A solo una settimana dal suo ultimo trionfo sulle scene del Teatro “Duse”, Enrico Rastelli, il più grande “jongleur” del mondo, moriva improvvisamente a Bergamo, a soli trentaquattro anni d’età.
La notizia non fu creduta, tanto inattesa e inverosimile apparve a chi lo aveva visto, poche sere prima, pieno di vita, di gaiezza, all’apice della sua forma artistica, trascinare la folla a un delirante entusiasmo.
Non poteva essere possibile, non era giusto che una tale, fiorente vita, fosse tanto bruscamente troncata. E una teoria immensa di popolo, tutta Bergamo, dal più altolocato cittadino al più umile, si recò in mesto pellegrinaggio alla sua villa di via Mazzini per vederlo ancora, serbando nel cuore la speranza che la Morte, inesorabile sempre, si fosse una volta tanto sbagliata.
Ed invero, a vederlo là, nel suo letto, calmo, sereno, quasi sorridente, pareva a tutti che dormisse, che riposasse, in una delle brevi soste del suo lavoro febbrile, e che da un momento all’altro dovesse alzarsi e riprendere la serie fantastica dei suoi esercizi.
Ma le sue mani, le sue miracolose mani che avevano saputo infrangere le più possenti e rigide leggi della statica e della gravità, ceree, conserte, immobili, avvinte da una sottile coroncina di madreperla, si portavano nel silenzio della tomba il segreto della loro arte inimitabile.
Che cosa fosse l’arte di Enrico Rastelli si può riassumere in una parola: miracolo.
Chiunque abbia visto il suo “numero”, eseguito con palle di gomma e di cuoio d’ogni dimensione, con bastoni e piatti, a cui sapeva imprimere i movimenti più inverosimili e diversi, non troverà esagerata la parola.
Se altri artisti presentavano più o meno elegantemente difficilissimi esercizi di acrobazia sul cavallo, al trapezio, alle pertiche, tripli salti mortali, volteggi nel vuoto, nessuno esibiva una personale impronta che distinguesse l’uno dall’altro; ciò che invece eseguiva Rastelli, non poteva essere fatto che da lui.
Egli era riuscito, attraverso un particolare studio ed una pratica quotidiana di lunghi anni, a rendere i suoi esercizi inimitabili e ad ottenere in ciascuno di essi la massima prestazione; nessuno mai, prima di lui, aveva raggiunto una tale perfezione: in questo consisteva la sua peculiarità, ed egli incominciava il suo numero là dove altri si sarebbero accontentati di arrivare.
E ciò che maggiormente meravigliava il pubblico era la semplicità, la sobrietà e la spigliatezza con cui agiva, sicché il suo lavoro sembrava un gioco e non dava affatto l’impressione della sua enorme difficoltà.
C’era dunque l’arte, del sentimento in quello che apparentemente sembrava puro meccanismo.
Figlio e nipote di artisti circensi, scritturati nei circhi russi, aveva trascorso l’infanzia in parte con i genitori in giro per il mondo e in parte a Bergamo con gli zii materni e dove fu avviato allo studio del violino.
All’età di cinque anni aveva provato per la prima volta ad imitare il padre, dimostrando una precoce vocazione, contrastata da Papà Rastelli, equilibrista ed acrobata, che forse pensava a quali difficoltà si dovessero vincere per eccellere in quel genere di esercizi.
Ma il desiderio di intraprendere la professione circense aveva preso il sopravvento e giovanissimo volle raggiungere ii genitori a San Pietroburgo, dove iniziò a partecipare ai loro spettacoli in qualità di acrobata.
Nel frattempo coltivava segretamente la passione per la “giocoleria”, tenendo in equilibrio, lanciando e a riprendendo palle, cerchi, piatti, forchette, coltelli, cappelli, birilli, bastoni: non ci volle molto perché presto diventasse l’amico e il signore di quegli oggetti umili, casalinghi talvolta, che dovevano ubbidire ciecamente alla sua volontà.
Compreso lo straordinario talento del figlio i genitori crearono il Trio Rastelli, in cui la piccola famiglia italiana si esibiva in un ‘numero’ di giocoleria ed equilibrismo.
Un giorno, mentre, camuffato da ragazza si esibiva in un ‘numero’ di trapezi, la parrucca gli rotolò a terra, con grande divertimento del pubblico. Ferito nell’orgoglio Enrico decise fermamente di darsi alla sua passione: la giocoleria; ma l’agilità degli equilibristi aerei e degli acrobati avrebbe avuto una grande importanza per la sua futura carriera.
Ben presto cominciò a coltivare il desiserio di emergere fino ad oscurare la fama di tutti i giocolieri che lo avevano preceduto. Iniziava così, per Enrico Rastelli, una vita oscura di fatica e sacrificio, attraverso un’applicazione intensa e continua. Più tardi, con quel lavoro avrebbe mantenuto i suoi vecchi e, a sua volta, si sarebbe fatto una famiglia.
I suoi modelli? L’americano Kara e il francese Pierre Amoros, una combinazione di fantasia e abilità, sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo.
L’artista trascorse la giovinezza tra la Russia e l’Oriente, dove ebbe modo di perfezionare la sua formazione. Prese lezioni di danza da Vaslav Nijinsky e scoprì, grazie al giocoliere giapponese Takashima, i giochi di Awata: su un bastone tenuto tra i denti, faceva rimbalzare, o teneva in equilibrio, una o più palle.
Rastelli entrava in scena con un kimono dai ricami sontuosi, sotto il quale indossava un completo di seta bianca. Alla sacralità del gesto appresa dagli orientali, fu capace di affiancare la spettacolarità occidentale e una velocità di esecuzione mai vista prima di lui.
In Russia nel 1915, all’età di diciannove anni debuttava come solista nel circo Truzzi, ai tempi in cui quel mondo ai giocolieri preferiva di gran lunga gli acrobati e i domatori.
Nello stesso anno superò il record di nove palle detenuto dal giocoliere francese Pierre Amoros, riuscendo a giocolarne dieci: “Nessuno può immaginare quanta fatica ciò mi sia costato! Il pubblico non si accorse nemmeno che io giocavo con una palla di più, ma i miei colleghi lo capirono”.
L’allenamento gli costava una fatica immensa. Il suo esercizio richiedeva una fissità estenuante di attenzione che logorava i nervi e creava una paurosa anemia. Pallido, esangue, eseguiva il suo “numero” con uno sforzo terribile, che ad ogni esercizio lo lasciava prostrato.
Ma anche un giocoliere può soffrire di quell’allucinante amore che è l’amore per l’arte, e giocolare esige un lavoro costante e tenace. Per imparare a mantenere l’equilibrio anche durante il sonno, si obbligò per un periodo a dormire su una branda appesa alle corde del bucato.
Sapeva che in nessun mestiere la scala dei valori è così chiara e nettamente suddivisa come nel mestiere del jongleur, per il quale Strehly, il più grande storico della vita e del lavoro del circo, nel 1905 aveva stabilito una gerarchia, seguita a tutt’oggi dagli specialisti del genere: tenendo due oggetti in aria si è un bambino; tenendone tre si è, talvolta, il papà di quel bambino; ma è a partire da quattro palle che un giocoliere comincia ad essere degno di questo nome; a cinque è bravissimo; a sei si è maestri; a sette si è fuoriclasse. A otto palle credo che sia impossibile arrivare”.
Se il celebre Kara, il più famoso giocoliere dell’Ottocento, faceva roteare in aria sette palle, Enrico Rastelli al Palazzo d’Estate di Bruxelles superò quella barriera di ben due punti, immettendo nella ruota dieci oggetti. Egli aveva dunque conquistato il record mondiale. E lo tenne insuperato fino alla morte. Per riuscirci si allenava dalle 6 alle 12 ore al giorno – senza nemmeno fermarsi quando parlava -, e ciò fino a pochi giorni prima di morire.
Nel 1917 sposò Henriette Price, una funambola che aveva dovuto corteggiare per qualche anno prima che il padre di lei, un famoso clown, acconsentisse al matrimonio.
Con l’arrivo della rivoluzione e della guerra, Rastelli e la sua famiglia furono costretti ad abbandonare Pietroburgo, perdendo quasi tutti i loro averi dopo un viaggio avventuroso fino a Odessa (1919), dove riuscirono a imbarcarsi sulla nave italiana “Roma”, inviata dal governo per recuperare i connazionali. Tornarono così in patria, dove però Rastelli era quasi uno sconosciuto.
La svolta che diede il via al suo successo mondiale avvenne nel 1921. Il giocoliere, scritturato in quel momento dal circo Gatti & Manetti, fu notato dall’agente inglese Henry Sherek, che lo ingaggiò per una tournée nei più importanti teatri di varietà europei, tra cui l’Alhambra di Parigi e l’Olympia Hall di Londra.
Questi ingaggi, che segnarono il passaggio dal circuito dei circhi quello dei teatri di vaudeville (un genere teatrale nato in Francia a fine Settecento, molto simile ai teatri di varietà), lo indussero a cambiare stile, giocolando contemporaneamente con cinque palloni da calcio.
E fu nel 1922, all’Alhambra di Parigi, che avvenne il suo grande battesimo. Aveva allora venticinque anni e il suo nome era pressoché ignorato dai parigini, appassionatissimi del genere ma anche molto intransigenti.
Il successo fu trionfale. Folle enormi trassero a vederlo, di lui si occupò tutta la stampa proclamandolo senza indugio il primo giocoliere del mondo. Già fin d’allora si presentò con il famoso esercizio degli otto piatti lanciati in aria e ripresi, tenendo un bastone ed una palla in equilibrio sulla fronte.
Ma la sua arte non si limitava alla velocimania: egli complicò i suoi esercizi con equilibrismo ed acrobazia, dando appunto con questo la sensazione dell’impossibile.
I bergamaschi ricordano lo strardinario esercizio che consisteva nello stare sdraiato sulla schiena, con un’ampia stella in metallo girante sulla punta d’un piede, un anello girante attorno all’altro piede, un’altra stella su un bastone in bocca, nel contempo facendo volteggiare tre bastoni con le mani stando su un supporto roteante.
Egli era infatti anche un maestro di “combinazione” di stili, come giocolare con sei piatti facendo girare un cerchio con un piede e saltando la corda girata da due assistenti, anche se la base dei suoi “numeri” restavano i pezzi fondamentali – cerchi, bastoni, palle, piatti – lanciati nella “ruota”, quasi sempre combinati tra loro.
La scelta di questi oggetti – i più adatti ad essere afferrati e lanciati – era una peculiarità che lo distingueva dagli altri giocolieri della sua epoca, che erano soliti giocolare con oggetti di uso quotidiano.
Riuscì in tal modo a raggiungere un livello tecnico notevolmente al di sopra di quello dei suoi contemporanei, arrivando a giocolare con otto piatti, otto bastoni e dieci palline.
Dopo aver spopolato in Europa, per Rastelli arrivò il momento degli Stati Uniti: nel dicembre del 1922 firmò un contratto con Herbert Marinelli, uno degli agenti più famosi d’America. Per 750 dollari a settimana e con il nome ben evidenziato in cartellone, fece una tournée nel circuito di sale Keith-Albee.
Ebbe un immediato, grandissimo successo e si esibì nei più importanti teatri di varietà americani, compreso il celebre Palace di New York, dove i giornali lo definirono l’”ottava meraviglia del mondo”.
Capitava a volte che qualcuno, tra il pubblico americano, salisse sul palcoscenico per controllare le palle ed i bastoni per constatare che non vi fossero trucchi: “Spesso volevano toccare me per assicurarsi che non fossi cosparso di gomma arabica. Se volessero capire che qui non c’è né miracolo né trucco! Un artista ha bisogno di talento e allenamento, nient’altro!”, affermava Rastelli.
Una volta ritornato nel vecchio continente, i teatri di varietà di tutta Europa fecero a gara per accaparrarsi il meraviglioso giocoliere che entusiasmava con I suoi “triks”; tra i tanti, anche il Wintergarten di Berlino – un esempio illustre dell’affascinante teatro vaudeville, vero e proprio ‘tempio’ per il mondo dello spettacolo, che lo accolse il 1 agosto 1926 nel leggendario Giardino d’Inverno.
A Berlino si presentò al pubblico – che aveva prenotato i posti un mese prima – con tre piatti nella mano destra, due nella sinistra, uno in bocca, e due appoggiati alla cintura. Poi, in un attimo, gli otto piatti si staccarono dal suo corpo, salirono, rotearono in aria, composero tra la sua mano e il cielo del palcoscenico un cerchio magico, continuando in questa candida danza per venti secondi, per quanti cioè egli poteva, teso nello sforzo, tenere il fiato e reggere così questa giostra suprema. Per giungere a questo egli si era allenato sei anni, per quattromila ore.
E proprio qui, nel leggendario, antico Giardino d’Inverno, venne ritratto in una fotografia – perfetta sintesi della sua arte – che finì sulle locandine dei teatri di mezza Europa.
Rastelli ottenne un successo dietro l’altro, sia di pubblico che di critica, e attirò l’attenzione di artisti e intellettuali del tempo: le sorelle Vesque, illustratrici, lo ritrassero in alcuni disegni;
il direttore della sezione teatrale del Bauhaus, Oskar Schlemmer, raccomandò ai propri studenti di studiarne gli allenamenti;
lo scrittore Joachim Ringelnatz gli dedicò una poesia; e ancora: “Divenni superbo come un bimbo quando a Parigi il poeta René Bizet mi disse: ‘Lei ha istinto e naturalezza prodigiosi, come le foche del capitano Winston!’”.
Acclamato, celebrato in tutti i continenti, ormai ricco a milioni, l’artista italiano fu fotografato in ogni posa, sia durante i suoi esercizi, sia nella vita quotidiana; perfino dentro la vasca da bagno mentre leggeva il giornale tenendo in equilibrio un pallone sulla testa.
Popolare come nessuno in un mondo che ancora non conosceva la televisione, fu anche testimonial pubblicitario per diversi prodotti: calze di seta – capo d’abbigliamento che il giocoliere indossava in scena –, palloni, sigarette, addirittura macchine da scrivere.
Rastelli e la moglie ebbero tre figli: Elvira (1919), Anna (1921) e Roberto (1929).
Ogni estate tornavano a Bergamo, per trascorrere del tempo con i due vecchi genitori e i bambini, che egli non voleva portare in giro per il mondo perché potessero studiare e fare, un giorno, una vita differente dalla sua.
Nella torre della bellissima villa liberty di via Mazzini, Enrico allestì il proprio laboratorio personale, dove si divertiva a costruire gli attrezzi che poi avrebbe utilizzato in scena, a fabbricare piatti e bastoncini di legno, a colorare nuove palle.
A chi gli chiedeva se a Bergamo dedicasse del tempo anche al riposo, Rastelli rispondeva perentorio: “Oh mai più! Mi metterò a giocolare all’aria aperta, nel mio giardino. Mi eserciterò a nuove idee, a nuove difficoltà.
Riposare, non mi dice proprio niente. Io voglio gettare palle in aria, fare un salto e riprenderle a volo”.
Inoltre l’infaticabile giocoliere proseguiva i lunghi, quotidiani, allenamenti presso il teatro Duse, davanti alla platea vuota, alla presenza solo dei vecchi genitori, mentre i suoi bambini scoprivano finalmente qual era il lavoro di quel papà che era sempre lontano e che arrivava, con quei birilli e quelle palle di gomma, diritto diritto dall’America.
Il genio di Rastelli si manifestò non solo nella ferrea disciplina con cui si allenava, ma anche nella curiosità insaziabile che lo portava alla continua ricerca di idee su cui costruire ‘numeri’ sempre nuovi. Nel 1930 debuttò in Germania come giocoliere ‘calciatore’.
Con palle di cuoio cucito, eseguiva i suoi incredibili esercizi come se fosse su un campo di calcio: si faceva lanciare uno dopo l’altro una ventina di palloni senza toccarli con le mani, se li faceva passare dal calcagno alla nuca, di qui al ginocchio, dal ginocchio alla testa e li lasciava infine cadere a piombo, per calciarli con violenza nella rete allestita in fondo al palcoscenico.
In ogni esercizio c’era del meraviglioso che faceva pensare a qualche influsso magnetico che egli comunicasse ai suoi strumenti di lavoro: vederlo riprendere le palle di cuoio sulla testa, sulla nuca, sulle guance, sulla punta delle dita, su piedi, sui polpacci, in posizione verticale, prono, supino, seduto, e fermare la palla al punto giusto, privandola d’ogni suo minimo movimento, sembrava che fosse possibile solo in virtù di nascoste calamite o che addirittura le palle avessero una sensibilità ed obbedissero ciecamente al volere del loro padrone…. Il numero durava circa un’ora, in cui non un attimo di riposo, non una minima sosta: e un brio, una leggerezza, un’eleganza affascinante. E si può dire che un applauso solo accompagnasse tutto il tempo del suo lavoro il miracoloso artista. Ogni altro numero del programma impallidiva di fronte al suo, la gente non veniva che per lui, per il suo Rastelli.
Dopo l’ennesimo successo clamoroso, Rastelli fu invitato come ospite d’onore in diverse manifestazioni sportive: in un cine-documentario lo si vede in campo con i giocatori dell’Atalanta mentre fa passare agilmente il pallone dalla testa alle spalle e alla schiena, senza che questo rovesci a terra.
Le grandi metropoli se lo contendevano, i grandi impresari lo accaparravano con cifre favolose, sicuri del suo enorme successo e dei colossali guadagni.
Nel 1929 Rastelli era di nuovo al di là dell’ Atlantico, scritturato dal grande Zigfield per le sue “Follie di Broadway”, il massimo riconoscimento cui un attore di music hall o di circo possa aspirare (paga: circa 16 milioni di oggi alla settimana).
Tornò in Europa alla fine dell’ estate, anticipando di poche settimane il tuono di Wall Street e la serie di tempeste a catena che poco dopo avrebbero terrorizzato l’Occidente.
L’ADDIO
Nel 1931 si presentò finalmente l’occasione per uno spettacolo in Italia, dove Rastelli non si esibiva da 10 anni e dove la sua notorietà non era così grande come nel resto del mondo. Tornare, celebre, davanti al nostro pubblico che di lui, italiano nomade, doveva così poco rammentare, fu per lui una grande gioia.
Firmò un contratto con la ditta Suvini-Zerboni: il debutto era previsto per i primi giorni di dicembre proprio nella ‘sua’ Bergamo, al teatro Duse, che scelse come prima tappa della tournée. Poi sarebbe stata la volta di Milano.
Pochi giorni prima che arrivasse in Italia, durante una rappresentazione tenutasi a fine novembre al teatro Apollo di Norimberga, uno spettatore gli aveva lanciato con eccessiva violenza il pallone che lui doveva fermare con un bastoncino tenuto tra i denti.
Il numero riuscì ma Enrico venne lievemente ferito al palato, tradito e colpito da uno dei suoi strumenti.
Non riusciva ad arrestare l’emorragia, che continuò anche durante il viaggio verso Bergamo.
Arrivato a Bergamo si sottopose ad alcune visite mediche: gli fu diagnosticata l’emofilia e consigliato un periodo di riposo. Ma a dispetto delle precarie condizioni di salute decise di continuare: nella sua Bergamo, che tanto adorava, voeva tenere uno spettacolo di beneficienza per aiutare I bambini poveri della città.
Il teatro era gremito di gente; un pubblico insolito era accorso, chiamato dalla sua arte e dalla sua generosità. Applausi frenetici e riconoscenti lo accolsero al suo comparire, sorridente e lieto. C’erano tanti bimbi, felici, che lo chiamavano a gran voce, e Rastelli si prodigò: voleva che quella fosse una memorabile serata.
Ma in quel corpo gracile di maestro di equilibri. la piccola, lievissima percossa aveva turbato il suo, di equilibrio.
Calato il sipario sull’ultimo applauso, egli si accasciò, infranto: lo sforzo supremo aveva spezzato il suo fragile involucro di nervi, l’ombra già scendeva su di lui. Egli forse sentì, in quell’istante, qualcosa cadere, qualcosa che più non ubbidiva. La morte aveva toccato Enrico Rastelli con una mano che era anche più leggera della sua di giocoliere, come per una macabra sfida. Rastelli pensava di guarire.
Quel miracolo di equilibrio che è l’esistenza si scomponeva e si disfaceva in un baleno, nel buio della notte. La sua vita terrena non doveva aver più luce, il suo breve viaggio era compiuto. La mano magica di Enrico Rastelli non si muoveva più.
La morte lo colse nella notte fra il 12 e il 13 dicembre nella sua casa di via Mazzini. Aveva 34 anni.
Della sua inimitabile arte non restava che l’eco dello sfolgorante turbinio di oggetti in movimento che le sue mani fatate sapevano ricomporre in armonioso ordine.
Ma di lui rimaneva ben altro, e restava l’esempio raro di una vita tutta spesa per il lavoro e per la gloria, conquistata tenacemente, lentamente, giorno per giorno, rinunciando a tutto, in uno sforzo continuo e sfibrante di nervi, con la volontà tesa ad un unica meta. Vent’anni di lavoro silenzioso, oscuro, metodico, accasciante, ignorato da tutti senza di che la sua apparente magia sarebbe stata inattuabile.
Al lavoro aveva sacrificato tutto: la ricchezza, il lusso, le gioie familiari; ogni conquista nel campo della sua arte non era altro che una spinta a intensificare la sua fatica, ad aumentare il suo lavoro. Aveva assicurato ai suoi genitori, alla consorte e ai figli una vita serena nella pace della magnifica villa di via Mazzini; per sé non aveva riservato che l’arena di un circo o il palcoscenico di un teatro per lavorare.
Si era sempre vantato del suo nome, disdegnando allettanti pseudonimi; volle essere apprezzato solo per quanto valeva.
Ma i suoi concittadini non ignorarono che il fato lo aveva colpito proprio in quel suo gesto generoso, e con le loro preghiere lo accompagnarono nel viaggio Eterno e lo deposero nelle braccia del Signore.
La scomparsa di Rastelli ebbe una potente eco, la notizia fu rilanciata dalle radio e dai giornali nazionali e internazionali.
Nel dare la notizia, in critico tedesco si fece prendere dalla commozione e scrisse che Dio, lassù, avrebbe concesso a Enrico Rastelli il privilegio riservato solo al migliore di tutti i giocolieri: continuare il suo numero anche in paradiso. Usando le stelle invece dei birilli.
I funerali si svolsero a Bergamo il 15 dicembre: il corteo funebre, che partì dalla villa di via Mazzini, era gremito di artisti e di persone comuni. Migliaia di persone. Il centro della città fu chiuso al traffico, le lezioni nelle scuole furono interrotte per permettere agli insegnanti e agli alunni di rendere omaggio al meraviglioso giocoliere, i teatri osservarono un minuto di silenzio.
La moglie di Rastelli ripose nella bara anche due bastoncini di legno e una piccola palla, il simbolo stesso della vita del più grande artista di circo del ventesimo secolo.
Venne sepolto al Cimitero Monumentale nella cappella di famiglia, dove una statua a grandezza naturale lo ritrae con un pallone in equilibrio sul dito.
Il mausoleo del giocoliere è ancor’oggi meta di pellegrinaggio per gli artisti circensi di tutto il mondo. E proprio lì il 23 dicembre del ‘56, nel venticinquesimo anniversario della morte, il presidente dell’Académie du Cirque, giunto appositamente a Bergamo da Parigi, tenne un discorso di commemorazione.
Riferimenti
Enrico Rastelli, il piccolo mago bianco
Abat-jour, di Orio Vergani, Collezione Olimpia, Longanesi & C., 1973.
C’era una volta un mito, L’Eco di Bergamo , 14 giugno 1995.
Adriano Lami, Enrico Rastelli. La Rivista di Bergamo