Palazzo Terzi a Bergamo: la dimora barocca per eccellenza

Adagiata sullo sperone occidentale di Bergamo alta, la dimora barocca più bella di Bergamo fu eretta fra l’inizio del Sei e il Settecento da un ramo dei nobili Terzi – originaria della Val Cavallina -, senz’altro la più europea della nobiltà bergamasca, sia per l’antichità e i personaggi della sua storia sia per le alleanze che la congiungono alla più alta aristocrazia .

Giovanni Milgliara, Palazzo Terzi da via S. Giacomo (Racc. Gaffuri). Posto tra il Liceo Classico e via Donizetti, il Palazzo si integra, con mirabile sintonia, nel gioco di luci e ombre che caratterizza il versante meridionale della Bergamo antica

Una dimora importante per le pagine di storia che racchiude, per la nobiltà che rappresenta, per la struttura architettonica, per i materiali impiegati, per la notorietà degli artisti che hanno contribuito alla sua realizzazione e per la personalità dei padroni di casa che nei secoli hanno avuto non poca influenza nella vita cittadina.

Il Palazzo veniva un tempo scelto per accogliere re e principi in visita a Bergamo, sottolineando il rango che questo edificio rivestiva nella considerazione delle autorità pubbliche.
Ospitò, tra gli altri, molte famiglie illustri del Settecento e ben due imperatori austroungarici: all’inizio del 1816 Francesco I d’Austria, reduce da Milano dove si era recato nel dicembre precedente per essere incoronato Re. Volle fermarsi a Bergamo per visitare la città. Una ventina d’anni dopo, nel 1838, prese quartiere Ferdinando I con la moglie Anna Maria Carolina. Ma, come vedremo, non solo.

LA FAMIGLIA: UNA STORIA ILLUSTRE

In Val Cavallina i Terzi possedevano i castelli di Terzo, di Berzo, di Grone e di Monasterolo e sembrerebbe che ancor prima dell’anno Mille avessero dimora anche a Bergamo, dove presto divennero tra i reggitori del Comune.

Di appartenenza Ghibellina, la famiglia fu fedele al Sacro Romano Impero sino alla sua dissoluzione e la loro presenza in Val Cavallina, importante snodo fra Italia e Germania, garantì agli imperiali un passaggio sicuro, specie in seguito alla restaurazione del Sacro Romano Impero nel 962.

Al repentino consolidamento del potere dei Terzi corrispose tuttavia l’inizio di una lotta intestina tra i vari membri della famiglia, che a lungo andare si smembrò in due fazioni – gli “Allongi” da un lato e I “Loteri” dall’altro –, sino alla diaspora che li spinse non solo in altre città italiane (Brescia, Verona, Vicenza e Venezia, Gorizia, Fiume, Piacenza, Parma e Reggio, Bologna, Firenze, Iesi, Pesaro, Napoli) ma anche Oltralpe (Austria, Boemia e Ungheria).

La discordia terminò nel 1248 con la firma di un solenne trattato di pace che sancì le rispettive aree di influenza. In seguito, uno dei due gruppi acquistò terreni e case sul Colle Aureo, sul quale fu edificato l’attuale Palazzo.

Nonostante gli scontri che segnarono duramente la famiglia, i Terzi continuarono ad emergere in vari ambiti: dalle Prelature alle Armi, dalle Lettere alle Arti. Dal XII secolo molti membri si distinsero per meriti militari fino ad assumere il controllo di vari feudi; fra questi, Gherardo fu podestà di Cremona e Guido fu Vicario Imperiale e Capitano generale di Federico II.

Una delle personalità più illustri della famiglia fu Ottobono, che fu Condottiero di Gian Galeazzo Visconti, tenne la Signoria di Parma, Piacenza e Reggio acquisendo i titoli di Conte di Reggio e Marchese di Borgo S. Donnino, prima di essere assassinato a tradimento nel 1409.

Alcuni membri della famiglia Terzi seguirono invece la carriera ecclesiastica: Alberto e Adelongo furono canonici nel 1217, Alberto fu eletto Vescovo di Bergamo nel 1242, Giroldo divenne arciprete a Clusone nel 1272 e Giovanni partecipò al Concilio di Trento.

Giuseppe Terzi partì invece con Napoleone per la campagna di Russia e fondò l’Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti di Bergamo.

IL PALAZZO

La costruzione del palazzo rientra a pieno titolo nel clima di affermazione sociale che caratterizza il Cinque e il Seicento, quando, sull’onda di una generale fortuna su scala europea delle casate nobiliari, l’aristocrazia locale si dotava di residenze degne dell’importante ruolo acquisito. Così fece un ramo dei Terzi, quando, a testimonianza del rango sociale raggiunto, si stabilì in città, luogo ideale dove intraprendere la realizzazione di un palazzo di rappresentanza.

Archivio Wells

Precedentemente la famiglia abitava vicino alla chiesa di S. Pancrazio, dove ancora vi sono delle case con affreschi di soggetto veneziano molto deteriorati dal tempo.

In realtà, l’aspetto esterno non è appariscente ed anche la collocazione urbanistica non è centrale: l’esiguità dello spazio edificabile, compreso fra il parco di Palazzo Recuperati e la sommità dello scosceso pendio meridionale del Colle, comportò la ricerca di soluzioni logistiche che richiesero quasi un secolo – fra acquisizioni, ampliamenti e modifiche – per conferire una forma compiuta al palazzo.

Il vicolo che conduce a Palazzo provenendo dall’antico Mercato del pesce

Nonostante la ristrettezza del sito i Terzi poterono così realizzare anche il bel giardino distribuito su vari livelli, ed ampliare lo spazio antistante l’ingresso del palazzo che,  costruito sopra un’area precedentemente demolita, riuscì a inserirsi nello spazio tra il parco di Palazzo Recuperati e, sul lato opposto, al limite del dirupo che definisce Città Alta.

Le preesistenti costruzioni rinascimentali sono infatti parzialmente inglobate negli ampliamenti sei settecenteschi e addirittura nei sotterranei del palazzo sono ancora visibili resti dei precedenti edifici medioevali, come è tipico negli edifici di Città Alta.

Il Palazzo prima dei recenti restauri

La prima fase della costruzione coincise con le nozze fra il marchese Luigi Terzi e la giovanissima Paola Roncalli (1631), quando furono eretti la facciata e l’ala meridionale.

Palazzo Terzi, 1910

La seconda fase, preceduta da una serie di acquisizioni immobiliari corrispondenti alla parte settentrionale dell’edificio, ebbe inizio un secolo dopo in occasione del matrimonio fra il marchese Gerolamo Terzi e Giulia Alessandri (1747), sorella del noto architetto Filippo, che intervenne sull’edificio ridisegnandone il prospetto a valle, rendendo simmetrici i due corpi di fabbrica nord e sud e valorizzando gli elementi tardorinascimentali inseriti nel Seicento.

Fronte settentrionale

L’esposizione a mezzogiorno e la posizione dominante sopra la pianura, consentì di proiettare la costruzione verso il grande spazio antistante utilizzando il fianco della collina per terrazze e giardini pensili. Anche la disposizione degli ambienti interni venne condizionata dalle grandi vedute verso il piano: una componente fondamentale dell’intera struttura.

Il Palazzo ripreso dalla Casa dell’Arciprete

Di sottile pregio ambientale, la minuscola piazzetta antistante l’ingresso – in origine un vicolo largo non più di quattro metri – fu ampliata dall’Alessandri, mediante l’asportazione di una porzione del terrapieno di proprietà del Conte Ricuperati, la cui area è tuttora distinguibile grazie ad un perimetro in pietra inserito nella pavimentazione.

La piazzetta antistante il Palazzo, in una foto d’epoca (Archivio Wells)

 

Dal cortile, si intravede la muraglia che delimita il terrapieno di proprietà del Conte Ricuperati, con al centro la nicchia che racchiude la statua allegorica dell’Architettura, eseguita da Giovanni Antonio Sanz

Per alleggerire la muraglia di contenimento di fronte all’ingresso è stata creata una nicchia a grotta che racchiude la statua allegorica dell’Architettura (eseguita, come altre opere plastiche all’esterno del palazzo, dal poliedrico Giovanni Antonio Sanz), sovrastata da due puttini che simboleggiano la Primavera e l’Estate, rimandando visivamente al prospetto settentrionale del palazzo, dove le statue dell’Autunno e dell’Inverno campeggiano sul balcone sostenuto dal bel portale.

Piazzetta Terzi con la nicchia a grotta che racchiude la statua allegorica dell’Architettura, sovrastata dallo stemma di famiglia e da due puttini che simboleggiano la Primavera e l’Estate,(Archivio Wells)

 

Una doppia fascia marcapiano che corre lungo tutta la facciata mette in evidenza il piano nobile, collegato al pianterreno dal portale d’ingresso ed ornato dal terrazzo sormontato dallo stemma e da due putti raffiguranti l’Autunno e l’Inverno, posti in posizione perfettamente simmetrica rispetto alle statue dell’Estate e della Primavera collocate in piazzetta

 

Dettaglio delle statue dell’Autunno e dell’Inverno sul balcone della facciata settentrionale del Palazzo

Per differenziare ulteriormente i vari piani l’Alessandri usò la decorazione delle finestre: semplici e prive di motivi ornamentali al pianterreno e all’ultimo; con timpani lineari al secondo; con timpani spezzati completi di statue rappresentanti imperatori romani al piano nobile.

Nel Palazzo permane l’ombra del giovane Stendhal (1783-1842), al secolo Marie Henry Beyle, che vi soggiornò in qualità di sottotenente di cavalleria dell’esercito napoleonico.

Nella finzione, un soldato napoleonico nella Sala degli specchi

Sulla facciata settentrionale, accanto al portale, una targa marmorea recita:

“Incantevole e superba bellezza” mirò Henry Beyle nei luoghi di questa città ov’ebbe dimora nei giorni pratili dal 2 maggio al 24 giugno 1801 il giovin Stendal gli amori di Zelinda e Lindoro qui volgendo nell’idioma natio con l’ardente cuore ch’ei volle dire italiano.

Oltre un secolo dopo, in una tiepida giornata di primavera Hermann Hesse (1887-1962) approdò casualmente nella piazzetta, dopo aver ammirato le meraviglie di Piazza Vecchia e dell’attigua Piazza Duomo.

La descrisse come “uno degli angoli più belli d’Italia, una delle molte piccole sorprese e gioie per le quali vale la pena di viaggiare”. Sbirciando attraverso il portone del palazzo scorse il cortile “con piante e una lanterna oltre il quale due grandi statue e un’elegante balaustra si stagliavano nitidi, in un’atmosfera trasognata, evocando, in quell’angolo stretto tra I muri, il presagio dell’infinita lontananza e vastità dell’aere sopra la pianura del Po”.

La vista sul cortile terrazzo affacciato sulla pianura continua ad estasiare gli avventori, filtrato dal porticato attribuito all’Alessandri, composto da sei colonne binate che creano tre archi paralleli, dove al centro spicca l’inconfondibile lanterna che illumina l’androne nelle ore serali.

Sul cortile-terrazzo che domina la pianura è aperto un atrio colonnato realizzato dall’Alessandri (Ph Mario Rota)

La terrazza, racchiusa tra le due ali del palazzo, termina con una splendida balaustra sormontata dalle due aeree sculture – realizzate da Sanz – della Pittura e della Scultura, che richiamano la statua dell’Architettura nella piazzetta chiudendo il cerchio simbolico-decorativo.

Le statue della Pittura e della Scultura nel cortile del Palazzo

La visuale è rivolta alla vasta e indefinita pianura e sul giardino del palazzo che digrada su via S. Giacomo accogliendo una bella fontana con Sauro.

Lo stupore suscitato dalla geniale soluzione dell’Alessandri, fa dimenticare l’asimmetria dell’androne rispetto al cortile ed anche quella delle finestre dei preesistenti ambienti sotterranei, non in asse con quelle del prospetto.

Scorcio sull’androne del Palazzo

 

Lo scalone, lungo il quale si trovano ancora i candelabri settecenteschi, è decorato da numerosi affreschi che ne allargano le dimensioni con grandi prospettive di palazzi classicheggianti collocati in campi ariosi, mentre la volta presenta un affresco con un allegoria mitologica dipinto da Vincenzo Orelli e dal figlio Giuseppe, quest’ultimo autore di un grande affresco collocato nell’ala opposta del palazzo, quella attualmente abitata dai proprietari, dedicato ad “Apollo e le sue Muse”. Altre decorazioni si trovano nelle camere sottostanti, così come la preziosità di alcuni arredi aumenta la suggestione dei locali.

Gli artisti di Palazzo Terzi

Il palazzo è la risultanza dell’ingegno e dell’abilità di una formidabile équipe di architetti e di artisti scelti, sensibili e attenti all’evoluzione del gusto architettonico e pittorico dell’epoca, e benché l’ala sinistra del palazzo, tuttora abitata, racchiuda affreschi suggestivi, gli ambienti più interessanti sono situati nell’ala destra, dove troviamo le ricche decorazioni realizzate tra il 1640 e il 1664 da Giovan Battista Tiepolo, Cristoforo Storer (un pittore di Costanza formatosi presso la bottega milanese di Ercole Procaccini il giovane, e che in seguito Luigi Terzi sostenne per i lavori presso la basilica di S. Maria Maggiore), il pittore comasco Gian Giacomo Barbelli (autore anche degli affreschi di Palazzo Moroni in città Alta), Carpoforo Tencalla (un artista piuttosto inconsueto a giudicare dai dipinti), il bergamasco Domenico Ghislandi (padre di Frà Galgario), che interviene negli ambienti di Palazzo Terzi all’indomani dell’impresa in Palazzo Moroni (dove egli tornerà a lavorare sui ponteggi con il suo primo maestro, il cremasco Gian Giacomo Barbelli) sfoderando un’audacia nuova e personale, come si evince in particolare nel Salone d’onore.

Il Salone d’onore

Al grande salone di ricevimento, situato nel corpo centrale del palazzo e disposto su due piani, si accede direttamente dal portico passando attraverso un piccolo locale, un tempo forse destinato a portineria o a vestibolo, il cui soffitto presenta alcune riquadrature in stile barocco.

Il visitatore viene accolto in uno degli ambienti di maggior pregio – contraddistinto naturalmente da un fastoso barocco – attorno al quale ruotano le altre sale.

Salone d’onore

Quasi sicuramente l’inizio delle decorazioni porta la data del 1640; esse vennero affidate a Gian Giacomo Barbelli, che libero da ogni direttiva architettonica lavorò affidandosi alla sua fantasia, avvalendosi del quadraturista Domenico Ghislandi per la curiosa impostazione scenografica della volta.

Dettaglio del soffitto del salone principale di Palazzo Terzi, opera di Gian Giacomo Barbelli e Domenico Ghislandi per le quadrature. Qui per la prima volta Ghislandi inventa una quadratura nella quale a mutare è l’idea stessa di spazio. Non più statico e ripiegato su se stesso entro i limiti fisici dell’architettura, ma uno spazio che attraverso le aperture illusioniste fa affiorare brani “del grande paesaggio” esterno, di un Creato vastissimo di cui si colgono alcuni passaggi, alcuni frammenti

Tra i curiosi pilastri rastremati a calice si aprono, negli angoli della volta, quattro finestre vere e quattro finte, alle quali si affacciano delle mezze figure a grandezza naturale, probabilmente personaggi della famiglia vissuti negli anni del restauro. Nell’ “Olimpo”, effigiato da Gian Giacomo Barbelli nella volta, le figure sono gettate en plain air con la stessa freschezza e lievità con cui poi le ritrae in azione nei quattro riquadri che lo incorniciano: “Minerva che con Marte guida le truppe”, “Orfeo che incanta gli animali”, “Giuseppe che guida le Furie” ed una “Flora con cornucopia”.

Alcune figure simboliche sedute, fiancheggiano ogni riquadro e due di queste sono riprese, in atteggiamento simile, dall’abile stuccatore che innalza fino all’impostazione della volta il maestoso camino, la cui realizzazione è probabilmente anteriore ai due quadri che lo affiancano.

 

Questi due dipinti, come gli altri che ornano le pareti del locale, sono stati eseguiti da Cristoforo Storer e raffigurano “Jefte vittorioso incontra la figlia” e “Ammone ucciso per comando di Assalonne”.

I soggetti degli altri dipinti sono: “Davide presenta a Saul la testa di Golia” e, sulla parete di fronte al camino, il grande “Convito di Assuero” che porta la firma e la data del 1657.

Sopra le porte vi sono altre tele eseguite probabilmente da Giovanni Cotta, un amico dello Storer.

L’ imponente camino di marmo, addossato alla parete maggiore, celebra la potenza e l’eccellenza della famiglia, come testimoniano i leoni laterali di sostegno e soprattutto lo stemma araldico collocato al centro del frontone curvilineo appoggiato alla cappa.

Dipinto dei Grande Salone di Palazzo Terzi

Quanto alla paternità dell’opera, attraversata da racemi a girale e da diversi motivi naturalistici, per la generosità del disegno e la carnosità delle forme presenta significative affinità stilistiche con le opere degli stuccatori luganesi Sala, attivi in quegli anni nei principali cantieri cittadini (seguiti anche dai Terzi, come quello della MIA).

La luce che irrompe dalle finestre aperte sulla pianura non fa che esaltare gli stucchi e le decorazioni.

(Ph D. Rizzo)

 

 

Dal Salone di ricevimento, una porta sulla sinistra conduce alla Sala da pranzo, anch’essa affrescata dal Barbelli, sempre con la collaborazione del Ghislandi per le riquadrature e gli effetti prospettici nei quali è inserita una balconata. L’affresco principale rappresenta l’origine della “Via Lattea”, mentre quattro graziosi puttini sul cornicione reggono i simboli di Giove.

Tornati nel Salone si passa nelle sale di destra: una sequenza mirabile di decorazioni, di ornamenti e di tappezzerie di rara eleganza e raffinatezza, dove si avvicendarono frescanti, stuccatori, indoratori ed ebanisti, offrendo prove di eccellenza nell’accostare materiali diversi.

I plafoni conservano gli affreschi del Seicento, mentre le pareti sono state rivestite nel secolo successivo di damasco, di soprarizzo e di specchi. I pavimenti, realizzati con legni policromi, sono stati disegnati dal Caniana. Le porte, gli infissi e le finestre sono decorate con intagli dorati. E’ una sequenza di motivi che sorprende e che si conclude nel Salottino degli Specchi, il primo locale che lo Storer decorò appena arrivato a Bergamo.

Salotto degli Specchi

Le singolarità di palazzo Terzi non finiscono qui. E’ tra queste pareti che si cela appunto il celebre salotto degli specchi, considerato da Mario Praz  “uno dei luoghi di specchi più incantati del mondo”.

Sala degli Specchi

La sala offre al visitatore i medaglioni secenteschi affrescati dallo Storer raffiguranti l’ “Astronomia misurante I segni dello zodiaco” al centro, i Quattro elementi ai lati e, tra l’uno e l’altro, sopra agli angoli delle pareti, quattro ovali presentano le “Quattro parti della Terra”.

 

 

Dettaglio

Nel primo Settecento, all’ambiente si aggiunse un elegante gioco di specchi, spiccatamente barocco, che riflettendosi l’un l’altro ne modificano le dimensioni rendendo l’illusione di una maggior ampiezza. Gli specchi coprirono però anche le quadrature originali di Domenico Ghislandi.

Gli arredi raffinati si accompagnano a preziosi decorazioni e tessuti damascati, e, ad esaltare il tutto, I preziosi pavimenti a tarsie policrome realizzate con legni rari su disegno del Caniana. La decorazione presenta una doppia fascia stellata che racchiude il rosone centrale e alcuni motivi a grata. Negli angoli fanno bella mostra corbeilles di fiori e nella strombatura della finestra una gabbia di uccellini. Non contento di questi disegni, che danno al pavimento in legno quasi la caratteristica di un tappeto, il Caniana ha voluto arricchire i riquadri dello zoccolo con gioco di putti dipinti in tonalità monocromatica su fondo dorato.

L’insieme, ovvero l’abbinamento degli affreschi dello Storer sul plafone, gli specchi con le decorazioni barocche in legno dorato e il pavimento finemente intarsiato, danno luogo ad un ambiente raffinato: un “salottino” raccolto ma al tempo stesso non oppressivo; colorato, ma senza che i disegni incombano e disturbino l’armonia degli accostamenti.

Ed è dovuto al successo di queste decorazioni che i Terzi commissionarono allo Storer gli affreschi della Sala Rossa ed il medaglione della camera da letto di rappresentanza.

Scorcio sulla camera da letto di rappresentanza

Procediamo nella visita passando alla Sala del Soprarizzo, così nominata per via della tappezzeria che ricopre le pareti.

Sala del Soprarizzo

La Sala del Soprarizzo in una splendida fotografia appartenente ad Archivio Wells

Tra il Salone e il Salottino si trova la “Del Soprarizzo”, così nominata per via del tipo di tappezzeria sulle pareti.

Sala del Soprarizzo

La volta di questo locale è decorata dal ticinese Carpoforo Tencalla. Il dipinto del plafone ha un’impostazione abbastanza insolita. Le figure non si trovano al centro dello spazio decorato, bensì in un angolo, raggruppate e avvolte da nuvole, mentre nella volta, che si presenta come illuminata di rosa dalle prime luci dell’alba, appare l’ “Aurora” nel suo splendore, come soggetto principale di tutta la composizione. Il fregio che raccorda l’affresco con le pareti è stato eseguito quando queste sono state rivestite in soprarizzo e lo si nota dalla fascia architettonica, diversa da quella del Salone. Predominano i colori rosa e grigio chiaro in diverse sfumature, mentre le ghirlande di fiori hanno tonalità più vivaci. Queste decorazioni sono attribuibili al ticinese Giuseppe Antonio Orelli.

Sul soffitto campeggia l’Aurora che scaccia il Sonno, un affresco in stile barocchetto del pittore ticinese Carpoforo Tencalla.

Anche qui, il pregevole pavimento settecentesco in legno intarsiato.

A partire dalla seconda metà del Ottocento il palazzo diventò la sede di riunioni e conversazioni che favorirono l’Indipendenza d’Italia durante il Risorgimento. Proprio in un’intercapedine di questa sala fu nascosta, al ritorno degli Austriaci, la bandiera Nazionale, protagonista delle Cinque giornate e della Caduta di Milano, a lungo cercata dagli austriaci ed oggi conservata presso il Museo Storico allestito in Rocca. La bandiera era stata consegnata nel 1862 all’allora Sindaco della città dalla marchesa Maria Terzi Caumont de la Force, vedova del marchese Luigi, amico e collaboratore di Gabriele Camozzi, con il quale fondò la Guardia Nazionale.

Il Carretto siciliano garibaldino, nel cortile di Casa Terzi

Sala Rossa

La Sala Rossa è così nominata per la tappezzeria di damasco rosso vermiglio.

Sala Rossa

Presenta nel soffitto affreschi eseguiti nel 1655-57 da Cristoforo Storer, coadiuvato dal Ghislandi per le splendide quadrature delle quattro scene allegoriche raffiguranti uomini possenti e donne sinuose. Al centro della volta si trova l’Olimpo.

Gli arredi risalgono invece al Settecento: le specchiere, la consolle dei Fantoni, porte stuccate. Vi sono inoltre pregevoli vasi Ming con montatura in bronzo.

Sala del Tiepolo

Una delle più note e conosciute del palazzo, contornata da dei preziosi stucchi dorati, la sala conserva al centro del soffitto un affresco attribuito al Tiepolo.

L’affresco del Tiepolo nella sala omonima

Salottino della Musica

In stile rococò invece si trova il Salottino della Musica, dalle pareti molto irregolari ma sapientemente mimetizzate dalle decorazioni realizzate dai fratelli ticinesi Camuzio.

La Sala della Musica con al centro un’opera realizzata in occasione di un allestimento

Oltre a queste di maggior pregio, vi sono altre stanze in stile veneziano, così di moda nel XVIII secolo. Tra queste una curiosa saletta adibita a giardino d’inverno, abbellita con carta da parati dipinta a mano dal conte Suardo.

Giardino d’Inverno

 

Una rara ripresa del Conte Suardo, a cavallo per le vie della città

Seguendo la moda neoclassica che si diffuse nella Bergamasca con il nome degli architetti Simone Elia, Pollack, Giacomo Bianconi ed altri, alcuni discendenti della famiglia Terzi pensarono di trasformare tutto l’edificio eliminando la sua impostazione barocca per conferirgli una caratteristica in stile impero. Fortunatamente ciò non avvenne.

Labirinti e maschere mortuarie a Palazzo Terzi

E’ noto che nel ventre di Città Alta si nasconda un dedalo di percorsi, che si snodano tra pareti rocciose, stalagmiti e stalattiti: un groviglio inquietante di cunicoli, gallerie, buchi, caverne. Ma nella Bergamo antica sono ancora molti i luoghi inesplorati. Basterebbe inoltrarsi nel sottosuolo di alcune dimore storiche, se i proprietari lo consentissero, per fare scoperte mozzafiato.

Nel sontuoso – e a quanto pare misterioso – Palazzo Terzi, sono stati rinvenuti curiosi e impressionanti reperti che lasciano presagire segreti rimasti ancora oggi inviolati: negli inaccessibili (al pubblico) sotterranei, che scendono come labirinti piranesiani nel cuore della città, giacciono presenze davvero inquietanti.

Non è facile addentrarsi in questi oscuri meandri. Ad un tratto nella penombra ecco apparire un vecchio armadio. La porta scricchiola. Un rumore sinistro, quasi monito a non violare il segreto, a non andare oltre. Ma la tentazione è fortissima e nessuno può fermarci: ai nostri occhi si presenta una “collezione” inconsueta: venti maschere mortuarie.

Pochi ne sono a conoscenza, ma quelle testimonianze, enigmatiche e angoscianti, sono calchi in gesso realizzati sui volti dei camerieri che prestarono servizio in quella residenza. Camerieri un po’ speciali, evidentemente, forse persone a cui la famiglia era particolarmente legata da vincoli di affetto.

Almeno questa sembra l’unica spiegazione plausibile, se alla servitù era concesso il “privilegio” di rimanere nei ricordi di sempre attraverso una bianca immagine gelosamente custodita nei sotterranei

Tra l’altro, un altro ambiente del palazzo – successivamente modificato – ancora più insolito e lugubre era la stanza interamente decorata a stucco nero, dove venivano esposti i morti di famiglia, in attesa delle esequie (2).

Note

(1) Attraverso un matrimonio Caumont-La Force, i Terzi sono collegati ai più grandi casati francesi: persino Honoré de Balzac (1799-1850) ricorda in uno scritto una ‘marquise de Terzi’. Assai interessante il matrimonio di un Nuse Terzi con la principessa Galitzine che venne a Bergamo accompagnata da un pope ortodosso come cappellano. Dai Galitzine si risale a parentele con le più importanti famiglie russe e con grandi scrittori come Aleksandr Serghiejevic Puskin (1799-1837) e Lev Nikolajevic Tolstoj (1828-1910).

(2) Emanuele Roncalli: “I misteri di Bergamo”, Burgo Editore, Bergamo, 1995

Fonti
-Palazzo Terzi, di Graziano Paolo Vavassori
-Ferrante, “Palazzi nobili di Bergamo”

Bergamo nelle impressioni di Hermann Hesse: dalla percezione all’anima

Al suo terzo appassionato viaggio in Italia, nel 1913 il grande scrittore svizzero-tedesco Hermann Hesse – premio Nobel per la Letteratura nel 1946 – compie un viaggio in Lombardia visitando in successione Como, Bergamo e Cremona, mete tra le meno sfruttate dai viaggiatori celebri del tempo. Com’è consuetudine, annota le impressioni e le emozioni del viaggio nel suo “Bildebuch”, lasciandoci in eredità una delle descrizioni più belle e suggestive dell’antica Bergamo.

Dopo aver visitato due grandi mete del Belpaese, Venezia e Firenze, egli desidera ardentemente andare alla scoperta di centri minori, lontani dai Grand Tour così in voga tra gli intellettuali e gli aristocratici del tempo. Desidera vagare per cittadine raccolte e un po’ assonnate, ricche di logge e porticati che offrano frescura e rifugio al viandante straniero; luoghi dal carattere remoto e dalla grazia ritrosa che si possano percorrere a piedi e abbracciare dall’alto in un solo sguardo, con strade e viottoli nei quali il tempo sembra sospeso. Luoghi simili alle amate cittadine dell’Italia centrale con quegli ‘umidi vapori di angusti vicoli’ e le ‘presaghe oscurità’.

L’autore del “Viandante” si lascia condurre per la città non dalle istruzioni contenute in una Guida ma solo dalla sua anima colta, sensibile e aperta,  soffermandosi su ciò che per lui è fonte essenziale di emozione e quindi degno di prolungato sguardo contemplativo.

Hesse, che salì in Città Alta verso notte, pieno di curiosità, addentrandosi inaspettatamente in una grande, magnifica piazza si lasciò attrarre da oscurità piene di mistero e sorprendere da nobili costruzioni balzanti su all’improvviso con genuino stupore, lasciando che i suoi sensi, complice la notte, lo trasportassero in un mondo surreale, ingigantito da ombre oscure, che si dissolsero con la luce del giorno.

Giunto al cospetto della chiesa grande di Santa Maria, si trovò subito ravvolto da una luce e da un profumo devoti e solenni, respirando l’ardore e la consapevolezza di un superbo passato e attirato da un raggio di sole ad un palazzone che sullo sfondo lasciava giungere dalle finestre spalancate le voci a coro di scolari…

Rimase lì incantato.

§§§

In una notte di marzo del 1913 l’allora trentaseienne Hermann Hesse  approda  alla stazione di Bergamo…

s’incammina verso la funicolare e a poco a poco il profilo lucente di Città Alta si svela al suo sguardo.

Risale l’imponente arteria centrale, dove sono allineati ristoranti e negozi illuminati…

raggiunge la funicolare per Città Alta…

e dal Mercato delle Scarpe…

si dirige verso Piazza Vecchia.

“Mi ritrovai nel cuore di una buia città antica, inghiottito da un vicolo stretto e spopolato.

Proprio allora venivano chiuse le botteghe.

D’un tratto mi spaventò la vista di una torre incredibilmente alta che fuoriusciva da una forra di case e spariva in alto, nella notte; mi parve di essere tornato all’improvviso nella Toscana meridionale o in una cittadina dell’Umbria montagnosa.

Torre del Gombito, eretta nel XII secolo, appartenne anticamente alla potente famiglia de’ Zoppo. La torre, una delle poche superstiti, testimonia il potere esercitato dai clan familiari sulla città in epoca medioevale. Molte altre torri vennero abbattute da Venezia quando nel 1428 la Serenissima estese il suo dominio sino a Bergamo

 

Inaspettatamente il vicolo si allargò come spartendosi in due e sfociò in una grande piazza stupenda:

a destra un lungo portico ad arcate dove tardivi passeggiatori fumavano la pipa;

a sinistra un grande monumento moderno, probabilmente un Garibaldi; e a ridosso una scura, elegante architettura con grosse colonne ed archi eleganti.

Il “grande monumento” a Garibaldi, qualche decennio prima aveva fatto sloggiare dal centro della piazza la settecentesca fontana del Contarini, che si prese tuttavia la rivincita ritornando al suo posto nel 1922; la “scura, elegante architettura” è l’austero palazzo della Ragione, costruito nei primi anni del Duecento e più volte rimaneggiato, simbolo della sovranità comunale

Sulla piazza nessun segno di vita all’infuori dei vetri debolmente illuminati di un piccolo caffè e di una drogheria che in vetrina esibiva, a mo’ di gioielli, brillanti bottiglie di vetro verde e arancio cupo.

Il porticato scamozziano in marmo bianco di Palazzo Nuovo, oggi sede della Civica Biblioteca, ospitava allora il Regio Istituto Tecnico

Trassi un profondo respiro. Da molto tempo non entravo più di notte in un’antica cittadina italiana, adescato da oscurità presaghe, sorpreso dal repentino apparire di nobili architetture e salutato dall’umidità della pietra degli stretti vicoli.

Nella locanda mi venne assegnata una camera pavimentata in cotto rosso, grande come un palazzo, e mi fu dato del tenero arrosto di montone. Il vino era buono, e l’oste aveva una bella cognata.

Hesse prese probabilmente alloggio all’Albergo del Sole, l’unico allora collocato in Piazza Vecchia, dove inizia la Corsarola. Oggi come allora l’albergo espone la bella insegna del sole in ferro battuto, dorato e colorato vivacemente

Ciò nondimeno uscii subito.

La pioggia sgocciolava soavemente sui lastroni di pietra, su cui si cammina tanto bene.

Il Garibaldi era là, serio e un po’ abbacchiato, sul suo alto piedistallo, custodito da quattro leoni dall’aria assai truce. A tre ficcai nelle fauci urlanti di bronzo una monetina da due soldi che l’indomani ritrovai al medesimo posto.

Nel frattempo avevo aggirato il monumento ritrovandomi così davanti a un meraviglioso palazzo il cui pianoterra formava un imponente portico col soffitto voltato, pilastri a spigoli verso l’esterno e belle colonne leggere all’interno.

Lo attraversai. Sul lato sinistro vidi una maestosa scalinata bianca che portava al Duomo..

e di fronte un’altra grande chiesa dall’aspetto fantastico, cupole indistinte nel cielo notturno..

Un portale molto antico, presumibilmente gotico, con figure entro piccoli tabernacoli;

di fianco, la facciata ricca e turgida di una cappella. Il tutto immerso nella foschia crepuscolare, il tutto carico di presagi e di promesse.

Pregustai sorprese affascinanti.

Andai oltre, eccitato e pieno di aspettative per il mattino seguente, senza alcun desiderio di guastarmi l’attesa con la lettura di un Baedecker o Cicerone.

 

L’indomani la prima passeggiata mi riportò sulla piazza, che ora, nella luce del mattino, mantenne tutte le promesse della notte.

Solo il Garibaldi usciva perdente, se ne stava tapino sul suo zoccolo troppo grosso, mentre i quattro leoni feroci non solo, come allora vidi, avevano un’aria stolida, ma fortunatamente erano anche molto più piccoli.

 

Il palazzo con il portico, a volte, ospitava la famosa biblioteca di Bergamo, che conserva alcune centinaia di incunaboli; avrei anche potuto vederli se solo ne avessi avuto voglia.

Dal 1843 al 1927 il Palazzo della Ragione ospitò la Biblioteca Civica di Bergamo, già ai tempi di Hesse annoverata tra le prime dieci biblioteche italiane per ricchezza e qualità dei fondi conservati

Un’ardita scalinata lunghissima con soffitto a cassettoni sorretto da colonne costituiva l’accesso alla biblioteca.

La lasciai dov’era e, sperando in nuove sorprese, percorsi il porticato passando davanti a una briosa statua barocca raffigurante il poeta Tasso..

..e proprio lì vidi due chiese che la notte dianzi erano emerse dal buio come sagome spettrali: nel parco sole del mattino erano limpide e coraggiose.

Dall’altra parte il Duomo, pomposamente gaio e chiaro con una larga gradinata maestosa davanti alle porte;

vicino, di fronte a me, Santa Maria Maggiore e, attigua, con le sue bizzarre e sfrenate decorazioni, la Cappella del Colleoni.

Davanti al portale della chiesa, un piccolo avancorpo molto alto: sei modesti gradini di pietra, un largo arco romanico a tutto tondo poggiante su due colonne sorrette da leoni, e concluso da una sopraelevazione gotica, una specie di piccolo vano grazioso a tre nicchie e in ciascuna una antica scultura, quella mediana a cavallo. Al di sopra uno stretto baldacchino cuspidale, un piccolo ambiente con due lucide colonnine leggiadre e con tre figure di santi. Il tutto di una grazia contegnosa e di una innocenza selvatica che emanava quel fascino proprio dell’anonimato; perché questo genere di forme artistiche, simile peraltro all’arte dei popoli primitivi, non sembra scaturito da una sola mente, ma piuttosto dal pensiero e dal sentimento di un’intera generazione e di un’intera comunità”.

Un’intera comunità che ha fatto del protiro, luogo simbolo di accesso alla principale chiesa cittadina, un’espressione viva e scultorea della propria identità mitica e religiosa.

Il protiro di Santa Maria Maggiore, opera di Giovanni da Campione e della sua bottega. Le figure dei santi che lo sovrastano sono i protettori di Bergamo: Alessandro, Vincenzo, Barnaba. Più in alto, sotto lo stretto baldacchino cuspidale, sono collocate Maria Vergine, Grata e Adleida: statue di cui si ignora la provenienza, e che gli studiosi non sanno attribuire né a un artista né a un periodo certi

“Stavo per entrare nella cattedrale, ma il mio sguardo fu catturato dalla dovizia decorativa della facciata della Cappella Colleoni.

La Cappella Colleoni, eretta da Giovan Antonio Amedeo nel 1472 per volontà del condottiero Bartolomeo Colleoni, che aveva raggiunto ricchezza e celebrità al servizio di Venezia

Il suo disegno originario doveva essere molto bello e lineare, una ripetizione elegante dello schema classico: portale e due finestre laterali, sopra l’ingresso un grande rosone e, a conclusione, una leggera e nitida galleria di gentili colonnine.

Ora però i conti, non si sa perché, non tornano. L’insieme non è armonico, non è né pulito né perfetto; tra la facciata e la cupola c’è uno spazio vuoto e non risolto (…). Ah, talvolta mi sento davvero allargare il cuore quando mi capita di cogliere in fallo gli italiani che, di certo, sono spesso spavaldamente virtuosi e magari superficiali, ma che in architettura e nella decorazione sono tuttavia incorsi raramente in quelle funeste disavventure che da noi sono invece pressoché la regola.

Nemmeno quel tatuaggio mi mise in fuga, sicchè entrai all’interno della cappella dove il generale veneziano Colleoni è sepolto insieme alla figlia e dove ancor oggi si officiano messe in suffragio della sua anima, in virtù di un lascito di milioni donato dallo stesso pio condottiero. Al di sopra del suo sacello, in un’ombrosa nicchia nella parete, il generale dorato cavalca un destriero pure dorato, affascinante nella sua grandezza e dignità, magari un po’ rigida.

Sulla parete di fianco la sua giovane figliola, delicata e minuta, riposa scolpita nella pietra su un cuscino pure di pietra e, resa immortale dall’ignoto artista, dorme ignara incontro alla stessa eternità e fama del suo grande padre.

Pieno di curiosità, mi affrettai a raggiungere la grande chiesa superando i due leoni rossastri che sorreggono le colonne dello stretto protiro.

Particolare del protiro della basilica di S. Maria Maggiore

Entrai. Subito mi sentii avvolgere da una luce e da un profumo religiosi e insieme solenni.

 

Una penombra dorata filtrava sui dipinti della pala dell’altare e sui pallidi affreschi. Nelle nicchie e lungo i muri ovunque opere scultoree e d’intaglio di ogni sorta; molto splendore e molta ricchezza profusi in ogni dove.

Quella chiesa la si attraversa: si respira l’ardore e la consapevolezza di un passato orgoglioso, si saluta al rapido passaggio un volto noto scolpito nella pietra, si ammira un arazzo. Si va avanti e, procedendo, si dimentica già ciò che si è appena visto. Solo un suono rimane: l’armonia di una magnificenza satura e di una penombra venerabile.

Una cosa però non si dimentica più: i seggi del coro di questa chiesa singolare. Tutti i i dorsali di questi seggi (sono parecchie dozzine), sono gli stalli del coro di questa stupefacente chiesa. Gli schienali, e sono parecchie decine, sono intarsi in legno, quadro dopo quadro, su disegno di Lorenzo Lotto e altri, realizzati da artisti bergamaschi in un paziente lavoro di intaglio e commettitura. A queste formelle hanno lavorato nonni, figli e nipoti per oltre centocinquant’anni.

Una delle preziose tarsie custodite in S. Maria Maggiore, realizzate da Giovan Francesco Capoferri su disegni di Lorenzo Lotto.  Le quattro grandi tavole intarsiate sul fronte esterno dell’iconostasi erano accessibili ai fedeli solo in occasione delle cerimonie solenni

E non si rimpiange né il tempo né la fatica che questo lavoro è costato. Difficile vedere opere che comunichino tanta gioia come quest’arte fedele, raffinata e inconsueta: legni bruni, gialli, verdi bianchi, mielati, tutti della medesima vaporosità e con la medesima patina del tempo, sommessamente brillanti in tonalità calde e piene, un benefico, tiepido bagno per la vista (…).

Tarsia realizzata da Giovan Francesco Capoferri su disegni di Lorenzo Lotto

 

Tarsia realizzata da Giovan Francesco Capoferri su disegni di Lorenzo Lotto

Diedi un’occhiata all’interno del Duomo: bianco e oro e uno splendore straordinariamente sposato alla sobrietà.

 

Uscito, seguii l’invito di un raggio di sole su una piccola piazza sghemba in leggera salita, dove sull’acciottolato spuntavano fili d’erba appuntiti di un verde luminoso..

..e dalle finestre aperte di un grande palazzo uscivano le voci un po’ monotone di alcuni scolaretti.

Arrivai, più oltre, in un silenzioso angolino chiamato pomposamente Piazza Terzi.

Un lato di questa piazzetta era formato dall’alto muraglione di un giardino pensile. Il muro, pesante e grezzo, era però deliziosamente interrotto da un nicchione che ospitava una bella figura femminile armoniosa nelle fattezze, forse una Cerere, e che si concludeva con una galleria compresa fra due putti con cornucopia e spighe.

Mi fermai estasiato: uno degli angoli più belli d’Italia, una delle tante piccole sorprese e gioie per le quali vale la pena di viaggiare.

E appena mi girai, dirimpetto alla statua notai il portone aperto di un palazzo. Sotto un’alta volta nitida si vedeva una corte con piante e lampioni appesi al soffitto, magicamente conclusa da un’elegante balaustra. Due grandi statue dal puro contorno si libravano quasi nell’aria, evocando, lì in quell’angolo racchiuso dalle murature, il senso presago dell’infinito e della vastità dello spazio aereo al di sopra della pianura del Po”.

Nel cinquecentesco palazzo Terzi aveva soggiornato ai primi dell’Ottocento il celebre scrittore francese Stendhal, del quale aveva scritto : “Il paesaggio di Bergamo è davvero il più bello che io abbia mai visto”

§§§

Hesse si reca poi nella città bassa e dopo aver visitato l’Accademia Carrara si concede una pausa per bere due caffè, meravigliandosi  “di come gli italiani riuscissero, nonostante le loro elevatissime tasse doganali, a fare per pochi soldi un caffè che da noi non si trova nemmeno nei locali eleganti”…

Dopo essersi “abbastanza annoiato nella città moderna”, s’incammina verso l’alta città gironzolando senza meta e senza fretta per stradine.

“L’importante non è la meta, bensì il viaggio”, affermava  Siddartha in una riflessione scaturita dal suo autore.

Superato Colle Aperto e giunto alla porta di Sant’Alessandro, dato uno sguardo a case dipinte di rosa o di verde, inondate dalla luce del tramonto…

…si ritrova nella piccola sala d’aspetto della funicolare che conduce a San Vigilio, inaugurata un anno prima, nell’agosto del 1912.

“Era quello che mi ci voleva”.

Dalla funicolare Hesse ammira il graduale svelarsi dell’antica città, dei tetti, dei campanili e delle torri; poi si lascia avvolgere dalla quiete dei luoghi godendosi il tepore della giornata che declina verso il tramonto.

“Presi la prima telecabina in partenza e dopo pochi istanti mi si dischiuse un panorama stupendo e del tutto diverso: sospeso al di sopra della città sulla piattaforma della funicolare, vidi profilarsi, tra me e la verde pianura che la lontananza sfumava, la sulhouette compatta e altezzosa di Bergamo vecchia, con le sue torri e le sue cupole, le sue mura e i suoi tetti. Un pallido sole serale sfiorava le cupole…

Di fronte alla stazione c’era una bassa costruzione che ospitava una locanda.

L’edificio era poco profondo e un’occhiata attraverso la porta a vetri mi fece immaginare sul lato opposto una vista incantevole, cosicchè decisi di entrare.

La celebre “Antica Trattoria Isola Bella”, sul colle di San Vigilio, dove sostò Hermann  Hesse

Prima però mi avventurai per un tratto sulla stradicciola che si snoda lungo il crinale della collina”.

Da San Vigilio Hesse si avvia verso la scaletta dello Scorlazzone, la ripida via gradinata che si diparte dalla chiesa e calando ripida verso i Torni si insinua tra gli orti ben coltivati.

I fianchi delle colline alla cui estremità sorge la Bergamo antica erano profusi di orti, terrazzamenti con vigne, filari di piante da frutta, ciliegi e mandorli, galline in libertà, cascinali che nel volgere di qualche decennio vennero trasformati in residenze di pregio, le cosiddette “ville di delizia”.

La trama minuta delle scalette, dei sentieri e dei viottoli, era percorsa da un continuo andirivieni di contadini, popolani, viandanti, muli, cavalli, asini…

 

Mentre cercava i vasti panorami, le ”azzurre lontananze” della pianura che si svelavano man mano, al suono delle note incerte di un pianoforte rallentò il passo senza andare oltre.

“Davanti a una linda villetta mi fermai ad ascoltare il suono esitante di un pianoforte. C’è sempre uno strano fascino nell’ascoltare la musica che proviene da una casa sconosciuta in una città sconosciuta; è una sensazione che evoca nostalgiche visioni di una felicità e di un’intimità cui siamo estranei.

Sostai a lungo cercando di immaginare chi stesse suonando. Certamente una fanciulla, forse di quindici o di sedici anni, che andava a scuola giù, nella città nuova, e che da poco aveva il permesso di esibirsi al pianoforte in occasione di ricorrenze familiari.

Inaspettatamente il portone si aprì e ne uscì un signore molto cortese che mi chiese che cosa desiderassi. Io gli dissi che avevo semplicemente ascoltato il pianoforte, ma, dal momento che aveva aperto, gli sarei stato grato se mi avesse lasciato dare un’occhiata al suo giardino. Il signore sorrise e si presentò: era un professore…”.

ll padrone di casa era il prof. Giuseppe Alberti, insegnante all’istituto tecnico. Gli presentò l’autrice della melodia, la figlia di dodici anni, e incominciarono a parlare: ”D’inverno, mi raccontarono, se ne stavano spesso seduti lassù, al sole, mentre la pianura tutt’attorno era inghiottita da un mare di nubi”.

La lieve foschia di quella giornata non gli impedì di scorgere la pianura, ai cui margini si elevano “montagne di un azzurro cupo, ispirando un profondo senso di spazio e lontananza”.

Ad un tratto, un raggio di sole svelò una “piccola forma bianca, infinitamente lontana e irreale”, un ”puntino gaio e luminoso” perduto nell’infinito della pianura.

Era il Duomo di Milano.

“Solo ora vedevo in tutta la sua estensione e maestosa dignità l‘immensa pianura dell’Italia settentrionale. Imponente e sconfinata come un mare, era verde e luminosa nelle vicinanze, mentre in lontananza assumeva mille diverse tonalità, dal grigio, al turchino, all’azzurro sempre più intenso punteggiato da una bianca miriade di cittadine, villaggi, monasteri, casali, fattorie, campanili, ville, fino a sfumare all’orizzonte in una distesa di blu senza fine”.

 

 

 

Note

Nel “Bildebuch” (“libro di immagini”, uscito nel 1926) sono contenute le annotazioni di viaggio di oltre un ventennio di Hermann Hesse. Il testo originale tedesco è pubblicato in H. Hesse, Gesammelte Schriften, Frankfurt am Main, Suhrkam, 1968, vol. III, pp. 780-785. La traduzione italiana della descrizione di Bergamo, qui riportata sino al soggiorno in Bergamo Alta, è apparsa in H. Hesse, L’azzurre lontananze, traduzione di Luisa Coeta, Milano, Lugarlo 1980.