Nell’antica Cattedrale di San Vincenzo, rinvenuta nel 2004 nell’area sottostante il Duomo di Bergamo, oltre la struttura affrescata dell’iconostasi si estende un suggestivo dedalo di camere sepolcrali con soffitto a volta (ricavate già a partire dalla rifondazione dell’architetto Filarete), raggiunte le quali si può ammirare il Tesoro della Cattedrale, un’accurata selezione di preziosi oggetti d’arte sacra scelti in base al criterio suggerito dai consulenti scientifici, i professori Giovanni Romano e Saverio Lomartire.
La selezione, coerentemente alle diverse fasi architettoniche che hanno interessato l’antica cattedrale, si è attenuta al limite cronologico cinque-seicentesco, escludendo perciò i superbi pezzi dell’epoca barocca che costituiscono la maggior parte del Tesoro.
Le preziose testimonianze esposte, di cui il presente post offre un breve spaccato, sono confluite in cattedrale in tempi diversi, custodite per la loro importanza e preziosità. Provengono per lo più dalla dotazione della Cattedrale di San Vincenzo ma anche da altre chiese della città (come la croce di San Procolo, ad esempio).
Viene quindi offerta l’occasione di ammirare da vicino e nelle migliori condizioni il Piviale e la Pianeta di S. Vincenzo, del XV secolo; la trecentesca Croce di Ughetto e quella quattrocentesca del Carmine in argento e cristallo di rocca; alcuni calici e reliquiari; l’icona di origine cretese della Madonna dei Canonici; l’affresco delle Opere di Misericordia sinora esposto al Museo diocesano e proveniente proprio dall’antica cattedrale (fu ritrovato dal Fornoni durante i lavori del 1906).
Inoltre, due imponenti lapidi sepolcrali, quella del vescovo Bucelleni e quella del canonico Bresciani la cui tomba, data l’importanza del prelato, venne portata dalla Basilica alessandrina in S. Vincenzo quando la basilica fu atterrata dai Veneziani nel 1561.
Antiche fonti (1) e ricerche recenti (2) ricordano l’esistenza, nell’antica cattedrale di San Vincenzo, di due cori (il chorus magnus, più grande, riservato ai canonici e il chorus parvus, di minori dimensioni, nella cappella di San Pietro), tre altari (San Vincenzo, Santa Maria, San Pietro) e quattro cappelle in chiesa (San Silvestro, San Sebastiano, San Benedetto, Santa Margherita), cui aggiungere quella di Santa Trinità voluta dal vescovo Adalberto. V’erano inoltre due cappelle esterne (Santa Croce e San Cassiano)
Secondo il cerimoniale liturgico della Chiesa di Bergamo riportato da Barozzi, modellato su antiche consuetudini, la recinzione delimitava gli stalli del chorus magnus, posti ante altare e occupati secondo una precisa gerarchia: l’arcidiacono sedeva alla destra del vescovo (dotato di faldistorio mobile, utile alle cerimonie che richiedevano una particolare collocazione rispetto all’altare), mentre il prevosto di Sant’Alessandro alla sua sinistra.
Il pulpito, in posizione non precisata, era sormontato da una croce argentea.
Sopra l’altare maggiore, ornato di antependium, si ergeva la crux magna, estraibile dal piedistallo per essere portata in processione quale simbolo della Bergomensis Ecclesia.
Con scrupolo è descritto il rituale legato ai vasa sacra, la cui consistenza in età romanica è restituita dagli atti del 1189.
– quattro croci con asta, fra cui la crux magna, e quattro senza;
– un cherubino con croce; un calice d’oro e uno d’argento;
– sei corone votive d’argento; tre evangeliari, uno d’oro e due d’argento;
– un messale e un lezionario d’argento;
– un turibolo, due candelabri e due reliquiari d’argento;
– un reliquiario d’oro e uno di avorio; un altare portatile con bordure in oro e argento;
– tavolette di avorio per il canto; una tavoletta di avorio scolpita;
– due casule con stole;
– manipoli.
(Valsecchi 1989).
(1) Si ricavano preziose informazioni su San Vincenzo nel Medioevo dall’integrale trascrizione nonché dal puntuale commento del Liber ordinarius del vescovo Giovanni Barozzi(1449-1464), minuta del cerimoniale liturgico della Chiesa di Bergamo, modellato su antiche consuetudini (Gatti 2005-2006 e Gatti 2008). (2) Ricaviamo altre informazioni sull’edificio attraverso le ricerche di Gian Mario Petrò nelle fonti archivistiche notarili. Almeno otto gli altari documentati nella cattedrale di San Vincenzo, compreso quello della sacrestia, e due cori, uno più grande riservato ai canonici ed un altro di minori dimensioni nella cappella di San Pietro.
LA CROCE DI UGHETTO
La Croce di Ughetto, forse l’opera più rappresentativa del Tesoro della cattedrale, in origine era arricchita da 34 reliquie miracolose, sigillate sotto la sua preziosa oreficeria.
La grande croce processionale prende il nome dal suo principale esecutore, Ughetto Lorenzoni da Vertova, il quale l’ha realizzata su disegno del pittore Pecino Pietro da Nova nel 1386 per conto dei Canonici del Capitolo di Sant’Alessandro.
Essa proviene dunque dalla distrutta Basilica alessandrina, ed è questo il motivo per cui il Santo appare vistosamente abbigliato come un cavaliere medievale in sella al suo destriero, mentre sullo sfondo si staglia il profilo ideale della città di Bergamo, conquistata alla fede cristiana.
Grazie a un inventario sappiamo che nell’imminenza dell’abbattimento della Basilica alessandrina (1561), la croce di Ughetto venne portata in solenne processione nella Cattedrale di S. Vincenzo insieme – oltre ai paramenti sacri, organi, campane e corredo liturgico -, alle sacre reliquie: il Capitolo di S. Alessandro perdeva definitivamente la propria sede e da quel momento i canonici Capitoli di S. Vincenzo e di S. Alessandro si trovarono a convivere fino a che non vennero definitivamente unificati (1689) sotto le insegne di S. Alessandro.
La croce fu rinnovata nel 1614, anno in cui fu sancita la provvisoria riunificazione dei due Capitoli di S. Vincenzo e di S. Alessandro: il restauro della croce è quindi la concreta manifestazione di questo tentativo di unità, tanto che la fisionomia originale della croce è stata stravolta e piegata a questo scopo.
In origine il recto esibiva il Cristo crocifisso tra la Vergine e S. Giovanni, in alto un Angelo e ai piedi S. Alessandro a cavallo; il verso esibiva il Cristo glorioso tra i quattro evangelisti e ai piedi Santa Grata.
Nell’operazione di restauro (oltre alle vere e proprie aggiunte seicentesche) il Cristo crocifisso medievale è stato sostituito con un altro più recente, recuperato da una croce del Capitolo di San Vincenzo.
CROCE DI SAN PROCOLO
La crocetta metallica riceve il suo nome dal fatto di essere conservata unitamente alle reliquie di San Procolo, vescovo di Verona martirizzato nel IV secolo. I sui resti pervennero in Cattedrale insieme a quelli dei Santi Fermo e Rustico, anch’essi martirizzati nel IV secolo e che un’antica “Passio” menziona come originari di Bergamo.
Le reliquie di questi Santi dopo vari spostamenti sono giunte a Verona nella seconda metà dell’VIII secolo e verso la metà del secolo successivo parte delle reliquie sono state trafugate da mercanti bergamaschi e portate nella chiesa di San Fermo a Bergamo.
Nel 1575 Carlo Borromeo ha ordinato la traslazione delle reliquie in Cattedrale ed è questo il motivo che spiega la presenza della croce in questo luogo. Alcuni fori marginali non a caso rendono probabile la sua originaria applicazione su una cassetta reliquiario.
Lo stile ci permette di assegnare una datazione. Il primo elemento significativo ci è fornito dal perizoma lungo fino alle ginocchia e mosso da pieghe. Questo tipo di veste non la ritroviamo prima del IX secolo. Un secondo motivo è rappresentato dai pollici in abduzione; sistema adottato non oltre il secolo XI. Quindi la datazione deve aggirarsi intorno al IX-X secolo.
La figura del Cristo domina tutta l’ampiezza della croce: il capo è eretto e dotato di aureola crucifera; il volto è imberbe, secondo un tipo fisionomico diffuso in età tardo antica e altomedievale; gli occhi sono aperti; le mani recano visibili i segni dei chiodi.
Il torace è robusto e ben modellato; le gambe non sono incrociate e i piedi non sono sovrapposti, ma ruotano verso l’esterno senza alcun segno dei chiodi.
Nella parte superiore sono presenti le raffigurazioni del sole e della luna.
LA BORSA PER IL CORPORALE
La borsa per corporale è un manufatto nato per custodire il corporale, un telo di tessuto che si stende sull’altare per posarvi calice e patena durante la celebrazione eucaristica.
La borsa era utilizzata nel tragitto che porta dalla sacrestia all’altare, e viceversa.
Il tema del Cristo eucaristico è espresso secondo un modello iconografico molto diffuso e strettamente aderente alla funzione dell’oggetto liturgico.
La figura di Gesù regge la croce, arricchita con i tre chiodi che ne sostenevano il corpo, da cui ora penzolano due flagelli, con allusione, assieme alla corona di spine, a due momenti della passione che precedettero la crocifissione: flagellazione e incoronazione di spine.
Con gesto enfatico, Cristo si rivolge al calice che sta per ricevere il frutto del suo sacrificio.
Alcuni elementi fanno risalire la borsa a poco prima della metà del Quattrocento (1430 – 1450 ca.): le difficoltà prospettiche nell’assetto della composizione (si noti, ad esempio, la diversa inclinazione dei tre chiodi della croce) rendono incerta e traballante la posizione occupata da Cristo nello spazio. Le sproporzioni innaturali di alcuni dettagli (l’ingigantita mano destra, con l’ingenua profilatura delle unghie, o l’enorme calice che sta per accogliere il disco eucaristico), così come l’andamento sinuoso della preziosa veste di Cristo e le folte e arzigogolanti ciocche della sua capigliatura, conferiscono all’immagine un forte accento tardogotico.
IL PIVIALE DI SAN VINCENZO
Il sontuoso piviale di San Vincenzo è un ampio mantello che proviene dalla cattedrale, dove è segnalato per la prima volta in un inventario del 1593. L’epoca della sua realizzazione è però di molto anteriore, risalendo allo scorcio del Quattrocento, periodo dell’episcopato di Lorenzo Gabrieli (1484-1512).
Questa veste liturgica– costituita da un manto semicircolare lungo fino ai piedi, arricchito da uno stolone e da un cappuccio ricamati – era utilizzata nelle celebrazioni più solenni (3).
Al centro dello stolone è raffigurato Dio Padre benedicente; sui due bordi i Santi Pietro, Andrea, Giovanni episcopo (?), Vincenzo e Maria Maddalena (a destra); e i Santi Marco, Alessandro, Paolo, Gerolamo e Caterina d’Alessandria (a sinistra). Infine sul cappuccio è rappresentato l’episodio narrativo dell’Adorazione dei Magi, d’ispirazione foppesca (4).
Proprio la presenza dei Santi Vincenzo e Alessandro (all’epoca, rispettivamente patroni della Cattedrale e della chiesa cittadina che ne conserva le reliquie), oltre a quella di San Marco (protettore della Serenissima, entro i cui confini amministrativi era inserita Bergamo), lega il manufatto a doppio filo alla storia della città e della sua cattedrale.
(3) Il luogo di realizzazione di questo indumento liturgico è certamente l’area nord italiana. Esso è confezionato in un tessuto laminato d’oro con effetti di quadrettatura, su una base di armatura rossa. Il suo tessuto è caratterizzato dalla presenza del disegno a “melagrana”, molto in voga tra il 1420 e il 1550. Il motivo a melagrana si unisce nella trama al fiore di loto e alla pigna, facendo risalire l’origine dei tessuti alla seconda metà del XV secolo. Agli inizi del XVI secolo è da attribuire, invece, la composizione della trama, per via della suddivisione a scacchiera degli scomparti ogivali e l’evidente stilizzazione del formulario vegetale, elementi tipici di quegli anni. Sia lo stolone che il capino (il cappuccio sul retro del piviale) conservano un ricamo a riporto, con filati serici policromi, filati metallici e parti in tessuto dipinte. Le maglie ogivali disposte secondo un andamento a teorie orizzontali sfalsate, includono un fiore di cardo delimitato ai margini da rami fiorati. (4) La puntuale ripresa dell’Adorazione dei Magi dall’invenzione foppesca dipinta nel perduto tramezzo di Sant’Angelo a Milano (nota tramite le derivazioni diffuse in diverse chiese lombarde dei Minori Osservanti), serve a istituire un ulteriore legame con la cultura figurativa lombarda e, più in particolare, al magistero di Foppa. I dieci Santi che appaiono sullo stolone abitano nicchie (o formelle) architettoniche non dissimili da quelle – rappresentate in pittura – del polittico di Bernardino Butinone e Bernardo Zenale a Treviglio e del polittico di Santa Maria delle Grazie di Vincenzo Foppa, datato al 1476 (ora alla Pinacoteca di Brera a Milano). Anche la posa della Madonna e di S. Giuseppe fanno presagire stilemi di inizio Cinquecento (con un’evidente richiamo al dipinto di Giacomo Borlone nell’Oratorio dei Disciplini a Clusone, databile intorno al 1470).
L’ELEMOSINA DEI CONFRATELLI DELLA MISERICORDIA
Il lacerto con I confratelli della Misericordia (sinora esposto al Museo diocesano e proveniente proprio dall’antica cattedrale), è quello provieniente dalla zona scavata da Elia Fornoni nel 1906.
La rappresentazione riguarda la confraternita intitolata a Santa Maria della Misericordia, più nota come MIA, una delle associazioni locali più antiche della città e che in origine si radunava nella chiesa di San Vincenzo. Tra gli obblighi della confraternita, che aveva intenti spirituali e caritativi, figurava la distribuzione dell’elemosina ai poveri.
L’affresco fu dipinto negli stessi anni della fine del Duecento in cui si metteva mano alla decorazione dell’iconostasi.
LA MADONNA DEI CANONICI DELLA CATTEDRALE
Fra le opere figurative del Tesoro, si contempla anche l’icona della Madonna dei Canonici della Cattedrale.
Riferimenti
– Le domande di un visitatore, le risposte di una guida. Testi di Simone Facchinetti. Litostampa Istituto Grafico srl – Bergamo, 2012.
– Academia.edu – Fabio Scirea Il complesso cattedrale di Bergamo.
– Cattedrale di Bergamo.
Siamo nell’età dioclezianea, prossimi ormai al quarto secolo. L’editto milanese dell’anno 313 permette libertà di culto ai cristiani; nel 380 quello di Tessalonica, sotto il regno di Teodosio, proclama la nuova religione, unico culto dello stato: a duecentocinquant’anni dalla prima persecuzione neroniana in Roma, Bergamo dà il primo segno d’essere stata toccata dalla nuova parola con Alessandro, miles della Legio Tebana di stanza a Milano, martirizzato sotto la persecuzione di Massimiano (286-305 d.C.) o di Diocleziano (303-304 d.C.).
Narra la tradizione che nei giorni seguenti il martirio di Alessandro, la nobile Grata, figlia di Lupo, trovò il suo corpo, lo raccolse e con la compagna Esteria ed i suoi servi volle dare sepoltura al martire in un suo podere posto sull’alto dei colli, fuori le mura della città. Giunti al podere disteso tra le vigne, all’inizio di Borgo Canale, Grata dette sepoltura al corpo del Santo, là dove successivamente fu eretta la basilica a lui intitolata, di cui oggi resta una colonna innalzata poco più a monte del sito effettivo in cui la basilica si trovava.
Le figure dei primi cristiani presenti nella nostra città sono tratteggiate da leggende e tradizioni tramandate oralmente: oltre ad Alessandro, il martire legionario venuto dall’oriente, morto alla fine del III d. C., Fermo e Rustico, i primi giovani bergamaschi capaci di offrire la vita a testimonianza della loro fede; Grata, la gentile, che tra i gigli solleva la testa mozza del martire; Narno, Viatore e Dominatore, i pastori del primo gregge cristiano; Proiettizio, Giacomo e Giovanni, ombre erranti con le torce accese nella basilica, e Esteria la velata.
Nel territorio bergamasco, dove prevale la presenza contadina e ancora permane fortemente radicata la fede pagana, sono questi personaggi i primi protagonisti di una storia in parte vera e in parte intrisa di emozionanti leggende e di figure levate a volo dall’eccitata fantasia di credenti visionari.
Sulle terre dei morti, sulle aree sepolcrali fuori delle porte cittadine, con ogni probabilità inizia soltanto allora a nascere Bergamo cristiana. Ed è appunto dalla metà del IV secolo che, così come solitamente avveniva nei municipia romani, iniziano a profilarsi a Bergamo i primi edifici della topografia cristiana: nasce IV sec. la basilica alessandrina sul sepolcreto di Borgo Canale, fuori la porta occidentale, là dove Grata aveva deposto il corpo mozzato di Alessandro.
Poco dopo, nel V secolo, in un’area centrale della città sorge la basilica di San Vincenzo, concattedrale insieme alla basilica dedicata ad Alessandro, ognuna governata da un proprio Capitolo: per secoli le due canoniche, diretta espressione dei rispettivi schieramenti cittadini, saranno protagoniste di continui contrasti (a volte anche armati), legati al governo della città, al controllo del contado e delle decime.
Documentata solo dal 774 nel testamento del gasindio regio Taido (“Basilica beatissimi Christi martyris Sancti Alexandri…ubi eius sanctum corpus requiescit”), custodisce i resti del martire Alessandro, eletto compatrono di S. Vincenzo per Bergamo e il suo territorio nel 1561, fino a divenire l’unico titolare della città il 4 novembre 1689, all’atto dell’unificazione in un unico Capitolo.
Altri edifici sacri sorgeranno nel corso dell’altomedioevo e, fra questi, la basilica cimiteriale di Sant’Andrea (menzionata in documenti del 785), fuori la porta orientale, su un’area sepolcrale sviluppatasi a partire dal VI secolo (e sulla quale verrà costruita la nuova chiesa ottocentesca); a settentrione, la ragguardevole San Lorenzo (1), risalente all’VIII secolo, anch’essa abbattuta nel 1561 per la realizzazione della fortificazione veneziana; la chiesa di S. Salvatore, cui risale un’antichissima tradizione legata al “divo Lupo”, padre di S. Grata; la chiesa di S. Grata inter vites (documentata nel 774), sorta sui terreni di proprietà della famiglia di Grata, di cui conserverà le spoglie fino al 1027, quando verranno traslate nella chiesa di S. Maria Vecchia in via Arena, successivamente intitolata alla santa: per non creare confusione nell’identificazione dei due edifici, alla titolazione della chiesa verrà aggiunta la specifica di inter vites (tra le viti), motivata dalla sua posizione fuori le mura del borgo sul colle (2).
INTRA O EXTRA MOENIA?
Riguardo l’ubicazione della basilica alessandrina, è opinione comune che si trovasse fuori dalla cinta muraria (extra moenia), sebbene in certi documenti fosse indicata come interna e non più esterna alle mura: un’incongruenza derivante forse dal fatto che la fortificazione che proteggeva la cittadella alessandrina, sorgendo a ridosso del settore nordovest delle antiche mura (romane, poi altomedioevali e medioevali), venisse talora considerata come parte integrante delle stesse.
Nella veduta di Alvise Cima appare all’incrocio di quattro direttrici (borgo Canale – via Sudorno poi via S. Vigilio/via Cavagnis – Colle Aperto – via Arena), tra cui la stradina che a sud, affiancata da una siepe, superava la portatorre medioevale di S. Alessandro (GG), entrava nella Cittadella viscontea (X-viale delle Mura) e si connetteva alla via Arena fino a giungere nel cuore del nucleo storico. La sua posizione a valle, rispetto al punto in cui sono state collocate nel Seicento la colonna e le lapidi in sua memoria, indicano anche di come fosse posta proprio all’imbocco del borgo Canale, che dopo la chiesa di S. Grata inter vites (10) piegava in discesa fino all’attuale quartiere di Loreto.
La sua posizione a cavallo del tracciato delle mura veneziane rese inevitabile la sua demolizione, rendendo extra moenia tutto il vicino borgo, che peraltro già soffriva di una condizione marginale dovuta dai tempi della costruzione della trecentesca Cittadella viscontea (3).
E’ difficile stabilire se, deviando il bastione di Sant’Alessandro, almeno una parte avrebbe potuto salvarsi, non foss’altro perché le più aggiornate tecniche di architettura militare esigevano la presenza di una vasta area libera intorno alla fortificazione: e così nel borgo, insieme alla cittadella alessandrina vennero distrutte anche 80 case.
LA CITTADELLA ALESSANDRINA
Come attestato in antichi documenti, la basilica si trovava all’interno di un sistema di edifici racchiusi in un recinto fortificato, la “Cittadella alessandrina”, comprendente la piccola chiesa di S. Pietro, adibita al rito battesimale, ampliata verso la fine del Quattrocento e demolita nel 1529.
Vi erano poi, oltre a una grande piazza, edifici con funzione di residenza, assistenza e ospitalità: uno xenodochio (ricovero per pellegrini ed infermi), la casa del Prevosto, la residenza del Vescovo e la canonica, dove si svolgeva la vita comunitaria, nonché un’altissima torre campanaria di carattere difensivo.
I terreni circostanti, di proprietà vescovile, erano denominati “Vigna di Sant’Alessandro”.
In quanto molto antica e custode dei resti del santo, è plausibile che la basilica rivestisse, almeno inizialmente, lo status di unica cattedrale, nonostante le cattedrali paleocristiane sorgessero senza eccezioni entro le mura cittadine, seppur in rapporto con i santuari cimiteriali del suburbio.
Come riportato da Lorenzo Dentella, “Il tempio era per antichità insigne, celeberrimo per frequenza e devozione di popolo […] Distinto per la dignità prepositurale e per Capitolo di diciotto canonici”. Le fonti indicano tale numero per il 975, numero che oscillò nel tempo: essi restarono nella Cittadella alessandrina sino al momento della distruzione del complesso basilicale.
LA GRANDE TORRE
Al centro della cittadella alessandrina, “a dieci passi dalla chiesa” si elevava l’imponente torre campanaria a pianta quadrangolare, descritta come molto larga alla base e con una struttura muraria a grandi massi di pietra che la rendeva inespugnabile; essa garantiva le possibilità difensive estreme e costituiva ultimo rifugio in caso di assalto nemico e poteva agevolmente ospitare per molti giorni la corte ecclesiastica al completo con gli arredi più preziosi (4).
La torre, che raggiungeva gli oltre 35 metri in altezza, spiccava su tutta la città rivaleggiando col Campanone affinché il suono delle sue campane (in numero di sei nel XI secolo) potesse chiamare a raccolta il popolo nelle grandi cerimonie che avevano luogo nell’insigne basilica.
Anche la chiesa di San Vincenzo era dotata di un’analoga torre campanaria difensiva (attestata dal 1135 e demolita nel 1688 per far posto all’attuale abside), che fu più volte “ruinata” e riparata nel corso delle lotte intestine fra opposte fazioni.
L’ASPETTO DELLA BASILICA ALESSANDRINA
L’immagine pittorica più antica della chiesa è giunta sino a noi grazie a un dipinto del 1529 di Jacopino Scipioni, che doveva trovarsi all’interno della basilica alessandrina, per poi essere esposto nella chiesa di San Pancrazio dietro l’altare maggiore.
Un’altra immagine della basilica alessandrina fu riprodotta da Fabio Ronzelli nella Traslazione del corpo di Sant’Alessandro (1623), dipinto collocato presso la sacrestia del Duomo di Bergamo.
In un altro dipinto, la Tumulazione di Sant’Alessandro (1623) di Fabio Ronzelli, è raffigurato un uomo che tiene fra le mani il modello dell’insigne Basilica: un dipinto è conservato presso la chiesa di S. Alessandro della Croce o presso le sacrestie del Duomo di Bergamo.
L’insigne basilica, pur non presentando le vaste dimensioni delle grandi costruzioni romane da cui trae il modello, doveva essere maestosa e lo si può desumere dai disegni del rilievo eseguiti (ad perpetuam rei memoriam) su ordine del vescovo Federico Cornaro dal canonico Giovanni Antonio Guarneri, che dovette redigere una relazione sulla demolizione dell’antica chiesa (le cui dimensioni furono riportate in cubiti) e sul trasporto delle reliquie di S. Alessandro nella chiesa di S. Vincenzo.
Il sacro edificio, a pianta longitudinale diviso in tre navate, aveva una lunghezza di quaranta metri e quindici di larghezza e rispettivamente ventisette metri per sei e mezzo misura la sua navata principale. Conteneva quindi comodamente cinquecento fedeli nello spazio centrale; più di mille, sommando a quello le navi minori.
Un muro, verosimilmente somigliante all’iconostasi della cattedrale di San Vincenzo, separava le navate laterali dalla zona presbiteriale, alla quale si accedeva dalla navata centrale tramite quattro gradini. La cattedra del vescovo era invece posta dietro l’altare maggiore, circondata dai seggi dei canonici.
Attraverso due scale di quindici gradini si accedeva ad una cripta che conteneva, come riporta la tradizione, i tre altari di Sant’Alessandro, San Narno e San Viatore (i primi due vescovi di Bergamo), presumibilmente posti sopra le rispettive arche e, sempre secondo la tradizione, i resti di alcuni altri santi bergamaschi.
L’ASSEDIO DEL 894 E LE MODIFICHE DI ADALBERTO
Nell’anno 894 le truppe tedesche per mano di Arnolfo di Carinzia (figlio di Carlo Magno e futuro re d’Italia), assalirono la città, saldamente fortificata, distruggendone una parte: penetrate dal colle di San Vigilio, distrussero il Castellum e la Cittadella Alessandrina con la sua basilica, “diruta et combusta remansit”, scrive Mario Lupo nel suo Codex diplomaticus.
Solo dopo molti anni, quando il borgo e la vita tornarono a rifiorire, il vescovo Adalberto provvide alla sua ricostruzione.
LA FINE DELL’AUGUSTO TEMPIO
L’abbattimento della basilica alessandrina fu un episodio molto doloroso per la città, raccontato da numerose cronache, “..tristissimo avvenimento da addossarsi a totale carico di chi nel 1561 guiderà la costruzione delle nuove mura: atto di inciviltà e di soldatesca prepotenza favorito dalla disanimata e mercantile piaggeria dei reggitori veneti di quel tempo, posti di fronte ai vocianti e sgangherati aut aut di personaggi dal mercenario mestiere; impietosi e quindi sordi ad ogni voce dei sentimenti di una gente pacifica e proprio per questa ragione spregiata e tenuta in nessuna considerazione” (5)
Nonostante il 7 luglio del 1560 il capitano Pietro Pizzamano avesse fatto presente che l’erezione delle mura avrebbe arrecato gravi danni al patrimonio di Bergamo, l’anno successivo, il Governatore Generale al servizio di Venezia Sforza Pallavicino, giunto a Bergamo con il compito di dirigere i lavori di fortificazione della città, non mise neppure in conto di modificare il tracciato della fortificazione e si limitò a comunicare la sua decisione al vescovo, il veneziano Federico Cornaro, dando disposizioni perché fosse minata la grande torre che fungeva da campanile.
Il vescovo, entrato nella sua diocesi solo l’11 luglio, fu impotente di fronte all’imminente distruzione di case, chiese e conventi, muri, orti e vigne, e di quella basilica che per più di mille e duecento anni era stata il decoro e la gloria della città. Neppure i cittadini ebbero il tempo di opporsi, né di tentare accordi di modifica alle opere proposte: a nulla valsero le tre precessioni cittadine (30/ 31 luglio e 1 agosto 1561), programmate per chiedere a Dio che illuminasse le autorità venete: la prima annoverava una folla straripante, che convinse i Rettori a vietarne altre di simili per motivi di ordine pubblico.
Il vescovo fece appena in tempo a far redigere l’inventario di tutti i beni (paramenti sacri, arredi, suppellettili), tra il 4 e il 7 agosto, giorno in cui all’insaputa anche del Senato, si sarebbero avviate le demolizioni.
Commovente la scena dell’ultima messa solenne nell’agonizzante basilica, gremita di una folla lacrimevole composta da tutto il popolo bergamasco, mischiato ai soldati in armi. Era la domenica nona dopo la Pentecoste, il Pallavicino aveva provveduto 1800 fanti e cinquanta soldati a cavallo per mantenere l’ordine. Quando il diacono al Vangelo cantò et ut appropinquavit Iesus videns civitatem flevit super illiam, quasi fossero parole espressamente ispirate per la indeprecabile fatalità dell’ora, la folla compresa da terrore si abbandonò al pianto.
Il Cornaro, mentre i soldati si erano accampati nella chiesa, fece aprire l’arca che conteneva i resti del Santo, alla presenza di sacerdoti e canonici, mentre i guastatori, eseguendo gli ordini dello Sforza, abbattevano la casa del Prevosto.
Nel corso della funzione sorsero problemi tra i canonici del Capitolo di S. Alessandro e quelli di S. Vincenzo, riguardo la destinazione finale delle reliquie del santo martire; il Vescovo intervenne con decisione e dopo aver esposto alla devozione dei fedeli i resti santi (secondo la tradizione dall’alba alle quindici per gli uomini, dalle quindici fino al tramonto per le donne), dopo aver constatato che le reliquie non erano mai state profanate, un corteo di religiosi, sacerdoti, nobili cavalieri, confusi tra una folla piangente e devota, si avviò in processione notturna nel Duomo cittadino, dove furono portate anche le reliquie dei Santi Narno e Viatore: la tradizione riporta che si fece ricorso a due casse, divise con tanti tramezzi in ciascuno dei quali furono deposte anche le reliquie dei Santi Giacomo, Proiettizio, Giovanni ed Esteria.
Dopo la traslazione, il 14 agosto fu distrutta la torre campanaria, imbragata di assi in legno impregnate di pece alla base e private delle pietre portanti, per favorirne la caduta. L’alto Campanile rovinò sulla basilica trascinando con sé tutto quello che ancora restava dell’antica costruzione e distruggendo la canonica e gli edifici adiacenti.
“In questo giorno scoppiò la mina, precipitò la torre, e cadendo al basso sopra la cattedrale… ogni cosa distrusse.. L’insigne Canonica, Santa Basilica e antica Cattedrale di sant’Alessandro, che per 1200 e più anni era stata il decoro e la gloria della nostra patria, in quel funesto giorno cominciò, fra le rovine a deplorare la caduta dei propri privilegi, datosi principio a mandarla per terra con doglie e pianto per tutta la città” (6).
In quei giorni infausti, mentre la diplomazia veneziana fingeva di trattare e nonostante la premessa di poterli risparmiare, venivano distrutti altri edifici sacri: la chiesa di San Lorenzo nell’omonimo borgo, assieme alla chiesa parrocchiale di S. Giacomo, che sorgeva in prossimità della porta nella cerchia delle mura medievali. Vennero poi demoliti la chiesa e il convento domenicano dei Santi Stefano e Domenico sul colle di Santo Stefano, che sorgeva isolato dalla città: ed anche in questo caso lo Sforza fece ricorso alle mine, scavando delle gallerie sotto il monastero, dove vennero collocati barili pieni di polvere, che esplosero nella notte dell’11 novembre di quello stesso terribile anno.
COSA RIMANE DELLA BASILICA ALESSANDRINA
Con il crollo della torre, poco si salvò della basilica, anche se si dice che alcuni dei suoi altari furono reimpiegati; per lo più i materiali vennero abbandonati o riutilizzati per costruzione di fabbricati; sicuramente molti di essi furono reimpiegati per la costruzione delle mura ed è singolare la vicenda che riguarda le due grandi statue raffiguranti Adamo ed Eva, situate ai lati dell’ingresso della basilica Alessandrina.
Secondo l’abate Calvi, nel crollo dell’edificio andarono a pezzi ma ne vennero recuperate le teste e parte del busto per essere poi utilizzate nella costruzione delle mura e collocate di fronte al luogo dove si trovava la basilica e “ove pur sono di presente”, aggiunge sotto la data del 16 agosto.
Una fonte indica che i pulpiti attuali del Duomo furono ricavati dai marmi giacenti presso i depositi della M.I.A. – Pia Opera di Misericordia – e aggiunge che forse siano quasi tutti derivati dalla demolizione della Basilica.
Le dodici colonne che ornavano la basilica alessandrina presero diverse direzioni: due vennero donate al Santuario di Caravaggio nel 1584, quattro furono adoperate per il portale del Duomo e da qui levate quando l’architetto Bonicello realizzò l’attuale facciata; altre vennero utilizzate per l’altare della basilica di Santa Maria Maggiore.
Una di queste, si dice sia quella fatta innalzare nel 1621 dal Capitolo della Cattedrale sul luogo dove sorgeva l’antica basilica: la colonna cui accennato in precedenza, che ancora si vede in prossimità delI’imbocco di Borgo Canale, alla quale fu data “più degna sistemazione” nel 1961, in occasione del quarto centenario della demolizione della basilica.
La colonna risulta essere di granito di Numidia, lo stesso granito usato nella costruzione delle basiliche costantiniane di Roma. Una coincidenza che fa pensare ad un contributo imperiale per l’antico tempio paleocristiano.
Nel presbiterio della chiesa di Sant’Alessandro della Croce in Borgo Pignolo, a sostegno della mensa liturgica trova collocazione un’antichissima arca di pietra utilizzata, secondo l’iscrizione secentesca leggibile sulla parete esterna, come sepolcro per il corpo di Sant’Alessandro (e successivamente per quello di Santa Grata).
L’arca, monolitica e sobriamente decorata di semplicissime figure di pilastri, archi e colonne, collocata in origine nella basilica alessandrina, trovò dapprima una sistemazione nel monastero di Santa Grata, per pervenire alla Parrocchia nei primi anni dell’Ottocento, in seguito agli spostamenti causati dalle soppressioni napoleoniche. La sua attuale funzione rievoca in modo suggestivo consuetudini della Chiesa delle origini, che usava celebrare i riti liturgici sulle tombe dei martiri.
Marina Vavassori, archeologa epigrafista, afferma che il sarcofago di Sant’Alessandro fu in origine destinato a un bergamasco ignoto, abbastanza in vista, nella seconda metà del terzo secolo (250-300): il riutilizzo di antichi sarcofagi era una pratica diffusa ovunque, spesso utilizzata per accogliere i corpi dei martiri; e dal momento che la basilica di Sant’Alessandro sorgeva nell’area dell’antica necropoli romana, non fu difficile trovare un sarcofago da reimpiegare. Erasa l’iscrizione antica, perché sparisse ogni traccia di paganità, l’arca era pronta per accogliere l’eroe della cristianità.
L’arca sepolcrale dipinta da Fabio Ronzelli nella Traslazione del corpo di Sant’Alessandro (dipinto custodito presso la cattedrale di Bergamo), presenta una somiglianza impressionante con quella posta a sostegno della mensa liturgica nella chiesa di S. Alessandro della Croce.
E’ nuovamente Marina Vavassori ad informarci che in una Memoria conservata all’Archivio Diocesano di Bergamo, relativa alle spese fatte fra il 1688 e il 1714, si legge che nello scurolo del Duomo (chiesa ipogea) si trovavano “li marmi” dell’antica Cattedrale di Sant’Alessandro distrutta nel 1561, probabilmente lì trasferiti quando lo scurolo non era più attivo.
Ma già prima della demolizione della basilica alessandrina, “molte lapidi si erano disperse e spesso venivano riutilizzate” e se alcuni marmi erano epigrafati, spesso venivano utilizzati dall’altra parte.
Ricordiamo infine che alla basilica alessandrina fu dedicato il nome della porta medioevale che dal versante occidentale dei colli dà accesso al centro storico: denominazione riconfermata con la nuova porta cinquecentesca edificata dai Veneziani.
LA CROCE DI UGHETTO: IL SIMBOLO DELL’UNIFICAZIONE DEI DUE CAPITOLI
La croce di Ughetto, la grande croce processionale proveniente dalla distrutta basilica alessandrina, si cela nei sotterranei del Duomo di Bergamo, dove una lunga e importante campagna di scavi ha recentemente portato alla luce la basilica paleocristiana di S. Vincenzo.
Si tratta dell’opera forse più rappresentativa del Tesoro della cattedrale, in origine arricchita da 34 reliquie miracolose, sigillate sotto la sua preziosa oreficeria.
La croce prende il nome dal suo principale esecutore, Ughetto Lorenzoni da Vertova, il quale l’ha realizzata nel 1386 per conto dei Canonici del Capitolo di Sant’Alessandro.
E’ questo il motivo per cui il Santo appare vistosamente abbigliato come un cavaliere medievale in sella al suo destriero, mentre sullo sfondo si staglia il profilo ideale della città di Bergamo, conquistata alla fede cristiana.
Nell’imminenza dell’abbattimento della basilica, oltre ai paramenti sacri, organi, campane e corredo liturgico, la croce di Ughetto venne portata in solenne processione nella chiesa di S. Vincenzo, insieme alle sacre reliquie: il Capitolo di S. Alessandro perdeva definitivamente la propria sede e da quel momento i due Capitoli di S. Vincenzo e di S. Alessandro si trovarono a convivere fino alla definitiva fusione sotto le insegne di S. Alessandro, avvenuta nel 1689, anno della posa della prima pietra della nuova cattedrale.
La croce fu rinnovata nel 1614, anno in cui fu sancita la provvisoria riunificazione dei due Capitoli di S. Vincenzo e di S. Alessandro: il restauro della croce è quindi la concreta manifestazione di questo tentativo di unità, tanto che la fisionomia originale della croce è stata stravolta e piegata a questo scopo.
In origine il recto esibiva il Cristo crocifisso tra la Vergine e S. Giovanni, in alto un Angelo e ai piedi S. Alessandro a cavallo. Il verso esibiva il Cristo glorioso tra i quattro evangelisti e ai piedi Santa Grata.
Nell’operazione di restauro (oltre alle vere e proprie aggiunte seicentesche) il Cristo crocifisso medievale è stato sostituito con un altro più recente, recuperato da una croce del Capitolo di San Vincenzo.
Inoltre, i materiali del paliotto d’altare fisso (la cui realizzazione risale al 1908) conservato presso il Duomo di Bergamo, provengono con tutta probabilità dall’antica basilica alessandrina. Si tratta di una ferriatina e di piccole sculture ornamentali, a lungo utilizzati per decorare l’altare di sinistra della Cattedrale di San Vincenzo. Così come oggi si presenta la composizione prevede: nella parte centrale in basso Sant’Alessandro vessillifero; ai lati della ferriatina San Narno e San Viatore; alle estremità del lato a sinistra San Propettizio e San Giovanni Vescovo; a destra San Giacomo e S. Esteria. Tra i racemi emergono gli stemmi di San Pio X e del Vescovo Tedeschi.
Note
(1) Alberto Fumagalli, Le dieci Bergamo. Ed. Lorenzelli.
(2) Tosca Rossi, A volo d’uccello Bergamo nelle vedute di Alvise Cima Analisi della rappresentazione della città tra XVI e XVIII secolo, Litostampa istituto grafico, Bergamo, 2012, cm 21×28, pp. 244.
(3) Tosca Rossi, Op. Cit.
(4) Bruno Cassinelli, Il contesto urbano della corte ecclesiastica alessandrina, in “Bergamo e S. Alessandro”, p. 131-138. Anno 1997.
(5) A. Fumagalli, Op. cit.
(6) Padre Donato Calvi, Effemeridi, 14 agosto 1561.
Riferimenti principali
– Tosca Rossi, A volo d’uccello Bergamo nelle vedute di Alvise Cima Analisi della rappresentazione della città tra XVI e XVIII secolo, Litostampa istituto grafico, Bergamo, 2012, cm 21×28, pp. 244.
– Academia.edu – Fabio Scirea Il complesso cattedrale di Bergamo.
– Bergamosera – La Basilica alessandrina – Andreina Franco Loiri Locatelli.
– Alberto Fumagalli, Le dieci Bergamo. Ed. Lorenzelli.
– Bruno Cassinelli, “Il contesto urbano della corte ecclesiastica alessandrina”, in Bergamo e S. Alessandro, p. 131-138. Anno 1997.
Il ciclo delle Storie di Sant’Alessandro è stato radunato per la prima volta – dopo la loro dispersione, avvenuta nella seconda metà del Settecento – in occasione dell’esposizione tenutasi a Bergamo dal 26 agosto al 26 ottobre 2010 nella Cattedrale di Sant’Alessandro.
Si tratta di un apparato effimero realizzato in prevalenza da Enea Salmeggia detto Il Talpino (artista nato presumibilmente a Bergamo intorno al 1570 e documentato dal 1590 circa fino alla morte nel 1626), uno dei principali pittori attivi a Bergamo, a cavallo tra Cinque e Seicento.
Assieme alle undici tele di soggetto narrativo, in occasione della mostra sono stati raccolti un disegno preparatorio (relativo a un episodio forse mai realizzato), mentre l’ultima storia della serie, raffigurante la Traslazione del corpo di Alessandro, è da attribuire a Fabio Ronzelli, un pittore minore (contemporaneo di Salmeggia) a cui spetta anche il Sant’Alessandro a cavallo, esposto al centro della narrazione espositiva.
Non si sa come questo apparato effimero fosse montato anticamente, tuttavia, secondo il parere dei curatori della mostra la coincidenza tra la misura della larghezza delle tele di impianto narrativo e quella celebrativa del Sant’Alessandro a cavallo, impone una stretta relazione tra loro.
L’ipotesi di montaggio si è basata anche sul confronto con una incisione stampata a Roma nel 1618 e firmata da Jhoann Friedrich Greuter (vedi figura).
La figura equestre di Sant’Alessandro, appoggiata su un alto piedistallo, è circondata da 23 episodi narrativi disposti secondo un ordine di lettura che procede da sinistra a destra, dall’alto al basso.
Il ciclo delle Storie di Sant’Alessandro dipinte da Enea Salmeggia, fu originariamente concepito come un unico apparato destinato a solennizzare la celebrazione del Patrono nella chiesa diocesana dedicata al martire.
Riguardo al secentesco apparato effimero, cioè non permanente, di opere d’arte a fine liturgico, il Vescovo Francesco Beschi ha affermato che la sua ricomposizione “restituisce in qualche modo un’impressione degli antichi apparati effimeri che corredavano spesso le liturgie della nostra ricca tradizione di fede. In questo senso, questa mostra che si svolge attraverso una installazione posta dentro la Cattedrale, richiama bene il contesto liturgico e teologico entro il quale molta dell’arte che ammiriamo ha trovato la propria origine”.
Le 11 tele esposte a in Cattedrale hanno quindi seguito l’andamento narrativo della vita del Santo, secondo la codificazione letteraria stabilita all’inizio del Seicento.
IL CONTESTO
Per capire meglio il contesto in cui si è realizzata la commissione a Enea Salmeggia del ciclo alessandrino, bisogna risalire almeno fino al 1561, anno in cui fu rasa al suolo la basilica di Sant’Alessandro.
La distruzione dell’edificio era stata ordinata dal governo veneto (assieme all’abbattimento del convento domenicano di Santo Stefano e della chiesa di San Lorenzo) poiché esso sorgeva sul tracciato in cui dovevano essere erette le nuove mura di protezione della città.
Nel mese di agosto del 1561 erano iniziati i preparativi per lo sgombero e l’abbattimento della basilica di Sant’Alessandro. Il 13 agosto di quell’anno le reliquie di Sant’Alessandro (assieme a quelle di altri “Corpi Santi”) erano state traslate nella cattedrale di San Vincenzo (l’attuale cattedrale di Sant’Alessandro) con grande concorso di popolo.
Da quel momento il capitolo di Sant’Alessandro (composto dal collegio dei canonici istituito presso la distrutta chiesa di Sant’Alessandro) si era trovato a convivere con quello di San Vincenzo.
La coabitazione tra i due capitoli era risultata difficile e tormentata, almeno fino al 1614, quando si stabiliva un accordo tramite gli Atti dell’Unione e Concordia dei Capitoli e Cattedrali di S. Vincenzo e S. Alessandro.
La concordia tra i due capitoli si ruppe già nel 1615. Le tensioni erano legate alla nuova fabbrica del Duomo e alla sua intitolazione (l’accordo provvisorio del 1614 prevedeva che la nuova Cattedrale sarebbe stata dedicata al solo Sant’Alessandro e che le due congregazioni si sarebbero fuse nel capitolo di Sant’Alessandro Maggiore).
In questo clima di tensione, avvelenato dall’insinuazione che non sarebbero più esistiti i resti mortali del Santo si decise (nel 1617) di condurre una ricognizione delle reliquie.
Tra i pochi testimoni oculari di questa verifica figurava il frate cappuccino Celestino Colleoni, autore di una fortunata Historia Quadripartita di Bergamo et suo Territorio, nato Gentile e rinato Christiano (1617), dove è contenuta una rilettura moderna dei fatti della vita di Sant’Alessandro.
COMMITTENTE E PITTORE
E’ forte il sospetto che Celestino Colleoni abbia collaborato all’ideazione iconografica del ciclo alessandrino, dipinto da Enea Salmeggia proprio in questo giro d’anni (tra il 1614 e il 1617).
Nella sua Historia Quadripartita infatti, è riportata la narrazione della vita di Sant’Alessandro, che è risultata combaciare perfettamente al ciclo delle Storie di Sant’Alessandro del Salmeggia.
Il ciclo era nato per volontà di un membro del capitolo di Sant’Alessandro, il canonico Lattanzio Bonghi. Nel 1623, poco prima di morire il Bonghi metteva a disposizione del capitolo dodici dipinti di “Eneae Salmetie appellati Il Talpino” raffiguranti “vitam, actiones, martirium et miracula gloriosissimi Martiris Alexandri Patriae nostrae patroni”. La proprietà della serie rimaneva degli eredi Bonghi, tuttavia le opere sarebbero state liberamente messe a disposizione per le solennità e le feste dedicate a Sant’Alessandro. Questo fatto originario spiega la dispersione del ciclo, avvenuta almeno a partire dal 1768, quando è documentato l’acquisto del collezionista bergamasco Giacomo Carrara di sue storie alessandrine possedute da Enrico Bonghi (un discendente di Lattanzio).
La scelta del pittore di Enea Salmeggia da parte del canonico Bonghi non fu casuale o fortuita, ma consapevole. Nello stesso periodo in cui realizzava il ciclo con le storie di Sant’Alessandro, il Salmeggia era già molto stimato per una sua particolare dote, quella di muovere a “mirar devotamente ciascuna sua imagine fino i nemici della stessa devotione” (lode contenuta in una lettera inviata dall’erudito Girolamo Borsieri al collezionista Scipione Toso).
Questa speciale inclinazione avrà certamente riscontrato il consenso del committente, oltre ad essere ritenuta indispensabile per un complesso ciclo narrativo legato alle gesta di un Santo dalle origini.
Le esperienze milanesi di Salmeggia (autore di opere destinate al Duomo di Milano, a Santa Maria della Neve, a Santa Maria della Passione, ecc.) devono averlo favorito nel contatto con le idee riformatrici di Federico Borromeo.
I gusti dell’arcivescovo di Milano (che proprio nel 1618 fondava con la sua collezione il Museo Ambrosiano) erano chiari ed espliciti nel recupero di modelli figurativi antichi, piegati a finalità educative e devozionali.
Non è un caso che il Borromeo dichiarasse una particolare passione per la pittura di Bernardino Luini, un pittore lombardo vissuto oltre un secolo prima di lui.
L’orientamento classicista di Luini è una delle componenti dello stile di Salmeggia, abile interprete di una linea espressiva colta e raffinata, impegnata in un’elaborazione retrospettiva di modelli di primo Cinquecento (conosciuti dal vero o mediati dalle stampe : da Leonardo a Raffaello, da Luini a Lorenzo Lotto).
La sua cultura figurativa lo metteva nelle condizioni di allestire un episodio narrativo premendo sul pedale della verosimiglianza storica e su quello della finalità devota.
Ogni episodio è articolato in una narrazione chiara e serrata, resa intelligibile da una gestualità teatrale e da un’esplicita espressione degli affetti.
Spettano a Salmeggia solo i primi dieci dipinti del ciclo (non a caso sono firmati il primo e il decimo della serie), mentre l’undicesimo e il tredicesimo qui citati, sono da riferire a Fabio Ronzelli.
Un buon viatico alla comprensione delle opere di Salmeggia, secondo la sensibilità dell’uomo del Seicento, proviene dalla lettura di un brano dello stesso Federico Borromeo tratto dal De Pictura sacra (1624) : “I colori sono simili a parole che, percepite con gli occhi, entrano nell’anima non diversamente da come fa la voce attraverso le orecchie (…). E proprio come è essenziale per l’oratore che le idee siano espresse con passione ed energia, in modo da muovere gli animi, così un dipinto risulterà una grande opera se colori e linee sono usati in maniera tale da suscitare nell’anima sentimenti pii, e infondere paura e tristezza e qualunque altra emozione opportuna. Volendo poi ampliare l’analogia, si può aggiungere che la sapienza e l’impegno con cui i pittori mirano a raggiungere il vertice nella loro arte, in certo modo assomiglia alla dottrina degli oratori, che per mezzo della voce, del gesto, dell’azione e dei movimenti del corpo ornano ogni discorso, e cercano di influenzare i sentimenti degli ascoltatori”.
LE STORIE DI SANT’ALESSANDRO DI ENEA SALMEGGIA IL CICLO RICOMPOSTO
1. Sant’Alessandro salvato dal massacro dei tebei
2. Sant’Alessandro in carcere
3. Sant’Alessandro resuscita un morto
4. Sant’Alessandro rovescia le tavole degli idolatri
5. Sant’Alessandro condannato a morte da Massimiano
6. Materno, arcivescovo di Milano, invia Sant’Alessandro a Bergamo
7. Predica di Sant’Alessandro
8. Martirio di Sant’Alessandro
9. Miracolo dei fiori nati dal sangue di Sant’Alessandro
10. Santa Grata mostra a suo padre Lupo i fiori nati dal sangue di Sant’Alessandro
11. Traslazione del corpo di Sant’Alessandro
12. Federico Barbarossa tenta di violare le reliquie di Sant’Alessandro
13. Sant’Alessandro a cavallo protettore di Bergamo
Guida alla lettura del catalogo
Tutte le citazioni relative alla storia di Sant’Alessandro – poste sotto le immagini – sono tratte da Celestino Colleoni, Historia quadripartita di Bergamo et suo territorio, nato gentile e rinato christiano, II, Bergamo 1617; ad esclusione di un unico episodio (il numero 9), meglio illustrato da M. Muzio, Sacra Historia di Bergamo, Bergamo, 1621,p. 76.
Qui di seguito sono precisati i numeri di pagina in relazione all’episodio narrato nell’Historia del Colleoni : 1: p. 112; 2: p. 116; 3: p. 118; 4: p. 126; 5: p. 126; 6: p. 130; 7: pp. 132-133; 8: pp. 140-141; 10: p. 175, 178; 11: p. 152; 12: p. 143; 13: pp. 150-151.
1- Sant’Alessandro salvato dal massacro dei tebei
Da questa così crudele strage alcuni da Dio inspiratisi sottrassero, e fuggendo si salvarono, non miga per fuggire il martirio, che sopra ogni cosa bramavano, ma per maggiormente ampliare la Fede Christiana […] e per cooperare alla divina providenza, la quale con tal mezzo disponeva di favorire, e arricchire alquante Città d’Italia, di Patroni; e di difensori. Seppe questo l’Herculeo [Massimiano], onde infuriato mandò publico bando che, ovunque si trovasse alcuno di questi fuggitivi Soldati Thebei, fusse fatto prigione, e isforzaro a sacrificare. Fra questi S. Alessandro Alfiere […] della Legione, e con esso lui Cassio Severino Licinio, e Secondo in Italia ritornati, e giunti apena a Milano, conosciuti furono incontanente in oscuro e fetido carcere rinchiusi (da Celestino Colleoni, Historia Quadripartita di Bergamo et suo Territorio, nato Gentile e rinato Christiano, II, p. 112, Bergamo 1617).
Sant’Alessandro è in sella a un cavallo bianco e avanza verso la direzione indicatagli da un angelo. Indossa l’armatura e un drappo rosso : con la mano sinistra regge le briglie del cavallo, con la destra sostiene il vessillo della legione tebea. Il suo sguardo si rivolge all’angelo che con gesto d’intesa gli indica la direzione di fuga. E’ fiancheggiato da due soldati, un fante e un cavaliere; in lontananza altri militari stanno combattendo. In primo piano, su uno sperone di roccia, si legge la firma del pittore “AENEAS SALMETIA”.
La scena narrata si riferisce all’episodio in cui Sant’Alessandro e i suoi compagni (cristiani e disertori), membri come lui della legione tebea, scamparono al massacro ordinato dall’imperatore Massimiano. La drammaticità dell’episodio è intensificata dall’ambiente buio in cui è stato messo in scena, dal movimento delle figure, dai nervi tesi del cavallo pronto alla fuga.
2 – Sant’Alessandro in carcere (Enea Salmeggia)
Questi uffici di charità, e questi discorsi di pietà reiterati più d’una volta havendo ben osservato Sillano capitan della prigione, e ascoltato attentamente; e considerando appresso l’invitta patientia de’ Santi prigionieri, e l’allegrezza de animi loro, che di fuori anco ne’ volti scoprivano e dimostravano, un giorno trovandosi in Corte, il tutto riferì a Carpoforo e Essanto, suoi famigliari amici, e persone della Corte principali, i quali da Dio inspirati pregarono con molta instanza che alle prigioni senza frammetter tempo li conducesse perchè erano bramosi di con le proprie orecchie udire, e co’ propri occhi vedere cose tanto rare e degne di maraviglia.
Et egli senza replicar altro con loro postosi in via, arrivarono tutti e tre alla prigione, e entrati salutarono i Santi Martiri Alessandro e i compagni. […] Tanto potenti e tanto efficaci ragioni propose loro il facondo Alfiere, che da esse persuasi la Fede Christiana abbracciarono: e fratellatisi insieme, e baciandosi non sapevano quindi partire. […] Salutatisi finalmente e baciatisi di novo uscirono dalla prigione Carpoforo e Essanto, e ritornati in Corte detestarono i falsi Dei, come quelli ch’erano sordi, muti, ne potevano per essere fatti da gli huomini, far bene alcuno ne à se stessi; ne à gli altri (da Celestino Colleoni, Historia Quadripartita di Bergamo et suo Territorio, nato Gentile e rinato Christiano, II, p. 116, Bergamo 1617).
All’interno di una stanza carceraria illuminata da luce artificiale si trovano Sant’Alessandro in posizione preminente e i suoi compagni, che emergono dal fondo scuro con le mani bloccate in ceppi e i piedi incatenati.
Dai loro volti traspaiono differenti stati d’animo: un prigioniero affianca Alessandro e si pone in ascolto osservandolo intensamente, altri due instaurano un muto dialogo guardandosi stupiti, affiancati da una figura dormiente.
Il Santo si presenta di profilo, con le catene ai piedi e le mani dietro la schiena; si rivolge a due uomini che stanno di fronte a lui.
Uno di loro si tocca il petto con la mano, segno del coinvolgimento emotivo e della partecipazione alle parole del Santo; l’altro sorregge una fiaccola illuminando parzialmente la scena.
Fuori dalla stanza un uomo regge una lanterna e osserva incuriosito ciò che avviene all’interno del carcere.
L’episodio narrato ha come protagonisti Sillano, custode della prigione, insieme a Carpoforo ed Essanto che, desiderosi di conoscere il Santo, furono condotti al suo cospetto e dopo averne ascoltato le parole si convertirono alla fede cristiana.
3 – Sant’Alessandro resuscita un morto
Arrivati ad un certo luogo o Borgo della Città non molto distate si fermarono quivi aspettando che si facesse giorno: e la mattina per tempo incamminatisi verso la Città, hebbero incontro gran moltitudine di gente, la quale con gran pompa un morto alla sepoltura accompagnava.
All’hora Alessandro santissimo […] posti gli occhi nel cadavere, fece incontanente posare in terra la bara, e à suoi compagni rivolto disse Fratelli oriamo, e preghiamo il nostro Signore che per sua misericordia, con la sua onnipotente virtù, ritorni in vita questo morto; affinchè risuscitato creda in lui, e nell’avvenire habbia parte con i suoi Fedeli nella vita eterna, e sia cagione di salute à questo popolo.
Per questa essortazione i Santi con fermissima fede prostrandosi in terra adorarono Dio, che dà la vita a i morti […]. Finita questa oratione il morto risuscitò salvo dell’anima e del corpo, e illuminato disse ad alta voce, e con pia intenzione.
Egli è uno vero e solo Dio quel che adorano questi Santi: il quale per le preghiere loro mi hà ritornato in vita e dalle tenebre alla luce, mi hà ridotto, e dalla morte eterna misericordiosamente mi hà campato e liberato (da Celestino Colleoni, Historia Quadripartita di Bergamo et suo Territorio, nato Gentile e rinato Christiano, II, p. 118, Bergamo 1617).
Grazie all’aiuto di Essanto, Carpoforo e Fedele, Sant’Alessandro e i suoi compagni evadono dal carcere.
Durante la fuga in direzione di Como incontrano un funerale.
Sant’Alessandro ha appena resuscitato il giovane sdraiato su un cataletto. Il Santo, con il braccio destro levato, indica al ragazzo la pietà divina che lo ha salvato; con la mano sinistra regge un vessillo, al centro del quale spicca un giglio bianco, simbolo della legione tebea.
Il miracolato solleva il busto verso il Santo e apre la mano sinistra in segno di stupore e ringraziamento.
Attorno ai due protagonisti si staglia la folla: a sinistra alcuni compagni di Sant’Alessandro sono inginocchiati in preghiera; a destra il popolo che stava accompagnando il defunto alla sepoltura osserva attonito l’accaduto e dimostra la propria incredulità con braccia aperte e sguardi incuriositi.
La scena si svolge in un ambiente boschivo; in lontananza si intravedono alcune persone e una città, verso la quale Sant’Alessandro e i suoi compagni si stavano incamminando prima di incontrare il corteo funebre.
4 – Sant’Alessandro rovescia le tavole degli idolatri
Appresentato che fu il Cavalier di Cristo a Massimiano, questi gli disse sacrifica Alessandro alli dei immortali, se vuoi essere nostro mico, ch’io per nessun’altra cagione t’ho fatto venire qua, se non perchè tu afferisca loro sacrificio.
Et dicendo questo fece segno che fusse portata la mensa del sacrificio: la quale recata, e di tovaglie coperta, dissegli pur l’Herculeo, Vieni avanti hora, e col sacrificare purgati della colpa che ti è stata opposta d’havere dispregiato i nostri Dei: e ciò facendo, otterrai da me ciò che vorrai. […]
Massimiano comandò subito à Sergenti che gli mettessero mano contra sua voglia del sacrificio apparecchiato: e dirimpetto al coraggioso Martire facendo stare alcuni armati per maggiormente atterrirlo, volle che lo essortassero e costringessero à sacrificare.
All’hora l’invittissimo Alfiere di giusto sdegno ripieno, e armato di fede, sprezzando quei precetti, e confundendo l’iniquità Regia: perchè si trovava le braccia da catene, e le mani con manette legate, de i piedi valendosi, un calcio diede nell’Altare de gli Idoli, e un altro nella mensa de’ sacrifici apparecchiata, e l’uno, e l’altra con tutto quello che vi era sopra, mandò sottosopra per terra (da Celestino Colleoni, Historia Quadripartita di Bergamo et suo Territorio, nato Gentile e rinato Christiano, II, p. 126, Bergamo 1617).
Sant’Alessandro è rappresentato nell’atto di rovesciare una mensa sulla quale sono disposti alcuni idoli. Il suo gesto lo pone in una posizione dinamica, con la gamba destra sollevata a colpire la mensa e la mano sinistra a indicare il fermo rifiuto di qualsiasi idolo.
L’espressione è visibilmente tesa, rivolta ai presenti con disprezzo e orgoglio. L’imperatore Massimiano, posto di fronte ad Alessandro e identificabile dalla corona d’alloro che ne adorna il capo, indica minacciosamente il Santo: il rifiuto di sacrificare agli Dei segna infatti la sua condanna a morte. La sagoma dell’imperatore nasconde parzialmente la mensa che, ricoperta con una candida tovaglia e imbandita con una statua dorata e una ciotola contenente sangue, si sta rovesciando.
Un soldato elegantemente vestito, posto sulla sinistra e chiamato da Massimiano per costringere Sant’Alessandro all’adorazione, tenta invano di frenarne la furia bloccandogli il braccio. Accanto a lui una donna assiste alla scena trattenendo a sè il figlio spaventato; la sua mano levata guida lo spettatore in profondità dove, in un cortile, è raffigurata la flagellazione del Santo.
5 – Sant’Alessandro condannato a morte da Massimiano
Qui di furore colmo Massimiano, e tutto d’ira avampando fissò gli occhi nella lui morte, e comandò incontanente ad un manigoldo che all’hora gli troncasse il capo.Questi ardito sfodrata e alzata la spada per levar la vita al S. Martire, con incredibile maraviglia di tutti i circostanti, e con infinita rabbia dell’Imperatore, come stupido restato e fuor di se, non potè essequire l’empio commandamento: onde gli disse il Tiranno, Non ti movi ancora codardo, e vigliacco gliela perdoni? A cui con voce fiacca rispose l’impaurito Martiano (che Martiano havea nome il manigoldo) Signor mio Rè, il capo di costui mi sembra una gran montagna, e io tremo tutto.
Confuso Massimiano comandò ch’ei fusse di nuovo incarcerato, e d’ogni cosa necessaria se gli facesse patire gran disagi (da Celestino Colleoni, Historia Quadripartita di Bergamo et suo Territorio, nato Gentile e rinato Christiano, II, p. 126, Bergamo 1617).
Sant’Alessandro, inginocchiato al centro della scena, per aver rovesciato le tavole degli idoli è colpito dalla furia dell’imperatore Massimiano, il quale comanda al carnefice di decapitarlo. Massimiano, identificabile dalla corona d’alloro sul capo e dall’elegante armatura, punta il bastone del comando verso Sant’Alessandro, a decretarne la condanna. Una folla incuriosita e un soldato posto di schiena in primo piano seguono lo svolgersi degli eventi. Sulla destra si nota un cane al guinzaglio, trattenuto da un milite e, in posizione avanzata, il carnefice. Quest’ultimo, stupito e terrorizzato, si rifiuta di uccidere il Santo, spaventato alla vista della sua testa simile a una “gran montagna”; la spada del carnefice è tenuta in basso, la mano sinistra è levata in segno di rifiuto, con il corpo pare ritrarsi. Altri soldati dietro al carnefice si guardano stupiti per la miracolosa apparizione di una piramide di pietra a difendere la testa del giustiziato a morte.
6 – Materno, arcivescovo di Milano, invia Sant’Alessandro a Bergamo
Rincorato più d’una volta il santo alfiere, dal santo Pastore [Materno], fu alla fine consigliato havendone l’agio per maggiormente dilatare la Fede Christiana, ad uscire di prigione, e venire à Bergamo, dove era gran bisogno di lui.
Io non voglio qui lasciar di riferire un opinione antica […] che sant’Alessandro sia stato Vescovo di Bergamo. Il dire ch’egli fusse deputato Vescovo di questa Città, è molto verosimile. Si potrebbe dire che havendo Materno in quel tempo ch’egli praticò col Santo Martire, conosciutolo atto all’ufficio Pastorale, egli lo elesse e lo indirizzò à Bergamo, dove erano pochissimi Christiani, perchè vi predicasse, ch’è il principal ufficio del Vescovo.
Egli dunque non si numera tra i Vescovi, né se gli dà il nome di Vescovo, per non esser stato consacrato, e per lo poco tempo che visse in Bergamo, che furono solamente diece otto giorni (da Celestino Colleoni, Historia Quadripartita di Bergamo et suo Territorio, nato Gentile e rinato Christiano, II, p. 130, Bergamo 1617).
Evaso per la terza volta dal carcere, Sant’Alessandro è convocato da Materno, arcivescovo di Milano, che lo invia ad evangelizzare la città di Bergamo. il presule, assiso sulla cattedra episcopale e rivestito degli abiti pontificali, è assistito da due diaconi, come la liturgia prevedeva per le celebrazioni più solenni.
Poco distante un altare è parato per la messa. Tutto fa pensare che si stia svolgendo un rito di consacrazione episcopale. Infatti Materno sta consegnando a Sant’Alessandro una mitria e un pastorale, le insegne proprie della dignità episcopale.
Entrambe sono decorate da un giglio, il tradizionale emblema alessandrino, che campeggia anche sull’ampio vessillo della legione Tebea, sorretto dal fanciullo, che, alle spalle di Sant’Alessandro, partecipa curioso al rito, insieme ad alcuni chierici.
E’ l’unico caso in tutto il ciclo alessandrino in cui il soggetto rappresentato nel dipinto è più eloquente del testo scritto. L’episodio è narrato sommariamente dalle fonti, dove si arriva a ipotizzare un’elezione episcopale ufficiosa di Sant’Alessandro, cui non è seguita la consacrazione canonica.
Ipotesi troppo complesse da rappresentare in un dipinto destinato alla devozione e all’edificazione dei fedeli, tanto da giustificare una soluzione didascalica dell’episodio.
7 – Predica di Sant’Alessandro
Nel tempo che S. Alessandro venne à Bergamo, vi era molto picciolo il numero de’ Christiani, e innumerabile quello de gli Idolatri, e arrivò egli apunto nel tempo e nell’hora ch’erano questi congregati per offerire solenne sacrificio davanti alla statua di Crotacio.Qui giunto e scorgendo così grande empietà e cecità insieme, e tanta offesa della Maestà divina, pieno di zelo dell’honor di Dio, e della salute di quei miseri acciecati, entrato fra loro, essendo molto erudito, e parlando molto bene la lingua latina che all’hora si usava per tutta l’Italia si diede à publicamente predicare Cristo essere vero Dio. Onde rivolti ai lui tutti ammiravano non solamente la dottrina, ma la gran forza etiandio, e la copia dell’eloquenza. […] Prendendo poi il morto per la mano disse in nome del Signore Gesù Cristo crocefisso Dio onnipotente, io dico à te che ti levi vivo, e confessi il tuo Creatore.
Finite à pena queste parole, il morto incontanente aprendo gli occhi, e come svegliato da grave sonno levossi, e gettatosi à piedi del Santo gridò Non vi hà ne in cielo, ne in terra verun altro Dio che ‘l Signore Giesù Christo crocifisso, il quale per sua misericordia ad intercessione di questo suo servo me hà dall’Inferno e dalla morte ritornato in vita (da Celestino Colleoni, Historia Quadripartita di Bergamo et suo Territorio, nato Gentile e rinato Christiano, II, pp. 132-133, Bergamo 1617).
Sant’Alessandro si riconosce all’estremità destra della tela; i suoi piedi poggiano su di un masso, i suoi piedi poggiano su di un masso, il braccio sinistro sostiene il vessillo, mentre il destro è levato verso la statua di Crotacio issata su una colonna, un idolo adorato dai pagani.
L’episodio si riferisce alla predica che il Santo pronuncia per convertire un gruppo di idolatri che in quel momento stava sacrificando davanti a Crotacio.
Molte persone affollano la tela: chi guarda assorto e pensoso, chi lo indica, chi assume un’espressione stupita; una donna, accovacciata ai piedi del Santo con il figlio in braccio, ascolta attentamente le sue parole.
Lo sguardo di Sant’Alessandro è serio e consapevole, rivolto ad un uomo posto di fronte a lui.
Sulla sinistra un defunto è accompagnato dal Santo: egli lo risusciterà, convertendo la folla.
La scena si svolge in una zona appartata, ai margini della città di Bergamo, che si scorge in lontananza.
8 – Martirio di Sant’Alessandro
Legato il Santo lo strascinarono violentemente avanti la statua di Crotacio, dove apprestata la mensa con ciò che facea mestieri al sacrificio, gli dissero Horvia soldato coraggioso, al dio di questa Patria offerisci il sacrificio e metti gli incensi nel fuogo, affinchè tu possa viver o andar libero ovunque più ti aggrada. Il Santo Martire di Christo Alessandro non temendo punto la morte temporale, per non morire di morte eterna, disse ad alta voce, Io non ubidisco a i precetti dell’Imperatore terreno, ma si bene a quelli del Celeste […]. Ecco il collo, se volete il capo, spiccatelo hor che vedete la mia ferma risoluzione. Dette queste parole dimandò un po’ d’acqua, e si lavò le mani, e la faccia, poi fece oratione […]. Simile oratione finita, e fatta una generosa confessione del nome di Christo, l’intrepido suo Cavaliere S. Alessandro abbassò il capo e lo spietato manigoldo, essequendo quanto gli havea l’empio Massimiano comandato, come a persona vile e sciocca, con tagliente lama glielo spiccò dal busto. Fu il suo Martirio a i 26 d’Agosto, diece otto giorni soli essendo stato in Bergomo (da Celestino Colleoni, Historia Quadripartita di Bergamo et suo Territorio, nato Gentile e rinato Christiano, II, pp. 140-141, Bergamo 1617).
Il carnefice sta rimettendo la spada nel fodero; ai suoi piedi, riverso a terra, giace il corpo decapitato di Sant’Alessandro. Tutt’intorno, quasi pietrificato, un anfiteatro di tipi umani: soldati con l’alabarda, fanciulli ignari, anziani curiosi, madri con i figli in braccio.
Tra gli altri si possono riconoscere un uomo che regge la brocca con l’acqua chiesta da Sant’Alessandro per lavarsi le mani e il viso prima di consegnarsi al carnefice e un secondo uomo che stringe nella mano destra un foglio di carta arrotolato, forse il decreto imperiale di condanna.
Ognuno degli astanti ha gli occhi fissi sul corpo martirizzato; sguardi sgomenti e sorpresi, pietosi e arroganti.
Turbati più che dalla truce esecuzione, dal miracolo cui stanno assistendo: dalla terra bagnata del sangue del martire fioriscono candidi gigli e rose rosse.
Sullo sfondo, testimone muta dell’estremo sacrificio del suo futuro patrono, è posta la città di Bergamo, sovrastata da un cielo minaccioso e rossastro, squarciato da una potente luce che cade sul corpo del martire, facendo risaltare il mantello rosaceo che lo ricopre.
9 – Miracolo dei fiori nati dal sangue di Sant’Alessandro
Volle anco Iddio scuoprire la antità di questo suo buon servo col chiaro testimonio d’un nobilissimo e notabilissimo suggello, che fù della salute de molti alta cagione. Ha la nostra Città fra gli altri un’honorato Borgo, che da i Pini, che ivi erano in gran copia Pineto già, hora Borgo Pignolo vien chiamato, alle radici del colle verso oriente; quivi a mezzo il quadrivio, ò croce via; i portatori ò stanchi dal grave peso (perciochè Alessandro era d’eminente statura, come sono per il più gli Alfieri) ò dal gran caldo, che porta seco la stagione, afflitti, ò per dir meglio, per alto voler di Dio, deposero per breve spatio d’hora la sacrata soma; indi, preso alquanto di riposo, nel levarsi di nuovo il Santo Corpo, ecco si videro (cosa di gran stupore, e meraviglia) sorgere dalle cadenti gocciole dell’ancor tiepido sangue, così leggiadri, e odorosi fiori, che di vaghezza, e di gratioso odore vinceuano di gran lunga i naturali (da M. Muzio, Sacra Historia di Bergamo, Bergamo, 1621, p. 76)
Un mesto e solenne corteo funebre trasporta le spoglie mortali di Alessandro perchè possano trovare degna sepoltura nell’orto di un podere fuori dalle mura della città.
A guidarlo è Santa Grata, duchessa di Bergamo, convertitasi alla religione cristiana grazie alla predicazione del martire.
Un prodigio interrompe la devota traslazione nei pressi di un pineto, nel luogo che oggi si chiama Pignolo.
Il miracolo del sangue che feconda la terra fino a far germogliare gigli e rose si compie nuovamente.
Non più tra una mischia di violenti e di curiosi, ma nell’intimità orante di alcuni cristiani che pietosamente si sono presi cura della salma. Santa Grata s’inginocchia. Una mano regge pietosamente, quasi custodisce, la testa di Sant’Alessandro, avvolta in un candido lino; l’altra sta cogliendo un fiore rossastro.
Il volto è sorpreso ma non impaurito e gli occhi sbarrati cercano il conforto delle sue nobili compagne. Anch’esse tengono fisso lo sguardo sul segno divino. I gesti raccontano la loro fede. La donna più vicina a Santa Grata, forse Esteria, tiene le mani giunte e prega; un’altra, invece, porta le mani al petto, in un gesto che rivela un docile abbandono al mistero della miracolosa fioritura. Non c’è scompiglio tra gli astanti; l’atmosfera, i volti e i gesti sono sospesi, contenuti, devoti. Unica voce fuori dal coro: il fanciullo con la casacca gialla che, lasciandosi prendere dall’emozione, si rivolge sorridendo al compagno indicandogli il fatto miracoloso con un gesto inaspettatamente vivo.
10 – Santa Grata mostra a suo padre Lupo i fiori nati dal sangue di Sant’Alessandro
Piena d’infinito gaudio, e giubilo ritornata al Palazzo, e ritrovato il caro progenitore, Vedete, gli disse, odorate, e gustate quali fiori la terra bagnata del pretioso sangue del valoroso Campione di Christo Alessandro martirizzato hieri alla base del vostro Crotacio, hà prodotto, atti a risanare infermi, e ravvivare morti […].
Onde il buon vecchio […] mosso e dal pietoso aspetto, e dalle saggie, e penetranti ragioni, che al cuore gli scesero, e dall’amorose lagrime di lei, e dal vedere quei fiori miracolosi, vaghissimi all’occhio, che all’odorato rendevano sopranaturale fragranza, e al gusto erano soavissimi […] e toccato interiormente dalla divina Grazia, si rese, e prosposto ogni humano rispetto, e timore prese consiglio di voler esser Cristiano (da Celestino Colleoni, Historia Quadripartita di Bergamo et suo Territorio, nato Gentile e rinato Christiano, II, p.175, 178, Bergamo 1617).
Santa Grata entra nella grande sala del sontuoso palazzo di famiglia, dove il padre, Lupo, è impegnato nella lettura di una pergamena. Gli abiti che indossa rivelano l’importante ruolo istituzionale che ricopre: egli è il duca di Bergamo. Sulle spalle indossa un ampio manto purpureo e una pregiata mozzetta di ermellino, sul capo la corona ducale, cui il pittore ha dato l’aspetto del berretto dogale. Ai suoi piedi è accucciato un fedele cane da caccia, come si addice ad ogni nobiluomo del suo rango. Egli, infatti, appartiene ad una delle più nobili famiglie della città: è figlio di Crotacio, primo duca di Bergamo, tanto giusto e valoroso da esser stato divinizzato subito dopo la sua morte. Ed è proprio sotto la colonna dedicata al primo leggendario duca della città, che Sant’Alessandro il giorno precedente aveva subito il martirio. Accanto a Lupo vi è la sua fedele consorte, Adleida, nobile bergamasca, educata secondo la fede cristiana sin dall’infanzia. Santa Grata mostra ai genitori i fiori sbocciati dalla terra bagnata dal sangue di Sant’Alessandro. Presenta loro un mazzetto di gigli e rose profumatissimi raccolti nello stesso lino che aveva accolto il capo reciso del martire. Gli occhi della fanciulla cercano gli occhi del padre; ella è certa che mostrandogli la testimonianza della santità del martire, anche Lupo senta nascere l’intimo desiderio di farsi cristiano. E così accade. Le braccia di Lupo si aprono, quasi a significare la devota adesione alla nuova fede.
11 – Traslazione del corpo di Sant’Alessandro (Fabio Ronzelli)
Nel luogo dove fu l’invitto Martire di Christo Sant’Alesandro decapitato, e dove caderono le goccie del sangue, e dove fu sepolto, furono poi da Santa Grata fabricate Chiese in honore di lui […]. Giacque ove lo sepelì la santa Vedova fin all’anno […] 908 secondo la verità, nel quale la suddetta Chiesa Cathedrale da Berengario abbuggiata e ristorata poi da San Adalberto Vescovo, il quale lo trasportò nel sotto Choro e ripose nell’Altare di mezzo con molta solennità intervenendo a questo devoto ufficio Berengario stesso (da Celestino Colleoni, Historia Quadripartita di Bergamo et suo Territorio, nato Gentile e rinato Christiano, II, p.152, Bergamo 1617).
Inginocchiato sulla base di una colonna, re Berengario assiste all’atto finale della traslazione della salma di Sant’Alessandro, presieduta dal vescovo di Bergamo, Adalberto. Indossa vesti preziose: una ricca tunica purpurea e un manto tessuto d’oro. La mano destra stringe lo scettro regale, la sinistra è aperta in segno di stupore e di venerazione. Il sovrano sembra non riuscire a distogliere lo sguardo dalla contemplazione del capo reciso del martire. La salma, miracolosamente incorrotta, sta per essere riposta in un nuovo sepolcro, fatto costruire da Adalberto nella cripta dell’antica basilica cimiteriale, eretta per volontà di Santa Grata poco dopo il martirio del Santo. Berengario offre come dono votivo la propria corona, forse in espiazione dell’incendio che distrusse gran parte della basilica, provocato dal suo esercito durante l’assedio e il sacco di Bergamo nel 908. Tre chierici ripongono la salma nella nuova sepoltura, sotto lo sguardo devoto, quasi commosso, del vescovo Adalberto. I gesti e i sentimenti che animano il vescovo riportano alla memoria la figura di Santa Grata. Come il nobile, anche il presule custodisce tra le mani, il capo reciso del martire, avvolto in un candido lino. Una volta chiuso il sepolcro, sopra il corpo del martire, veglierà il vessillo della legione tebea, a ricordo del suo coraggio sul campo di battaglia prima e nell’annuncio del Vangelo poi.
12 – Federico Barbarossa tenta di violare le reliquie di Sant’Alessandro
Giunto a Bergamo il Barbarossa, e dopo qualche tempo di assedio, per divina permissione, havutolo in suo potere, grandissime, e inaudite crudeltà vi usò […]. Non hebbe rispetto nessuno ne à sesso, ne ad età veruna: ma fece aprire le donne gravide; uccidere, contra terra tirandoli, i fanciulli; alle vergini tagliare le orecchie, e le mammelle; alle vedove le mani, e le nari; metter fuoco nelle case, e nelle chiese; ispianare le mura, isvellere le torri; rubò i tesori da suoi antecessori al glorioso Martire Sant’Alessandro offerti; volle rubbare il lui Sacro Corpo ancora, e quelli de gli altri santi, che quivi erano, e vi si affaticò tutt’un giorno, ma da divina virtù fu impedito: Onde partì confuso, la misera Città desolata, e disfatta, lasciando (da Celestino Colleoni, Historia Quadripartita di Bergamo et suo Territorio, nato Gentile e rinato Christiano, II, p. 143, Bergamo 1617).
Tre uomini tentano animosamente di scoperchiare il sepolcro che custodisce il corpo di Sant’Alessandro. Cercano di far leva con delle spranghe per sollevare la pesante lastra tombale. Uno si butta persino a terra, cercando di sfruttare tutto il peso del proprio corpo per aprire l’arca marmorea. Invano. Nonostante gli sforzi la tomba resta sigillata. Di fronte a tale straordinaria resistenza lo stupore si diffonde nella cripta, le cui pareti sono ricoperte di ex voto, a testimonianza del fatto che il Santo non lesina grazie e miracoli ai suoi fedeli. All’iniziale sorpresa segue la chiara convinzione che sia stato Sant’Alessandro ad intervenire perchè la sua tomba non fosse violata e i suoi resti mortali non venissero trafugati. Sembrano essere queste le parole pronunciate dall’uomo che con una mano indica la sepoltura del martire e con l’indice alzato dell’altra mano indica il cielo. Solo un intervento celeste può spiegare tale miracolo. L’imperatore Federico Barbarossa, scortato da due suoi soldati, assiste al prodigio. E’ rappresentato, quasi impietrito, di scorcio; l’espressione del viso è celata, ma i suoi gesti tradiscono sorpresa e sgomento. Egli si sta ritraendo, tanto che la gamba destra è sollevata da terra, come se un sobbalzo di stupore lo stesse spingendo indietro. Le sue mani sono aperte, quasi a comunicare, oltre al timore, la resa di fronte all’intervento miracoloso.
13 – Sant’Alessandro a cavallo protettore di Bergamo (Fabio Ronzelli)
Maggior beneficio apportò alla Patria nostra Sant’Alessandro non solamente predicandovi […] ma col proprio sangue autenticando la sua predicazione, e irrigandoci, e santificandoci tutti, e eleggendola in somma per Patria sua, e favorendola poi come tale, e difendendola ne i suoi bisogni: Onde ella seguendo le vestigia della S. Chiesa, lui à ragione s’hà eletto per suo Protettore e Difensore unico dopo Dio, e la Vergine Santissima (da Celestino Colleoni, Historia Quadripartita di Bergamo et suo Territorio, nato Gentile e rinato Christiano, II, pp. 150-151, Bergamo 1617).
“Quasi arco di luce ra tenebre, quasi stella del mattino in mezo a nebbia, quasi sole sfolgorante sei, Beato Alessandro!”.
Così l’antica liturgia della Chiesa bergomense loda il suo patrono, paragonandolo agli astri più luminosi del firmamento.
Il dipinto che suggella la serie dei fatti della vita di Sant’Alessandro sembra esserne la traduzione figurativa. In sella ad un bianco cavallo rampante, il Santo martire cavalca i cieli che sovrastano Bergamo, irraggiando un terso bagliore che illumina le torri, le case e le chiese di Città alta.
Indossa abiti militari, una libera interpretazione dei costumi dell’esercito romano a cui si aggiungono accessori secenteschi come l’esuberante cimiero da gran parata coronato da pennacchi bianchi e celesti.
Nella mano sinistra impugna le briglie del cavallo, anch’esso bardato con nastri, fiocchi e preziosi ornamenti dorati, nell’altra regge saldamente un purpureo vessillo gigliato, suo principale attributo iconografico.
L’opera presenta un elemento di originalità: sotto l’egida del Santo martire è posta la città di Bergamo, rappresentata simbolicamente dal suo nucleo più antico: Città alta. Sono riconoscibili la porta di Sant’Agostino con l’annesso convento, il castello sul colle di Sant’Eufemia, la torre del Gombito e la mole della basilica di Santa Maria Maggiore.
BIBLIOGRAFIA
– Sul ciclo alessandrino di Salmeggia bisogna rifarsi a G. Knox, Conflict and Renewald at the Cathedral of Bergamo : A Painted Life of S. Alessandro by Enea Salmeggia, ca 1615, in “Arte Lombarda”, 127, 1999, pp.89-98.
– Un’aggiunta alla serie e un aggiustamento attributivo in favore di Fabio Ronzelli della Traslazione del corpo di Sant’Alessandro sono registrati da S. Facchinetti, A margine della pala di Giovan Battista Tiepolo per il Duomo di Bergamo, in Tiepolo. Intorno alla pala del Duomo di Bergamo, catalogo della mostra, a cura di S. Facchinetti, Bergamo 2001, p. 26.
– I disegni preparatori connessi al ciclo sono schedati da M.C. Rodeschini Galati e da M. Olivari, in Prima della pittura. Enea Salmeggia 1565 (?)-1626, catalogo della mostra, Bergamo 1986, pp. 102-103, nn. 42-43, 120-123, nn. 53-54; e da E’. Pagliano, in De chair et d’esprit. Dessins italiens du Musée de Grenoble. XV-XVIII siècle, catalogo della mostra, a cura di E’ Pagliano, Paris 2010, pp.73-74, n. 21.
– Una buona sintesi sul pittore è quella di P. Plebani, Enea Salmeggia detto il Talpino, Bergamo 2009.
– Le fonti agiografiche su Sant’Alessandro sono raccolte in Exite Flores Inclyti. Antologia alessandrina. Testimonianze a S. Alessandro dalle “Passiones” ai giorni nostri, a cura di G. Carzaniga, Bergamo 1998.
– Sull’iconografia del Santo uno studio monografico è quello di L. Pagnoni, S. Alessandro nell’iconografia bergamasca, Bergamo 1989.
– Una miscellanea di saggi dedicati alla figura di Sant’Alessandro inserita nel contesto locale è Bergamo e Sant’Alessandro. Storia, culto, luoghi, a cura di L. Pagani, Bergamo 1999.
Tratto da: Guida alla mostra Le Storie di Sant’Alessandro di Enea Salmeggia – Il ciclo ricomposto. A cura di Simone Facchinetti e Giuliano Zanchi.