove tiene il pane, i soldi e la lettera del padrone da recapitare) e vi è infilato un corto manganello (“batocio”), che Arlecchino brandisce nelle scene finali in cui immancabilmente mena e incassa botte a non finire: questo l’Arlecchino giunto a noi

Già il vestito rappresenta una prima antitesi caratteriale: mentre Arlecchino è colorato, simbolo di libertà, Brighella è vestito con la livrea di colore bianco e con strisce verdi, metafora di appartenenza al padrone: costume che si vanta di indossare e col quale esercita il suo potere sui servitori semplici.

Brighella

Arlecchino è bastonato dal padrone ed è l’ultimo dei servi. Brighella è invece il capo e con il padrone è servile.
Arlecchino è agile fisicamente (per evitare le bastonate). L’agilità di Brighella è nel pensare.

Panorama di Bergamo ai tempi del Goldoni (incisione di F.B. Werner, 1740). Tra le annotazioni, in latino e in tedesco, si fa espresso riferimento alla vivace coloritura del dialetto

Rimane però nel loro cuore la nostalgia di Bergamo, e spesso la ricordano anche nelle commedie di Goldoni.

Grazie alla bravura degli attori che li rappresentano nella Commedia dell’Arte, a divenire più famosi e graditi al pubblico sono i secondi Zanni come Arlecchino, una maschera controversa e ovunque contesa, per l’altissimo lignaggio che si allarga a comprendere vaste aree europee.

Eh sì, perchè una parte di lui è veracemente bergamasca, mentre l’altra è ancor più remota ed affonda le radici in un mito che appartiene all’Europa intera.

La paternità di Arlecchino: Zan Ganassa o Martinelli?

Se il bergamasco Alberto Naselli in arte Zan Ganassa, è stato a lungo creduto l’ideatore della maschera di Arlecchino, studi recenti confermano che la paternità della celeberrima maschera è frutto dell’intuizione geniale di un attore mantovano, Tristano Martinelli (1557-1630), protagonista di prim’ordine della Commedia dell’Arte.

Ad attestarne la paternità può bastare la figura di Arlecchino proposta da Dario Fo nel 1985 nello spettacolo Hellequin Harlekin Arlekin Arlecchino, elaborata grazie ad una ricca ricerca documentale e drammaturgica, condotta in collaborazione con studiosi specialisti di Commedia dell’Arte con l’intento di offrire al pubblico un personaggio più vicino all’Arlecchino delle origini.

Un Arlecchino che non nasce dalla penna di un autore, ma che viene direttamente portato sulle scene, nella Parigi del 1584, da Tristano Martinelli, il quale ne farà il proprio personaggio lungo tutto il corso di una carriera che si dipana tra Cinque e Seicento, portandolo trionfalmente in giro per le principali corti, sui palcoscenici e nelle piazze d’Europa – dalle Fiandre a Londra, da Parigi a Madrid, da Venezia a Firenze – diventando perciò ricco e famoso.

In seguito, dopo che altri l’hanno interpretato nei teatri europei, si è cancellata la memoria di colui che per primo lo aveva portato sulle scene.

Lapide marmorea del mulino acquistato da Tristano Martinelli a Bigarello, 1618

La monografia di Siro Ferrone, “Vita e avventure di Tristano Martinelli attore”, uscita nel 2006, si propone di colmare la vistosa lacuna critica legata al creatore di Arlecchino, facendo chiarezza riguardo una maschera dal cammino teatrale luminoso, ma dalla genesi storica oscura. E lo fa attraverso una ricca ricerca documentaria (documenti d’archivio scovati anche nelle biblioteche di mezza Europa, lacerti epistolari e tracce letterarie), interrogando dipinti cinquecenteschi e disegni dell’epoca.

Tristano Martinelli, in fuga dalla peste che nel 1576 travagliava Mantova, non ancora ventenne si reca in tournée in Francia con la sua compagnia (tra cui suo fratello maggiore Drusiano con la moglie Angelica Alberghini), passando per Anversa, una specie di “Venezia del nord” che in quegli anni doveva apparire una sorta di paese della cuccagna “agli attori girovaghi, ai ciarlatani, ai montimpanca, agli acrobati, agli intrattenitori di ogni specie che vi si dirigevano emulando, affascinati, i traffici di merci e di denari” (2).

Nel suo studio Siro Ferrone mostra uno stretto legame tra un documento (un atto di polizia stilato ad Anversa nel settembre 1576, dove Tristiano e il fratello sono costretti a giustificare la loro presenza nelle Fiandre in un periodo particolarmente turbolento per le guerre di religione) e un dipinto fiammingo conservato presso il Museo Baron Gérard di Bayeux, in cui compare un giovanissimo attore dalle fattezze molto somiglianti a quelle di un Tristano Martinelli verosimilmente “non ancora integrato in nessuno dei ruoli fissi della compagnia”.

Il giovane, che nel dipinto “si stringe nelle spalle”, ha già lasciato cadere l’abito cupo che connotava socialmente il facchino, conservando però l’anonima camiciona a falde dello zanni, pezzata di pallidi colori: questo lascia supporre che in quel periodo Tristano avesse già iniziato ad elaborare l’abbigliamento della maschera che lo renderà celebre nel mondo (3).

Pittore fiammingo, Commedia dell’Arte à la cour de Charles IX (particolare.), olio sutela, Bayeux (Francia), Musée Baron Gérard

La compagnia, dopo essere stata a Lione e in Inghilterra giunge a Parigi, dove Tristano partorisce il personaggio di Arlecchino, presentandolo al carnevale del 1584 in un’esibizione nel sobborgo di Saint-Germain alla Foire: un avvenimento annuale divenuto alla moda, sempre più ricco ed affollato, frequentato dal popolino, aristocratici e persino regnanti, che lì si recano per acquisti sfiziosi.

Ed è proprio qui, alla Foire di Parigi che il ventisettenne Tristano esibisce il personaggio da lui creato, attingendo al contesto storico-spettacolare della terra che lo sta ospitando.

Per distinguersi dai tanti zanni in circolazione, Tristano riprende la maschera del povero zanni – che ben conosce per averla chissà quante volte interpretata – e la adegua al gusto dei francesi ma arricchendola di tratti unici ed inediti e caricandola di nuove attrattive, anche grazie alla sua prestanza fisica.

Il clistere  (incisione del XVI secolo, Raccolta Recueil Fossard). A far stampare a Parigi la serie delle quattordici incisioni popolaresche dedicate ad Arlecchino, sono probabilmente I fratelli Martinelli (Drusiano, capo della troupe, e Tristano, già attrazione comica principale). Databili intorno al 1585, vengono realizzate probabilmente come programmi di sala o avvisi pubblicitari, allo scopo di mettere in mostra tutti i membri della compagnia con cui i Martinell lavorano

Il suo Arlecchino infatti, se da un lato si ispira molto strettamente alla tradizione degli zanni, dall’altro trova ispirazione nelle maschere della tradizione medievale francese, che rappresentano quell’Hellequin – il diavolo-buffone delle mascherate medioevali -, con cui deve aver familiarizzato nel corso della sua tournée in Francia.

Hellequin conduce la masnada selvaggia

Elabora così una maschera di successo, che s’imporrà nelle corti di tutta Europa.

Riguardo l’origine del nome di Arlecchino, questo si ispira al folclore nordico evocando quello di Hellequin de Boulogne, il cavaliere franco della caccia selvaggia (4), la cui tradizione si sarebbe innestata su quella ancor più antica dell’infernale Herla King, mitico condottiero bretone a capo “di una masnada vagante di spiriti dannati preceduta da una feroce muta di cagnacci latranti” (5).

Una figura diabolica, che le leggende “pongono a capo di masnade composte da torme di fantasmi, spettri, demoni, anch’essi mascherati, osceni, rumorosi, vestiti con colori squillanti, apparizioni notturne e invernali, provenienti dai boschi e dalle profondità della terra, da un altrove indefinito” (6), e che ritroviamo anche nella mitologia scandinava (con Härlenkönig) e nell’Inferno di Dante, dove il diavolo Alichino appare come capo di una schiatta diabolica incaricata di ghermire i dannati.

Zuffa tra Alichino e Calcabrina, illustrazione di Gustave Doré relativa al XXII canto della Divina Commedia. Hellequin è il precursore dell’Alichino dantesco e dell’Arlecchino creato da Martinelli, uno dei tanti nomi con cui si indica una figura di origine diabolica presente nelle leggende di quasi tutti gli Stati europei

Diventata un tutt’uno col “re dei diavoli”, la maschera diviene così più “paurosa” ma anche più prestante, grazie alle tante abilità del Martinelli.

“Nell’andatura saltellante e ondeggiante Arlecchino ripeterebbe i ritmi di una danza macabra, le movenze scomposte delle sbracate e scurrili charivaries, i passi vivacissimi e sfrenati delle diableries degli antichi carnevali francesi” (7): un’immagine dello chiarivari (mascherata) tratta da Gervais du Bus, Roman de Fauvel, France (Paris), 1320 circa

Se i principi italiani e stranieri si deliziavano della volgarità animalesca con cui si esprimevano gli zanni dalla parlata bergamasca, Tristano si distingue adottando il suo idioma natale, il mantovano (una lingua aperta a sfumature venete, emiliane, lombarde), prendendo magari a prestito nuove parole straniere acquisite strada facendo, e dando vita a strampalate cacofonie, allitterazioni, onomatopee di sicuro effetto comico.

In scena il linguaggio del corpo si avvantaggia della discreta statura e della guizzante muscolatura che rende Tristano flessuoso e capace di acrobazie di grande effetto (è anche un bravissimo funambolo). Dello zanni conserva perciò le leggere scarpette senza tacco, che gli permettono di compiere le acrobazie tipiche del personaggio.

Acrobazie degli Zanni. Immagini di attori italiani dalla  Raccolta Recueil Fossard, XVI secolo. Le incisioni fanno percepire la rilevanza di Arlecchino come “unico vero protagonista della storia rappresentata, anche se apparentemente perdente nelle vesti del maldestro guerriero, stonato cantante, amante tradito, marito cornuto, osceno ruffiano, ecc.” (Rosanna Brusegan, cit.)

Sempre in quel carnevale parigino del 1584, abbandona l’anonima camiciona a falde dello zanni – pezzata di pallidi colori – a favore di una sorta di tuta aderente che gli disegna la corporatura ed enfatizza al contempo la sua bravura tecnica. Accentua i colori dei suoi stracci, che moltiplica in omaggio all’abito dei giullari della tradizione francese.

Arlecchino cornuto (incisione del XVI secolo, Raccolta Fossard). Acrobata e funambolo, Martinelli simulava in scena viaggi all’Inferno e ritorno, scatenava il riso giocando con il sesso e gli escrementi, improvvisava monologhi demenziali. Circondato da un alone di magia, era amato dai Valois, dai Savoia, dai Medici e dai Gonzaga, che videro in lui l’amuleto capace persino di rendere fertili dinastie minacciate dalla sterilità (Leningrado, Ermitage)

Dello zanni conserva anche la maschera animalesca con i due fori rotondi, la barbetta selvatica, la scarsella e il bastone attaccato alla cintura (il “batòcio”), che utilizza per minacciare ed aggredire i suoi rivali e per accaparrarsi il cibo. Ne risulta una maschera dallo spirito villanesco, che imprime al personaggio una natura quasi bestiale, mossa più da passioni e bisogni elementari che filtrata dalla ragione.

Domenico Fetti. Ritratto di Tristano Martinelli (Arlecchino), a lungo erroneamente conosciuto come il ritratto di Francesco Andreini. Dopo la fama internazionale, la consacrazione in patria per i Martinelli arriva prima con l’ingaggio nella compagnia stabile del duca Vincenzo Gonzaga, poi con la nomina di Tristano, il 29 aprile 1599, a sovrintendente de comici e ciarlatani per i territori del ducato di Mantova, incluso il Monferrato. Vertice di una carriera folgorante rimane l’invito di Enrico iv, re di Francia, per le nozze epocali con Maria de’ Medici, celebrate il 17 dicembre 1600

Così la bautta nera che gli ricopre il volto può celare un ghigno satanico, il bitorzolo rosso in fronte è il residuo di un corno satiresco e la barbetta selvatica ricorda le raffigurazioni medievali in tema demoniaco.

Trattato Buffonesco dell’Arlecchino Tristano Martinelli, stampato a Parigi nel 1601 (Compositions de Rhetorique). L’Arlecchino delle origini aveva le sembianze di un essere maligno, scimmiesco ed irsuto, nascosto dietro una una mezza maschera nera. La veste di Arlecchino-Tristano è bianca o beige maculata di macchie

L’Arlecchino di Tristano Martinelli è è ora costruito “e la sua ascesa al trono di re ‘dei diavoli, dei pazzi o degli spettri che dir si voglia’ è garantita (8).

Trattato Buffonesco dell’Arlecchino Tristano Martinelli, stampato a Parigi nel 1601 (Compositions de Rhetorique)

L’evoluzione di Arlecchino

La maschera subirà nel tempo un graduale adattamento alla recitazione e ai costumi della tradizione francese, andando via via arricchendosi, nelle diverse esperienze di viaggio, di nuove sfumature, E ciò a seconda delle diverse qualità degli interpreti che più gli han dato voce, corpo, sentimento e a seconda del gusto del pubblico che di applauso in applauso ne ha forgiato l’archetipo popolare.

Dopo Martinelli e dal 1661, Domenico Biancolelli, un italiano naturalizzato francese, ingentilisce il personaggio cambiandogli completamente carattere. L’antico vestito dalle mille toppe viene sostituito da un costume che ricorda le squame di un serpente e che verso il Settecento acquisterà una sempre maggior definizione, permettendo anche una più ampia libertà di movimento. Ma dovremo arrivare a Goldoni per vedere le vere losanghe del costume di Arlecchino (9), che hanno trasformato in ricamo l’antico rattoppo.

Il personaggio di Martinelli è un Arlecchino primordiale, destinato ad evolversi e a spaccarsi nella duplice identità franco-spagnola e in quella, diametralmente opposta, veneziana.

Perchè se nelle raffinate corti di Francia e di Spagna Arlecchino diventa più aggraziato nei modi e nell’aspetto, diventando simbolo di simpatia, scaltrezza e gioiosità, a contatto con la nobiltà veneziana andrà a incarnare l’indole dei Brembani di allora.

“Arlecchino pensoso”, 1901, Pablo Picasso. Arlecchino resta la più popolare e durevole delle maschere, ispiratrice, dopo la grande fioritura della Commedia dell’Arte, di scrittori come Goldoni (Arlecchino servitore di due padroni…) e Marivaux; di romanzieri e poeti romantici come Baudelaire, Flaubert, e Georges Sand; pittori come Watteau, Daumier, Manet, Degas, De Nittis, Cézanne, Seurat, Ensor e dopo di loro Picasso e Severini; ispirando intellettuali ed artisti di teatro, di strada, circensi, insieme al mondo della musica e del balletto. 

Arlecchino in laguna

In laguna Arlecchino acquisisce la semplicità, la rozzezza e la furberia animalesca del mondo contadino bergamasco, di cui porta anche la naturalezza.

Nelle due stampe che celebrano la Rivoluzione bergamasca del 1797, evento innescato dalla presenza delle truppe napoleoniche, la maschera di Arlecchino compare in Piazza Vecchia contrapposta a quella di Pantalone, rappresentando lo scontro tra la tirannide e la libertà, tra l’Antico Regime e la rivoluzione: “L’è pur vegnuda l’ora: va via Galioto!”: Arlecchino, nonostante parli ormai il dialetto veneziano è ancora protagonista della scena bergamasca. Arlecchino si improvvisa venditore ambulante di tutto il vecchiume veneziano. “Ordini e straordini”, ossia medaglie e insegne, cariche e decorazioni sotto l’insegna di San Marco che non avevano ormai più nessun valore. Arlecchino ne organizza la vendita davanti al vecchio Pantalone che stenta a credere a quanto avviene, tanto d’essere costretto a ricorrere agli occhiali per metterne a fuoco l’incredibile scena

Le sue peripezie teatrali, mimiche ed acrobatiche hanno il sentore di quella fame e di quelle privazioni dei suoi conterranei Brembani, che nel Cinquecento lasciavano le valli bergamasche per trovare di che sfamarsi a Venezia, dove svolgevano lavori umili e faticosi e dove venivano scherniti per i modi grossolani e il linguaggio “ridicoloso” e incomprensibile (sarà poi Goldoni, a metà Settecento, ad esaltare l’utilizzo del dialetto e fissare i caratteri delle maschere principali, inducendo Arlecchino e Brighella ad adottare definitivamente la lingua ufficiale della capitale della Repubblica: il dialetto veneziano).

Ancora più esplicita la seconda stampa. Siamo in Piazza Vecchia ed è il 12 marzo del 1797, giorno che segna la fine del dominio di Venezia a Bergamo. Arlecchino, simboleggiando il popolo bergamasco che scaccia Venezia, prende a calci il vecchio Pantalone, che si allontana piegato in due

Nella Commedia dell’Arte egli impersona dunque il montanaro orobico giunto a Venezia coi facchini in cerca di lavoro: dimentica il suo dialetto e assume quello lagunare per farsi accettare dai suoi padroni, servendoli e campando la vita (“galantuomo bergamasco” egli si proclama in una nota commedia goldoniana).

E al di là dell’origine fiammingo-piccarda del suo nome, “rimane bergamasco nelle sue origini di zanni della vallata, accoppiato a Brighella, cittadino e smaliziato. Lo attesta tutta la tradizione”, compresa quella dello zanni Alberto Ganassa… (10).

Quella di Arlecchino diventa così una maschera naturalizzata bergamasca, a dispetto del retroterra demoniaco del suo nome e della metamorfosi europea della maschera.

Bergamo Alta, Carnevale 1974

 

Bergamo Alta, Carnevale con i costumi del fabbro Scuri

 

Bergamo Alta, Carnevale con i costumi del fabbro Scuri

E malgrado ogni passata controversia (11) Bergamo festeggia ancora il Carnevale rievocando e rivivendo le peripezie del “suo” Arlecchino: quel misto di balordaggine e arguzia del contado bergamasco, sposato alla colorita parlata della città lagunare: un veneziano, in fin dei conti, molto  “internazionale”.

Via Borgo Palazzo e la-Gioielleria Rosaspina in uno scatto del 1959

 

Note

(1) La nascita della Commedia dell’Arte, coincidente con quella dell’attore professionista, è “stabilita convenzionalmente dalla data di stipula del primo contratto di costituzione di una compagnia di comici. A Padova il 25 febbraio 1545 Ser Maphio, detto Zanini da Padova, e alcuni suo compagni si riuniscono in “fraternal” sodalizio sino alla Quaresima dell’anno successivo, concordando un regolamento per dividere spese e guadagni della loro attività spettacolare” (A cura di Rosanna Brusegan, Premessa di Dario Fo, in “La scienza del teatro – Omaggio a Dario Fo e Franca Rame” – Atti della Giornata di Studi (Università di Verona, 16 maggio 2011). Bulzoni Editore, 2013).

(2) Laura Diafani, L’Arlecchino del Grand siècle, in: Caffè Michelangiolo – Rivista di discussione. Fondatore e direttore Mario Graziano Parri, Pagliai Polistampa. Quadrimestrale – Anno XI – n. 1 – Gennaio-Aprile 2006. Accademia degli Incamminati. Modigliana.

(3)  Rosanna Brusegan, Ibidem. 

(4) In una commedia, composta ad Arras nel 1276, Le Jeu de la Feuillée di Adam de a Halle, irrompe sulla scena per la prima volta la caccia infernale di Hellequin, “il cavaliere franco della caccia selvaggia, condannato con il suo lugubre seguito di armigeri spettrali ad inseguire eternamente la selvaggina senza mai raggiungerla” U. Zanetti, cit.).

(5) Umberto Zanetti – per il Museo della Valle di Zogno. Il mito dell’uomo selvatico nella montagna bergamasca.

(6) Laura Diafani, Ibidem.

(7) Umberto Zanetti, Ibidem.

(8) Laura Diafani, Ibidem.

(9) Rosanna Brusegan, Ibidem. 

(10) Umberto Zanetti,  Bergamo d’una volta. Ed. Il Conventino, Bergamo, 1983.

(11) Nel 1904 I Bergamaschi insorsero con tanto di petizioni e manifestazioni di piazza contro le tesi di uno studioso tedesco, Otto Driesen, che voleva Arlecchino originario del Nord Europa e vi fu anche un recente tentaativo, peraltro non riuscito, di “mantovanizzare” la maschera: una maschera della quale Goldoni, ne “Il teatro comico” precisava: “le Brighella et Arlequin ont toujours été Bergamasques”.

Riferimenti essenziali

L’Arlecchino del Grand siècle, di Laura Diafani, in: Caffè Michelangiolo – Rivista di discussione. Fondatore e direttore Mario Graziano Parri, Pagliai Polistampa. Quadrimestrale – Anno XI – n. 1 – Gennaio-Aprile 2006. Accademia degli Incamminati. Modigliana.

A cura di Rosanna Brusegan, Premessa di Dario Fo, in “La scienza del teatro – Omaggio a Dario Fo e Franca Rame” – Atti della Giornata di Studi (Università di Verona, 16 maggio 2011). Bulzoni Editore, 2013.

Lingua e dialetto come espressione dell’altro nella commedia del Cinquecento, Manuela Caniato, K.U.Leuven.

Umberto Zanetti – per il Museo della Valle di Zogno. Il mito dell’uomo selvatico
nella montagna bergamasca.

Eliseo Locatelli, Arlecchino che parla bergamasco. Ed. Corponove, 2016.