L’antica Cattedrale di San Vincenzo: un viaggio di scoperta sotto il Duomo

Grazie ai lavori compiuti recentemente nell’area sottostante il Duomo dedicato a Sant’Alessandro Martire si sono potuti riscrivere interi capitoli della geografia del cuore di Città Alta e toccare finalmente con mano il luogo che racchiude l’essenza delle radici cristiane della Città

Agli inizi del Novecento, incaricato di creare nella Cattedrale di Bergamo una spazio sotterraneo dedicato alla sepoltura dei vescovi bergamaschi, l’ingegnere Elia Fornoni scoprì una porzione di muro dipinto che attribuì erroneamente ai muri perimetrali dell’antica chiesa di San Vincenzo, rafforzando per oltre un secolo la convinzione che si trattasse di una modesta cappella di metri 10×16, coerente con una fondazione di VII secolo quale supposta sede del vescovo ariano – presumendo peraltro scarse disponibilità economiche – e che risalisse all’epoca longobarda.

Dopo aver staccato il lacerto con I confratelli della Misericordia (oggi conservato presso il Museo Diocesano di Bergamo), l’ambiente ipogeo venne ricoperto e tale rimase per poco più di un secolo e cioè fino a che, nel giugno del 2004, in vista dell’installazione del nuovo impianto di riscaldamento, in corrispondenza della zona centro-meridionale del transetto è riemerso il muro  già trovato da Fornoni.

L’affresco dei confratelli della Misericordia (oggi conservato presso il Museo Diocesano di Bergamo), apparso sul muro ritrovato dal Fornoni nel 1905 e riemerso nel giugno 2004 nella zona centro meridionale del transetto

Ha quindi preso avvio una lunga campagna di scavo coordinata dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Lombardia, durante la quale è stata indagata un’area complessiva di circa 700 metri e profonda fino a tre metri e mezzo rispetto al precedente piano pavimentale, che si è conclusa nel 2012 con l’allestimento del Museo della Cattedrale, un percorso – unico nel contesto italiano – che rende visibile ai visitatori le diverse fasi della costruzione storica del sacro edificio (1).

I lavori per lo scavo e il successivo allestimento del Museo della Cattedrale, eseguiti dal 2004 al 2012 (Proprietà arch. Giovanni Tortelli)

Le successive indagini archeologiche hanno rivelato che quello stesso muro altro non era che una porzione della recinzione presbiteriale e che pertanto San Vincenzo non era la modesta chiesa di età longobarda, come si desumeva da fonti scarne e incerte, bensì una Cattedrale solenne, di grande estensione e a tre navate, le cui dimensioni (25 metri di larghezza e 45 di lunghezza) corrispondono a quelle attuali, se si esclude l’ampliamento del Duomo verso il presbiterio (2).

Si è così scoperto che la chiesa era sorta nel V secolo, contestualmente alla cristianizzazione dell’Italia settentrionale, alla presenza di una comunità cristiana già strutturata, importante e in qualche modo abbiente, a giudicare dalla ricchezza delle decorazioni interne. Fatto che ha imposto una rilettura del rapporto tra San Vincenzo e la distrutta Basilica alessandrina (custode dei resti del Santo Patrono), da cui a lungo e da più parti si era rivendicato lo status di originaria cattedrale.

L’immagine di S. Vincenzo nella serraglia del portale della Canonica detta “dei Cuochi” (via Mario Lupo). Fino al 1689 la Cattedrale di Bergamo era dedicata a Vincenzo di Saragozza, nato forse a Huesca alle propaggini dei Pirenei o a Valencia in Costa Blanca ed educato dal Vescovo Valerio, che lo nominò arcidiacono e suo portavoce. Vincenzo fu fustigato, blandito, torturato prima con il cavalletto (uno strumento che lussava tutte le ossa), poi con la graticola e con lamine infuocate e infine rinchiuso in un’oscura prigione, disteso e legato su un letto di cocci di vasi rotti. Ma la storia racconta che le catene si spezzarono, i cocci si trasformarono in fiori e la prigione divenne splendente di luce celestiale, con gli angeli che scendevano dal cielo per consolare il martire e prepararlo al Paradiso, cui ascese nel 304 d.C.

Sono infatti venute meno le ipotesi che per secoli hanno ventilato una duplicità di sede cattedralizia, l’una ariana (San Vincenzo) e l’altra cattolica (Sant’Alessandro): la prima ritenuta piccola perché edificata dagli invasori longobardi a loro esclusivo uso nel nuovo centro del potere, l’altra grande per accogliere il popolo orobico fedele al suo patrono.

Alessandro e Vincenzo, i santi cari alla Città di Bergamo, posti nella veduta in alto a destra della veduta “a volo d’uccello” di Alvise Cima. Il culto di san Vincenzo nasceva dagli antichi liberti romani, che avevano scelto il culto del santo saragozzano per la sua storia d’umiltà, ma Bergamo aveva forte la devozione a Sant’Alessandro, milite della legione Tebea che aveva trovato il martirio proprio nella città Orobica. Le due chiese di San Vincenzo e di Sant’Alessandro si contesero a lungo il titolo di chiesa episcopale e la diatriba si risolse nel XVII secolo con l’unione dei due Capitoli e l’intitolazione della cattedrale a S. Alessandro Martire, dopo che l’antica basilica di Sant’Alessandro era stata distrutta per l’edificazione delle mura veneziane

UN LUOGO ABITATO DAL X SECOLO AVANTI CRISTO

Gli scavi hanno riportato alla luce il più importante spaccato della storia bergamasca, che ha permesso di approfondire la conoscenza della sequenza insediativa di un’area ubicata nel settore centrale di Bergamo Alta, dove la frequentazione umana è documentata sin dalle fase più antiche.

Planimetria dell’area con la stratigrafia del sito, con i resti di due domus d’epoca romana e le diverse fasi costruttive di San Vincenzo, dalla basilica paleocristiana risalente al V secolo alla successiva cattedrale romanica, avvolte nella costruzione rinascimentale secondo il disegno del Filarete, l’architetto fiorentino che alla metà del 1400 rase al suolo l’antica Cattedrale progettandone la rifondazione

Il primitivo impianto di San Vincenzo poggia infatti su due domus romane, che a loro volta si impostano su strutture protostoriche e strati preistorici: i primi pertinenti all’abitato dei Celti golasecchiani qui presente dal X secolo a.C. (documentato da frammenti di ceramica attica scarsamente noti nel contesto urbano di Bergamo) e divenuto particolarmente fiorente nel VI-V sec a.C.

I numerosi ambienti emersi attribuibili a due domus nell’area del foro, hanno poi chiarito aspetti relativi all’impianto urbanistico romano, mentre il recupero della Basilica paleocristiana e della successiva Cattedrale romanica, ha permesso di scoprire aspetti finora sconosciuti dall’età tardo antica all’età medievale, i cui segni sono rimasti celati per secoli nelle fondamenta della nuova Cattedrale.

Dei periodi rinascimentale e moderno sono infatti documentate le diverse fasi di edificazione, per quanto riguarda in particolare le fondazioni e sia in relazione alla struttura ipogea cinquecentesca realizzata nei sotterranei dell’attuale duomo: il cosiddetto “scuròlo”.

L’articolata storia di questa evoluzione è raccontata dal Museo della Cattedrale, il cui percorso si svolge tra reperti archeologici e manufatti artistici.

Le tre fasi di edificazione della Cattedrale (da destra a sinistra): le prime due si riferiscono rispettivamente alla basilica paleocristiana del V secolo e alla successiva riedificazione romanica avvenuta verso la fine dell’XI secolo. La figura 3 è invece riferita alla Cattedrale attuale, fondata dall’architetto Filarete nel 1459 dopo aver abbattuto l’antica Cattedrale. La linea dei muri perimetrali della cattedrale originaria è stata mantenuta nelle successive fasi edilizie e corrisponde (escluso il lato orientale del presbiterio) al perimetro di quella attuale

L’ATRIO D’INGRESSO DEL MUSEO: IL NARTECE

Si accede alla quota originaria della Cattedrale di S. Vincenzo scendendo la breve gradinata posta a fianco del duomo intitolato a S. Alessandro Martire, al termine della quale ci troviamo in una parte dell’area del nartece della basilica del V secolo, l’atrio che collegava la chiesa con lo spazio esterno, di cui sono ancora visibili le lastre in marmo.

Si accede alla quota originaria della Cattedrale di S. Vincenzo scendendo la breve gradinata posta a fianco del Duomo dedicato a S. Alessandro Martire, sotto il porticato del Palazzo della Ragione

Nel nartece (dal greco bastone o flagello) sostavano coloro che non potevano accedere al luogo sacro, i pubblici penitenti e i catecumeni, ai quali era preclusa la partecipazione ai riti liturgici. Una volta scontate le penitenze inflitte, il giovedì Santo venivano riammessi in Cattedrale con una solenne funzione, alla presenza dal vescovo e dei canonici dei due Capitoli.

La biglietteria posta all”ingresso del Museo e Tesoro della Catterale corrisponde all’antico nartece, un atrio che precedeva l’ingresso della chiesa collegandola ad uno spazio esterno. Nella pavimentazione sono ancora visibili le larghe lastre di marmo che corrispondono a una porzione del nartece

Gli ultimi occhi che poterono ammirare questo spazio furono quelli dell’architetto Rinascimentale fiorentino Antonio Averlino, meglio conosciuto come Filarete, che alla metà del Quattrocento, incaricato di realizzare un nuovo e più ambizioso progetto per la Cattedrale, rase al suolo quella antica, che era ormai parzialmente interrata a causa dell’innalzamento del livello di Piazza Vecchia, allora in via di realizzazione.

L’AULA, UNO SGUARDO D’INSIEME

Il Filarete però aveva risparmiato dal completo abbattimento alcune parti dell’antica San Vincenzo ricavando dallo spazio dell’altare una cappella ipogea (il famoso “scuròlo” delle fonti), che dato il protrarsi dei lavori restò in uso fino 1688 come chiesa “temporanea”: vi si accedeva scendendo una rampa di scale posta all’altezza del transetto.

Inoltre, com’era consuetudine a quei tempi, nei sotterranei del Duomo ricavò anche delle stanze voltate, da destinare a sepolture privilegiate (“E così ordinerò le sepolture dentro per tutto intorno in volta al pian terreno”): ne apprendiamo la collocazione dal suo Trattato di Architettura.

Le sepolture filaretiane si trovano su entrambi i lati dell’antica chiesa, una volta oltrepassata la grezza porzione sopravvissuta dell’antica facciata.

Più tardi, così come aveva già fatto il Filarete, anche gli esecutori del progetto di Carlo Fontana recuperarono tutto lo spazio disponibile del sottosuolo, ed entro la fine del Settecento tutta l’area sotterranea fu pavimentata, tramezzata e voltata per ricavarne sepolture.

L’aula è dunque il frutto dello svuotamento dell’interramento operato dalla metà del Quattrocento alla fine del Settecento.

Le sepolture rinvenute ed esposte al Museo, risalenti ad epoche diverse, avevano varie forme e strutture e rispecchiavano la dignità e la posizione sociale dei committenti.

Le prime che incontriamo sul nostro percorso sono state trovate a ridosso del pilastro romanico nord-orientale dell’aula, qui collocate probabilmente ai tempi della ristrutturazione romanica della Cattedrale, forse rimosse dalla loro posizione originaria durante i lavori.

L’antica San Vincenzo accoglie il visitatore con due massicce sepolture, che raccontano la consuetudine di seppellire all’interno delle chiese urbane a partire dal medioevo. L’arca di destra, più chiara in pietra calcarea e dotata di coperchio, conservava al suo interno i corpi di due individui con lembi di abbigliamento e un corredo di epoca medievale

Si tratta di due grosse arche monolitiche di fattura tardo-romana ma reimpiegate in epoca medievale, come si deduce dal corredo rinvenuto all’interno.
Una di esse, probabilmente manomessa in antico, era priva di resti. L’altra, ancora sigillata con il suo coperchio a doppio spiovente, conteneva ancora i corpi di due individui maschi, uno di 50-59 anni e l’altro di 40-50 anni, con lembi di vestiario, di una certa ricchezza, e alcuni oggetti personali.

Spiccano in particolare dei calzari in tessuto di seta, con suola in sughero, databili all’incirca al XIII secolo, un bastone in legno dipinto decorato a strisce oblique rosse e blu (forse un bastone da pellegrino?) e due figurine in lega di piombo realizzate a stampo rappresentanti un uomo e una donna e identificate come amuleti, tutti materiali allestiti nella vicina vetrina (3).

Nell’eccezionale corredo rivenuto in una delle due arche monolitiche, spiccano in particolare due calzari di seta, con suola in sughero, databili al XIII secolo, un bastone in legno (forse da pellegrino) dipinto con fasce policrome oblique rosse e blu; due figurine in piombo di epoca medioevale realizzate a stampo, identificate come amuleti antropomorfi

 

Le sorprendenti figurine in piombo rinvenute nell’arca monolitica posta a ridosso del pilastro romanico nord-orientale dell’aula e rappresentanti un uomo e una donna dalle lunghe trecce. Ogni personaggio è rappresentato a tuttotondo interamente nudo, le braccia stese sui lati del corpo che finiscono con mani smisurate, le gambe leggermente aperte che lasciano intravedere senz’alcun pudore i genitali. In origine le figurine erano unite schiena contro schiena da nastri in piombo simili a braccialetti, tuttora visibili nelle braccia della donna e sul braccio sinistro dell’uomo. L’oggetto è con ogni probabilità un amuleto. Il pezzo può essere confrontato con altri oggetti medioevali come le insegne o le spille in piombo e stagno recanti motivi sessuali personaggi itifallici o scene di accoppiamento o di esibizionismo, che si vendevano ai fedeli o ai pellegrini all’entrata delle chiese. Inoltre, nella scultura delle chiese romaniche e gotiche dell’Europa Occidentale sono tuttora visibili delle figure che non nascondono nulla della loro anatomia e che dovevano avere funzioni protettive, data anche la loro frequente collocazione al di sopra delle porte delle chiese e delle abbazie, dove fungevano da custodi del luogo, pronte a combattere il diavolo. Gli organi sessuali, nella composizione bifronte del nostro amuleto, sono visti come “strumenti” che incarnano la continuità e la forza della vita, e di conseguenza la protezione contro la morte. Radicato nelle credenze più antiche e in seguito ampiamente diffuso nella cristianità, l’importante ruolo protettivo basato sulle funzioni che garantiscono fertilità, protezione e fortuna spiega perché tale amuleto sia stato deposto accanto al defunto prima di chiudere il sarcofago

Proseguendo incontreremo numerose altre sepolture in quanto la chiesa è stata appunto per lungo tempo il luogo delle sepolture privilegiate, come quella del vescovo Bucelleni.

Nella prima camera sepolcrale si può ammirare il sarcofago del vescovo Giovanni Bucelleni, una delle poche sepolture monumentali superstiti, realizzata quando l’alto prelato era ancora vivo, nel 1468, dallo scultore bresciano Jacopo Filippo Conforti. Quella attuale però non è la sua collocazione originaria, poiché essa era documentata presso la cappella di San Giovanni Battista, ora del Santissimo Sacramento. In origine la tomba era dotata di una targa che elencava le cariche ecclesiastiche del vescovo (arciprete della cattedrale, priore di Pontida, vescovo di Crisopoli, l’attuale quartiere chiamato Scutari, nei pressi di Istambul), nonchè l’età della sua morte (novant’anni nel 1472)

IL PERIODO ROMANO: DUE DOMUS E UNA STRADA AFFACCIATA SUL FORO

A sinistra dell’ingresso il visitatore è accolto da ciò che resta dei numerosi ambienti d’età romana, attribuibili a due domus separate da una strada, abbattute in età tardoantica per fare spazio alla basilica paleocristiana.

Le due domus, edificate tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., erano parte di un insula, un caseggiato che delimitava ad est l’area del foro, il centro amministrativo, politico e religioso della città, gravitante intorno all’attuale  piazza Duomo: un’area già abitata a partire dal X secolo a.C. ed ora attraversata da una strada commerciale sulla quale si affacciavano botteghe, laboratori artigianali e residenze dotate di ricchi apparati architettonici e decorativi (4).

Dal I secolo a.C. al IV d.C. l’area dell’attuale Duomo era occupata da un quartiere di impianto romano, adiacente al foro, attraversato da una strada commerciale larga circa tre metri (e con andamento WNW-ESE), sulla quale si affacciavano botteghe, laboratori artigiani e due domus dotate di ricchi apparati architettonici e decorativi

Una grande soglia in pietra introduce alla domus meridionale, affacciandosi su una serie di stanze, una delle quali conserva (si veda il lato destro del percorso) ancora il pavimento a mosaico di tipo geometrico a piccole tessere bianche nere, risalente al I sec. d.C. (prima età imperiale).

Alla domus meridionale, preceduta da una soglia in pietra di 2,5 metri, appartengono undici vani, solo alcuni dei quali scavati integralmente. La soglia si affaccia affacciandosi su un ambiente di circa 8×7 metri dal quale si accede ad altre stanze, una delle quali conserva (si veda il lato destro del percorso) ancora il pavimento a mosaico di tipo geometrico a piccole tessere bianche nere, che per tipologia è databile al I sec. d.C., e cioè alla prima età imperiale. Il rinvenimento di numerose tessere musive suggerisce la presenza di una finitura analoga almeno per alcuni dei rimanenti vani

Osservando invece la zona nord-occidentale del transetto si individuano i tre ambienti portati parzialmente in luce della domus settentrionale, uno dei quali conserva un lacerto di mosaico simile a quello sopra descritto.

Anche se la maggior parte delle murature è stata completamente abbattuta per far posto alla Basilica, le tracce di decorazioni parietali dipinte conservate nei i pochi alzati rimasti così come ritrovamento di frammenti ceramici, vetri di pregevole fattura, stucchi e porzioni di colonna, testimoniano una certa ricchezza di queste abitazioni, che, stando anche alla posizione di assoluto prestigio, dovevano rivestire una certa importanza sin dalla prima età imperiale.

Frammenti di affresco e di stucchi di rivestimento di colonne in laterizio, documentano le tecniche costruttive delle domus, i cui resti murari sono parzialmente a vista

I reperti mobili rivelano anche che in quest’area le abitazioni (una delle quali individuata dai sondaggi) furono realizzate in almeno tre fasi costruttive, tra l’età repubblicana e quella tardoantica, come si osserva nelle modifiche planimetriche degli ambienti.

Per la fase tardoantica delle abitazioni individuate nell’area della Cattedrale, si espongono un bicchiere in vetro verde con gocce applicate, un’olpe e un mortaio, frammentario, in ceramica invetriata, un’armilla in bronzo e alcune monete

Ciò sembra indicare che quest’area della città era popolata fino al momento in cui si diede avvio al cantiere per la costruzione della Cattedrale e che, viste le dimensioni del nuovo edificio, fu necessario demolire almeno una parte dell’insula con le due domus ancora abitate. Le macerie furono impiegate per livellare il terreno prima della posa della pavimentazione della chiesa.

Il fatto poi, come si deduce, che queste abitazioni appartenessero a individui  facoltosi e di elevata estrazione sociale, induce anche a riflettere sul ruolo di rilievo della comunità cristiana delle origini nella compagine cittadina, dal momento che le donazioni private costituivano la componente fondamentale della formazione del patrimonio immobiliare della Chiesa.

LA BASILICA PALEOCRISTIANA

Nel V secolo, in questo contesto nevralgico della città, forse in concomitanza con eventi politici non ancora ben chiari, avviene quindi la “conversione” del quartiere, che da sede del potere laico diventa il punto focale di quello religioso.

L’intento è quello di edificare una chiesa madre che rappresenti gli abitanti cristiani di Bergamo, dove il vescovo possa raccogliere l’intera comunità  e celebrare i momenti più significativi del calendario liturgico.

Benché la Basilica alessandrina, sorta sul luogo della sepoltura del santo in prossimità della porta occidentale, sia già attiva dal dal IV secolo d.C., si può dire che la Cattedrale intitolata a San Vincenzo sorga contestualmente alla fondazione dell’Ecclesia, e non è un caso che i primi vescovi di Bergamo sicuramente documentati risalgano a questo periodo (sono i vescovi Prestanzio, attestato nel 451 al Sinodo di Milano in preparazione del Concilio di Calcedonia e Lorenzo, presente nel 501 a un Sinodo romano).

Si pongono così le basi per l’esistenza di quel grande complesso episcopale che vedrà la sua fase più monumentale nell’XI-XII secolo proprio a partire dalla radicale ristrutturazione della Cattedrale, che nel frattempo verrà rimaneggiata attraverso ciclici interventi di adeguamento e abbellimento.

Anche nell’area dove più tardi sorgerà la Cappella di Santa Croce, a seguito dell’abbandono e della demolizione di strutture di età romana (presumibilmente appartenenti a una domus), tra l’età tardo antica e l’altomedioevo viene edificata una struttura a pianta trilobata, con absidi semicircolari; nello stesso periodo si inquadra la costruzione di un acquedotto, che tange l’abside meridionale per sfociare nella fontana di Antescholis.

A differenza delle abitazioni di epoca romana il nuovo edificio è impostato su un asse ovest-est (come di regola per la maggior parte delle prime cattedrali cristiane), con il presbiterio collocato verso oriente, dove termina con un’abside semicircolare.

La primitiva Cattedrale di San Vincenzo aveva un impianto basilicale a tre navate, sostenute da due file di colonne, coperta da soffitti lignei. L’edificio è rimasto attivo fino alla metà del 1400 e cioè fino a quando è stata abbattuto per l’intervento di rifondazione dell’architetto Filarete.

Il nuovo orientamento dovette influire sull’assetto stradale e spaziale della zona. Non è però chiaro se questa modifica sia dovuta solo alla scelta di rispettare la disposizione planimetrica canonica o se piuttosto sia anche frutto dell’applicazione del più ampio schema che in questo periodo vede un nuovo assetto urbanistico di questa parte della città divenuta fulcro del potere religioso.

La pianta dei rinvenimenti dello scavo mette bene in evidenza le fasi evolutive di questo luogo. Si osservi il diverso orientamento tra la posizione delle domus romane (WNW-ESE) e la costruzione successiva della chiesa paleocristiana, rivolta ad est,  sia per il valore simbolico di tale orientamento – un riferimento allo sguardo al sole che sorge, alla resurrezione di Gesù Cristo – sia per i requisiti pratici di illuminazione

Una fila di colonne di cui oggi si vedono le basi attiche, indica come si presentava la chiesa, che era a pianta rettangolare e suddivisa in tre navate, di cui la centrale era larga 12 metri mentre quelle laterali erano larghe 6 metri ciascuna.

Pianta della Basilica paleocristiana (V sec.) dedicata al martire Vincenzo. A pianta rettangolare, presenta un impianto a tre navate sostenute da due file di colonne, terminando verso oriente probabilmente con un’abside semicircolare. Era coperta da soffitti lignei

 

Un confronto con la Basilica di Santa Sabina a Roma offre l’idea di come poteva essere al suo interno l’antica Basilica paleocristiana di San Vincenzo

Ogni navata era scandita da una fila di 12 colonne, poste a tre metri l’una dall’altra (gli unici due basamenti rinvenuti sembrano essere un riutilizzo di età romana).

Frammento di capitello in pietra calcarea (V secolo)

Anche se nulla di preciso è possibile dire per quanto riguarda l’altezza, sulla base dei confronti si suppone che l’aula avesse una copertura a capriate, forse ribassata in corrispondenza delle navate laterali.

Di questa fase, restano due lacerti di pavimentazione a mosaico di notevole fattura, uno policromo e l’altro in bianco e nero con motivi geometrici a treccia di età paleocristiana, la cui tipologia contribuisce a datare la struttura, collocandola fra i secoli V e VI.

In primo piano, base di colonna e porzioni di pavimentazione musiva di tipo geometrico appartenenti alla Cattedrale paleocristiana (le lastre pavimentali marmoree e la base di  pilastro cruciforme sullo sfondo sono invece d’epoca romanica)

 

Mosaico della zona presbiteriale della Cattedrale paleocristiana (V secolo)

Nella Cattedrale sopravvivono alcuni resti frammentari delle decorazioni e degli arredi funzionali alla liturgia che l’avevano arricchita nel periodo precedente la ristrutturazione romanica; poco prima della camera sepolcrale che ospita la tomba del vescovo Giovanni Bucelleni troviamo resti di pitture murali a finte incrostazioni marmoree risalenti al V-VI secolo, sovrapposte alle quali, altre porzioni di intonaco riportano tracce di un velario databile al VIII-IX secolo.

Dell’arredo altomedievale restano invece due frammenti di plutei, o pilastrini, scolpiti ad intrecci (IX secolo), uno dei quali è stato reimpiegato come materiale da costruzione, e cioè inserito nella muratura.

Frammento di pluteo (IX sec.)

 

Resto di colonna tortile altomedievale

L’edificio, che con le sue maestose dimensioni occupava la parte più importante dell’impianto urbano, rimase oggetto di ciclici interventi di adeguamento e abbellimento sino alla radicale riforma strutturale avvenuta verso la fine dell’XI secolo e cioè sino a quando non venne varato il progetto del grande complesso episcopale di XI-XII secolo, che da quel momento caratterizzerà il centro di Città Alta: quello che vediamo ancor’oggi, ovviamente ad esclusione dell’antica San Vincenzo, ricostruita ex novo nel XV secolo. elevando la quota pavimentale.

LA NASCITA DEL GRANDE COMPLESSO EPISCOPALE: LA RISTRUTTURAZIONE ROMANICA DELLA CATTEDRALE DI SAN VINCENZO

La nuova Cattedrale differisce dalla precedente non tanto nella pianta, che sostanzialmente rimane uguale perché motivi urbanistici ne impedivano un ulteriore ampliamento, quanto piuttosto nello sviluppo verticale, che si evince dai nuovi punti di sostegno e dalle loro considerevoli dimensioni: il rinnovamento architettonico, che conferisce all’edificio un aspetto poderoso, coinvolge anche gli arredi e gli apparati decorativi, aggiornati secondo il linguaggio dello stile romanico.

Le due fasi di edificazione dell’antica Cattedrale di S. Vincenzo, con a destra la pianta della chiesa paleocristiana del V secolo e a sinistra quella della Cattedrale romanica risalente alla fine dell’XI secolo. Quest’ultima acquista un nuovo carattere architettonico rimarcato dai pilastri cruciformi, la cui sequenza è replicata a cavallo dei muri perimetrali, dato che suggerisce un ampliamento verticale dell’edificio. Si vede inoltre la recinzione dell’area presbiteriale, realizzata in una fase successiva alla ristrutturazione del XII secolo. L’ingombro sostanzialmente rimane uguale, ed escluso il presbiterio corrisponde al perimetro dell’attuale cattedrale

La ricostruzione romanica di San Vincenzo prende avvio nel contesto del riassetto dell’area episcopale, interessata per quasi un secolo da una pratica costruttiva comune alla chiesa matrice, alla prima fase di Santa Maria, al Palazzo della Ragione (fine XII secolo), a San Giorgio ad Almenno (fondazione episcopale, metà del secolo XII), alla terza fase di Sant’Egidio a Fontanella; pratica caratterizzata dall’uso di arenaria grigia preventivamente squadrata solo sui lati di commessura e rifinita nei paramenti a posa avvenuta, per ottenere una superficie liscia e regolare (5).

E’ lecito presumere che il riadattamento romanico di San Vincenzo sia avvenuto contestualmente al parallelo cantiere di Santa Maria Maggiore, riedificata per volontà del vescovo Gregorio dal 1137 ed ultimata nel 1273 negli anni in cui in San Vincenzo si stava rinnovando l’iconostasi. Proprio l’evidente unitarietà di tale progetto, che contestualmente vede anche la costruzione del tempietto di Santa Croce e del palazzo del Vescovo, dà una chiara indicazione su quando inquadrare cronologicamente i lavori in San Vincenzo

Le dimensioni della primitiva Cattedrale hanno imposto una rilettura degli spazi del centro religioso e politico della città medievale, ridisegnando i confini della Platea S. Vincentii, sia quella Parva (piccola), dinanzi al Duomo, che quella Magna (grande), sul suo fianco meridionale.

 

Si sono infatti ridefiniti i rapporti con il Palazzo della Ragione, dal momento che l’ingombro dell’antica cattedrale giungeva a lambire l’area dove il Palazzo stesso venne in seguito edificato.

La platea Sancti Vincentii, il centro urbano medievale. L’aspetto e le dimensioni della Cattedrale hanno imposto una rilettura degli spazi della piazza, ridisegnandone i confini e ridefinendo il rapporto tra gli edifici, anche se la Cattedrale di San Vincenzo e il Palazzo della Ragione aderivano, come ora, in corrispondenza di uno spigolo

Allo stesso modo sono stati ripensati i rapporti con Santa Maria (che nel corso della sua storia costituì insieme a San Vincenzo un complesso di edilizia ecclesiastica funzionante in regime di “catterdrale doppia”), stretti al punto tale che in epoca medievale le due chiese erano unite da un portico (6).

Evidenziato nel tondo, l’arco in pietra sull’angolo nord orientale della Basilica di Santa Maria Maggiore, residuo dell’antico portico che la univa alla Cattedrale

Con il rinnovamento romanico di San Vincenzo l’antico pavimento a mosaico  viene coperto da lastre in pietra, in alcuni casi di recupero, alternate a laterizi.

Il grande pilastro cruciforme d’epoca romanica e la nuova pavimentazione posata a copertura del tappeto musivo paleocristiano, affiorante in primo piano a sinistra.  Si è rilevata una certa dissonanza tra la cura con cui sono stati realizzati pilastri e murature (che tra l’altro dovevano essere almeno in parte affrescati), e la pavimentazione, che invece vede un impiego misto di lastre di pietra (in alcuni casi di recupero) e laterizi

Pur mantenendo lo stesso schema e la stessa ripartizione spaziale dell’aula in tre navate, ogni tre colonne una viene sostituita da un grosso pilastro cruciforme di cm 120 x 120, così che lo spazio risulta scandito da file alternate di colonne e pilastri.

A sinistra dell’immagine, lastre pavimentali marmoree e pilastro cruciforme (in arenaria grigia e con base modanata) d’epoca romanica. Il riadattamento romanico di San Vincenzo s’inserisce nel contesto della formazione del grande complesso episcopale di Bergamo. I pilastri cruciformi mostrano infatti una tecnica e una cura esecutiva dell’apparecchiatura dei conci confrontabile con quella della prima fase di Santa Maria Maggiore, avviata nel 1137

Anche i muri vengono ricostruiti con grossi blocchi squadrati di arenaria, e richiamando i pilastri che caratterizzano l’aula i perimetrali risultano scanditi, sia all’interno sia all’esterno, da lesene con la stessa modanatura alla base.

I nuovi pilastri e i contrafforti creati sulle pareti perimetrali erano collegati da grandi archi trasversi che costituivano una sorta di telaio che incatenava la struttura, che probabilmente mantenne i soffitti a capriate.

La Cattedrale di San Vincenzo dopo la ristrutturazione operata verso la fine dell’XI secolo. Antiche fonti e ricerche recenti ricordano l’esistenza, nell’antica Cattedrale, di due cori (il chorus magnus, più grande, riservato ai canonici e il chorus parvus, di minori dimensioni, nella cappella di San Pietro), tre altari (San Vincenzo, Santa Maria, San Pietro) e quattro cappelle in chiesa (San Silvestro, San Sebastiano, San Benedetto, Santa Margherita), cui aggiungere quella di Santa Trinità voluta dal vescovo Adalberto. V’erano inoltre due cappelle esterne (Santa Croce e San Cassiano)

IL RECINTO PRESBITERIALE E L’ICONOSTASI (LA TEORIA DEI SANTI, L’ELEMOSINA DEI CONFRATELLI DELLA MISERICORDIA E LA CROCEFISSIONE )

La Teoria dei Santi

In una fase successiva alla grande ristrutturazione d’epoca romanica si assiste alla trasformazione della zona presbiteriale: la zona dell’altare viene innalzata rispetto all’aula e recintata da un muro, allo scopo di differenziare la zona destinata ai celebranti da quella dei fedeli. Si tratta della recinzione presbiteriale (“Iconostasi”), un elemento tradizionale nelle chiese paleocristiane, che nel corso del medioevo si modifica anche in relazione ai mutamenti liturgici e di organizzazione ecclesiastica, e di cui l’esempio bergamasco rappresenta una delle poche testimonianze mantenutesi fino ad oggi (accenni al cerimoniale liturgico nell’articolo dedicato al Tesoro della Cattedrale).

Emblema delle trasformazioni architettoniche che coinvolsero la cattedrale tra XII e XIII secolo, l’iconostasi è una recinzione che separa l’area del presbiterio – riservata al clero – dalla navata destinata ai laici. La zona presbiteriale è stata innalzata di circa 40 centimetri rispetto all’aula mediante due gradini realizzati con materiale lapideo di reimpiego e recintata, da pilastro a pilastro, da un muro in laterizio lungo 11 metri (di cui non si conosce l’altezza originaria) scandito da arcate cieche. Viene lasciata un’apertura centrale (l’hostium chori delle fonti), in corrispondenza della quale esiste una porta o un cancello. Il muro poggia su una base costituita da grandi e spesse lastre di reimpiego in marmo di Zandobbio, scolpite secondo una lavorazione che richiama le transenne traforate di epoca paleocristiana, pur non esibendone l’elegante raffinatezza. Transenne identiche furono murate nella cripta minore e un pilastro analogo venne posto nell’angolo nord della Cripta dei Vescovi

L’assetto presbiteriale della Cattedrale di San Vincenzo, così come si presenta ai nostri occhi, è l’atto finale di allestimento, con le pitture che si estendono a coprire il raffinatissimo paramento lapideo dell’Iconostasi.

Lo strato più antico è quello con la teoria dei Santi, nella metà di destra dell’Iconostasi, dipinta nell’ultimo ventennio del XIII secolo su di un intonaco steso direttamente sul muro in laterizio; la metà sinistra è invece priva di pitture in quanto era stata abbattuta dal Fornoni nel 1905 dopo aver strappato le pitture che lo ricoprivano, raffiguranti L’Elemosina dei confratelli della Misericordia, coeve a quelle della Teoria dei Santi e il cui lacerto è oggi conservato al Museo diocesano Bernareggi.

La metà sinistra dell’iconostasi è dunque il frutto di una ricostruzione eseguita a conclusione dei recenti scavi, ricomponendo i pezzi ritrovati sul posto.

L’Iconostasi e, in prospettiva, il pannello illustrativo raffigurante l’affresco dei confratelli della Misericordia, staccato dal Fornoni nel 1905, nella metà di destra del muro presbiteriale, riemerso nel corso dei recenti lavori per la pavimentazione del duomo

La Chiesa medievale considerava l’eucarestia un mistero così arcano e profondo da doverne occultare la celebrazione allo sguardo diretto dei fedeli, che tuttavia potevano mediare il loro rapporto con le divinità attraverso le figure dei santi raffigurati, con al centro, in questo caso, Sant’Anna Metterza, considerata gerarchicamente più importante e verso cui si rivolgono le raffigurazioni di santi e devoti.

Il ciclo pittorico dei santi sul muro presbiteriale, con raffigurati, da sinistra, un santo non identificabile, una figura in trono (una Madonna con Bambino?), San Giovanni Battista, Sant’Anna Metterza – e cioè Sant’Anna, la Madonna e Gesù Bambino –, affiancata sulle lesene da due minuscoli devoti in preghiera (laici che devono aver contribuito alla spesa della decorazione), e San Pietro. La teoria dei santi prosegue anche sul pilastro cruciforme che chiude a destra la struttura con San Bartolomeo e Santa Caterina

La figura della Vergine introduceva al mistero dell’Incarnazione e della Salvazione. Sant’Anna esibisce un candido fiore, simbolo di purezza e forse allusione all’Immacolata Concezione. La Madonna che indossa un manto ornato di stelle, simbolo di verginità nelle raffigurazioni bizantine.

Al centro delle figure Sant’Anna con la Madonna che tiene fra le braccia il Bambino, affiancata dalle piccolissime figure di due devoti. Il piccolo Gesù mostra la mano parlante, in segno di aperto dialogo con l’irruento San Giovanni Battista, ripreso mentre si sta avvicinando al Salvatore

I Santi di San Vincenzo condividono anche i più minuti dettagli formali ed esecutivi con Sant’Alberto da Villa d’Ogna e una Madonna del latte tra la Maddalena ed un donatore, eseguiti da un pittore nella chiesa di San Michele al Pozzo Bianco (chiesa attestata nel 774) nel nono decennio del Duecento, identificato nel Maestro di Angera, così chiamato dal celebre ciclo frammentario che decora la Sala di Giustizia della rocca di Angera. In particolare, è straordinariamente affine il confronto tra il volto del San Bartolomeo nella chiesa di San Vincenzo con quello del Sant’Alberto, la cui morte, nel 1279, fornisce un prezioso riferimento cronologico per la datazione della Teoria dei Santi.

Sono gli anni in cui la Basilica di Santa Maria Maggiore ha celebrato la sua solenne dedicazione, avvenuta nel 1273.

L’Elemosina dei confratelli della Misericordia

Alla medesima recinzione appartiene anche l’affresco che raffigura i quattro confratelli del sodalizio che distribuiscono l’elemosina, strappato e riportato su tela, proveniente dalla zona scavata da Elia Fornoni nel 1905. Fu dipinto negli stessi anni della fine del Duecento in cui si metteva mano alla decorazione dell’iconostasi, ma da un maestro più vicino a correnti di marca bizantina mediate forse da Venezia.

Elemosina dei confratelli della Misericordia (Autore ignoto, ambito lombardo – ca. 1280). Nel dipinto si osservano due confratelli (dotati di copricapo e di un abito più ricercato, sono probabilmente i canevari), che porgono una forma di pane e una brocca a un povero, seguiti da altri due, dalla veste più dimessa (forse i servi) che portano in spalle un sacco di pane e una fiasca di vino. Il movimento del corteo è molto solenne e il pittore ha enfatizzato la distanza sociale che separa chi dona da chi riceve, con la figura del povero rappresentato in scala minore e collocato in posizione marginale. L’affresco è oggi conservato presso il Museo Diocesano Adriano Bernareggi

La rappresentazione, che ha tutte le caratteristiche dell’ufficialità, riguarda la confraternita intitolata a Santa Maria della Misericordia, più nota come MIA (7), una delle associazioni locali più antiche della città e che in origine si radunava nella chiesa di San Vincenzo, luogo pubblico per eccellenza, utilizzata anche per i più diversi usi profani (8).

E’ scritto infatti nella Regola del 1265, che la confraternita della Misericordia Maggiore in onore del Cristo e della Vergine scelse la chiesa madre di San Vincenzo come luogo di riunione dei confratelli per ascoltare la predicazione e discutere degli affari del sodalizio.

Tra gli obblighi della confraternita, nata con intenti spirituali e caritativi, figurava la distribuzione dell’elemosina ai poveri.

La Crocefissione

Al di sopra della Teoria dei Santi compare invece ciò che resta di un Cristo crocifisso tra i dolenti, evidenziato solo dai piedi inchiodati. Dipinto alla metà del Trecento, è certamente opera del Maestro dell’Albero della Vita, il che farebbe connettere questo parziale ammodernamento con i lavori documentati in duomo nel 1341 per la cappella di San Benedetto.

Il frammento inferiore con Maria Vergine, San Giovanni e un vescovo in preghiera, trovato a terra nei materiali di scavo, è stato collocato sulla parete vicina.

Il personaggio che si è fatto ritrarre in qualità di devoto committente ai piedi della croce, potrebbe essere Bernardo Tricardo, vescovo di Bergamo tra il 1343 e il 1349. Sono gli anni segnati dalla peste nera del 1348, l’ondata di epidemia che ha mietuto numerose vittime nell’intera Europa. Se si considera che nel 1347 il Maestro dell’Albero della Vita ha dipinto il grande affresco in Santa Maria Maggiore e che vi sono strette analogie stilistiche tra il Cristo crocifisso e l’Albero della Vita, si può interpretare il dipinto come una sorta di ex voto fatto realizzare dal vescovo Tricardo per essere sopravvissuto al morbo.

Il Cristo crocifisso tra i dolenti sul muro presbiteriale della chiesa di S. Vincenzo, dipinto dal Maestro dell’Albero della Vita di S. Maria Maggiore. Il dipinto potrebbe essere essere una sorta di ex voto fatto realizzare dal vescovo Bernardo Tricardo, ritratto ai piedi del Cristo, per essere sopravvissuto alla peste nera

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Oltre la linea dell’iconostasi compare la zona che era riservata al clero, dove si può ammirare il Tesoro della Cattedrale, un’esposizione di preziosi oggetti di arte e di liturgia concepita allo scopo di accostare il visitatore all’atmosfera di sacralità e di bellezza che ha caratterizzato la vita dell’antica Cattedrale di San Vincenzo.

Nell’apertura del muro presbiteriale è collocata la croce detta del Carmine per il luogo di provenienza, parte del ricco corredo del Tesoro della Cattedrale, il cui progetto museale si deve all’architetto Giovanni Tortelli, sotto l’egida della Fondazione Bernareggi. È probabile che la splendida oreficeria sia opera della bottega dei Da Sesto, una famiglia operante a Venezia nella prima metà del XV secolo. La croce è particolarmente suggestiva per la presenza, nei bracci, del cristallo di rocca, una varietà di quarzo apprezzato per essere assolutamente incolore e trasparente

Si tratta di una selezione di preziosi oggetti di arte sacra e liturgia (crocifissi, calici, abiti sacerdotali, ostensori…), composta soprattutto dalla dotazione della Cattedrale di San Vincenzo, ma anche da testimonianze confluite in cattedrale in tempi diversi e da altre chiese della città e custodite per la loro importanza e preziosità. Testimonianze che abbracciano un intervallo temporale che va dal IX al XVII secolo. 

Nel 1561, nell’imminenza dell’abbattimento della Basilica alessandrina per la costruzione delle mura veneziane, la trecentesca Croce di Ughetto, forse l’opera più rappresentativa del Tesoro, fu portata in solenne processione nella Cattedrale di S. Vincenzo insieme alle sacre reliquie di Sant’Alessandro. Da quel momento il Capitolo di S. Alessandro perdeva definitivamente la propria sede e si trovava a dover convivere con quelli del Capitolo di Sant’Alessandro. Quando però, nel 1614, fu sancita la provvisoria riunificazione dei due Capitoli, la fisionomia della croce fu rinnovata, ad indicare la concreta manifestazione di questo tentativo di unità. In origine il recto esibiva il Cristo crocifisso tra la Vergine e S. Giovanni, in alto un Angelo e ai piedi S. Alessandro a cavallo, vistosamente abbigliato, con la città di Bergamo sullo sfondo, conquistata alla fede cristiana. Il verso esibiva invece il Cristo glorioso tra i quattro evangelisti e ai piedi Santa Grata, ma nell’operazione di restauro il Cristo crocifisso medievale fu sostituito da un altro più recente, recuperato da una croce del Capitolo di San Vincenzo. Finalmente, nel 1689 i due Capitoli di Sant’Alessandro e di San Vincenzo vennero definitivamente unificati sotto le insegne di S. Alessandro. La croce processionale, in lamina d’argento, fu disegnata da Pietro da Nova nel XIV secolo e realizzata da Pandolfo Lorenzoni da Vertova e altri orefici di area lombarda

 

La Madonna dei Canonici della Cattedrale, un’icona di scuola cretese del XV secolo, nota anche come Madonna della Consolazione, assimilabile ad una Madonna Nera

LA RIFONDAZIONE DELLA CATTERALE AD OPERA DEL FILARETE, ALLA META’ DEL 1400

Alla metà del 1400, la vecchia San Vincenzo risulta ormai inadeguata non solo rispetto alla vicina Basilica di Santa Maria ma anche verso il contesto architettonico dell’insula episcopalis, la vasta area monumentale che cade sotto il diretto controllo del vescovo e che comprende, oltre alla Cattedrale, la domus episcopalis con l’annessa Santa Croce e la Basilica di Santa Maria Maggiore, che viene stralciata dalla giurisdizione episcopale e trasferita alla MIA (la confraternita della Misericordia) con bolla papale del 1453, perché la governi secondo le regole del consorzio.

Il progetto rinascimentale per il Duomo di Bergamo si inserisce nel rinnovamento cui alla metà del XV secolo è sottoposto il centro antico. Ad aprire la stagione del nuovo non è solo l’Amadeo con la Cappella Colleoni, e l’illusionismo prospettico della potente serie dei Philosophi affrescati da Donato Bramante sulla facciata del palazzo del Podestà. A precedere questi interventi è l’iniziativa del vescovo Giovanni Barozzi che nel 1457 ha chiamato il Filarete, contemporaneamente impegnato a Milano per la signoria sforzesca, incaricandolo di riformare la fabbrica del Duomo, ormai inadeguata e in condizioni strutturali precarie

San Vincenzo, ormai parzialmente interrata a causa dell’innalzamento della piazza, necessita dunque di una sistemazione degna di una Cattedrale e a tale scopo il veneziano Giovanni Barozzi, da poco nominato Vescovo di Bergamo, ne affida la rifondazione al Filarete, che aveva una particolare influenza in Lombardia, soprattutto perché approdato alla Corte degli Sforza), incaricato di realizzare un nuovo e più ambizioso progetto (9).

Possediamo numerose notizie sul progetto filaretiano poiché egli stesso ne parla diffusamente nel suo Trattato di Architettura, un testo costruito in forma di dialogo tra l’architetto e la committenza ducale degli Sforza, contenente anche la descrizione e i disegni del Duomo di Bergamo, concepito secondo l’impostazione classica in antitesi al gotico, che, se si considera il ciclopico cantiere milanese del Duomo in pieno corso all’epoca, rappresentava certamente una posizione controcorrente.

Con la posa della prima pietra nel 1459 prende avvio una vicenda costruttiva che a causa di una serie di vicissitudini si protrarrà per secoli, a partire dalla morte del Filarete nel 1469 e alla contestuale elezione del vescovo Barozzi a patriarca di Venezia nel 1464.

Filarete avrà giusto il tempo di demolire l’antica San Vincenzo ed elevare di tre metri la quota pavimentale della nuova chiesa, risolvendo con competenza le problematiche progettuali dovute al dislivello del terreno; realizzerà almeno parte delle fondazioni del Duomo nonché due grosse strutture quadrangolari di metri 4×5, che potrebbero corrispondere alle basi dei due campanili del progetto filaretiano mai realizzati.

Uomo del Rinascimento, Filarete introdurrà a Bergamo, insieme all’Amedeo, un nuovo modo di intendere il discorso urbano: il monumento assume una individualità, emerge dall’ambiente (nel suo celebre Trattato egli definisce infatti l’edificio precedente “bruto”, ovviamente secondo il canone di un uomo del Rinascimento).

Il Duomo di Bergamo com’era nel progetto di Antonio Averlino detto il Filarete (1457). Alquanto originale e inatteso il prospetto della facciata, con elementi  decisamente nuovi rispetto alla tradizione gotica lombarda. Lo schema prevedeva una struttura a capanna composta da tre fasce orizzontali di cui la più alta con l’attico, quella intermedia con una fascia di nicchie contenenti statue, l’ultima in basso contenente le porte laterali con trabeazione e portale maggiore timpanato. Ornato di incrostazioni di marmi, il sacro edificio doveva culminare con una cupola ottagona ed essere fiancheggiato da due campanili a molti ordini, come appare dal disegno originale posto a piede della pagina 123 del codice magliabechiano. Discepolo ideale del Filarete è quell’Amadeo che progetta la Cappella Colleoni e che – scrive il Salmi – “ne eredita quel gusto per la decorazione fantastica fatta di plastica minuzia e di colore, che è medioevale, inserito nella norma del Rinascimento”, derivando così dal Filarete scultore “quel culto del tutto esterno e direi maniaco per l’antico, osservabile nello zoccolo della Cappella con formelle recanti il mito di Ercole e nei busti di Cesare e di Traiano” (Luigi Angelini, Il volto di Bergamo nei secoli, 1952)

Dopo la sua morte la vicenda costruttiva si incaglierà per un lunghissimo periodo durante il quale saranno apportate numerose modifiche al progetto originario (10).

Dell’opera di questo grande nome del Rinascimento è rimasto solo qualche avanzo in quanto i lavori compiuti nel tempo ne hanno stravolto l’aspetto, sia per quanto riguarda il campanile e la cupola e sia per l’ampliamento deciso nel 1680 e affidato all’architetto Fontana, che ha formato la grande croce latina giungendo con l’abside fino alla strada delle Beccherie ora denomiata Mario Lupo. Rimangono segni nei muri esterni di pietra grigia, verso l’Ateneo e verso il cortile dei canonici (dove sono interessanti pietre tombali), con larghe ed eleganti modanature che hanno il gusto nella profilatura delle architetture fiorentine

 

Ricostruzione grafica della cattedrale secondo il progetto approntato dal Filarete e realizzato a più riprese – con alcune modifiche – lungo il corso dell’età moderna. Il basamento segue la pendenza del terreno dando origine ad una pianta a croce latina, scelta motivata anche dalle convinzioni del progettista, che nel suo Trattato di Architettura affermava che le chiese dovessero essere fatte in croce. La navata unica,  affiancata da tre cappelle semicircolari per lato, si innesta in un transetto poco pronunciato e rettilineo, soluzione che permette di sviluppare in alto una cupola a padiglione ottagonale con lanternino su alto tamburo potenziando maggiormente la percezione di altezza. Egli prevede inoltre due campanili gemelli circolari, alti da terra ben 130 bracci bergamaschi, corrispondenti a circa 69 metri moderni. Del progetto filaretiano per il nuovo Duomo è rimasta la pianta, ma la realizzazione non andò oltre la prima fondazione (ordinate “di quattro braccia grosso”) e due grosse strutture quadrangolari di 4×5 metri, che potrebbero corrispondere alle basi dei due campanili mai realizzati

Anche col progetto filaretiano  l’ingombro di San Vincenzo, almeno nella parte occidentale rimane lo stesso, perché condizionato dalle piazze Magna e Parva di San Vincenzo, dal Palazzo della Ragione, dalla via Beccarie (ora Mario Lupo) dalla Casa Canonica adiacente al Duomo e dalla vicinanza della Basilica di Santa Maria Maggiore.

Confronto tra la pianta della Cattedrale romanica di San Vincenzo (a destra) e quella per la nuova Cattedrale progettata nel XV secolo dal Filarete (a sinistra), i cui lavori si sono innestati sulle strutture dell’antica Basilica paleocristiana

Cambiano però la pianta, che assecondando l’andatura del terreno diventa a croce latina con aula ad un’unica navata, e la quota dei piani pavimentali, che trovandosi ormai al livello del cortile della canonica, viene innalzata di circa 3 metri sia per fronteggiare infiltrazioni d’acqua, sia per rispettare i canoni rinascimentali di sopraelevazione degli edifici dalla quota stradale, rispetto alla quale l’antica Cattedrale risultava ormai parzialmente interrata.

Durante i lavori Filarete decide, data l’importanza del luogo dal punto di vista religioso e liturgico, di mantenere in uso la parte simbolicamente più significativa, quella dell’altare. Il muro che divideva il presbiterio dell’aula viene ispessito e innalzato e l’area chiusa anche sui restanti lati e voltata a formare una cappella utile al culto.

Nel contempo, sfruttando due delle colonne esistenti come elementi angolari, nella parte anteriore viene realizzato un atrio completamente chiuso da murature decorate con affreschi. Altri affreschi vengono affiancati e in parte sovrapposti a quelli esistenti sul muro del presbiterio.

Pianta per la nuova Cattedrale progettata nel XV secolo dal Filarete, con evidenziata l’area corrispondente agli interventi eseguiti nell’ambiente ipogeo del precedente edificio, dove l’area presbiteriale viene chiusa anche ai lati e voltata a formare lo scuròlo, una cappella resterà in uso con funzione di Cattedrale temporanea fino alla ripresa dei lavori nel 1688

Nasce così quella chiesa ipogea che, in un testo del 1516 è citata come “scuròlo” (a lungo scambiata per l’antica chiesa di S. Vincenzo), che, per vicissitudini di vario genere che bloccano la prosecuzione delle attività, rimane in uso fino al 1688.

Nel frattempo sembra che almeno l’area a nord dello scurolo (a cui si accede tramite un’apertura ricavata nel perimetrale settentrionale della chiesa), venga utilizzata come area cimiteriale, anche se per un breve periodo.

Proprio questa zona vede nel XVI secolo la realizzazione di un ambiente, anch’esso ipogeico e con copertura con volta a botte (la cosiddetta cappella di S. Benedetto), probabilmente per la necessità di ampliare quella che doveva essere una semplice chiesetta provvisoria e che invece, a causa del protrarsi dei lavori, è già in uso da diversi decenni.

Ambiente ipogeo nell’antica Cattedrale di San Vincenzo

Alcuni disegni da cantiere eseguiti a carboncino, rappresentanti capitelli, colonne ed altri elementi architettonici, che coprono quasi interamente la parete occidentale di questo vano, testimoniano come comunque la fabbrica della Cattedrale fosse ancora attiva.

A a nord dello scurolo, poco prima di giungere al cospetto della Madonna dei Canonici della Cattedrale si attraversa un locale che era adibito a studio di architettura, dove i costruttori del XVII sec. preparavano i modelli in scala. Sulle pareti si possono infatti notare alcuni schizzi o bozze di disegni eseguiti a carboncino

Dopo la metà del 1600, dopo che sono state vagliate nuove proposte progettuali, i lavori riprendono e a questo punto, finito di svolgere la sua funzione di Cattedrale temporanea lo scurolo viene definitivamente abbandonato, reinterrato e parzialmente demolito. Vengono realizzate alcune grosse camere sepolcrali con copertura con volta a botte in corrispondenza dell’ingresso e della parte meridionale del transetto, oltre a numerose tombe a cassa in muratura nell’aula.

Proprio una di queste tombe, posta in prossimità dell’altare dedicato a S. Carlo Borromeo e successivamente utilizzata per porvi resti provenienti da altre sepolture, conteneva i resti di due cavalieri deposti in momenti distinti, ognuno dotato di un proprio corredo funebre, raro ed eccezionalmente conservato, collocato in una vetrina prossima alla tomba (11).

 

Note

(1) Gli scavi, coordinati da M. Fortunati della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Lombardia, sono stati condotti nel 2004-2005 da A. Ghiroldi con finanziamento della Curia e della Diocesi di Bergamo).

(2) Se la larghezza interna di 24 metri (12 per la navata centrale) è di poco inferiore a quella del duomo attuale, ampliato verso nord, la lunghezza è solo presunta in 45 metri, poiché a est delle scale d’accesso all’area archeologica si estende lo scuròlo secentesco, nuova Cripta dei vescovi dal 1979. Tuttavia, la torre campanaria attestata dal 1135 e demolita nel 1688, per far posto all’attuale abside, impedisce di ipotizzare un’estensione maggiore (LombardiaBeniCulturali).

(3) Maria Fortunati (a cura di), “Medioevo. Archeologia e antropologia raccontano le genti bergamasche”, Edizioni ET, Trucazzano (MI) 2006, in particolare: Denis Bruna, Un sorprendente amuleto in piombo, pp. 23-24; Marta Cuoghi Costantini, Un calzare, p. 25, Anna Gasparetto, Ilaria Perticucci, I restauri, pp. 25-27).

(4) Sul foro cfr: FORTUNATI M., Bergamo romana: appunti per una rilettura dell’assetto urbano alla luce delle nuove scoperte, Il foro in FORTUNATI M., POGGIANI KELLER R. (a cura di), Storia Economica e Sociale di Bergamo. I primi millenni. Dalla preistoria al Medioevo, II, Cenate Sotto (BG) 2007, pp. 498-501.

(5) Zonca 1990.

(6) Delle 51 festività maggiori della diocesi, 22 (7 pontificali) si svolgevano esclusivamente in San Vincenzo, mentre 14 (6 pontificali, fra cui Natale) prevedevano celebrazioni articolate con Santa Maria Maggiore, attestando ancora alla metà del XV secolo il funzionamento liturgico della cattedrale doppia (Gatti 2008). San Vincenzo ospitava il primo coro dei canonici, dove si officiava la liturgia solenne, festiva e delle Ore; Santa Maria, già iemale (antequam fuisset dirruta ut pulcrior rehedifficaretur, canonici Sancti Vincentii officiabant eam in inverne et ecclesiam Sancti Vincentii in estate et, post reparationem facta et nondum completam, celebrant ibi festivitates Sancte Marie […], afferma nel 1187 Lanfranco Mazzocchi), fungeva ancora da secondo coro dei canonici, da aula battesimale e delle celebrazioni mariane, nonché da chiesa della domus episcopalis, in analogia con San Giacomo a Como (Piva 1990).

(7) La MIA è stata fondata dal vescovo Erbordo e da Pinemonte da Brembate nel 1265 in onore di “Nostro Signore Gesù Cristo e la beata e gloriosa vergine Maria madre di Dio, e di tutti i santi, per la conferma e l’esaltazione della santa fede cattolica e per la confusione e la repressione degli eretici”, come recita l’incipit della regola.

(8) Sono documentate le adunanze dell’assemblea del Comune di Bergamo e di altri comuni della provincia, così come le assemblee delle corporazioni (mestieri) o di associazioni. Qui si avvicendarono anche diversi notai per il rogito degli atti (importanti informazioni sull’edificio sono contenute nelle ricerche di Gian Mario Petrò nelle fonti archivistiche notarili).

(9) I due si erano conosciuti a Roma, dov’erano entrambi alla corte pontificia di Eugenio IV (il primo in qualità di suddiacono, il secondo chiamato a realizzare le porte bronzee di San Pietro, terminate nel 1445) e probabilmente fu questo il motivo della chiamata a Bergamo dell’architetto fiorentino, che giunse nella nostra città nel 1457, proveniente dalla corte sforzesca di Milano.

(10) Nel 1493 si avanza la possibilità di impetrare l’indulgenza plenaria a chiunque avesse contribuito alla continuazione del cantiere, che sembra riprendere a fatica nel 1494. Le modifiche apportate al progetto filateriano e l’incendio dell’attiguo Palazzo della Ragione, portano “la celebre San Vincenzo a giacere incolta e deserta, non essendo compiuto il ristoramento delle sue rovine” (così cita la fonte del 1516 tramandataci da Marcantonio Michiel). Anche gli avvenimenti che vedono il cantiere sotto la direzione dello Scamozzi (chiamato dal 1611 come capocantiere dopo essere stato impegnato in Palazzo Nuovo), purtroppo non possono dirsi conclusi al meglio: in alcuni disegni anonimi del XVII secolo relativi alla Cattedrale, contenuti nel Fondo di Religione dell’Archivio di Stato di Milano, si riscontra per esempio la possibilità di far avanzare il fronte verso la piazza, dando un senso di continuità con il Palazzo della Ragione. Soluzione che verrà ripresa dal Fontana e diventerà punto nodale per le successive maestranze. Finalmente, nel 1689, quando viene definitivamente concessa l’intitolazione della Cattedrale a Sant’Alessandro, i lavori di rinnovamento riprendono attivamente sotto la supervisione dell’architetto Carlo Fontana, il progetto però, molto lontano da quello filateriano, non soddisfa totalmente le aspettative. Si riprendono quindi alcune modeste rettifiche avanzate da Lorenzo Bettera che, almeno inizialmente, non stravolgono il programma del Fontana. Nel 1693 i lavori devono dirsi conclusi se Gian Carlo Sanz risulta già attivo nella zona del coro con i suoi intarsi lignei. L’ultimazione del prospetto risale invece al 1886.

(11) Si tratta di due stocchi di cavallo (tipica arma di area lombarda in grado di colpire maggiormente di punta e penetrare con veemenza attraverso le piastre delle armature nemiche, dalla fine del Trecento completamente metalliche), due coppie di sproni, veri e propri simboli di stato sociale (una a rotella in acciaio e l’altra a rotella in bronzo, recanti in latino a caratteri minuscoli la scritta AMOR), provenienti da area veneto-lombarda, e tre anelli in bronzo con castone. Poiché tali oggetti sono inquadrabili cronologicamente nell’ambito del XV secolo, è verosimile che anche i primi corpi collocativi, appartenenti a personaggi di particolare importanza (vista la ricchezza della loro fattura, specialmente quella degli sproni in bronzo), siano stati ivi traslati, forse a seguito della necessità di rimuovere, durante i lavori, la loro tomba originaria.

Riferimenti

Angelo Ghiroldi, Gli scavi nella Cattedrale di S. Alessandro Martire – Le scoperte archeologiche riscrivono la storia della città di Bergamo, in D’erbe piante e d’adorno: Per una storia dei giardini a Bergamo, percosi tra paesaggi e territorio (a cura di Maria Mencaroni Zoppetti). Pubblicato per la Fondazione per la Storia Economica e Sociale di Bergamo, 2008.

AA.VV., “Medioevo a Bergamo. Archeologia e antropologia raccontano le genti bergamasche”, (catalogo della mostra a cura di M. Fortunati), Truccazzano (MI) 2006.

M. Fortunati, A. Ghiroldi, La Cattedrale di S. Alessandro Martire in Bergamo, in Storia Economica e Sociale di Bergamo. I primi millenni, (a cura di M. Fortunati, R. Poggiani Keller), II vol., Cenate (BG), 2007, pp. 539-547.

E. Daffra, La porzione affrescata: importanza di un recupero, in Storia Economica e Sociale di Bergamo. I primi millenni, (a cura di M. Fortunati, R. Poggiani Keller), II vol., Cenate (BG), 2007, pp. 548-551.

Simone Facchinetti, Museo e Tesoro della Cattedrale – Le risposte di una Guida. Fondazione Adriano Bernareggi. Ed. Litostampa Istituto Grafico Srl – Bergamo, ottobre 2012.

Bibliografia/Cartografia

M. VAVASSORI, Eodem fato functis: il ricordo della peste in un’epigrafe di Bergamo?, in “Epigraphica”LXIX, 2007, pp. 149-167.
M. VAVASSORI, Una lastra opistografa dal duomo di Bergamo, in “Epigraphica” LXXI, 2009, pp. 417-422.
BROGIOLO G.P. 2007, Bergamo nell’Altomedioevo attraverso le fonti archeologiche, in Storia economica e sociale di Bergamo. I primi millenni. Dalla preistoria al Medioevo (a cura di M. FORTUNATI, R. POGGIANI KELLER), Cenate Sotto (BG), pp. 461-491.
CANTINO WATAGHIN G. 2007, L’insediamento urbano, in Storia economica e sociale di Bergamo. I primi millenni. Dalla preistoria al Medioevo (a cura di M. FORTUNATI, R. POGGIANI KELLER), Cenate Sotto (BG), pp. 461-491.