Volendo ricercare l’atmosfera dei mitici anni del “Boom”, cosa vi verrebbe in mente? I Beatles per esempio, che all’inizio degli anni Sessanta imperversavano in ogni angolo del mondo: i loro dischi andavano a ruba, le ragazze canticchiavano Michelle e Let it Be o si scatenavano con Yellow Submarine, Ob-La-Di Ob-La Da e Sgt. Pepper, che gracchiavano alla radio o sui vinili acquistati da Andreini o alla Casa della musica.
E ben presto cominciarono a emulare il mitico quartetto di Liverpool, portando i capelli a caschetto e decretando inesorabilmente la fine del ciuffo alla Elvis, benchè i più “grandi” preferissero gettonare i classici di Fred Bongusto o di Peppino di Capri.
Erano gli anni della minigonna, del flipper e del biliardo al Diurno o al bar Anselmo, del Balzer e del Nazionale e dei cinema del centro.
Nella Bergamo puritana e clericale, negli anni di don Camillo e Peppone rigorosamente targata “DC”, La dolce vita di Fellini proiettata al Capitol suscitò scandalo e stupore: Venne introdotto nel vocabolario italiano un nuovo termine, quello di “paparazzo”.
Il russo Jurij Gagarin, il 12 aprile del 1961 affrontava, dalla navicella Vostok 1, il primo volo orbitale con un essere umano a bordo, compiendo un’intera orbita ellittica attorno alla Terra e comunicando alla base che il cielo era molto scuro e che “la Terra è blu. ..che meraviglia, è incredibile!”. Una volta espulso dall’abitacolo venne paracadutato a terra ed osannato dal mondo intero.
Ma il mondo esultò ancor di più e non chiuse occhio il 21 luglio del ’69, quando con Neil Amstrong l’uomo posò per la prima volta i piedi sulla luna, comunicando a terra: “qui Base della Tranquillità. La Eagle è atterrata!”.
Bei tempi, con tanta voglia di crescere, sognare e riscattarsi in un futuro che sarebbe stato sicuramente luminoso.
Ma di tempo per crescere ce n’era e intanto sognavamo incollati alla tivù, con Carosello e la Mucca Carolina.
Erano i tempi del “Grandi Magazzini” e delle “Novità”, come la Moplen, scaturita da una magica e indistruttibile composizione chimica che aveva stravolto il gusto e il modo di vivere degli italiani: era stata inventata da un bergamasco d’adozione, Giulio Natta, che grazie alla sua “formula magica” ottenne nel ’63 il Nobel per la chimica.
Erano tempi di benessere diffuso e di grande ottimismo e la disoccupazione era in continuo calo, così come il prezzo della benzina e dello zucchero. L’Eco costava 40 lire . Negli anni Cinquanta vi fu il boom dei matrimoni e nelle nascite; l’aborto era ancora illegale e la pillola contraccettiva era ancora di là da venire.
Bergamo era un grande paese. Con la fiduciosa “benedizione” dei genitori, i ragazzini andavano a scuola da soli senza che i genitori intasassero il traffico per scorrazzarli con il Suv. Scorrazzavano, casomai, liberi come l’aria per il centro, dove a carnevale si “bastonavano allegramente con quegli assurdi manganelli di plastica vuota” e a Santa Lucia si ingozzavano “di frittelle più unte dei capelli di un punk”, come ebbe a scrivere Marco Cimmino sul “Giopì”.
Con la diffusione della ricchezza arrivarono le vetturette popolari, simboli indiscussi dell’ottimismo messo in circolo dal miracolo economico: nel ’55 le prime Fiat 600 e poco dopo le 500.
Con la ricostruzione del secondo dopoguerra e il miracolo economico, la produzione automobilistica era diventata l’industria trainante del paese, visto che l’accresciuta presenza di autoveicoli alimentava un considerevole “indotto”: il petrolio, le autostrade, i pneumatici, le officine, i servizi di manutenzione e le attività commerciali.
“Poco importa” se la diffusione del mezzo privato ha aggravato il debito pubblico italiano e favorito la crescente congestione del traffico stradale: con la 600 i bergamaschi avevano scoperto la libertà di muoversi!
L’abitacolo era poco spazioso, è vero, e il motore rumoroso, ma c’era posto per moglie, figlio, i nonni e la vecchia zia. E magari anche per il cane.
E poi via! Tutti a scorrazzare per la Bergamasca, per laghi e montagne, e a scoprire le belle città lombarde nonostante le strade fossero un po’ strette, spesso ancora a schiena d’asino, e con pochi distributori di benzina.
Con l’automobile la gente scoprì anche le prime code e i primi ingorghi sulle strade delle vacanze e delle gite domenicali….
….ed anche in città il traffico cominciò a creare qualche problema, soprattutto di parcheggio.
Sulla modestissima 600 si spostarono masse di persone con una intensità impensabile, al punto da portare in primo piano il ‘problema autostrada’, le cui dimensioni erano quelle di una qualsiasi strada provinciale. E con notevole preveggenza si mandò avanti un progetto di raddoppio.
Nel capoluogo orobico il primo carico di Fiat 600 arrivò il 12 marzo del ’55 e insieme alle 500 cominciarono presto ad impadronirsi della città.
L’esordio della 600 – un evento strepitoso -, fu presentato in Televisione in un cortometraggio preparato da Cinefiat, e non appena messa in vendita riscosse un successo senza precedenti non solo per il diffuso ottimismo generato dal miracolo economico, ma anche per il sistema rateale messo a punto dalla SAVA.
La 600 costava 640.000 lire (equivalente a una dozzina di milioni sul finire del Novecento), quando – come ricorda Vittorio Feltri -, “Gli stipendi a quel tempo variavano tra le sessanta e le centomila lire al mese; e così non pochi si sottoposero a sacrifici inumani (diete comprese) per acquistare la formidabile macchina. Fu così che la 600 invase ogni contrada e ogni strada; in città come in provincia, in pianura e nelle vallate. Tutti al volante! Anche per andare dal tabaccaio all’angolo c’era chi non poteva fare a meno delle quattro ruote” (1).
E fu così che, pensando a questo enorme bacino di potenziale clientela, la Fiat meditò la realizzazione di una super-utilitaria, i cui costi di acquisto, uso e manutenzione potessero essere compatibili con il modesto bilancio delle famiglie operaie: nel ’57 arrivò la 500, discendente della Topolino e perciò l’automobile di minor costo della gamma, fissato a 490.000 lire, pari a circa 13 stipendi di un operaio.
Piacque da subito la 500, divenendo un fenomeno sociale pari alla 600 o forse più. C’era chi l’acquistava perché non poteva permettersi altro e c’era chi la comprava perché poteva permettersi tutto.
Il boom delle vendite, culminò negli anni Sessanta col crescente benessere degli italiani e non conobbe pause; un evento senza precedenti che incarnò anche il sogno dei giovanissimi che potevano permettersi di “andare oltre” lo scooter.
L’auto (magari acquistata a fior di cambiali) divenne anche uno strumento di lavoro, in particolare per il pendolare, stanco di scomodità, attese e di ritardi.
Nel giro di pochi mesi i veicoli in circolazione a Bergamo crebbero del 20/%, raddoppiando rapidamente.
Ma nonostante i tempi di diffuso benessere e il prezzo della benzina in continuo calo, molti italiani non potevano ancora permettersi l’acquisto di un’auto, continuando a preferire le motociclette, più a portata di portafoglio.
Perciò negli anni del boom per le strade impazzavano le Vespe e le Lambrette, divise da una rivalità paragonabile solo a quella che a volte animava i tifosi. Le “divisioni” del resto andavano molto di moda in quegli anni, gli anni dei dilemmi: Coppi o Bartali? La Callas o la Tebaldi? La Vespa o la Lambretta? La Loren o la Lollobrigida?
Si racconta che “gli scooter avessero messo in un angolo le cosiddette moto ‘normali’, con due selle allineate, quella posteriore molto rialzata, e i paraschizzi: “due traballanti rettangoli di lamiera posti ai lati della forcella. Un insulto all’estetica, ma anche alla velocità” (2).
Avevano soppiantato anche le celeberrimi biciclette “motorizzate” come Cucciolo e Mosquito, alle quali veniva applicato un piccolo motore.
Il Cucciolo, che nel ’46 costava poco meno di quarantamila lire, “Veniva venduto in scatola insieme a una sorta di barattolo che fungeva da serbatoio e a un grosso pedale con la corona della ruota all’interno. Poteva essere montato su qualsiasi tipo di bicicletta e soltanto i meccanici lo sapevano fare.
Non scoppiettava, frullava” sulle strade disastrate della Bergamo di allora, fino a quaranta chilometri orari, e con un litro di benzina riusciva a percorrere settanta chilometri, mentre il Mosquito, suo diretto concorrente, costava quattromila lire in meno ma consumava il doppio e funzionava con una miscela più cara della benzina” (3).
Quando a Bergamo arrivarono gli scooter, i meccanici, che ancora prestavano assistenza in officine ricavate in piccoli locali, si improvvisarono “motonoleggiatori”affittandoli – previa una fulminea lezione di guida – a coloro che non se ne potevano permettere l’acquisto: “Per la verità il meccanico si preoccupava più che altro che il cliente avesse la carta di identità e conoscesse l’equilibrio delle due ruote. Del resto non c’era traffico, né regole vincolanti a parte il tenere la destra. All’inizio la Vespa non aveva neanche la targa” (4).
Ogni anno, il 17 gennaio, in occasione della festa di S. Antonio Abate gli “scooteristi” si mettevano in coda sul sagrato della chiesa di S. Marco, in attesa di far benedire la motocicletta insieme a frotte di automobili e di animali, come i magnifici cavalli della Casali Trasporti.
UN’AVVENTURA TARGATA RUMI
C’erano anche le moto “made in Bergamo” prodotte dalla Rumi, che negli anni Cinquanta portò Bergamo nel mondo, sia per i molti record sportivi conquistati, e sia per l’ammirazione ovunque suscitata per la capacità di incarnare il prestigioso miracolo italiano del dopoguerra.
All’inizio furono accolte con parecchio scetticismo ma ben presto dimostrarono una notevole versatilità e riscossero successo sul mercato primeggiando nel campo delle competizioni, dove si distinsero in particolare nelle gare di “Regolarità”.
Come non ricordare, oltre agli scooter Rumi, gli originali modelli da turismo e fuoristrada che segnarono i dodici anni della produzione della Casa: Turismo, Sport, Competition SS 52 detto il “Gobbetto”, Regolarità 1^ e 2^ Serie, Bicarburatore SS, G.T. – Granturismo, Diana, Junior, Regolarità Sei Giorni, Junior Gentleman. C’era persino il motofurgone leggero, inizialmente di 125 c.c., prodotto nel 1950.
I leggendari scooter esordirono nel ’51 con lo Scoiattolo, una motoleggera prodotta in quattro serie, con scocca avvolgente, ruote da 14″ e motore da 125 cc.
Nel ’54 fu la volta di Formichino, un gioiellino biposto da 125 centimetri cubici, che riscosse grande successo commerciale. In entrambi, i motori derivavano dai modelli Turismo e Sport, progettati dal geniale Pietro Vassena.
Con Formichino, si era lanciata la sfida ai due colossi che ai tempi dominavano il mercato con la Vespa e la Lambretta. Costava 138.000 lire, contro le centocinquantamila della Vespa 125 del 1955.
La shilouette, un formicone metallico, fu plasmata con la creta da Donnino attorno al motore, ottenendo un modello assolutamente ricercato e originale, com’era nello stile di Casa Rumi. Rimase in produzione sino alla chiusura del reparto motociclette delle Fonderie Officine Rumi, avvenuta nel 1960.
LA STORIA
La fabbrica, che si trovava fra le vie San Bernardino e Moroni, era stata fondata nel primo Novecento come officina meccanica e fonderia specializzata nella lavorazione del bronzo da Achille Rumi, industriale della ghisa dal 1908.
Donnino, figlio del fondatore, dall’età di dodici anni lavorava come garzone di bottega alla fonderia, di cui dovette occuparsi in prima persona non ancora ventenne.
Nel frattempo, formatosi all’Accademia Carrara – le prime opere, già degne d’attenzione, risalgono agli anni Venti – la sua passione per l’arte dovrà attendere un tempo più propizio per esprimersi con la fioritura di una produzione che ha saputo rapportarsi con le novità della moderna pittura europea, senza perdere nulla dei valori espressivi della tradizione locale.
Attraverso la conduzione dell’azienda fondata dal padre e grazie alle sue straordinarie doti imprenditoriali, Donnino seppe legare il suo nome a una fortunata e innovativa stagione dell’industria bergamasca.
Grazie ad una intelligente e qualificata diversificazione produttiva, intorno agli anni ’40 l’azienda aveva raggiunto, dai dieci operai della fonderia paterna, un migliaio di dipendenti.
Durante il conflitto mondiale, le forze tedesche requisirono la fabbrica e ne controllarono la produzione, riconvertendola nella realizzazione di eliche marine, periscopi, torpedini ed armamenti. Ed ecco spiegato il marchio storico della Rumi: un’elica marina, un’ancora e un periscopio.
Ma il rifiuto di Donnino di riconvertire la propria industria per scopi bellici, ne fece un partigiano latitante che, catturato nel ’43, fu rinchiuso nel carcere di Sant’Agata di Bergamo dove, nonostante il dramma personale, non rinunciò a coltivare la sua passione per l’arte.
Liberato dopo due anni di prigionia potè finalmente porsi alla guida dell’azienda, ma con la necessità di riconvertire interamente la produzione, che dalle eliche e i periscopi dell’anteguerra passò alla fabbricazione di macchinari per l’industria alimentare e per quella cinematografica e di ottime macchine tessili (telai e cardatrici) nonchè motociclette di altissima qualità.
Nello scenario della ricostruzione, l’Italia necessitava di mezzi di locomozione a basso costo e dai consumi contenuti, e fu così che nel 1949 iniziò la fabbricazione delle motoleggere RUMI, con le quali Donnino diede il via all’avventura della brillante Casa bergamasca destinata a rappresentare uno dei marchi italiani che contribuirono alla motorizzazione della nazione.
Un’avventura che si svolse nell’arco di un ciclo ultradecennale, e che fece volare alto il nome di Bergamo nel mondo.
L’indiscusso ed inimitabile gusto stilistico di Donnino, unito all’elevato sapere acquisito dalle maestranze della fonderia paterna, contribuirono a far decollare la giovane e innovativa azienda, che presto, nell’indistinta pletora di piccoli e grandi costruttori del periodo, si distinse per le raffinatezze tecniche e stilistiche delle sue motoleggere , definite le “moto dell’artista” per le linee fortemente caratterizzate.
Fra le numerose peculiarità, “Il sofisticato e inconsueto motore bicilindrico, il moderno e leggero telaio, l’utilizzo di tecnologie innovative nonché di materiali speciali” (5).
“E poi quel particolare ‘rumore’ del motore….
‘Un rumore affascinante’.
Una moto, insomma, ‘dal fascino singolare’. Tutto concorreva a rendere la moto Rumi ‘un caso del tutto speciale nella storia della motocicletta. Anche il colore, la forma, la penetrazione nell’aria” (6).
Un’altra singolarità delle moto Rumi, era la significativa avvertenza che le accompagnava alla vendita e che la dice lunga sulla “filosofia” civica e imprenditoriale di Donnino: “La Casa fa appello al senso civico dei possessori di motomezzi Rumi affinché rispettino al massimo grado la silenziosità dei propri motori. Sono state impartite precise disposizioni a tutte le stazioni di servizio affinchè non venga riconosciuta alcuna assistenza, né gratuita né a pagamento, a quei possessori di motomezzi Rumi che abbiano volontariamente alterato le marmitte dei silenziatori o vuotate le stesse della lana di vetro” (7).
La prima motoleggera uscita dalla catena di montaggio della Rumi si deve all’incontro tra l’artista-imprenditore Rumi e il geniale Pietro Vassena, tecnico e motonautico definito “il Giulio Verne dell’ingegneria motociclistica italiana”, che incaricato della progettazione dei prototipi intuì con estrema lucidità il giusto indirizzo verso il quale concentrare la ricerca.
Dalla perfetta unione delle due menti creative scaturì il modello Turismo, la prima Rumi in assoluto equipaggiata con un motore a due tempi, bicilindrico (2 cilindri da 6 cavalli) che coniugava in modo assolutamente inedito l’innovazione meccanica ad un accattivante design.
Eravamo nel ’49, e da poco aveva preso avvio la ricostruzione post-bellica. Il prototipo di cui Vassena aveva progettato il propulsore racchiudeva tutte le caratteristiche peculiari che contraddistinsero le Rumi per tutto il decennio successivo, dando l’avvio alla brillante avventura della Casa legata al mito del suo patron.
L’anno successivo (1951), alla prima Rumi si affiancò la produzione in serie dell’ancor più prestante modello Sport, senza dubbio il modello più rappresentativo e di maggior successo della Casa, che inaugurò in quell’occasione la sua avventura nel mondo della competizione motociclistica.
Nel frattempo, con un modello chiamato semplicemente Regolarità la Rumi si rivolse anche ad una nuova disciplina – paragonabile agli attuali Enduro -, partecipando con successo al neonato Trofeo della Regolarità, che si svolgeva in parte sui severi percorsi delle valli bergamasche.
Nel ’53 la Casa presentò anche il modello Bicarburatore SS (variante stradale spinta del modello Sport), omologata per le gare di velocità della III categoria (considerate le più impegnative del tempo), vide in numerose occasioni il gradino più alto del podio venendo superato soltanto, dopo il 1955, dalla prestigiosa Junior, il cui modello d’indole spiccatamente corsaiola fu presentato nel 1955 e prodotto sino al 1959.
Nel 1955, in vista della partecipazione ufficiale alla massacrante Sei Giorni Internazionale di Regolarità in Inghilterra, fece la sua comparsa la Regolarità Sei Giorni (1955-1960), una vera e moderna moto da fuoristrada che con quattro partecipanti si assicurò quattro medaglie d’oro.
LA FINE
Dopo aver prodotto nel ’55 la più sofisticata ed efficiente macchina da fuoristrada esistente al mondo, la Rumi – la cui produzione motociclistica e di macchine tessili andava a gonfie vele – era ormai la fabbrica più importante della città e tra le più importanti a livello provinciale.
Ma fu segnata da una ingentissima perdita finanziaria causata da sconvolgimenti politici in Argentina, che causarono la perdita di ingenti forniture di macchine tessili portandola progressivamente al totale dissesto economico (8).
Malgrado tutti gli sforzi compiuti, il 1960 decretò la fine di tutta la produzione Rumi, e verso il ’62, dopo aver tentato senza successo il lancio di un nuovo scooter in due versioni (98 e 125 cc), l’azienda fu posta in liquidazione. Terminava così, drasticamente e inesorabilmente, la gloriosa avventura delle Fonderie Officine Rumi, una delle più interessanti fabbriche metalmeccaniche italiane del dopoguerra.
Da quel momento, e con una punta di amarezza, il suo patron, Donnino Rumi, si dedicò interamente all’attività artistica nella sua Bergamo, che lo vide operoso e attivo e dove si spense il 17 agosto 1980.
Le motociclette Rumi circolarono per ancora diversi anni e fino alla fine degli anni Sessanta continuarono a rivaleggiare con le più belle moto del mondo, ma non più in grado, ormai, di rispondere alle rivali divenute sempre più aggressive.
Si era purtroppo concluso prematuramente un ciclo costellato di successi, ma troppo breve rispetto all’elevatissimo potenziale di cui la Casa era dotata.
A distanza di oltre mezzo secolo da quel lontano 1950, con il loro stile innovativo e spiccatamente glamur, le Rumi restano modernissimi esempi della migliore scuola di design motociclistico italiano, per il concentrato tale di innovazioni che han fatto di quei motori qualcosa di unico e irripetibile, inserendo a pieno titolo la Casa bergamasca fra le migliori case motociclistiche italiane del dopoguerra.
Le motociclette Rumi, il 25 marzo del corrente anno sono state messe all’incanto proprio a Bergamo. Alcune provenivano dalla Collezione Migliazzi (importante collezione privata emiliana composta da oltre 40 esemplari di motociclette degli anni ’40 ’50’ e ’60), e Sandro Binelli, Capo Dipartimento Automotive di Finarte, commentando questo importante traguardo ha auspicato che una cordata di imprenditori bergamaschi acquistasse l’intera collezione per farne un museo a Bergamo, la città che ha dato alla luce le indimenticabili moto dell’artista Donnino Rumi.
NOTE
(1) Pilade Frattini e Renato Ravanelli, Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo. A cura di Ornella Bramani. Vol. II, UTET, anno 2013.
(2) Il Novecento a Bergamo, cit.
(3) Il Novecento a Bergamo, cit.
(4) Il Novecento a Bergamo, cit.
(5) Simone Crippa, Arte a Bergamo, 1945-1959.
(6) Il Novecento a Bergamo, cit.
(7) Il Novecento a Bergamo, cit.
(8) Perdita legata a una rilevantissima commessa ricevuta dal Governo Argentino poco prima dei disordini causati dal colpo di stato militare che esautorò l’allora presidente argentino Juan Domingo Peron.
Bibliografia
Pilade Frattini e Renato Ravanelli, Il Novecento a Bergamo. A cura di Ornella Bramani. Vol. II, UTET, anno 2013.
Laura Civinini, Francesco Cortesi, Sara Locatelli, Gianluigi Ravasio, Andrea Spolti, Bergamo, il grande secolo.
Simone Crippa, Arte a Bergamo, 1945-1959.
Rumi, Motociclismo, fasc. 2, 1952.
Rumi la moto dell’artista – Riccardo Crippa – 2005.
Rumi, Edizioni Bolis, Bergamo 1983.
Aurelio Locati, Cent’anni di sport a Bergamo. Bolis, 1985-’86.
Catalogo Moto Finarte, Bergamo, 25 marzo 2018.