Il Tesoro della Catterale di Bergamo nell’antica chiesa di S. Vincenzo

Nell’antica Cattedrale di San Vincenzo, rinvenuta nel 2004 nell’area sottostante il Duomo di Bergamo, oltre la struttura affrescata dell’iconostasi si estende un suggestivo dedalo di camere sepolcrali con soffitto a volta (ricavate già a partire dalla rifondazione dell’architetto Filarete), raggiunte le quali si può ammirare il Tesoro della Cattedrale, un’accurata selezione di preziosi oggetti d’arte sacra scelti in base al criterio suggerito dai consulenti scientifici, i professori Giovanni Romano e Saverio Lomartire.

L’iconostasi della Cattedrale di San Vincenzo evoca le solenni celebrazioni officiate dal vescovo e dai canonici, nelle occasioni solenni rivestiti dei sontuosi paramenti, di cui il museo conserva alcuni esemplari. Radunati nell’aula, i fedeli erano esclusi dalla partecipazione visiva alle sacre cerimonie ma ne ascoltavano il rituale potendo vedere solo i santi vivacemente raffigurati, che mediavano il loro rapporto con la divinità

La selezione, coerentemente alle diverse fasi architettoniche che hanno interessato l’antica cattedrale, si è attenuta al limite cronologico cinque-seicentesco,  escludendo perciò i superbi pezzi dell’epoca barocca che costituiscono  la maggior parte del Tesoro.

Le preziose testimonianze esposte, di cui il presente post offre un breve spaccato, sono confluite in cattedrale in tempi diversi, custodite per la loro importanza e preziosità. Provengono per lo più dalla dotazione della Cattedrale di San Vincenzo ma anche da altre  chiese della città (come la croce di San Procolo, ad esempio).

(Credits Photo Thomas Mayer)

Viene quindi offerta l’occasione di ammirare da vicino e nelle migliori condizioni il Piviale e la Pianeta di S. Vincenzo, del XV secolo; la trecentesca Croce di Ughetto e quella quattrocentesca del Carmine in argento e cristallo di rocca; alcuni calici e reliquiari; l’icona di origine cretese della Madonna dei Canonici; l’affresco delle Opere di Misericordia sinora esposto al Museo diocesano e proveniente proprio dall’antica cattedrale (fu ritrovato dal Fornoni durante i lavori del 1906).
Inoltre, due imponenti lapidi sepolcrali, quella del vescovo Bucelleni e quella del canonico Bresciani la cui tomba, data l’importanza del prelato, venne portata dalla Basilica alessandrina in S. Vincenzo quando la basilica fu atterrata dai Veneziani nel 1561.

Nell’apertura del muro presbiteriale è collocata la cosiddetta Croce del Carmine, dal luogo di provenienza, parte del ricco corredo del Tesoro della Cattedrale, il cui progetto museale si deve all’architetto Giovanni Tortelli, sotto l’egida della Fondazione Bernareggi. È probabile che la splendida oreficeria sia opera della bottega dei Da Sesto, una famiglia operante a Venezia nella prima metà del XV secolo. La croce è particolarmente suggestiva per la presenza, nei bracci, del cristallo di rocca, una varietà di quarzo apprezzato per essere assolutamente incolore e trasparente

Antiche fonti (1) e ricerche recenti (2) ricordano l’esistenza, nell’antica cattedrale di San Vincenzo, di due cori (il chorus magnus, più grande, riservato ai canonici e il chorus parvus, di minori dimensioni, nella cappella di San Pietro), tre altari (San Vincenzo, Santa Maria, San Pietro) e quattro cappelle in chiesa (San Silvestro, San Sebastiano, San Benedetto, Santa Margherita), cui aggiungere quella di Santa Trinità voluta dal vescovo Adalberto. V’erano inoltre due cappelle esterne (Santa Croce e San Cassiano)

Secondo il cerimoniale liturgico della Chiesa di Bergamo riportato da Barozzi, modellato su antiche consuetudini, la recinzione delimitava gli stalli del chorus magnus, posti ante altare e occupati secondo una precisa gerarchia: l’arcidiacono sedeva alla destra del vescovo (dotato di faldistorio mobile, utile alle cerimonie che richiedevano una particolare collocazione rispetto all’altare), mentre il prevosto di Sant’Alessandro alla sua sinistra.

Il pulpito, in posizione non precisata, era sormontato da una croce argentea.

Sopra l’altare maggiore, ornato di antependium, si ergeva la crux magna, estraibile dal piedistallo per essere portata in processione quale simbolo della Bergomensis Ecclesia.

Con scrupolo è descritto il rituale legato ai vasa sacra, la cui consistenza in età romanica è restituita dagli atti del 1189.

Apprendiamo inoltre che il thesaurus comune alle canoniche di San Vincenzo e Sant’Alessandro  – ma custodito presso la prima – era composto da:

– quattro croci con asta, fra cui la crux magna, e quattro senza;
– un cherubino con croce; un calice d’oro e uno d’argento;
– sei corone votive d’argento; tre evangeliari, uno d’oro e due d’argento;
– un messale e un lezionario d’argento;
– un turibolo, due candelabri e due reliquiari d’argento;
– un reliquiario d’oro e uno di avorio; un altare portatile con bordure in oro e argento;
– tavolette di avorio per il canto; una tavoletta di avorio scolpita;
– due casule con stole;
–  manipoli.
(Valsecchi 1989).

(1) Si ricavano preziose informazioni su San Vincenzo nel Medioevo dall’integrale trascrizione nonché dal puntuale commento del Liber ordinarius del vescovo Giovanni Barozzi(1449-1464), minuta del cerimoniale liturgico della Chiesa di Bergamo, modellato su antiche consuetudini (Gatti 2005-2006 e Gatti 2008).
(2) Ricaviamo altre informazioni sull’edificio attraverso le ricerche di Gian Mario Petrò nelle fonti archivistiche notarili. Almeno otto gli altari documentati nella cattedrale di San Vincenzo, compreso quello della sacrestia, e due cori, uno più grande riservato ai canonici ed un altro di minori dimensioni nella cappella di San Pietro.

 

LA CROCE DI UGHETTO

La Croce di Ughetto, straordinario manufatto di arte orafa, prende il nome dal suo principale esecutore, Ughetto Lorenzoni da Vertova, il quale l’ha realizzata nel 1386 per conto dei Canonici del Capitolo di Sant’Alessandro

La Croce di Ughetto, forse l’opera più rappresentativa del Tesoro della cattedrale, in origine era arricchita da 34 reliquie miracolose, sigillate sotto la sua preziosa oreficeria.
La grande croce processionale prende il nome dal suo principale esecutore, Ughetto Lorenzoni da Vertova, il quale l’ha realizzata su disegno del pittore Pecino Pietro da Nova nel 1386 per conto dei Canonici del Capitolo di Sant’Alessandro.

Essa proviene dunque dalla distrutta Basilica alessandrina, ed è questo il motivo per cui il Santo appare vistosamente abbigliato come un cavaliere medievale in sella al suo destriero, mentre sullo sfondo si staglia il profilo ideale della città di Bergamo, conquistata alla fede cristiana.
Grazie a un inventario sappiamo che nell’imminenza dell’abbattimento della Basilica alessandrina (1561), la croce di Ughetto venne portata in solenne processione nella Cattedrale di S. Vincenzo insieme – oltre ai paramenti sacri, organi, campane e corredo liturgico -, alle sacre reliquie: il Capitolo di S. Alessandro perdeva definitivamente la propria sede e da quel momento i canonici Capitoli di S. Vincenzo e di S. Alessandro si trovarono a convivere fino a che non vennero definitivamente unificati (1689) sotto le insegne di S. Alessandro.

Particolare di S. Alessandro nella croce di Ughetto, realizzata nel 1386 per conto dei Canonici del Capitolo di Sant’Alessandro, motivo che giustifica la presenza vistosa del Santo

La croce fu rinnovata nel 1614, anno in cui fu sancita la provvisoria riunificazione dei due Capitoli di S. Vincenzo e di S. Alessandro: il restauro della croce è quindi la concreta manifestazione di questo tentativo di unità, tanto che la fisionomia originale della croce è stata stravolta e piegata a questo scopo.

In origine il recto esibiva il Cristo crocifisso tra la Vergine e S. Giovanni, in alto un Angelo e ai piedi S. Alessandro a cavallo; il verso esibiva il Cristo glorioso tra i quattro evangelisti e ai piedi Santa Grata.

Nell’operazione di restauro (oltre alle vere e proprie aggiunte seicentesche) il Cristo crocifisso medievale è stato sostituito con un altro più recente, recuperato da una croce del Capitolo di San Vincenzo.

 

CROCE DI SAN PROCOLO

La crocetta metallica riceve  il suo nome dal fatto di essere conservata unitamente alle reliquie di San Procolo, vescovo di Verona martirizzato nel IV secolo. I sui resti pervennero in Cattedrale insieme a quelli dei Santi Fermo e Rustico, anch’essi martirizzati nel IV secolo e che un’antica “Passio” menziona come originari di Bergamo.
Le reliquie di questi Santi dopo vari spostamenti sono giunte a Verona nella seconda metà dell’VIII secolo e verso la metà del secolo successivo parte delle reliquie sono state trafugate da mercanti bergamaschi e portate nella chiesa di San Fermo a Bergamo.
Nel 1575 Carlo Borromeo ha ordinato la traslazione delle reliquie in Cattedrale ed è questo il motivo che spiega la presenza della croce in questo luogo. Alcuni fori marginali non a caso rendono probabile la sua originaria applicazione su una cassetta reliquiario.

Croce di Procolo – Autore ignoto – (Ambito longobardo?) IX/X secolo. Originariamente le reliquie del santo si trovavano nella chiesa di san Fermo e furono portate successivamente in Cattedrale. La croce è sbalzata su una lamina argentea dai bordi profilati da un listello rialzato. La fattura, meno sfarzosa e complessa rispetto alle altre croci del Tesoro, è affascinante per sua semplicità e per il rigore simbolico dato dalla centralità del corpo di Cristo, che estendendosi lungo tutta la superficie del manufatto rimanda al sacrificio eucaristico. Il corpo di un uomo vivo, con gli occhi aperti, che ha attraversato la morte e che ora vive

Lo stile ci permette di assegnare una datazione. Il primo elemento significativo ci è fornito dal perizoma lungo fino alle ginocchia e mosso da pieghe. Questo tipo di veste non la ritroviamo prima del IX secolo. Un secondo motivo è rappresentato dai pollici in abduzione; sistema adottato non oltre il secolo XI. Quindi la datazione deve aggirarsi intorno al IX-X secolo.

La figura del Cristo domina tutta l’ampiezza della croce: il capo è eretto e dotato di aureola crucifera; il volto è imberbe, secondo un tipo fisionomico diffuso in età tardo antica e altomedievale; gli occhi sono aperti; le mani recano visibili i segni dei chiodi.
Il torace è robusto e ben modellato; le gambe non sono incrociate e i piedi non sono sovrapposti, ma ruotano verso l’esterno senza alcun segno dei chiodi.
Nella parte superiore sono presenti le raffigurazioni del sole e della luna.

 

LA BORSA PER IL CORPORALE

La borsa per corporale è un manufatto nato per custodire il corporale, un telo di tessuto che si stende sull’altare per posarvi calice e patena durante la celebrazione eucaristica.
La borsa era utilizzata nel tragitto che porta dalla sacrestia all’altare, e viceversa.

Il tema del Cristo eucaristico è espresso secondo un modello iconografico molto diffuso e strettamente aderente alla funzione dell’oggetto liturgico.

La Borsa per il corporale, con decorazione a tema eucaristico, è in velluto di seta ricamato con filati in seta e filati metallici, pittura a tempera, applicazioni di pailettes, di manifattura lombarda

La figura di Gesù regge la croce, arricchita con i tre chiodi che ne sostenevano il corpo, da cui ora penzolano due flagelli, con allusione, assieme alla corona di spine, a due momenti della passione che precedettero la crocifissione: flagellazione e incoronazione di spine.
Con gesto enfatico, Cristo si rivolge al calice che sta per ricevere il frutto del suo sacrificio.

Alcuni elementi fanno risalire la borsa a poco prima della metà del Quattrocento (1430 – 1450 ca.): le difficoltà prospettiche nell’assetto della composizione (si noti, ad esempio, la diversa inclinazione dei tre chiodi della croce) rendono incerta e traballante la posizione occupata da Cristo nello spazio. Le sproporzioni innaturali di alcuni dettagli (l’ingigantita mano destra, con l’ingenua profilatura delle unghie, o l’enorme calice che sta per accogliere il disco eucaristico), così come l’andamento sinuoso della preziosa veste di Cristo e le folte e arzigogolanti ciocche della sua capigliatura, conferiscono all’immagine un forte accento tardogotico.

 

IL PIVIALE DI SAN VINCENZO

Il sontuoso piviale di San Vincenzo è un ampio mantello che proviene dalla cattedrale, dove è segnalato per la prima volta in un inventario del 1593. L’epoca della sua realizzazione è però di molto anteriore, risalendo allo scorcio del Quattrocento, periodo dell’episcopato di Lorenzo Gabrieli (1484-1512).

La stola (o stolone) di questo paramento riporta cinque figure per lato di santi, realizzate a ricamo con parti a riporto acquarellate. Si dice che il manto pesi 100 chilogrammi

 

Manifattura lombarda, 1490-1510, particolare del piviale di San Vincenzo, raffigurante S. Alessandro a cavallo. Tessuto laminato in oro, argento e seta policroma, Bergamo, Fondaz. Bernareggi

Questa veste liturgica– costituita da un manto semicircolare lungo fino ai piedi, arricchito da uno stolone e da un cappuccio ricamati – era utilizzata nelle celebrazioni più solenni (3).

Al centro dello stolone è raffigurato Dio Padre benedicente; sui due bordi i Santi Pietro, Andrea, Giovanni episcopo (?), Vincenzo e Maria Maddalena (a destra); e i Santi Marco, Alessandro, Paolo, Gerolamo e Caterina d’Alessandria (a sinistra). Infine sul cappuccio è rappresentato l’episodio narrativo dell’Adorazione dei Magi, d’ispirazione foppesca (4).
Proprio la presenza dei Santi Vincenzo e Alessandro (all’epoca, rispettivamente patroni della Cattedrale e della chiesa cittadina che ne conserva le reliquie), oltre a quella di San Marco (protettore della Serenissima, entro i cui confini amministrativi era inserita Bergamo), lega il manufatto a doppio filo alla storia della città e della sua cattedrale.

(3) Il luogo di realizzazione di questo indumento liturgico è certamente l’area nord italiana. Esso è confezionato in un tessuto laminato d’oro con effetti di quadrettatura, su una base di armatura rossa. Il suo tessuto è caratterizzato dalla presenza del disegno a “melagrana”, molto in voga tra il 1420 e il 1550. Il motivo a melagrana si unisce nella trama al fiore di loto e alla pigna, facendo risalire l’origine dei tessuti alla seconda metà del XV secolo. Agli inizi del XVI secolo è da attribuire, invece, la composizione della trama, per via della suddivisione a scacchiera degli scomparti ogivali e l’evidente stilizzazione del formulario vegetale, elementi tipici di quegli anni. Sia lo stolone che il capino (il cappuccio sul retro del piviale) conservano un ricamo a riporto, con filati serici policromi, filati metallici e parti in tessuto dipinte. Le maglie ogivali disposte secondo un andamento a teorie orizzontali sfalsate, includono un fiore di cardo delimitato ai margini da rami fiorati.
(4) La puntuale ripresa dell’Adorazione dei Magi dall’invenzione foppesca dipinta nel perduto tramezzo di Sant’Angelo a Milano (nota tramite le derivazioni diffuse in diverse chiese lombarde dei Minori Osservanti), serve a istituire un ulteriore legame con la cultura figurativa lombarda e, più in particolare, al magistero di Foppa. I dieci Santi che appaiono sullo stolone abitano nicchie (o formelle) architettoniche non dissimili da quelle – rappresentate in pittura – del polittico di Bernardino Butinone e Bernardo Zenale a Treviglio e del polittico di Santa Maria delle Grazie di Vincenzo Foppa, datato al 1476 (ora alla Pinacoteca di Brera a Milano). Anche la posa della Madonna e di S. Giuseppe fanno presagire stilemi di inizio Cinquecento (con un’evidente richiamo al dipinto di Giacomo Borlone nell’Oratorio dei Disciplini a Clusone, databile intorno al 1470).

I preziosi calici del Tesoro della Cattedrale (Credits Photo Thomas Mayer)

 

L’ELEMOSINA DEI CONFRATELLI DELLA MISERICORDIA

Il lacerto con I confratelli della Misericordia (sinora esposto al Museo diocesano e proveniente proprio dall’antica cattedrale), è quello provieniente dalla zona scavata da Elia Fornoni nel 1906.
La rappresentazione riguarda la confraternita intitolata a Santa Maria della Misericordia, più nota come MIA, una delle associazioni locali più antiche della città e che in origine si radunava nella chiesa di San Vincenzo. Tra gli obblighi della confraternita, che aveva intenti spirituali e caritativi, figurava la distribuzione dell’elemosina ai poveri.

L’affresco fu dipinto negli stessi anni della fine del Duecento in cui si metteva mano alla decorazione dell’iconostasi.

Elemosina dei confratelli della Misericordia (Autore ignoto, ambito lombardo – ca. 1280). L’opera raffigura i quattro confratelli del sodalizio che distribuiscono l’elemosina. Due confratelli (dotati di copricapo e di un abito più ricercato, sono probabilmente i canevari), porgono una forma di pane e una brocca a un povero, seguiti da altri due, dalla veste più dimessa (forse i servi) che portano in spalle un sacco (di pane) e una fiasca (di vino). Il movimento del corteo è molto solenne e il pittore ha enfatizzato la distanza sociale che separa chi dona da chi riceve, con la figura del povero rappresentato in scala minore e collocato in posizione marginale

 

LA MADONNA DEI CANONICI DELLA CATTEDRALE

Fra le opere figurative del Tesoro, si contempla anche l’icona della Madonna dei Canonici della Cattedrale.

La Madonna dei Canonici della Cattedrale, un’icona di scuola cretese del XV secolo, nota anche come Madonna della Consolazione, assimilabile ad una Madonna Nera (Credits Photo Thomas Mayer)

 

Riferimenti
– Le domande di un visitatore, le risposte di una guida. Testi di Simone Facchinetti. Litostampa Istituto Grafico srl – Bergamo, 2012.
– Academia.edu – Fabio Scirea Il complesso cattedrale di Bergamo.
– Cattedrale di Bergamo.

La Basilica alessandrina e quel che ne resta

La fronte della Basilica Alessandrina (domus Sancti Alexandri), prima chiesa paleocristiana della città di Bergamo, demolita nel 1561 per ordine di Venezia perché sorgeva sul tracciato delle nuove fortificazioni.  La stampa raffigura un’interpretazione fantastica di una Basilica paleocristiana dei sec. VI e IX, disegnata nel 1675 per le Effemeridi di Padre Donato Calvi. Ai lati del portale maggiore, le due statue di Adamo ed Eva e nell’arcata superiore la statua di Sant’Alessandro a cavallo

Siamo nell’età dioclezianea, prossimi ormai al quarto secolo. L’editto milanese dell’anno 313 permette libertà di culto ai cristiani; nel 380 quello di Tessalonica, sotto il regno di Teodosio, proclama la nuova religione, unico culto dello stato: a duecentocinquant’anni dalla prima persecuzione neroniana in Roma, Bergamo dà il primo segno d’essere stata toccata dalla nuova parola con Alessandro, miles della Legio Tebana di stanza a Milano, martirizzato  sotto la persecuzione di Massimiano (286-305 d.C.) o di Diocleziano (303-304 d.C.).

Narra la tradizione che nei giorni seguenti il martirio di Alessandro, la nobile Grata, figlia di Lupo, trovò il suo corpo, lo raccolse e con la compagna Esteria ed i suoi servi volle dare sepoltura al martire in un suo podere posto sull’alto dei colli, fuori le mura della città. Giunti al podere disteso tra le vigne, all’inizio di Borgo Canale, Grata dette sepoltura al corpo del Santo, là dove successivamente fu eretta la basilica a lui intitolata, di cui oggi resta una colonna innalzata poco più a monte del sito effettivo in cui la basilica si trovava.

A sud della porta S. Alessandro e all’imbocco di Borgo Canale, nel 1621 il Vescovo Emo fece erigere una colonna, a ricordo della distrutta basilica alessandrina, che si trovava a ridosso di un sepolcreto di origine romana

Le figure dei primi cristiani presenti nella nostra città sono tratteggiate da leggende e tradizioni tramandate oralmente: oltre ad Alessandro, il martire legionario venuto dall’oriente, morto alla fine del III  d. C., Fermo e Rustico, i primi giovani bergamaschi capaci di offrire la vita a testimonianza della loro fede; Grata, la gentile, che tra i gigli solleva la testa mozza del martire; Narno, Viatore e Dominatore, i pastori del primo gregge cristiano; Proiettizio, Giacomo e Giovanni, ombre erranti con le torce accese nella basilica, e Esteria la velata.

Nel territorio bergamasco, dove prevale la presenza contadina e ancora permane fortemente radicata la fede pagana, sono questi personaggi i primi protagonisti di una storia in parte vera e in parte intrisa di emozionanti leggende e di figure levate a volo dall’eccitata fantasia di credenti visionari.

Sulle terre dei morti, sulle aree sepolcrali fuori delle porte cittadine, con ogni probabilità inizia soltanto allora a nascere Bergamo cristiana. Ed è appunto dalla metà del IV secolo che, così come solitamente avveniva nei municipia romani, iniziano a profilarsi a Bergamo i primi edifici della topografia cristiana: nasce IV sec. la basilica alessandrina sul sepolcreto di Borgo Canale, fuori la porta occidentale, là dove Grata aveva deposto il corpo mozzato di Alessandro.

Poco dopo, nel V secolo, in un’area centrale della città sorge la basilica di San Vincenzo, concattedrale insieme alla basilica dedicata ad Alessandro, ognuna governata da un proprio Capitolo: per secoli le due canoniche, diretta espressione dei rispettivi schieramenti cittadini, saranno protagoniste di continui contrasti (a volte anche armati), legati al governo della città, al controllo del contado e delle decime.

Documentata solo dal 774 nel testamento del gasindio regio Taido (“Basilica beatissimi Christi martyris Sancti Alexandri…ubi eius sanctum corpus requiescit”), custodisce i resti del martire Alessandro, eletto compatrono di S. Vincenzo per Bergamo e il suo territorio nel 1561, fino a divenire l’unico titolare della città il 4 novembre 1689, all’atto dell’unificazione in un unico Capitolo.

Altri edifici sacri sorgeranno nel corso dell’altomedioevo e, fra questi,  la basilica cimiteriale di Sant’Andrea (menzionata in documenti del 785), fuori la porta orientale, su un’area sepolcrale sviluppatasi a partire dal VI secolo (e sulla quale verrà costruita la nuova chiesa ottocentesca); a settentrione, la ragguardevole San Lorenzo (1), risalente all’VIII secolo, anch’essa abbattuta nel 1561 per la realizzazione della fortificazione veneziana; la chiesa di S. Salvatore, cui risale un’antichissima tradizione legata al “divo Lupo”, padre di S. Grata; la chiesa di S. Grata inter vites (documentata nel 774), sorta sui terreni di proprietà della famiglia di Grata, di cui conserverà le spoglie fino al 1027, quando verranno traslate nella chiesa di S. Maria Vecchia in via Arena, successivamente intitolata alla santa: per non creare confusione nell’identificazione dei due edifici, alla titolazione della chiesa verrà aggiunta la specifica di inter vites (tra le viti), motivata dalla sua posizione fuori le mura del borgo sul colle (2).

INTRA O EXTRA MOENIA?

Riguardo l’ubicazione della basilica alessandrina, è opinione comune che si trovasse fuori dalla cinta muraria (extra moenia), sebbene in certi documenti fosse indicata come interna e non più esterna alle mura: un’incongruenza derivante forse dal fatto che la fortificazione che proteggeva la cittadella alessandrina, sorgendo a ridosso del settore nordovest delle antiche mura (romane, poi altomedioevali e medioevali), venisse talora considerata come parte integrante delle stesse.

Particolare della lapide realizzata dall’Ing. Luigi Angelini nel 1961, apposta sul muro retrostante la colonna di Borgo Canale. La lapide reca incisa la planimetria generale della zona ricavata dalla pubblicazione (1885) di Elia Fornoni, “La Basilica Alessandrina e i suoi dintorni”

Nella veduta di Alvise Cima appare all’incrocio di quattro direttrici (borgo Canale – via Sudorno poi via S. Vigilio/via Cavagnis – Colle Aperto – via Arena), tra cui la stradina che a sud, affiancata da una siepe, superava la portatorre medioevale di S. Alessandro (GG), entrava nella Cittadella viscontea (X-viale delle Mura) e si connetteva alla via Arena fino a giungere nel cuore del nucleo storico. La sua posizione a valle, rispetto al punto in cui sono state collocate nel Seicento la colonna e le lapidi in sua memoria, indicano anche di come fosse posta proprio all’imbocco del borgo Canale, che dopo la chiesa di S. Grata inter vites (10) piegava in discesa fino all’attuale quartiere di Loreto.

Veduta di Alvise Cima, dettaglio della cittadella alessandrina, un recinto che racchiudeva un complesso sistema di edifici comprendente, oltre alla basilica, la chiesa di S. Pietro, la residenza del Vescovo, la casa del Prevosto, la canonica, lo xenodochio e una torre (non tutti visibili nella veduta)

La sua posizione a cavallo del tracciato delle mura veneziane rese inevitabile la sua demolizione, rendendo extra moenia tutto il vicino borgo, che peraltro già soffriva di una condizione marginale dovuta dai tempi della costruzione della trecentesca Cittadella viscontea (3).

Planimetria del colle di San Giovanni nel periodo alto medioevale. Disegno di A. Mazzi

E’ difficile stabilire se, deviando il bastione di Sant’Alessandro, almeno una parte avrebbe potuto salvarsi, non foss’altro perché le più aggiornate tecniche di architettura militare esigevano la presenza di una vasta area libera intorno alla fortificazione: e così nel borgo, insieme alla cittadella alessandrina  vennero distrutte anche 80 case.

LA CITTADELLA ALESSANDRINA

Particolare della lapide realizzata dall’Ing. Luigi Angelini (1961), apposta sul muro retrostante la colonna di Borgo Canale. L’asse principale della basilica risulta orientato in direzione est-ovest, con l’abside dove ora è il bastione di S. Alessandro, mentre la facciata era rivolta verso la salita di via Borgo Canale

Come attestato in antichi documenti, la basilica si trovava all’interno di un sistema di edifici racchiusi in un recinto fortificato, la “Cittadella alessandrina”, comprendente la piccola chiesa di S. Pietro, adibita al rito battesimale, ampliata verso la fine del Quattrocento e demolita nel 1529.
Vi erano poi, oltre a una grande piazza, edifici con funzione di residenza, assistenza e ospitalità: uno xenodochio (ricovero per pellegrini ed infermi), la casa del Prevosto, la residenza del Vescovo e la canonica, dove si svolgeva la vita comunitaria, nonché un’altissima torre campanaria di carattere difensivo.
I terreni circostanti, di proprietà vescovile, erano denominati “Vigna di Sant’Alessandro”.

In quanto molto antica e custode dei resti del santo, è plausibile che la basilica rivestisse, almeno inizialmente, lo status di unica cattedrale, nonostante le cattedrali paleocristiane sorgessero senza eccezioni entro le mura cittadine, seppur in rapporto con i santuari cimiteriali del suburbio.

Come riportato da Lorenzo Dentella, “Il tempio era per antichità insigne, celeberrimo per frequenza e devozione di popolo […] Distinto per la dignità prepositurale e per Capitolo di diciotto canonici”. Le fonti indicano tale numero per il 975, numero che oscillò nel tempo: essi restarono nella Cittadella alessandrina sino al momento della distruzione del complesso basilicale.

LA GRANDE TORRE

La grande torre campanaria e difensiva della Cittadella alessandrina. Fu la prima ad essere abbattuta dai veneziani

Al centro della cittadella alessandrina, “a dieci passi dalla chiesa” si elevava l’imponente torre campanaria a pianta quadrangolare, descritta come molto larga alla base e con una struttura muraria a grandi massi di pietra che la rendeva inespugnabile; essa garantiva le possibilità difensive estreme e costituiva ultimo rifugio in caso di assalto nemico e poteva agevolmente ospitare per molti giorni la corte ecclesiastica al completo con gli arredi più preziosi (4).

La torre, che raggiungeva gli oltre 35 metri in altezza, spiccava su tutta la città rivaleggiando col Campanone affinché il suono delle sue campane (in numero di sei nel XI secolo) potesse chiamare a raccolta il popolo nelle grandi cerimonie che avevano luogo nell’insigne basilica.

Anche la chiesa di San Vincenzo era dotata di un’analoga torre campanaria difensiva (attestata dal 1135 e demolita nel 1688 per far posto all’attuale abside), che fu più volte “ruinata” e riparata nel corso delle lotte intestine fra opposte fazioni.

L’ASPETTO DELLA BASILICA ALESSANDRINA

La fronte della Basilica alessandrina in un’interpretazione di fantasia, disegnata nel 1675 per le Effemeridi di Padre Donato Calvi. L’interno doveva essere splendido. Lorenzo Dentella lo descrive decorato di colonne di marmo antichissime (qualcuno scrisse “variopinte”), ornato di altari, statue e pitture, alcune delle quali rappresentavano, probabilmente in affresco, scene della vita e della Passione di S. Alessandro

L’immagine pittorica più antica della chiesa è giunta sino a noi grazie a un dipinto del 1529 di Jacopino Scipioni, che doveva trovarsi all’interno della basilica alessandrina, per poi essere esposto nella chiesa di San Pancrazio dietro l’altare maggiore.

Dietro l’altare della chiesa di S. Pancrazio, nella pala di Jacopino Scipioni (1529), Madonna col bambino, i santi Proiettizio, Giovanni Vescovo, Esteria e Giacomo con angeli musicanti, è raffigurata l’immagine pittorica più antica della basilica alessandrina (prima pala a destra)

 

La pala di Jacopino Scipioni (Madonna col bambino, i santi Proiettizio, Giovanni Vescovo, Esteria e Giacomo con angeli musicanti) ripresa dal transetto. La figura maschile a destra regge il modello della Basilica alessandrina. Vi è raffigurato un portico slanciato a tripla arcata sovrastato da un loggiato e il fastigio con una piccola apertura che illumina la parte interna e, sul lato a nord, la torre campanaria

Un’altra immagine della basilica alessandrina fu riprodotta da Fabio Ronzelli nella Traslazione del corpo di Sant’Alessandro (1623), dipinto collocato presso la sacrestia del Duomo di Bergamo.

Particolare della Traslazione del corpo di Sant’Alessandro di Fabio Ronzelli. Oltre l’arcata, al di sotto del castello spicca luminosa la Basilica alessandrina

In un altro dipinto, la Tumulazione di Sant’Alessandro (1623) di Fabio Ronzelli, è raffigurato un uomo che tiene fra le mani il modello dell’insigne Basilica: un dipinto è conservato presso la chiesa di S. Alessandro della Croce o presso le sacrestie del Duomo di Bergamo.

Sezione e pianta della basilica primitiva, risalente al IV secolo d.C. (da E. Fornoni, L’antica Basilica alessandrina, Bergamo, 1885)

L’insigne basilica, pur non presentando le vaste dimensioni delle grandi costruzioni romane da cui trae il modello, doveva essere maestosa e lo si può desumere dai disegni del rilievo eseguiti (ad perpetuam rei memoriam) su ordine del vescovo Federico Cornaro dal canonico Giovanni Antonio Guarneri, che dovette redigere una relazione sulla demolizione dell’antica chiesa (le cui dimensioni furono riportate in cubiti) e sul trasporto delle reliquie di S. Alessandro nella chiesa di S. Vincenzo.

Il sacro edificio, a pianta longitudinale diviso in tre navate, aveva una lunghezza di quaranta metri e quindici di larghezza e rispettivamente ventisette metri per sei e mezzo misura la sua navata principale. Conteneva quindi comodamente cinquecento fedeli nello spazio centrale; più di mille, sommando a quello le navi minori.
Un muro, verosimilmente somigliante all’iconostasi della cattedrale di San Vincenzo,  separava le navate laterali dalla zona presbiteriale, alla quale si accedeva dalla navata centrale tramite quattro gradini. La cattedra del vescovo era invece posta dietro l’altare maggiore, circondata dai seggi dei canonici.

Attraverso due scale di quindici gradini si accedeva ad una cripta che conteneva, come riporta la tradizione, i tre altari di Sant’Alessandro, San Narno e San Viatore (i primi due vescovi di Bergamo), presumibilmente posti sopra le rispettive arche e, sempre secondo la tradizione, i resti di alcuni altri santi bergamaschi.

Iscrizione dell’epoca paleocristiana con inciso il nome di quello che secondo la tradizione fu il primo vescovo bergamasco, San Narno (Bergamo, Museo Archeologico di Cittadella)

 

Il più antico e venerato edificio sacro di Bergamo, innalzato nel IV secolo d.C. sul luogo in cui fu sepolto Sant’Alessandro, è stato sin dalle origini oggetto di grande devozione popolare e simbolo stesso della città, tanto da venir impresso su una faccia del “pergaminus”, la moneta coniata dalla zecca di Bergamo nel XIII secolo

L’ASSEDIO DEL 894 E LE MODIFICHE DI ADALBERTO

Nell’anno 894 le truppe tedesche per mano di Arnolfo di Carinzia (figlio di Carlo Magno e futuro re d’Italia), assalirono la città, saldamente fortificata, distruggendone una parte: penetrate dal colle di San Vigilio, distrussero il Castellum e la Cittadella Alessandrina con la sua basilica, “diruta et combusta remansit”, scrive Mario Lupo nel suo Codex diplomaticus.

Solo dopo molti anni, quando il borgo e la vita tornarono a rifiorire, il vescovo Adalberto provvide alla sua ricostruzione.

Sezione e pianta della basilica, con l’addizione del presbiterio sotto il vescovato di Adalberto (894-929). Da E. Fornoni, L’antica Basilica alessandrina, Bergamo, 1885

LA FINE DELL’AUGUSTO TEMPIO

L’abbattimento della basilica alessandrina fu un episodio molto doloroso per la città, raccontato da numerose cronache, “..tristissimo avvenimento da addossarsi a totale carico di chi nel 1561 guiderà la costruzione delle nuove mura: atto di inciviltà e di soldatesca prepotenza favorito dalla disanimata e mercantile piaggeria dei reggitori veneti di quel tempo, posti di fronte ai vocianti e sgangherati aut aut di personaggi dal mercenario mestiere; impietosi e quindi sordi ad ogni voce dei sentimenti di una gente pacifica e proprio per questa ragione spregiata e tenuta in nessuna considerazione” (5)

Nonostante il 7 luglio del 1560 il capitano Pietro Pizzamano avesse fatto presente che l’erezione delle mura avrebbe arrecato gravi danni al patrimonio di Bergamo, l’anno successivo, il Governatore Generale al servizio di Venezia Sforza Pallavicino, giunto a Bergamo con il compito di dirigere i lavori di fortificazione della città, non mise neppure in conto di modificare il tracciato della fortificazione e si limitò a comunicare la sua decisione al vescovo, il veneziano Federico Cornaro, dando disposizioni perché fosse minata la grande torre che fungeva da campanile.

Il vescovo,  entrato nella sua diocesi solo l’11 luglio, fu impotente di fronte all’imminente distruzione di case, chiese e conventi, muri, orti e vigne, e di quella basilica che per più di mille e duecento anni era stata il decoro e la gloria della città. Neppure i cittadini ebbero il tempo di opporsi, né di tentare accordi di modifica alle opere proposte: a nulla valsero le tre precessioni cittadine (30/ 31 luglio e 1 agosto 1561), programmate per chiedere a Dio che illuminasse le autorità venete: la prima annoverava una folla straripante, che convinse i Rettori a vietarne altre di simili per motivi di ordine pubblico.

Il vescovo fece appena in tempo a far  redigere l’inventario di tutti i beni (paramenti sacri, arredi,  suppellettili), tra il 4 e il 7 agosto, giorno in cui all’insaputa anche del Senato, si sarebbero avviate le demolizioni.

Commovente la scena dell’ultima messa solenne nell’agonizzante basilica, gremita di una folla lacrimevole composta da tutto il popolo bergamasco, mischiato ai soldati in armi. Era la domenica nona dopo la Pentecoste, il Pallavicino aveva provveduto 1800 fanti e cinquanta soldati a cavallo per mantenere l’ordine. Quando il diacono al Vangelo cantò et ut appropinquavit Iesus videns civitatem flevit super illiam, quasi fossero parole espressamente ispirate per la indeprecabile fatalità dell’ora, la folla compresa da terrore si abbandonò al pianto.

Il Cornaro, mentre i soldati si erano accampati nella chiesa, fece aprire l’arca che conteneva i resti del Santo, alla presenza di sacerdoti e canonici, mentre i guastatori, eseguendo gli ordini dello Sforza, abbattevano la casa del Prevosto.

Nel corso della funzione sorsero problemi tra i canonici del Capitolo di S. Alessandro e quelli di S. Vincenzo, riguardo la destinazione finale delle reliquie del santo martire; il Vescovo intervenne con decisione e dopo aver esposto alla devozione dei fedeli i resti santi (secondo la tradizione dall’alba alle quindici per gli uomini, dalle quindici fino al tramonto per le donne), dopo aver constatato che le reliquie non erano mai state profanate, un corteo di religiosi, sacerdoti, nobili cavalieri, confusi tra una folla piangente e devota, si avviò in processione notturna nel Duomo cittadino, dove furono portate anche le reliquie dei Santi Narno e Viatore: la tradizione riporta che si fece ricorso a due casse, divise con tanti tramezzi in ciascuno dei quali furono deposte anche le reliquie dei Santi Giacomo, Proiettizio, Giovanni ed Esteria.

S. Alessandro a cavallo e i santi Narno e Viatore, in un affresco dipinto nella Curia vescovile di Bergamo

Dopo la traslazione, il 14 agosto fu distrutta la torre campanaria, imbragata di assi in legno impregnate di pece alla base e private delle pietre portanti, per favorirne la caduta. L’alto Campanile rovinò sulla basilica trascinando con sé tutto quello che ancora restava dell’antica costruzione e distruggendo la canonica e gli edifici adiacenti.

“In questo giorno scoppiò la mina, precipitò la torre, e cadendo al basso sopra la cattedrale… ogni cosa distrusse.. L’insigne Canonica, Santa Basilica e antica Cattedrale di sant’Alessandro, che per 1200 e più anni era stata il decoro e la gloria della nostra patria, in quel funesto giorno cominciò, fra le rovine a deplorare la caduta dei propri privilegi, datosi principio a mandarla per terra con doglie e pianto per tutta la città” (6).

In quei giorni infausti, mentre la diplomazia veneziana fingeva di trattare e nonostante la premessa di poterli risparmiare, venivano distrutti altri edifici sacri: la chiesa di San Lorenzo nell’omonimo borgo, assieme alla chiesa parrocchiale di S. Giacomo, che sorgeva in prossimità della porta nella cerchia delle mura medievali. Vennero poi demoliti la chiesa e il convento domenicano dei Santi Stefano e Domenico  sul colle di Santo Stefano, che sorgeva isolato dalla città: ed anche in questo caso lo Sforza fece ricorso alle mine, scavando delle gallerie sotto il monastero, dove vennero collocati barili pieni di polvere, che esplosero nella notte dell’11 novembre di quello stesso terribile anno.

COSA RIMANE DELLA BASILICA ALESSANDRINA

Con il crollo della torre, poco si salvò della basilica, anche se si dice che alcuni dei suoi altari furono reimpiegati; per lo più i materiali vennero abbandonati o riutilizzati per costruzione di fabbricati; sicuramente molti di essi furono reimpiegati per la costruzione delle mura ed è singolare la vicenda che riguarda le due grandi statue raffiguranti Adamo ed Eva, situate ai lati dell’ingresso della basilica Alessandrina.
Secondo l’abate Calvi, nel crollo dell’edificio andarono a pezzi ma ne vennero recuperate le teste e parte del busto per essere poi utilizzate nella costruzione delle mura e collocate di fronte al luogo dove si trovava la basilica e “ove pur sono di presente”, aggiunge sotto la data del 16 agosto.

Una fonte indica che i pulpiti attuali del Duomo furono ricavati dai marmi giacenti presso i depositi della M.I.A. – Pia Opera di Misericordia – e aggiunge che forse siano quasi tutti derivati dalla demolizione della Basilica.

E’ accertato invece che uno dei due pulpiti del Duomo di Bergamo (il cui rivestimento fu disegnato da Filippo Alessandri), sia completato da una colonna di marmo verde antico, dono della Misericordia Maggiore nel 1746

Le dodici colonne che ornavano la basilica alessandrina presero diverse direzioni: due vennero donate al Santuario di Caravaggio nel 1584, quattro furono adoperate per il portale del Duomo e da qui levate quando l’architetto Bonicello realizzò l’attuale facciata; altre vennero utilizzate per l’altare della basilica di Santa Maria Maggiore.

Una di queste, si dice sia quella fatta innalzare nel 1621 dal Capitolo della Cattedrale sul luogo dove sorgeva l’antica basilica: la colonna cui accennato in precedenza, che ancora si vede in prossimità delI’imbocco di Borgo Canale, alla quale fu data “più degna sistemazione” nel 1961, in occasione del quarto centenario della demolizione della basilica.

La colonna risulta essere di granito di Numidia, lo stesso granito usato nella costruzione delle basiliche costantiniane di Roma. Una coincidenza che fa pensare ad un contributo imperiale per l’antico tempio paleocristiano.

La colonna ubicata all’imbocco di via Borgo Canale, eretta nel 1621 dal Vescovo Emo a ricordo della distrutta chiesa primitiva cittadina demolita nel 1561

Nel presbiterio della chiesa di Sant’Alessandro della Croce in Borgo Pignolo, a sostegno della mensa liturgica trova collocazione un’antichissima arca di pietra utilizzata, secondo l’iscrizione secentesca leggibile sulla parete esterna, come sepolcro per il corpo di Sant’Alessandro (e successivamente per quello di Santa Grata).

L’arca, monolitica e sobriamente decorata di semplicissime figure di pilastri, archi e colonne, collocata in origine nella basilica alessandrina, trovò dapprima una sistemazione nel monastero di Santa Grata, per pervenire alla Parrocchia nei primi anni dell’Ottocento, in seguito agli spostamenti causati dalle soppressioni napoleoniche. La sua attuale funzione rievoca in modo suggestivo consuetudini della Chiesa delle origini, che usava celebrare i riti liturgici sulle tombe dei martiri.

Marina Vavassori, archeologa epigrafista, afferma che il sarcofago di Sant’Alessandro fu in origine destinato a un bergamasco ignoto, abbastanza in vista, nella seconda metà del terzo secolo (250-300): il riutilizzo di antichi sarcofagi era una pratica diffusa ovunque, spesso utilizzata per accogliere i corpi dei martiri; e dal momento che la basilica di Sant’Alessandro sorgeva nell’area dell’antica necropoli romana, non fu difficile trovare un sarcofago da reimpiegare. Erasa l’iscrizione antica, perché sparisse ogni traccia di paganità, l’arca era pronta per accogliere l’eroe della cristianità.

L’altare liturgico nel presbiterio della chiesa di S. Alessandro della Croce sarebbe, secondo la tradizione, l’arca di pietra proveniente dalla distrutta basilica di S. Alessandro, utilizzata come SEPOLCRO per il corpo di S. Alessandro e, successivamente, di Santa Grata. Molto sorprendente il confronto con l’arca sepolcrale raffigurata da Fabio Ronzelli (Bergamo, documentato dal 1621 al 1630) nella già citata Traslazione del corpo di Sant’Alessandro

L’arca sepolcrale dipinta da Fabio Ronzelli nella Traslazione del corpo di Sant’Alessandro (dipinto custodito presso la cattedrale di Bergamo), presenta una somiglianza impressionante con quella posta a sostegno della mensa liturgica nella chiesa di S. Alessandro della Croce.

Si noti la somiglianza tra l’arca sepolcrale raffigurata nel dipinto di Fabio Ronzelli – Traslazione del corpo di Sant’Alessandro – e l’arca sepolcrale posta a sostegno della mensa liturgica nella chiesa di S. Alessandro della Croce (il dipinto è parte integrante del ciclo delle Storie di Sant’Alessandro dipinte da Enea Salmeggia)

E’ nuovamente Marina Vavassori ad informarci che in una Memoria conservata all’Archivio Diocesano di Bergamo, relativa alle spese fatte fra il 1688 e il 1714, si legge che nello scurolo del Duomo (chiesa ipogea) si trovavano “li marmi” dell’antica Cattedrale di Sant’Alessandro distrutta nel 1561, probabilmente lì trasferiti quando lo scurolo non era più attivo.
Ma già prima della demolizione della basilica alessandrina, “molte lapidi si erano disperse e spesso venivano riutilizzate” e se alcuni marmi erano epigrafati, spesso venivano utilizzati dall’altra parte.

Ricordiamo infine che alla basilica alessandrina fu dedicato il nome della porta medioevale che dal versante occidentale dei colli dà accesso al centro storico: denominazione riconfermata con la nuova porta cinquecentesca edificata dai Veneziani.

Nel medioevo, tutte le quattro porte portavano il nome dei santi patroni delle chiese che sorgevano nelle vicinanze: S. Stefano, S. Andrea, S. Lorenzo, e S. Alessandro (nell’immagine). Di queste chiese, tre furono demolite insieme a centinaia di case, per l’ampliamento della cerchia, mentre la quarta, la chiesa di S. Agostino, fu risparmiata dalla demolizione ed è ancora, come sappiamo, esistente (Porta S. Alessandro poco prima del 1912, anno di costruzione della funicolare di S. Vigilio: da D. Lucchetti, “Bergamo nelle vecchie fotografie)

LA CROCE DI UGHETTO: IL SIMBOLO DELL’UNIFICAZIONE DEI DUE CAPITOLI

La croce di Ughetto, la grande croce processionale proveniente dalla distrutta basilica alessandrina, si cela nei sotterranei del Duomo di Bergamo, dove una lunga e importante campagna di scavi ha recentemente portato alla luce la basilica paleocristiana di S. Vincenzo.

Si tratta dell’opera forse più rappresentativa del Tesoro della cattedrale, in origine arricchita da 34 reliquie miracolose, sigillate sotto la sua preziosa oreficeria.

La croce prende il nome dal suo principale esecutore, Ughetto Lorenzoni da Vertova, il quale l’ha realizzata nel 1386 per conto dei Canonici del Capitolo di Sant’Alessandro.

E’ questo il motivo per cui il Santo appare vistosamente abbigliato come un cavaliere medievale in sella al suo destriero, mentre sullo sfondo si staglia il profilo ideale della città di Bergamo, conquistata alla fede cristiana.

Particolare di S. Alessandro nella croce di Ughetto, realizzata nel 1386 per conto dei Canonici del Capitolo di Sant’Alessandro, motivo che giustifica la presenza molto evidenziata della figura del Santo

Nell’imminenza dell’abbattimento della basilica, oltre ai paramenti sacri, organi, campane e corredo liturgico, la croce di Ughetto venne portata in solenne processione nella chiesa di S. Vincenzo, insieme alle sacre reliquie: il Capitolo di S. Alessandro perdeva definitivamente la propria sede e da quel momento i due Capitoli di S. Vincenzo e di S. Alessandro si trovarono a convivere fino alla definitiva fusione sotto le insegne di S. Alessandro, avvenuta nel 1689, anno della posa della prima pietra della nuova cattedrale.

La croce fu rinnovata nel 1614, anno in cui fu sancita la provvisoria riunificazione dei due Capitoli di S. Vincenzo e di S. Alessandro: il restauro della croce è quindi la concreta manifestazione di questo tentativo di unità, tanto che la fisionomia originale della croce è stata stravolta e piegata a questo scopo.

In origine il recto esibiva il Cristo crocifisso tra la Vergine e S. Giovanni, in alto un Angelo e ai piedi S. Alessandro a cavallo. Il verso esibiva il Cristo glorioso tra i quattro evangelisti e ai piedi Santa Grata.

Nell’operazione di restauro (oltre alle vere e proprie aggiunte seicentesche) il Cristo crocifisso medievale è stato sostituito con un altro più recente, recuperato da una croce del Capitolo di San Vincenzo.

Croce di Ughetto (1386). Sul recto, domina al centro Cristo Crocifisso con aureola e corona di spine, titulus e angeli tra nubi alle estremità. Nel braccio sinistro un angelo; in quello di destra la Vergine Addolorata; in alto Santa Grata; San Giovanni Evangelista in basso. Nel verso: al centro Sant’Alessandro a cavallo con la città di Bergamo sullo sfondo; alle estremità 4 teste di angeli. Sui bracci Santi Rustico, Procolo e Carlo. Sulla canna in prossimità del nodo è incisa la data 1616, riferita molto probabilmente al rinnovo per mano di Carlo de Giuli di Milano. Egli nel variare la sistemazione delle medaglie e la loro connotazione, inserisce sulla lamina i Santi Rustico, Procolo e Carlo. Il Cristo medievale viene sostituito da una croce appartenente al capitolo di San Vincenzo

Inoltre, i materiali del paliotto d’altare fisso (la cui realizzazione risale al 1908) conservato presso il Duomo di Bergamo, provengono con tutta probabilità dall’antica basilica alessandrina. Si tratta di una ferriatina e di piccole sculture ornamentali, a lungo utilizzati per decorare l’altare di sinistra della Cattedrale di San Vincenzo. Così come oggi si presenta la composizione prevede: nella parte centrale in basso Sant’Alessandro vessillifero; ai lati della ferriatina San Narno e San Viatore; alle estremità del lato a sinistra San Propettizio e San Giovanni Vescovo; a destra San Giacomo e S. Esteria. Tra i racemi emergono gli stemmi di San Pio X e del Vescovo Tedeschi.

Note

(1) Alberto Fumagalli, Le dieci Bergamo. Ed. Lorenzelli.

(2) Tosca Rossi, A volo d’uccello Bergamo nelle vedute di Alvise Cima Analisi della rappresentazione della città tra XVI e XVIII secolo, Litostampa istituto grafico, Bergamo, 2012, cm 21×28, pp. 244.

(3) Tosca Rossi, Op. Cit.

(4) Bruno Cassinelli, Il contesto urbano della corte ecclesiastica alessandrina, in “Bergamo e S. Alessandro”, p. 131-138. Anno 1997.

(5) A. Fumagalli, Op. cit.

(6) Padre Donato Calvi, Effemeridi, 14 agosto 1561.

Riferimenti principali
– Tosca Rossi, A volo d’uccello Bergamo nelle vedute di Alvise Cima Analisi della rappresentazione della città tra XVI e XVIII secolo, Litostampa istituto grafico, Bergamo, 2012, cm 21×28, pp. 244.
– Academia.edu – Fabio Scirea Il complesso cattedrale di Bergamo.
– Bergamosera – La Basilica alessandrina – Andreina Franco Loiri Locatelli.
– Alberto Fumagalli, Le dieci Bergamo. Ed. Lorenzelli.
– Bruno Cassinelli, “Il contesto urbano della corte ecclesiastica alessandrina”, in Bergamo e S. Alessandro, p. 131-138. Anno 1997.

Le diatribe fra i capitoli di S. Alessandro e di S. Vincenzo

I santi cari alla Città di Bergamo, posti nella veduta in alto a destra della veduta “a volo d’uccello” di Alvise Cima: Vincenzo e Alessandro, morto alla fine del III sec. d.C. ed eletto compatrono di S. Vincenzo per Bergamo e suo territorio nel 1561, fino a diventare l’unico titolare della città nell’anno 1689 con atto ufficiale del 4 novembre ad opera del Vescovo Daniele Giustiniani (si veda: Tosca Rossi, A volo d’uccello Bergamo nelle vedute di Alvise Cima Analisi della rappresentazione della città tra XVI e XVIII secolo)

La Basilica alessandrina (domus Sancti Alexandri), sorta all’esterno delle mura nel IV sec. d.C., sulla tomba di S. Alessandro, è il più antico, venerato e compianto edificio sacro di Bergamo.

Benché non sia dato di sapere da quando le chiese di S. Alessandro e di S. Vincenzo si contendessero il primato, gli scavi archeologici sotto il Duomo di Bergamo – che hanno portato alla luce i resti della chiesa paleocristiana di S. Vincenzo – ne hanno permesso la datazione al V° secolo.

Essendo la Basilica alessandrina ubicata fuori dalla cinta muraria cittadina, i cristiani dovettero provvedere a costruire una chiesa anche dentro le mura; ed è cosi che si sviluppò chiesa paleocristiana di S. Vincenzo, edificata nell’area del foro.

Già nella prima fonte scritta utile, il testamento del gasindo regio Taido del 774 (il documento più antico che nomina la Basilica Alessandrina e il martire Alessandro), il vertice della Chiesa bergamasca è costituito dalle Basilice beatissimi Christi martyris Sancti Alexandri intra hac civitate Bergomate, ubi eius sanctum corpus requiescit, set et beatissimi Christi martyris et apostoli Sancti Petri infra curte Sancti Alexandri adque ecclesia Beatissime semper virginis et Dei genetrice Marie et Sancti Vincenti ecclesie Bergomensis (1).

Fronte della Basilica alessandrina (da E. Fornoni, L’antica Basilica alessandrina, Bergamo, 1885), distrutta nel 1561 per la costruzione delle mura venete e attualmente ricordata da una colonna posta all’inizio di via Borgo Canale

La causa “de matricitate” (causa in corso tra i capitoli delle due cattedrali cittadine, S. Alessandro e S. Vincenzo, portata nel 1187 dinanzi al Papa Urbano II nel palazzo vescovile di Verona), intendeva stabilire quale delle chiese fosse la “matrice”, ovvero la chiesa originaria idonea a detenere la cattedra vescovile.

L’area archeologica nei sotterranei del Duomo di Bergamo, sul quale è sorta la chiesa paleocristiana di S. Vincenzo (V° sec.), ubicata nell’area del foro, nel medioevo “platea parva Sancti Vincentii”. Alla chiesa di S. Vincenzo verrà affiancata, nell’VIII secolo, la piccola chiesa di Santa Maria sul luogo dell’attuale S. Maria Maggiore, riprogettata dal 1137 al 1273 da magister Fredum, utilizzata dai canonici per l’ufficiatura invernale. Vi si celebravano i battesimi per tutti gli abitanti della città e del suburbio, funzione che le conferiva un rapporto molto stretto con la popolazione

La rivalità tra i capitoli delle cattedrali di S. Alessandro e S. Vincenzo (2), sviluppatasi tra XI e XII secolo, tradiva la sua valenza politico-economica legata al governo della città, al controllo del contado e delle decime (3); e grazie alla facoltà di eleggere il vescovo (avente giurisdizione politica e civile)  i canonici esercitavano potere sulla vita pubblica.

I due capitoli erano perennemente in conflitto  anche in merito a questioni spicciole riguardanti le processioni, la possibilità di portare le reliquie o di occupare posti privilegiati durante le pubbliche funzioni.

Veduta della città dal Prato di S. Alessandro agli inizi del XV secolo. Tra il X e l’XI sec. alle due comunità dei canonici appartenevano rilevanti patrimoni fondiari su cui esercitavano diritti di giurisdizione feudale. Ai canonici di San Vincenzo erano anche destinati per donazione dell’imperatore le entrate provenienti dai diritti fiscali sulla fiera di Sant’Alessandro, e ciò fino all’arrivo dei Veneziani nel 1428

Un diploma redatto nell’894 dalla cancelleria di re Arnolfo di Carinzia, concesse diritti patrimoniali alla ecclesia sancti Vincentii Martyris Christi que constructa esse cernitur infra menia Bergomensis civitatis in qua etiam primitiva illius episcopii sedes est (Fabio Scirea, op. cit.).

Nell’897 il vescovo Adalberto istituì in San Vincenzo la Canonica, nel 923 composta da dodici preti, sette diaconi e sette suddiaconi (non si dispone invece dell’atto di fondazione della canonica di Sant’Alessandro, che Dentella e Belotti collocano all’anno 953, ma che Chiodi anticiperebbe all’inizio del secolo X).

Portone di una bottega di proprietà dei canonici di S. Vincenzo, in via M. Lupo

 

Via Mario Lupo: l’immagine di S. Vincenzo nella serraglia del portale della Canonica di S. Vincenzo detta dei Cuochi

Con la fusione dei due capitoli in una et eadem matrix ecclesia Pergamensis (decreto papale), nel 1189, si concludeva la controversia de matricitate che da tempo opponeva a Bergamo (a volte anche in modo particolarmente violento) le canoniche di San Vincenzo (in regime di chiesa doppia con Santa Maria) e di Sant’Alessandro (con annessa San Pietro), in relazione alle prerogative liturgiche e istituzionali.

Le controversie in realtà si chiusero solo nel XVII secolo con la composizione di un unico “capitolo”. “Ma già in età comunale le famiglie bergamasche avevano indirizzato le loro ambizioni e le loro divergenze verso altre istituzioni. L’Episcopio aveva perduto il suo potere civile e politico” (Andreina Franchi Loiri Fumagalli).

È ormai assodato che le cattedrali paleocristiane sorsero senza eccezioni entro le mura cittadine, pur in rapporto con i santuari cimiteriali del suburbio.

A Bergamo Alta San Vincenzo e Santa Maria si collocano ai margini del foro romano, mentre Sant’Alessandro e San Pietro, abbattute nel 1561 per far spazio alle mura veneziane, sorgevano a ridosso del settore nordovest delle mura romane.

In Sant’Alessandro era venerato il martire secondo tradizione fondatore della Chiesa bergamasca (ma si considerino le obiezioni di Giovanni Spinelli, che ritiene il culto di Sant’Alessandro di Bergamo derivato da quello di Alessandro d’Anaunia, mediato dalle missioni evangelizzatrici tridentine all’inizio del VII secolo), e sempre secondo tradizione (però tarda – Picard 1988) vi riposavano le spoglie dei supposti primi due vescovi, Narno e Viatore (4): un culto in linea con le prerogative di un santuario in grado di accrescere il proprio potere istituzionale e patrimoniale fino a rivaleggiare con la cattedrale (si pensi a San Pietro a Roma e a Sant’Ambrogio a Milano).
Nonostante tali premesse, a lungo e da più parti è stato rivendicato alla distrutta Sant’Alessandro (la cui origine paleocristiana resta da accertare archeologicamente), lo status di originaria cattedrale.

Supportava tale convinzione l’errata interpretazione di resti dell’antica San Vincenzo, rinvenuti nel 1906 dall’ingegnere Elia Fornoni in occasione dello scavo per la prima Cripta dei vescovi: nei muri della recinzione presbiteriale furono riconosciuti i perimetrali di una modesta cappella, coerente con una fondazione di VII secolo quale supposta sede del vescovo ariano. In tale ottica, la rifondazione nel 1459 su progetto di Filarete avrebbe inteso rimediare all’inadeguatezza della chiesa altomedievale, salvo incagliarsi in una tormentata vicenda risolta con l’ultimazione del prospetto solo nel 1886, sebbene la chiesa fosse già stata riconsacrata nel 1689 a Sant’Alessandro (per via delle reliquie di Alessandro, Narno e Viatore ivi traslate dalla distrutta basilica suburbana).

Nel giugno 2004, rimosso il pavimento del duomo in vista dell’installazione di un impianto di riscaldamento, è riemerso il muro dipinto già trovato da Fornoni (e da cui fu staccato il lacerto con I confratelli della Misericordia, conservato presso il Museo Diocesano di Bergamo), dando avvio allo scavo della navata coordinato dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Lombardia. Portata a termine una prima fase di lavori, i risultati sono dapprima stati ripetutamente pubblicati in forma sintetica, lasciando diversi nodi da sciogliere (Ghiroldi, Daffra, Ceriotti 2006; Fortunati, Ghiroldi 2007; Daffra 2007; Ghiroldi 2007; Fortunati, Ghiroldi 2008).

L’indagine archeologica ha fugato i restanti dubbi de matricitate: su strutture residenziali romane, sistematicamente rasate, sono riemersi resti della basilica paleocristiana, con impianto a tre navate scandite da colonne su basi attiche (almeno undici, con interasse di circa tre metri). Due lacerti di mosaico pavimentale geometrico, l’uno policromo l’altro in bianco e nero, collocano la struttura fra i secoli V e VI” (Fabio Scirea, op. cit.).

Nel mese di agosto del 1561 erano iniziati i preparativi per lo sgombero e l’abbattimento della basilica di Sant’Alessandro. Il 13 agosto di quell’anno le reliquie di Sant’Alessandro (assieme a quelle di altri “Corpi Santi”) erano state traslate nella cattedrale di San Vincenzo (l’attuale cattedrale di Sant’Alessandro) con grande concorso di popolo.
Da quel momento, in attesa che venisse eretta una nuova chiesa, che risarcisse della violenza subita, il capitolo di Sant’Alessandro (composto dal collegio dei canonici istituito presso la distrutta chiesa di Sant’Alessandro) si era trovato a convivere con quello di San Vincenzo.

Le tensioni erano legate alla nuova fabbrica del Duomo e alla sua intitolazione (l’accordo provvisorio del 1614 prevedeva che la nuova Cattedrale sarebbe stata dedicata al solo Sant’Alessandro e che le due congregazioni si sarebbero fuse nel capitolo di Sant’Alessandro Maggiore).

Il periodo delle discordie faziose durò sino al secolo XVII, quando avvenne la fusione dei due capitoli in un unico organismo (nell’unico Capitolo di Sant’Alessandro Maggiore), dopo la distruzione dell’antica cattedrale di  S. Alessandro e la consacrazione (per decreto di Papa Innocenzo XI) a Sant’Alessandro martire della ricostruita cattedrale (1689) già di San Vincenzo.

In ogni caso, le precedenti congregazioni vennero mantenute distinte, con proprie amministrazioni e programmi spesso contrapposti. A San Vincenzo venne intitola una cappella, edificata appositamente, nel 1697, sul lato destro del tempio cittadino.

Note

(1) In questo documento la chiesa di San Vincenzo (che compare in qualità di sede pievana) è nominata insieme alla basilica di Santa Maria col titolo di “ecclesia” (chiesa battesimale). L’uso dell’ appellativo “ecclesia”, come mostrano gli studi di Lupi e Mazzi, stava ad indicare, nei secoli che precedono l’anno 1000, la chiesa battesimale esistente nel capoluogo dell’antico pagus romano, conservatosi importante e accresciuto, per ragioni di transito o di mercato o di residenza di qualche autorità. I termini “basilica”, “oratorium”, “capella”, significavano invece la presenza di una chiesa secondaria sita in un vicus o in un quartiere.
Entro il suddetto testamento venivano ricordate come eredi la chiesa di San Vincenzo con Santa Maria, la chiesa di Sant’Alessandro con San Pietro, la chiesa di San Viatore di Terno e le basiliche di Santa Grata in Borgo Canale, di San Michele al Pozzo Bianco, di San Lorenzo, di San Giuliano di Bonate e di Sant’Ambrogio di Zanica”.  Lombardia Beni Culturali – diocesi di Bergamosec. IV – [1989]
In città l’unica pieve era costituita attorno alla cattedrale e al vescovo. Tanto Sant’Alessandro quanto San Vincenzo ebbero la chiesa battesimale: San Pietro e San Giovanni in Arena la prima, Santa Maria la seconda. Ma con tutta probabilità in tempi successivi: prima solo San Pietro, poi solo San Giovanni per Sant’Alessandro, infine solo Santa Maria per San Vincenzo. San Giovanni risaliva al vescovo Tachimpaldo, alla fine del VIII secolo, quando Sant’Alessandro si trovava entro le mura di Bergamo.
Scomparsa questa situazione nel secolo IX, tutte le funzioni si concentrarono in San Vincenzo, battesimo compreso, che veniva conferito in Santa Maria”. Le istituzioni storiche del territorio lombardo – “Le istituzioni ecclesiastiche XIII-XX secolo”
(2) Entrambe le chiese erano dotate di un Capitolo di canonici, chierici addetti alla cattedrale e non necessariamente sacerdoti: potevano aver raggiunto i gradi inferiori del diaconato oppure non aver neppure ricevuto l’ordinazione a presbitero.
(3) “Di diritto però le nomine erano riservate ai Capitoli stessi, i quali, come osserva il Pesenti “venivano così a configurarsi come due circoli distinti e chiusi”, ognuno dei quali perseguiva gli interessi di un insieme di casati fra loro alleati.
“Fra i compiti e i diritti canonicali erano quelli di dare l’assenso alla costruzione di nuove chiese, di ammettere i titolari ai benefici ecclesiastici, incarichi che comportavano notevoli prebende, di partecipare agli scrutini per decidere la riconciliazione dei pubblici peccatori alla Chiesa. La cerimonia di riammissione aveva luogo solennemente il giovedì Santo nella chiesa di San Vincenzo alla presenza del Vescovo e di entrambi i Capitoli” (Andreina Franchi Loiri Fumagalli per Bergamosera).
(4) “Non è certo che San Narno fosse il primo vescovo di Bergamo. Sepolto nel sacello di San Pietro e traslato successivamente nella cripta della vicina Basilica, denuncia forse una priorità del culto apostolico su quello martiriale, analogamente ad altre situazioni della provincia ecclesiastica milanese” (Attila e gli unni : Una mostra itinerante).

Riferimenti

– Academia.edu – Fabio Scirea “Il complesso cattedrale di Bergamo”.
– Andreina Franchi Loiri Locatelli per Bergamosera .
– Tosca Rossi, A volo d’uccello Bergamo nelle vedute di Alvise Cima Analisi della rappresentazione della città tra XVI e XVIII secolo.
– AA.VV., Bergamo dalle origini all’altomedioevo, Modena 1986.
– AA.VV., I reperti altomedievali nel Civico Museo Archeologico di Bergamo, “Fonti per lo studio del territorio bergamasco” VI, Bergamo, 1988.                          G. Cantino Wataghin, Bergamo. La topografia cristiana, in Milano capitale dell’impero romano, catalogo della mostra (Milano 24 gennaio-22 aprile 1990), Milano 1990, pp.160-161.
– S. Del Bello, Indice toponomastico altomedievale del territorio di Bergamo, sec. VII-IX, Bergamo 1986.
– M. Fortunati, Bergamo. L’organizzazione urbanistica in Milano capitale dell’impero romano…., p.160.
– M. Fortunati-M.G. Vitali-A. Zonca, Terno d’Isola (Bergamo). Scavi presso la chiesa di S. Vittore, Bergamo, 1986.
– J. Jarnut, Bergamo 568-1098. Storia istituzionale sociale ed economica di una città lombarda nell’altomedioevo. Bergamo 1981.
– S. Lusuardi Siena, Tra tarda antichità e altomedioevo, in “Archeologia in Lombardia”, Milano 1980, pp. 179 ss.
– S. Lusuardi Siena, L’insediamento nelle età delle invasioni : problemi e spunti di ricerca, in Atti del I Convegno Archeologico Regionale, Milano (1980), Brescia 1981, pp. 271 s.

Sulla vicenda delle rivalità tra i due capitoli  si vedano in particolare: A. Sala, Girardo vescovo di Bergamo e la consorteria dei “Da Bonate” negli avvenimenti cittadini del secolo XII, in «Bergomum», 79, 1985, pp. 139-214; A. Caprioli, A. Rimoldi, L. Vaccaro (a cura di), Diocesi di Bergamo , in Storia religiosa della Lombardia, Varese 1988, pp. 69-71; G. Valsecchi, “Interrogatus… respondit”. Storia di un processo del XII secolo , in «Bergomum», 84, 1989, spec. pp. 13-44; A. Zonca, “Est una matrix ecclesia”. A proposito di due recenti studi sulla Chiesa di Bergamo nel medioevo, in «Archivio storico bergamasco», 10, 1990, pp. 261-284.