Clanezzo, crocevia di frontiera

Reportage fotografico di Maurizio Scalvini

Antico borgo medievale all’inizio della Valle Brembana, a 16 km da Bergamo, in uno spazio che sta tutto in una mano Clanezzo conserva una nutrita serie di testimonianze storiche, che nulla ha da invidiare ai borghi blasonati della Bergamasca. In questo minuscolo angolo, adagiato su un terrazzo fluviale all’ombra del monte Ubione, affacciato su una forra che si specchia in acque smeraldine, si concentrano oltre mille anni di storia, che val la pena raccontare.

Se il castello e l’antichissimo ponte di Attone ci catapultano repentinamente nell’alto Medioevo, qualche secolo dopo, quello stesso castello ci riporta all’aspra contesa tra guelfi e ghibellini, quando, accoccolato sul dirupo alla confluenza dell’Imagna, scrutava il nemico avanzare sul millenario ponte ad arco che scavalca il torrente. Ma qui c’era anche un traghetto a fune tesa che faceva la spola tra le due sponde del Brembo – simile a quello di Imbersago e a quello un tempo in uso a S. Pellegrino -, che giustifica la presenza dei caratteristici edifici del Porto e, sull’altra sponda, del “Casino”: un grosso caseggiato in pietra ancora ben visibile a Villa d’Almè, sullo stradone  che immette in Val Brembana. Il periodo della dominazione veneziana è invece ben rappresentato dalla Dogana e dal maglio.

Una manciata di edifici e di strutture accomunati da un unico denominatore: la particolare posizione del sito alla confluenza delle valli Brembilla, Imagna e Brembana – là dove l’Imagna si getta nel Brembo -, che ha fatto di Clanezzo terra di confine: a destra della vallata con gli Almenni (a loro volta terra di confine: Lemine, dal latino “ad limina”, “la soglia per”), con il torrente Imagna a segnare nettamente i confini; a sinistra, con il torrente Brembilla; di fronte, sulla riva opposta del Brembo, con la Valle Brembana, e, alle spalle, con il pendio della montagna.

Lasciata dunque la strada della Valle Imagna e oltrepassato il ponte novecentesco, ci si ritrova nell’incantevole fiordo che si annuncia con il placido gorgoglio delle sue acque: la mulattiera acciottolata che fronteggia il castello si abbassa con ampi tornanti tra la vegetazione, lasciando alle spalle i rumori della strada per inoltrarsi nel cuore del nucleo storico del borgo, all’interno di un microcosmo che ancora conserva la sua unicità.

La nostra storia potrebbe cominciare dal millenario ponte in pietra affacciato sull’Imagna, che incontriamo lungo la via gradinata protesa verso il Porto. Ma sarebbe riduttivo, perché grazie alla particolare posizione geografica del sito, naturalmente difeso, Clanezzo fu frequentato sin dalla preistoria, come testimoniano i ritrovamenti che ne fanno un “giacimento” preistorico ed antropologico di enorme interesse per gli studiosi della materia.

Le frequentazioni si infittirono con l’arrivo dei Romani grazie alla vicinanza con Almenno (l’antica Lemine), divenuto il principale centro politico-amministrativo della zona grazie alla presenza di una importante via militare che collegava Bergamo con Como e grazie alla presenza di un ponte monumentale sul Brembo (il cosiddetto “Ponte della Regina”), eretto per il passaggio di truppe, uomini e merci.

Intorno al ponte, divenuto presto un importante crocevia di traffici, convergevano numerose strade, lungo le quali sorsero villaggi, ville, luoghi di culto. Strade che avevano al loro centro Almenno, dove sorgeva una CORTE posseduta personalmente dall’imperatore romano e che fungeva da luogo di controllo civile, militare ed economico di larga parte del territorio circostante.

Il Ponte della Regina (ponte d’età Romana di cui rimangono i resti di due piloni) superava il fiume Brembo ad Almenno S. Salvatore, all’altezza della chiesa della Madonna del Castello, raggiungendo la sponda di Almè. Dove oggi sorge la chiesa  vi era, fin dall’epoca Romana, il sacro palazzo, di cui rimangono numerosi resti di pavimenti e tegoloni (Fotografia Maurizio Scalvini)

Fin dall’epoca romana dunque, l’importante centro di Almenno esercitò il potere politico sulle zone circostanti, compreso Clanezzo (1), che con la vicina Ubiale fu pertinenza di Almenno fino al XIII secolo, subendone l’influsso almeno sino a che non si instaurò a Bergamo la dominazione Veneziana.

L’importanza di Almenno si mantenne anche in seguito alla decadenza dell’impero romano e alle invasioni barbariche, quando i Longobardi vi insediarono una Corte Regia (2).

In seguito Almenno passò nelle mani di nuovi signori, divenendo dapprima Corte Franca (3), per poi entrare a far parte, dall’892 al 975, della contea di Lecco: ed è a questo punto che viene a stabilirsi un legame più stretto tra Lemine e Clanezzo, dal momento che il conte Attone di Guiberto (957- 20 giugno 975), ultimo dei Conti di Lecco a possedere la Corte di Almenno, fa edificare verso la fine del X secolo il cosiddetto Ponte di Attone, il bellissimo ponte in pietra sull’Imagna, che unisce Almenno con Clanezzo e che per secoli costituirà l’unica via di accesso alla Valle Brembana.

Il Ponte di Attone domina altissimo con le sue rozze pietre squadrate le verdi acque imprigionate fra le rocce e la ricca vegetazione. Costruito con un’unica arcata a “schiena d’asino”, con le sue spalle ben ancorate alle rocce degli argini, attraversa il torrente Imagna nel punto dove esso si immette nel Brembo. La tradizione lo vuole edificato nel X secolo, anche se il primo documento che ne attesta l’esistenza risale al 3 febbraio 1235 (Fotografia Maurizio Scalvini)

Il Ponte di Attone è documentato solo dal 1235, ma un collegamento tra Almenno e il territorio sulla riva destra del Brembo doveva esistere già da secoli, in quanto il vasto comprensorio territoriale della Corte Regia di Almenno, prima Longobarda e poi Franca, si estendeva fino a Brembilla, Zogno e Sedrina, per raggiungere i quali era necessario superare  l’Imagna a Clanezzo – cosa che doveva avvenire mediante passerelle fatte di tronchi d’albero o di cordame -, quindi percorrere la cavalcatoria che portava ad Ubiale, dove il torrente Brembilla poteva essere superato facilmente a guado.

Anche la gola di Sedrina, dove un ponte è documentato solo nel 1178, poteva essere superata tramite una rudimentale passerella: era, questo, il passaggio obbligato per andare da Almenno a Brembilla o a Zogno, dove alcuni terreni erano ancora di proprietà della Corte Signorile di Almè agli inizi del 1100. Non a caso infatti, il ponte in pietra di Attone e quello di Zogno presso Sedrina sono i primi ponti della Valle Brembana a essere citati nella Storia (4).

Nella parte centrale del Ponte di Attone si notano ancora i pilastri a foggia di merli che un tempo sorreggevano i cancelli che sbarravano il passaggio (Fotografia Maurizio Scalvini)

La valletta di Clanezzo per le sue caratteristiche era una fortezza: a oriente la difendeva il Brembo, a mezzogiorno il solco dell’Imagna, a settentrione una catena di monti, oltre al fatto che la sua particolare posizione, alla confluenza delle valli Brembilla, Imagna e Brembana, ne faceva un caposaldo altamente strategico per le comunicazioni tra l’Agro di Almenno e le Valli e per il controllo militare di tutta l’area.

IL CASTELLO DI CLANEZZO E LA ROCCA SULL’UBIONE

Vuole la tradizione che nel contempo Attone, che non si sentiva sicuro nella roccaforte di Almenno, provvedesse a realizzare un sistema difensivo facendo erigere, sui bordi del pianoro di Clanezzo, un Castello protetto da un profondo dirupo.

Sorto su un pittoresco poggio circondato da scogli, da vigneti e da fitte boscaglie, in mezzo al rumore incessante dei torrenti, il Castello di Clanezzo, già fortezza difensiva sul finire dell’alto medioevo, era difeso anche dall’aspra natura del territorio, affacciandosi su una forra profonda una cinquantina di metri e larga altrettanto (Fotografia Maurizio Scalvini)

Forse per timore o preveggenza, Attone ordinò anche che gli costruissero una rocca sul monte Ubione – che controllava l’accesso alla Valle Imagna -, allo scopo di prevenire e di contrastare qualunque assalto dalla pianura o dalle montagne: il ponte fatto costruire da Attone, conte di Lecco e di Almenno, avrebbe quindi consentito una via di comunicazione privilegiata con la fortezza di Clanezzo.

Sulla vetta del Monte Ubione, spartiacque tra le valli Imagna e Brembana e osservatorio ottimale sulla pianura e sulle valli, Attone di Guiberto, ultimo dei Conti di Lecco a possedere la Corte di Almenno, verso la fine del X secolo fece edificare una rocca provvista di torricella, dove vegliava una sentinella (Fotografia Maurizio Scalvini)

 

Veduta dal monte Ubione verso la Valle Imagna (Fotografia Maurizio Scalvini)

 

Veduta dal monte Ubione verso Sedrina, Ubiale e Zogno, in Valle Brembana (Fotografia Maurizio Scalvini)

 

Veduta dal monte Ubione verso le pianure (Fotografia Maurizio Scalvini)

Dagli storici padre Donato Calvi e l’abate Gian Battista Angelini apprendiamo che quando morì, nel 975, essendogli mancato il figlio Guidone, Attone donò la Corte di Almenno al vescovo di Bergamo Reginfredo e il possesso ai vescovi venne più volte riconfermato in atti successivi (anni 1014 e 1046). Da atti firmati nella corte stessa, si ricava che anche i Vescovi vi risiedevano e forse è per questo che nel suo territorio si trovano le tre chiese di S. Tomé, della Madonna del Castello (chiesa plebana) e di S. Giorgio, risalenti al dominio vescovile.

Il vasto feudo della Corte di Almenno rimase in possesso dell’Episcopato di Bergamo fino al 3 marzo 1220, quando i dritti feudali passarono al nascente Comune: la rocca sull’Ubione aveva assunto una tale importanza per il controllo del territorio, che il vescovo di Bergamo, dopo una lunga controversia con il comune di Almenno, cedette alcuni diritti al comune ma riservò per sé il monte Ubione con la sua rocca (4).

Attone, conte di Lecco, signore di Almenno e di tutto il circondario disponeva di ricchissimi possedimenti in diverse località, ma sembra avesse particolare predilezione per la Corte di Lemine, dove volle chiudere i suoi giorni. Venne sepolto, come da sua volontà, nella chiesa di S. Salvatore (oggi posta all’interno del Santuario della Madonna del Castello), dove, nella terza campata, vicino ai gradini della cappella di S. Giovanni Battista, alla profondità di 20 cm circa, si è trovato un pezzo di lastra di marmo che potrebbe essere parte del suo sepolcro, che doveva essere monumentale. Dell’esistenza del suo sepolcro e di quello della moglie Ferlinda vi è prova negli scritti di Bartolomeo Ossa (Fotografia Maurizio Scalvini)

LE SANGUINOSE LOTTE TRA GUELFI E GHIBELLINI

Dalla metà del 1300 fino ai primi decenni del 1400 il territorio bergamasco fu teatro di acerrime lotte fratricide delle opposte fazioni di guelfi (che parteggiavano per Venezia) e ghibellini (sostenitori dei Visconti di Milano) (5), che si scontrarono aspramente nelle nostre valli (6).

Più che di una scelta ideologica verso il Papa o l’Imperatore, si trattava di faide familiari o alleanze trasversali che erano utilizzate per contendersi il potere e i favori dei Visconti milanesi, padroni della bergamasca: Bernabò in particolare, aveva dato carta bianca e l’impunità ai ghibellini, dando loro la libertà di uccidere qualunque guelfo e di bruciargli la casa (7). La sua signoria nei confronti nei nemici fu la più funesta, oppressiva e persecutrice: fu sua l’invenzione di fare uso dei cani non per difesa o guardia ma per assalire gli uomini.

Le lotte tra i vari paesi e le famiglie avvenivano spesso con razzie e distruzioni delle contrade, ad opera di manipoli di uomini che si spostavano sulle vie di comunicazione. Le strade erano sempre tracciate in alto, come del resto in alto erano le contrade principali, al riparo da possibili attacchi e più facilmente difendibili. I fondovalle erano poco frequentati, impervi e poco difendibili, oltre che luoghi ideali per assalti ed imboscate.

Erano così andate sorgendo, in punti strategici, avamposti a difesa delle valli, presidiati da piccole squadre di soldati ed anche la vetta del Canto Alto aveva il suo maniero.

Veduta del Canto Alto, ripreso dagli ex bacini della Centrale elettrica sul monte Ubione. Nel 1978, durante i lavori per la posa della nuova croce, gli alpini rinvennero i resti di un’antica torre presidiaria edificata ai tempi delle lotte tra guelfi e ghibellini: dalla vetta del Canto Alto l’ampia veduta permette infatti di spaziare dalla pianura ai colli, dall’imbocco della Valle Seriana fino alla media Valle Brembana, ed ogni spostamento di armati poteva essere avvistato e prontamente segnalato con fuochi e fumate alle scolte alleate sul monte Ubione e di Cà Eminente. Celestino Colleoni attesta che nel 1383 un ghibellino, Zanone de Cropello, fece erigere sulla vetta del Canto Alto un maniero, detto di Pizzidente, sui resti di una bastia in legno, arsa durante l’assalto sferrato nel 1362 dal guelfo Merino dell’Olmo, che teneva la sua fortezza a Malpasso presso Endenna. Merino fu catturato nel 1378 dai capi ghibellini, che lo imprigionarono nella Rocca di Bergamo e ve lo lasciarono a morire. Il Pizzidente fu poi assalito e raso al suolo dai guelfi di Sorisole e di Ponteranica nel 1404. Le lotte di fazione dovettero infuriare anche a Petosino, dove i ghibellini Se Pilis avevano un castello, e a Ponteranica, attorno alle mura della Moretta, un munitissimo fortilizio guelfo, teatro degli scontri nel 1437 con Nicolò Piccinino, che, al soldo dei milanesi, tentò di strappare Bergamo a Venezia (Fotografia Maurizio Scalvini)

 

Zoom sulla vetta del Canto Alto, visto dagli ex bacini della Centrale elettrica sul monte Ubione (Fotografia Maurizio Scalvini)

A quei tempi Clanezzo faceva parte (insieme agli attuali comuni di Brembilla, Gerosa, Blello, Ubiale, Berbenno, Strozza e Capizzone) della Val Brembilla, (8), la roccaforte ghibellina, che non rassegnandosi all’avvento del nuovo regime Veneziano, era una vera e propria spina nel fianco per la  Serenissima. Formavano una vasta enclave ghibellina intorno a Clanezzo anche la Val Taleggio, Sedrina, Stabello e la sezione meridionale della Valle Imagna, mentre di parte guelfa erano la Val S. Martino, con Gerosa ed Almenno superiore.

Tra i terribili brembillesi, spiccavano per importanza due potenti famiglie di antico lignaggio: quella dei Dalamasoni di Clanezzo (menzionata dal 1189) e quella dei Carminati di Ubiale (menzionata dal 1246), entrambe di fede ghibellina (9).

Alla famiglia Dalmasoni, che in quegli anni vide tra i suoi esponenti i terribili Beltramo e Unguerrando, apparteneva il Castello di Clanezzo, mentre l’ormai divenuto maniero del monte Ubione era di proprietà della famiglia Carminati, che, molto potente e amica ai Visconti, dal castello terrorizzava i guelfi dei paesi vicini. Isolato e minaccioso sul culmine del monte, a cavaliere delle due valli, appariva a chi lo contemplava da lontano come un inviolabile nido di umani avvoltoi, dal quale gli armigeri piombavano inaspettati e in cui riparavano con la preda.

Nelle “Effemeridi” del Calvi, al 31 gennaio del 1360 si ricorda che Bernabò vi manteneva un castellano, diciassette soldati e due cani, mentre le cronache del 1395 narrano l’uccisione di un balestriere ad opera dei guelfi d’Imagna.

In lontananza, la vetta del monte Ubione, dove sorgeva il Castello dei Carminati, così descritto nel 1841: era un massiccio quadrato irregolare con il vertice merlato. Sul lato orientale si sollevava una torre di una solidità straordinaria, come dimostravano le muraglie grosse sei piedi. Sulla facciata nord-est si apriva l’ingresso chiuso a saracinesca e con un ponte levatoio, “ed era così sicuro che solo le donne sarebbero state sufficienti a difenderlo et tener fuori un grande et numeroso esercito”, scrive Bortolo Belotti ne “La cacciata dei Brembillesi” (Fotografia Maurizio Scalvini)

A completare la difesa della Valle, rendendola pressoché inespugnabile, vi erano altri edifici dei Carminati – “la più honorata et più temuta famiglia di tutta la valle di Brembilla” -, come il Castello di Casa Eminente a Laxolo (così chiamato perché sorgeva su un alto poggio e identificabile con una costruzione in contrada Torre), ed altri caposaldi strategici per il controllo della zona tra la bassa Val Brembana e la Valle Imagna (come il Castello di Mortesina a Capizzone).

Forti di un maggior numero di uomini e fortificazioni, difesi dalla natura del luogo e legittimati dalla prepotenza dei Visconti, a lungo i temuti signori della Val Brembilla avevano sostenuto scontri con alcuni centri della Val Brembana inferiore e con con la Valle Imagna, dominando saldamente e commettendo impunemente sulle contrade nemiche le più crudeli rappresaglie, che si traducevano atti di inaudita ferocia elencati dalle cronache del tempo come “homicidi, percosse, ferite, incendii, rubarie, iniurie, villanie, adulterii, stupri, violentie, invasioni delle cose e delle terre, saccheggiamenti”.

Un episodio narra le terribili gesta del ghibellino Enguerrando Dalmasano (una  recente storpiatura dei Dalmasoni), signore di Clanezzo e più potente avversario dei guelfi d’Imagna, il quale, ottenuta dai Carminati la fortezza sul monte Ubione, da quel luogo scendeva rovinoso con i suoi armigeri recando incendio e rovina nelle terre nemiche. Stanco di rappresaglie, l’agguerrito condottiero guelfo Pinamonte de Pellegrini da Capizzone, organizzò la rivolta. Era un giorno d’aprile del 1372. Enguerrando stava preparando scorrerie e saccheggi a Mazzoleni. Le spie di Pinamonte lo informarono di un movimento inusuale di militi armati sul monte Ubione. Sull’imbrunire si accesero i falò sulla vetta di Valnera, cui rispose un’altro sulle rupi di Bedulita e poi un altro sui macigni della Cornabusa. Erano segni convenzionali: tutta l’Imagna ne comprese il significato. Favoriti dalle tenebre i valdimagnini si radunarono e si nascosero in località Pasano vicino a Cepino, rimanendo in attesa del ritorno dei ghibellini dal sacco di Mazzoleni. Quando, verso mattina, i predatori fecero ritorno all’Ubione con il loro carico di vacche, pecore, derrate e masserizie, Pinamonte li attaccò veloce come una folgore: impreparati e sorpresi, i ghibellini subirono una rovinosa disfatta. Enguerrando Dalmasano a malapena poté sfuggire alla strage e rifugiarsi, umiliato e vinto, nella sua fortezza. Altri episodi si susseguirono, finché il ghibellino Enguerrando venne ucciso da Pinamonte. Beltramo, figlio di Enguerrando, riconquistò il maniero di Clanezzo imprigionandovi il Pinamonte, che lasciò a morire nelle prigioni del Castello.

Le antiche prigioni del Castello di Clanezzo in una vecchia fotografia pubblicata da Bortolo Belotti

La leggenda racconta che, fino alla fine del Concilio di Trento, il fantasma di Pinamonte tornò, ogni anno alla mezzanotte del 20 marzo, nel castello dell’odiato nemico. Poi i guelfi ritornarono in massa a scacciare i ghibellini ma questi, serrate le fila, rioccuparono Clanezzo attestandosi saldamente alla rocca di Ubione e a Cà Eminente.

Castello di Clanezzo prima degli ultimi restauri

 

Il Castello di Clanezzo oggi (parte retrostante) – (Fotografia Maurizio Scalvini)

Attorno al Castello di Clanezzo fiorirono ferali leggende, che narravano di orribili e cruenti prodigi di cui famoso è quello dei serpenti. Si racconta che, durante un prolungato assedio, gli assalitori catturarono centinaia di serpenti, che, chiusi in sacchi di pelle e in fasci di erbe, introdussero nel castello attraverso le feritoie, complice una notte senza luna. Ma i serpenti strisciarono fuori dal castello, mettendo in fuga ed uccidendo molti degli assalitori. Nella valle si diffuse la voce che i ghibellini avessero tanto veleno in corpo, che le vipere stesse avevano preferito fuggire, nel timore di rimanere esse stesse uccise avvelenate (10).

LA CACCIATA DEI BREMBILLESI

La morte di Gian Galeazzo Visconti, avvenuta il 3 settembre del 1402, segnò una svolta importante nella storia delle nostre valli: il successore Giovanni Maria, debole e politicamente incerto, affidandosi a condottieri infidi permise che i vasti domini dello stato di Milano venissero sgretolati nel breve volgere di pochi anni e finissero in gran parte nelle mani di Venezia, che poteva garantire maggiore tranquillità e sicurezza interna (11).

Con l’avanzata dei Veneziani i Brembillesi furono tra i più tenaci oppositori al nuovo dominatore; le azioni scellerate culminarono in quello che le cronache ricordano come lo scontro più feroce avvenuto fra le due fazioni: quindici anni dopo l’occupazione del territorio bergamasco, Venezia non aveva ancora domato i bellicosi brembillesi. Un mattino, armati di tutto punto e sventolando i loro gonfaloni, gli uomini di Brembilla scesero a Bergamo e in atto di sfida sfilarono attorno alle mura della città lanciando insulti a Venezia ed inneggiando ai milanesi. Una spacconata o una intimidazione? Certo fu la goccia che fece traboccare il vaso. Prontamente riferita al governo della città lagunare, la bravata fu stigmatizzata dal Senato, che dettò precise istruzioni affinché la beffarda resistenza fosse stroncata una volta per tutte. Non osando affrontare i brembillesi nella loro valle, munita di imprendibili fortezze, Venezia ricorse ad uno stratagemma: invitò a Bergamo i capi di tutti i più importanti paesi della provincia per dirimere eventuali questioni confinarie. In realtà il convegno permise di arrestare facilmente i capi brembillesi, caduti nel tranello.

Con deliberazione del 19 gennaio 1443 fu quindi decretata la messa al bando (esilio) di tutti gli abitanti della Val Brembilla e stabilito che entro tre giorni tutte le persone sgombrassero con le loro cose andando ad abitare dove credessero, purché non vi entrassero più per i successivi cento anni. Chi fosse restato o fosse rientrato sarebbe stato immediatamente ucciso. Nessuno vi restò all’infuori di qualche pastore, che continuò a condurre i suoi armenti nei boschi deserti.

Il Senato deliberò per la completa distruzione della valle. Le guarnigioni veneziane invasero il territorio e rasero al suolo, o danneggiarono, case e fortezze, danneggiando gravemente il Castello di Clanezzo ed abbattendo dalle fondamenta il Castello sulla cima del Monte Ubione: dell’originaria struttura a forma di quadrilatero con l’alta torre non ne rimasero che rovine, che vennero scoperte quattro secoli dopo.

In Val Brembilla, sulla sommità del Monte Ubione, a ricordo di quei tempi di lotte fratricide vi sono ancora i resti dell’antico Castello dei Carminati, distrutto alle fondamenta dai Veneziani nel 1443, nel corso della campagna militare contro i ribelli Brembillesi e che terminò con la loro cacciata. Sulla sommità svetta anche una croce collocata nel 1972 e accanto vi è un rifugio per gli escursionisti (Fotografia Maurizio Scalvini)

La decisione diede vita a una diaspora – nota alle cronache come “Cacciata dei Brembillesi” – che vide gli abitanti originari spargersi a Treviglio, a Covo, Antegnate, Lodi o nella Gera d’Adda, ma soprattutto nel milanese, dove il Duca Filippo Maria Visconti fu prodigo di privilegi e concessioni e dove si diffusero in gran numero i cognomi Brembilla, poi Brambilla (12). Molto probabilmente la cacciata dei Brembillesi diede il colpo di grazia alle ultime speranze dei ghibellini.

Anche l’antica Corte Regia di Almenno fu completamente cancellata, soprattutto dalla distruzione sistematica della Lemine Inferiore, decretata in quell’anno dal podestà di Bergamo Andrea Gritti, come rappresaglia veneta contro il caposaldo ghibellino.

I PROPRIETARI DELLA TENUTA DI CLANEZZO

Stroncata energicamente la resistenza ghibellina, la terra di Clanezzo venne ascritta al fisco di Venezia, che nel 1485 la cedette all’Istituto di Pietà Bartolomeo Colleoni. Il Castello fu col tempo trasformato in una sontuosa villa, dove si avvicendarono nei secoli alcune famiglie benestanti contornandosi di musica, letterati e intellettuali (13). Trovandosi in gravi condizioni economiche dopo le guerre del Cinquecento, l’Istituto di Pietà deliberò nel 1539 di venderla a Bernardino Buscoloni, originario di Almenno: uno degli eredi di Bernardino, il figlio Gian Giacomo, fu il primo proprietario del maglio di Clanezzo, che entrò in funzione nel 1548 ad opera di Magistrum Alexandrum Venturini di Villa d’Ogna.

Dopo i Buscoloni la proprietà passò ai Furietti ed in seguito ai Conti Martinengo da Barco, che pur risiedendo a Brescia fecero il possibile per venire incontro ai bisogni dei pochi abitanti del luogo. Furono costoro a far edificare nel 1786 la nuova chiesa di Clanezzo, che pare sia sorta circa quattro secoli prima come cappella gentilizia, ad uso dei nobili proprietari del castello e che fosse già intitolata a S. Gottardo, cui erano assai devoti gli imperatori germanici, a fianco dei quali si erano schierati i ghibellini.

Nel luogo della chiesa di S. Gottardo, a Clanezzo, doveva esistere una piccola cappella privata, tenuta dai nobili proprietari del castello, risalente al 1350/1400, come emerso durante i lavori di ristrutturazione (1985) della casa parrocchiale di Clanezzo, quando è venuta alla luce la sacrestia dell’antica chiesa con il soffitto a volta tutto affrescato, raffigurante un Gesù pantocratore e ai lati quattro angeli con i simboli degli evangelisti. Intitolata in un atto del 1539 ai Santi Antonio e Gottardo, verrà mantenuta solo la dedicazione a S. Gottardo. La chiesa divenne parrocchia nel 1707 e il conte Francesco Leopardo Martinengo da Barco ne ebbe l’Jus Patronato. Tale istituzione rimase in vigore fino al 1977, quando passò ai sigg. Beltrami ed in seguito ai Roncalli, che nel 1885 comperarono il castello e la sua tenuta. Più volte modificata, la chiesa conserva, oltre a pregevoli dipinti, arredi e sculture, nonché un organo realizzato dai fratelli Serassi nel 1829. Nel 1881 vi si rinvennero due sepolture romane. Altre tombe romane vennero più tardi alla luce a lato della mulattiera che collega Clanezzo ad Ubiale e più recentemente un gruppo speleologico ha individuato un insediamento umano con resti sovrapposti che dall’età della pietra giungono all’epoca romana (Fotografia Maurizio Scalvini)

Nel 1804 la tenuta di Clanezzo (che si estendeva da Clanezzo fino alla Mortesina e da Ubiale fino al “Casino” a Villa d’Almè), venne venduta ai fratelli Egidio e Luigi Beltrami, la cui famiglia rivestì un ruolo importante nella vita politica della comunità, ricoprendo cariche locali (14). Recuperarono il “podere” e ridiedero prestigio al castello e per magnificarne la storia adornarono il giardino di silenziosi recessi, di vere o supposte antiche rovine e di commosse iscrizioni.

Attuale interno del Castello di Clanezzo (proprietà Castello di Clanezzo)

 

Attuale interno del Castello di Clanezzo (proprietà Castello di Clanezzo)

Autore di molte modifiche fu Paolo Beltrami (1792-1853), con il quale la residenza perse via via l’aspetto di castello per trasformarsi in un palazzotto, ulteriormente abbellito dal figlio Vincenzo, primo sindaco del comune di Clanezzo nel 1863. Nel cimitero di Clanezzo è presente la cappella fatta costruire da Paolo Beltrami per custodire i resti suoi e della sua famiglia.

Il Castello di Clanezzo non conserva più nulla dell’antica fortificazione turrita dalla quale il crudele Enguerrando Dalmasano seminava il terrore. Niente più fa pensare agli scontri feroci di un tempo, ma appare oggi come un accogliente edificio adibito a ristorante, caratterizzato da un portico con il loggiato ad archi e tre massicce torri. Le differenti tematiche delle decorazioni e degli stili compositi fanno intendere che gli abbellimenti siano stati realizzati in epoche diverse (Fotografia Maurizio Scalvini)

Dal libri dei Visitatori del castello (15) apprendiamo che i Beltrami furono onorati nel 1837 dalla presenza di Massimo d’Azeglio (che fra l’altro ritrasse la Valle Brembana in alcuni suoi dipinti), del maestro Giuseppe Verdi, all’apice della fama, dell’Arciduca Ranieri Giuseppe d’Asburgo, viceré del Regno Lombardo–Veneto, il quale, essendovi capitato proprio nel 1848, nei giorni cruciali delle insurrezioni antiaustriache, dovette far precipitosamente fagotto per non cadere in mano ai rivoltosi.

Nel 1885 la proprietà passò ai conti Roncalli, che specialmente nel Settecento e nell’Ottocento ebbero un ruolo importante nelle vicende storiche bergamasche. Essi vivevano nei loro palazzi in Città Alta e venivano a Clanezzo saltuariamente, per trascorrere qualche giorno di vacanza e per amministrare il comune e i propri beni. Il fattore riscuoteva per i padroni gli affitti del pedaggio della passerella, del mulino, del maglio e delle terre, ossia, il più delle volte, ortaggi, castagne, legna, farina (16). Durante il suo mandato di sindaco, Giulio Roncalli si diede da fare per migliorare le condizioni del paese, impegnandosi nella realizzazione di strade, acquedotti e scuole. La nipote Maria è da ricordare principalmente per la costruzione, nel 1925, del ponte che collega Clanezzo con Almenno. I Roncalli mantennero il possesso della tenuta fino alla prima metà del Novecento.

COSA RESTA DEL VECCHIO CASTELLO DI CLANEZZO

Non sappiamo se il Castello conservi nei sotterranei i resti del vecchio maniero, ma parecchio resta ancora del tempo che fu in alcune strutture collaterali: i chioschetti cilindrici collocati lungo i sentieri che salgono dal basso, che dovevano essere torrette di guardia (una delle quali pare conservi armi bianche medievali), diventate covi di serpi utilizzate contro i nemici; certi passaggi scavati nel pendio sottostante l’abitato, probabilmente collegamenti con i sotterranei del castello più antico. Ora gli ingressi sono murati per impedire frequentazioni sgradite, ma un giorno si dovrà pure studiare a fondo anche questa situazione.

Sulla mulattiera acciottolata che conduce al Porto, si stacca a sinistra una stradina che conduce a un edificio incastrato nella roccia: sono le prigioni del Castello.

Il sentiero che conduce alle prigioni del Castello di Clanezzo, poste a destra dell’immagine (Fotografia Maurizio Scalvini)

 

Le prigioni del Castello di Clanezzo, a sbalzo lungo la riva sinistra dell’Imagna (Fotografia Maurizio Scalvini)

 

Il vano interno delle prigioni del Castello di Clanezzo (Fotografia Maurizio Scalvini) 

ATTIVITA’ LOCALI DURANTE IL DOMINIO VENETO E IL MAGLIO

Ritornata la pace nelle valli in seguito ai drastici provvedimenti del 1443, consapevole dell’importanza strategica di questo territorio, il governo Veneziano ne favorì lo sviluppo economico. Venezia si guardò bene dal distruggere il bellissimo ponte altomedioevale di Attone, che costituì per molti secoli l’unica via di accesso da e per la Valle Imagna e per l’accesso alla pianura.

Nella terra di Brembilla – ora chiamata Brembilla Vecchia -, nonostante le difficoltà conseguenti a tanti anni di guerre e carestie causate dalla peste degli anni 1503, 1527, 1630 (ricordata nella “Valle dei Morti”, a metà strada tra Clanezzo e Ubiale), nel Cinquecento e nel Seicento gli abitanti ottennero buoni risultati soprattutto nella coltivazione delle granaglie, ed è forse questo il motivo per cui sui fiumi del territorio vi erano addirittura dieci mulini.

La leggenda vuole che i morti della peste della zona fossero portati nella valle che sta a metà strada tra Clanezzo e Ubiale, che prese il nome di “Valle dei Morti”, stranamente indicata sulle mappe come “Valle dei Mori”

 

L’attività silvo-pastorale degli Ubialesi e la sua diffusione capillare nel territorio è testimoniata in dipinto del 1542 di Lorenzo Lotto raffigurante la Madonna in gloria coi santi Battista, Francesco, Gerolamo e Giacomo, conservato presso la chiesa parrocchiale di Sedrina. Al centro della grande pala, sotto le figure dei Santi, si scorge l’abitato di Sedrina con il suo ponte sul Brembo, mentre di fronte, in territorio di Ubiale, alcuni pastori con il gregge. Sappiamo che in un’epoca imprecisata, sul fiume vi era anche un follo da panni per lavorare l’abbondante quantità di lana prodotta. I panni di lana, dopo essere stati trattati con acqua, sapone e argilla per essere liberati da ogni impurità, venivano battuti con grossi martelli in modo che il tessuto diventasse più spesso, morbido e resistente

Nella zona si sviluppò con successo anche l’attività estrattiva, documentata alla metà del Settecento dall’abate Angelini, che testimonia l’esistenza ad Ubiale di un filone di una pregiata pietra, che, molto simile al calcedonio, serviva da “accendino” nelle case ma era molto usata nel campo delle armi perché perfetta per l’archibugio. Egli testimonia inoltre la produzione di calce prodotta in fornaci molto rudimentali (ed ancor oggi prodotta in loco in modo industriale), mentre sulle pendici del monte Ubione si produceva una notevole quantità di carbone, attività che, insieme al taglio della legna, interessava la maggior parte della popolazione del comune all’inizio dell’800: Maironi da Ponte assicura che dai boschi di castagno si ricavavano frutti, legna da ardere e da opera, commercializzata lungo tutta la valle e il cui guadagno veniva dal taglio e dal trasporto. Il profitto era ad appannaggio dei soli proprietari dei boschi: a Clanezzo i Beltrami prima e i conti Roncalli poi, ad Ubiale e a Rota, gli Ascolti e pochi altri. Quando cominciò a scarseggiare il lavoro, molti carbonai Ubialesi decisero di emigrare in Canton Ticino, dove i bravi carbonai erano molto richiesti.

Una voce importante riguardò la lavorazione del ferro presso il maglio, l’antichissima fucina sull’Imagna funzionante dal 1548 e che dal Settecento, considerati i continui venti di guerra che spazzavano la Repubblica, fu una fiorente fabbrica di armi per conto di Venezia: il ferro vi veniva lavorato con grande abilità e perizia, tant’è che qui venivano forgiati numerosi proiettili e cannoni, che venivano trasportati a Venezia per essere utilizzati per la difesa di terra e per armare le navi della flotta. Il minerale di ferro proveniva dalle miniere situate nell’Alta Valle Brembana, mentre in Valle Seriana sorgeva nello stesso periodo la fabbrica di armi di Gromo, che produceva spade e altre armi da punta e da taglio.

Il maglio di Clanezzo, un massiccio edificio in pietra a vista posto sul fondo delI’Imagna, oggi quasi completamente distrutto e pericolante: le pietre del Brembo e la calce dell’Ubione furono i materiali utilizzati per la costruzione del maglio e degli edifici della zona. All’inizio del Settecento i proprietari della tenuta di Clanezzo, conti Martinengo da Barco, avevano dato in affitto la tenuta, compresa la fucina, a Carlo Camozzi, che vi produsse palle da bombarde, colubrine e cannoni destinati a Venezia. Costeggiando parte del muro di cinta del Castello di Clanezzo si scende nella valletta del torrente Imagna fino a raggiungere il punto di captazione dell’acqua del canale di alimentazione della grande fucina del ferro (Maglio) posta sulla sponda sinistra. Percorrendo il letto del canale, in parte scavato tra le falde della roccia, si raggiunge l’edificio del maglio, collocato ai margini di un giardino romantico. Il maglio e i suoi dintorni sono caratterizzati dalla presenza di manufatti che evidenziano il continuo utilizzo della fucina fino ai tempi recenti (Fotografia Maurizio Scalvini)

MA PERCHE’ UNA DOGANA A CLANEZZO?

Anche nella bergamasca il Senato Veneto aveva disposto un sistema di riscossione collocando caselli presso tutti i ponti: sui fiumi Brembo, Serio, Oglio, Cherio e loro derivazioni, dove ogni persona che veniva nel distretto bergamasco doveva pagare in base alla provenienza, se a piedi o a cavallo,  eccetto coloro che avevano il lasciapassare del Papa, dei Cardinali, delI’Imperatore, dei Duchi, dei Baroni e di altri Principi e di quanti erano “privilegiati dal Serenissimo Dominio”, così come di chi portava “Biava sopra il mercato”. C’era quindi il “dacio della semination del Guado” (pianta erbacea), il “dacio della Gratarola” (compravendita di animali), il “dacio del Pizzamantello” (legumi), il “dacio de’ banditi” (banditi dal territorio) e via dicendo.

La Dogana in una foto d’epoca (proprietà Fausto Carrara)

IL PORTO FLUVIALE DI CLANEZZO

La posizione geografica di Clanezzo nel corso dei secoli ha notevolmente influenzato le attività e la vita sociale del paese. Isolato rispetto ai territori circostanti, l’abitato ha avuto bisogno di sviluppare comode e veloci vie di comunicazione ed in particolare i collegamenti con la sponda sinistra del Brembo, dove scorreva l’arteria commerciale della Valle Brembana.

Clanezzo era infatti da tempi remoti collegato con Almenno per l’accesso alla pianura e alla città, e con Ubiale per lo sbocco in valle, attraverso una scomoda mulattiera che allungava i tempi di percorrenza e rendeva disagevole il passaggio dei carri e il trasporto delle merci: basti pensare che da Ubiale la legna veniva portata a spalla nel deposito di Sedrina o verso Clanezzo.

Panoramica su Clanezzo ripreso da Villa d’Almè (Fotografia Maurizio Scalvini)

Ancora non esisteva il ponte novecentesco sull’Imagna, come non esisteva il collegamento viario diretto tra Clanezzo, Bondo e Ubiale, completato soltanto pochi decenni fa sulla sponda orografica destra del fiume.

Clanezzo ancora priva del ponte sull’Imagna fatto costruire dai conti Roncalli nel 1925

Anche con la costruzione della Strada Priula (1592-1594), realizzata dai Veneziani per unire il capoluogo all’alta Val Brembana e ai Grigioni svizzeri, la strada birocciabile per molti anni non arrivò che alle Chiavi della Botta, così chiamate per le grosse chiavi di ferro infisse nella roccia a sostenere lo spaventoso passo che superava le gole d’ingresso della Val Brembana e che venne allargato insieme alla strada solo nel 1827 dagli Austriaci. Nel frattempo dunque Clanezzesi ed Ubialesi per recarsi a Brembilla, a Sedrina e in alta Valle Brembana, continuavano ad utilizzare la vecchia mulattiera tra Clanezzo ed Ubiale, immettendosi nella Strada Priula nei pressi dei Ponti di Sedrina, dove un ponte esisteva già dal  1178.

La strada di Valle Brembana nei pressi delle “Chiavi della Botta” in una foto degli inizi del Novecento (Raccolta Ketto Cattaneo). Lasciata Porta San Lorenzo in Città alta, la Strada Priula puntava direttamente verso la Val Brembana superando con opere ardite la gola di ingresso della Valle, che aveva scoraggiato sino ad allora l’itinerario diretto da Bergamo: un tratto lungo soltanto 200 metri, tanto indispensabile quanto pericoloso, poiché soltanto un piccolissimo muretto, alto pochi centimetri, proteggeva commercianti, viandanti, animali e carichi al seguito, dal precipizio. “Guai, se fosse sdrucciolato con un piede il cavallo!”, scriveva Maironi da Ponte. La costruzione dell’opera comportò ingenti perdite tra gli operai, a causa dei cedimenti di piccole parti di parete e fatali distrazioni che si trasformavano in tragedia. La forra di Sedrina era invece superata con un ponte. La strada proseguiva poi lungo l’asta del Brembo. Paesi come Zogno (che divenne importante centro di mercato) e San Pellegrino (che prima era un modesto villaggio) ne furono enormemente avvantaggiati. Almeno fino alla loro realizzazione, la Via Mercatorum costituì il collegamento più agevole fra la valle e Bergamo da dove, una volta raggiunta Selvino, iniziava la cavalcatoria che per Serina e Dossena arrivava al borgo fortificato di Cornello dei Tasso, dove le locande offrivano ristoro e il portico protezione dalle intemperie

 

I Ponti di Sedrina, punto strategico per la difesa della città da nord. Il ponte più antico, testimoniato nella pala del 1542 di Lorenzo Lotto (Madonna in gloria coi santi Battista, Francesco, Gerolamo e Giacomo) presso la parrocchiale di Sedrina. risale almeno al 1400, ma in luogo di questo ponte doveva esisterne uno molto più antico. Esso metteva in comunicazione Zogno con Almè e Bergamo passando per le località: Somasedrina (poco a monte di Sedrina), Mediglio (poco a monte della Botta), nei pressi della Casa Giungo (a metà circa della valle del Giungo), per il passo di Bruntino Alto e Villa d’Almè

La ristrettezza della strada, oggi corrispondente alla statale della Val Brembana, consentiva dunque il transito ai birocci solo fino alle Chiavi della Botta, dove nei pressi si trovava infatti il “Casino” (detto anche “stal” o ”stalù”), un grosso edificio cinquecentesco in pietra grezza – ancora esistente a Villa d’Almè -, di proprietà dei padroni di Clanezzo: vi sorgeva il vecchio magazzino di sosta dei carriaggi commerciali e delle merci provenienti da Clanezzo o dirette a Clanezzo, con stalle per il ricovero e il cambio dei cavalli, vani per il ricovero per i carri e l’abitazione dei carrettieri.

A Villa d’Almé, sulla sponda orografica sinistra del Brembo e di fronte a Clanezzo, l’edificio del “Casino” esiste ancora, benché rimaneggiato: oggi occupato da Arredi Carminati, si trova in prossimità del grande parcheggio sulla strada statale che immette in Valle Brembana, in via Casino basso (Fotografia Maurizio Scalvini)

 

Dal parcheggio ubicato in prossimità del “Casino” si diparte un ampio sentiero gradinato e acciottolato, che scende comodamente al “ponte che balla” e di lì al Porto (Fotografia Maurizio Scalvini)

 

Il “ponte che balla” al termine del percorso gradinato (Fotografia Maurizio Scalvini)

 

Durante la discesa, a sinistra, una deviazione conduce alla pista ciclabile della Valle Brembana e si può anche osservare la stazione della vecchia Ferrovia con la prima galleria (Fotografia Maurizio Scalvini)

Era dunque inevitabile che gli abitanti di Clanezzo cercassero un modo rapido e sicuro per raggiungere questa strada. L’idea di costruire un ponte era sicuramente temeraria, considerando i costi e la notevole distanza delle due sponde; il traghetto collegato alle due sponde da una fune tesa parve la soluzione più facile e meno dispendiosa, anche perché in quel punto il fiume si restringeva e le correnti impedivano l’uso del guado.

Il traghetto a fune documentato in un’antica stampa

Documentato nel 1614 (17), il traghetto poteva essere anche più antico, non foss’altro perché era necessario a sopperire alla mancanza di un collegamento viario diretto sulla sponda destra del fiume (18), punto nevralgico per il commercio di Valle Brembana e Imagna.

Veduta del traghetto, del Porto e della Villa di Clanezzo. Il traghetto faceva la spola tra le due sponde del Brembo trasportando persone, generi alimentari, legna, carbone ecc. La barca era agganciata ad un cavo che attraversava il fiume secondo il sistema del traghetto leonardesco di Villa d’Adda (disegno di Paolo Beltrami, 1836. Bergamo, Biblioteca Civica A. Mai)

Il traghetto a fune era decisamente una “singolarità” per la Valle Brembana e più tardi, ai tempi della “belle époque”, ne sarebbe sorto un secondo a San Pellegrino, importante stazione termale brembana. Oggi dei porti su fiume rimane in attività solo quello di Imbersago le cui origini, così come quelle di altri porti similari documentati lungo l’Adda, ricordano l’opera di Leonardo da Vinci.

Ai tempi della “belle époque”, nella stazione termale di San Pellegrino  la traversata sul Brembo era per i turisti una consuetudine. il traghetto funzionava da “navetta” trasportando i villeggianti dall’attuale via B. Tasso all’allora ristorante Belvedere

Certamente oggi l’idea di un traghetto che attraversi il Brembo è inimmaginabile, perché il letto del Brembo era più profondo e la sua portata assai maggiore in ogni periodo dell’anno e, forse, a partire da Clanezzo, in certe condizioni parzialmente navigabile; senza contare che le opere di sbarramento realizzate per il fabbisogno di energia elettrica del Linificio di Villa d’Almè lo hanno quasi prosciugato: inutilmente, più volte il consiglio cittadino propose dei progetti per rendere il Brembo navigabile o canalizzarne le acque per collegarlo al Po.

Dettaglio della mappa della Valle Brembana disegnata da Pietro Ragnolo nel 1596 con la descrizione del tracciato della Strada Priula, contenuta nella relazione del Capitano Giovanni Da Lezze in quell’anno. In prossimità del nome “Clanez”, la scritta “Dove c’è il sito per cavar la bocca del navilio” indica il progetto di Giovanni Rota della Pianca per la realizzazione di un canale navigabile. Il progetto prevedeva di sbarrare il Brembo a Clanezzo e di derivare un canale dal lago che si sarebbe formato. Le soluzioni proposte per giungere a Venezia erano due: nella prima il canale navigabile avrebbe raggiunto Bergamo e poi l’Adige nel Veronese; nella seconda, una volta raggiunta Bergamo in Borgo S. Caterina, avrebbe seguito il perimetro della città per dirigersi poi verso l’Adda. Anche Bartolomeo Colleoni e Leonardo Da Vinci avevano pensato di costruire canali navigabili per trasportare le merci e di irrigazione con le acque del Brembo, ma tutti i progetti erano tramontati. Di Leonardo Da Vinci è rimasto uno schizzo, tracciato intorno al 1508-1510, nel quale sono riportate molte delle località che si trovano lungo il corso del fiume. Lo studio, conservato presso la Raccolta Reale di Windsor in Inghilterra

Il servizio di traghetto era gestito da un portolano, che controllava e riscuoteva il pedaggio dagli edifici del Porto, un variegato agglomerato di edifici costruiti nel Seicento ma di possibile origine medioevale.

Il traghetto a fune tesa nella Mappa napoleonica del 1810!

 

Il Porto di Clanezzo, uno scalo fluviale in miniatura. L’edificio del portolano esiste ancora e ha mantenuto la propria insegna, ricordando il traghetto che faceva la spola tra le due sponde del fiume, trasportando merci e persone. Anche negli edifici del Porto, un ampio androne doveva essere adibito al temporaneo riparo e a magazzino delle merci. Su una facciata degli edifici del Porto compare in altorilievo lo stemma della famiglia Roncalli (Fotografia Maurizio Scalvini)

 

Porto di Clanezzo. Sotto il gruppo di case scorre una vena sotterranea di cristallina acqua sorgiva, presente grazie ai diffusi fenomeni carsici che han dato luogo a diverse cavità e sistemi di condotte (Fotografia Maurizio Scalvini)

Nel corso dell’Ottocento gli edifici del Porto ospitavano pure l’ufficio postale comunale e un’osteria con alloggio, fatta chiudere dagli Austriaci nel 1829 per timore di disordini: in un documento del 7 febbraio 1829 è scritto infatti che il deputato politico comunale deve sospendere dall’esercizio di venditor di vino il Portolano di Clanezzo, Giacomo Capelli, perché è recidivo e causa di diversi disordini. La chiusura dell’osteria deve essere definitiva perché il luogo è vicina al Brembo e a tanti altri pericoli che possono essere dannosi per gli avventori e per gli ubriachi, e anche perché rende facile la fuga e quindi le ….”politiche trasgressioni”.

Porto di Clanezzo. Disegno del 1924 dell’ingegnere/architetto Luigi Angelini (proprietà del Bar “La Gabèla”, presso il Porto di Clanezzo)

Fino agli inizi del Novecento il gruppo di edifici fu custodito da un guardiano e gli ultimi abitanti hanno abbandonato il Porto in tempi recenti.

Il Porto di Clanezzo alla fine del Novecento, quando ancora i suoi edifici erano abitati

 

La vecchia insegna del Porto prima delle recenti operazioni di recupero

 

Gli affreschi sulla facciata di un edificio del Porto, oggi recuperati grazie all’iniziativa di Lorenzo Filippini, ingegnere di Petosino, e Davide Baggi, perito elettronico di Ponteranica (Fotografia Maurizio Scalvini)

E se l’accesso a Clanezzo dal lato del Brembo – sia che si giungesse col traghetto che, in seguito, con la passerella – prevedeva il pagamento di un pedaggio, lo stesso avveniva per chi transitava sull’antichissimo Ponte di Attone, dove, nella seicentesca Dogana fatta costruire dai Veneziani, viveva un portinaio con le stesse funzioni del collega del Porto (19): oltre ad essere il posto di controllo dei transiti tra le due sponde terminali della Valle Imagna, la Dogana era anche sede della “gabella”, che imponeva dazi ai commerci che utilizzavano tale via di comunicazione.

La robusta torre a pianta quadrata era probabilmente il nucleo originario della costruzione, solo in seguito affiancata da un edificio a logge lignee nel quale alloggiava il doganiere, colui che aveva appunto il compito di riscuotere il pedaggio.

Dal Ponte di Attone, lungo l’antico tracciato altomedioevale si scorge un edificio di epoca seicentesca che svolgeva la funzione di Dogana, una robusta torre affiancata in seguito da un edificio a logge lignee nel quale alloggiava il doganiere, colui che aveva  il compito di riscuotere il pedaggio (Fotografia Maurizio Scalvini)

Dopo che una piena distrusse il traghetto, forse a causa delle mutate condizioni del Brembo o forse per una maggiore funzionalità e convenienza, l’utilizzo del traghetto venne abbandonato a favore di un’opera di arditissima ingegneria: il ponte sospeso sul Brembo (oggi noto come “Ponte che balla”), fatto costruire nel 1878 da Vincenzo Beltrami, allora proprietario del castello di Clanezzo e delle terre circostanti (20). La passerella in legno, lunga circa 70 e larga 1,30 metri, è sorretta da esili cavi in acciaio tenuti in tensione da due contrafforti in pietra; un avvertibile ondeggiamento accompagna chi vi transita a piedi o in bicicletta.

Suggestiva immagine della passerella, unica sopravvissuta delle tre che, fino ad alcuni decenni fa, si trovavano nei pressi di Clanezzo (Fotografia Maurizio Scalvini)

I sistemi di tenditori delle funi sono visibili all’interno del contrafforte sulla sponda di Clanezzo, mentre all’interno di un edificio del Porto sono rimasti i vecchi meccanismi, ormai in disuso, a ricordo di un passato secolare.

I vecchi meccanismi della passerella, ormai in disuso, all’interno di un edificio del Porto (immagine di proprietà del Bar “La Gabèla”, presso il Porto di Clanezzo)

E’ l’unica passerella sopravvissuta delle tre che fino ad alcuni anni fa si trovavano nei pressi di Ubiale Clanezzo e fu uno dei primissimi esemplari realizzati nell’Ottocento in Italia con la tecnica delle funi portanti ancorate sulle rive.

Il ponte sospeso e il Porto. Con il suo dondolio, la passerella continua a trasmettere l’emozione di un inusitato passaggio sul fiume, mentre l’ambiente del Porto è rimasto pressoché immutato nel corso dei secoli (Fotografia Maurizio Scalvini)

Sono, questi, gli anni in cui si comincia a parlare dei Conti Roncalli, divenuti nel 1885 proprietari del Castello (ora Villa Beltrami) e di molti possedimenti in Clanezzo, dove si distingueranno nella vita politica ed amministrativa del paese e per la realizzazione di importanti opere come strade, acquedotti, scuole nonché il ponte di collegamento con Almenno, che verrà realizzato nel 1925.

Clanezzo – Contrada Porto in una vecchia cartolina dei primi Novecento. Lo stemma della famiglia Roncalli, che dal 1885 fu proprietaria della zona, compare sulla facciata di un edificio (Pompeo Sibilia Edizioni, Bergamo)

 

Nei primi anni del 1900, in piena belle époque, le carrozze che nei mesi estivi portavano le famiglie dei nobiluomini e dei borghesi benestanti verso le “Acque” di San Pellegrino erano solite interrompere il viaggio con una sosta di riposo all’altezza delle chiavi della Botta, sulla riva sinistra del Brembo, di fronte a Clanezzo. Le signore si facevano ombra con graziosi ombrellini, i signori accendevano il sigaro e scendevano verso il fiume, dove un ponte a passerella che dondolava dolcemente sopra le acque blu, permetteva loro di approdare sulla riva opposta e percorrere poi la dolce salita che, lasciando alle spalle gli edifici del Porto e della vecchia Dogana, li portava nel giardino ombreggiato del Castello o Villa Beltrami, come allora veniva chiamato. Un angolo di quieta bellezza, di grande frescura, situato dove il torrente Imagna si getta gorgogliante nel più importante fiume Brembo. Con l’arrivo della Ferrovia, i visitatori giunsero a Clanezzo, anziché in carrozza, con un trenino che sembrava un giocattolo, con tanto di gallerie, passaggi a livello e stazioni che sembravano fatte con il “traforo”. E se fino alla fine degli anni Trenta questo “piccolo mondo antico” non subì grandi variazioni, la seconda guerra mondiale cambiò l’Europa e, in piccolo, anche le abitudini di questo angolo di terra (Alberto Maria Molgorami Beltrami) – (Per la fotografia, Turisti in visita alla villa di Clanezzo all’inizio del Novecento – Raccolta Ketto Cattaneo)

 

1899: una fototipia di “Clanesso”. Il castello dei conti Roncalli domina isolato. Non c’è ancora il ponte carrabile (1925) che portava anche alle cave di quarzo (ora chiuse) – (Domenico Lucchetti, Album di antiche cartoline bergamasche. Grafica Gutemberg, 1979)

 

Nel frattempo, l’allargamento della Priula nel 1827 e la possibilità di transitare con piccoli carri e con birocci oltre le Chiavi della Botta, favoriva i trasporti da e per la Valle e incrementava diverse attività economiche (produzioni di carta, panni, ferro, legna e formaggi), così come lo sviluppo dell’attività termale di S. Pellegrino, dove i primi alberghi sorsero nel 1856. Grazie a tale incremento, alla fiera di S. Alessandro, nel 1828 vennero vendute stoffe per dodici milioni di lire austriache, nel ’34 per ventiquattro milioni, nel ’37 per trentotto milioni. Anche la produzione della seta ebbe una forte impennata e la coltivazione del gelso fu per lunghi anni una delle risorse dei meno abbienti. Ad Ubiale venne praticata da molte famiglie. I bachi, una volta raggiunta la dimensione giusta, venivano portati alla filanda di Campino, in territorio di Almenno S. Bartolomeo, presso il Brembo. Ancora alla metà dell’800 l’agricoltura occupava molti degli abitanti di Ubiale-Clanezzo come mezzadri e l’80% delle terre era ancora in mano ai nobili e all’alta borghesia

In seguito all’Unità d’Italia, la ricchezza mineraria e la presenza di risorse idriche per la produzione di energia ha favorito la nascita di insediamenti industriali e la realizzazione di opere ed impianti che hanno cambiato l’aspetto del territorio.

Nel territorio di Ubiale, ricco di rocce calcareo-marnose e quarzose, si aprirono alcune cave per l’estrazione di marna e quarzo. Il quarzo venne estratto fino agli anni Sessanta  in località Coste e a Ca’ Bonorè e le ferite nella montagna sono oggi ricoperte da una fitta vegetazione (lungo la strada che porta ai ponti di Sedrina si vede ancora la tramoggia).  Ebbero invece vita lunga le ditte Ghisalberti (poi Unicalle, a 200 metri dal Ponte sul torrente Brembilla) e la Società Cementi Valle Brembana (oggi Italcementi), che ancora oggi producono calce con il materiale estratto dalle cave di Ubiale, che in passato hanno divorato completamente le storiche contrade della Forcella, sopra i ponti di Sedrina, e quella, molto più grande e popolosa, di Ciniplano. Restano comunque i ruderi delle vecchie teleferiche e le tramogge utilizzate per portare materiali ai forni.

Tra il 1897 e il 1900, proprio a Clanezzo fu realizzata una Centrale idroelettrica: la prima in Valle Brembana che potesse definirsi correttamente in questo modo ed una delle prime in Italia a sfruttare il sistema di generazione e pompaggio. Fu costruita nei pressi dell’ultima stretta del Brembo, prima che il fiume sfoci in pianura, abbastanza vicino al capoluogo, quindi in posizione strategica.

La centrale Schuckert a Clanezzo poco prima del 1915. Fu una delle prime, in Italia, a sfruttare il sistema di generazione e pompaggio, cioè quello che permetteva di avere una scorta d’acqua (10.000 mc) sempre a portata di turbina. Sul contrafforte del monte Ubione si nota la condotta forzata per accumulare e riutilizzare più volte la stessa acqua. Venne realizzata, in qualità di proprietaria, dalla Società Schuckert & Co. di Norimberga (un’associazione di imprenditori tedeschi di cui faceva parte anche il birraio Von Wunster), cui subentrò più tardi la Società Bergamasca, mentre a produrre l’energia elettrica era la Società Orobia. Progettista del canale e della diga di servizio della centrale era l’ing. Luigi Goltara. Il canale di servizio alla centrale di Clanezzo era sulla sponda destra del Brembo. Ma ci vollero molti anni prima che il paese potesse beneficiare dell’energia elettrica

 

Operai al lavoro per la costruzione dei bacini (Raccolta Ketto Cattaneo)

 

Bacino di raccolta lungo le pendici del monte Ubione, per la Centrale idroelettrica di Clanezzo (Raccolta Ketto Cattaneo)

 

Bacino di raccolta lungo le pendici del monte Ubione, per la Centrale idroelettrica di Clanezzo (Raccolta Ketto Cattaneo)

 

Resti di una delle due cisterne lungo le pendici del monte Ubione, completate nel 1903. Si tratta di due grandi vasche semi-interrate, costruite per uso idroelettrico per la Centrale a pompaggio posta sul sottostante fiume Brembo, da tempo in disuso. Durante la notte l’energia elettrica prodotta in eccesso della Centrale veniva usata per pompare acqua dal fondovalle fino a queste vasche a metà montagna, acqua che poi di giorno tornava a valle per alimentare le condotte delle turbine e produrre così nuova energia (foto U. Gamba, op. cit.)

L’obiettivo era quello di produrre energia su vasta scala per venderla poi alle utenze private che stavano aumentando sempre di più.

Clanezzo. La passerella un tempo esistente presso la Centrale idroelettrica “Brembo”, costruita per raggiungere dalla centrale la strada di Valle Brembana senza dover utilizzare la passerella dei conti Roncalli, soggetta al pagamento di un pedaggio. Il gruppo di case era di proprietà dell’ente che erogava l’energia elettrica. Vi si arrivava attraverso una stradina tutta tornanti che scendeva da Campana, oggi inclusa in una proprietà privata. E’ stata smantellata dall’Enel, ma sono rimasti i sostegni in cemento dei tiranti a bordo fiume (Raccolta Ketto Cattaneo)

La concorrenza per accaparrarsi i diritti di sfruttamento delle risorse idriche nella zona di Clanezzo in quegli anni era fortissima. Contemporaneamente alla Centrale idroelettrica di Clanezzo, nel 1897 venne costruita un’altra Centrale, questa volta sul greto del torrente Imagna, che intercettava le acque dall’Imagna in territorio di Berbenno, alla località Ponte Giurino. Da qui venivano trasportate con un canale semi sotterraneo in territorio di Clanezzo, là dove l’Imagna sbocca nel Brembo: un salto di ben 80 metri e una portata di 580 litri d’acqua al secondo, assicurava una potenza complessiva di 500 cavalli (HP).

La Centrale elettrica di Clanezzo sul greto del torrente Imagna (1897), posta sul percorso che conduce al maglio di Clanezzo

Per portare l’acqua fino a Clanezzo, in territorio di Strozza fu costruito un arditissimo viadotto-canale a sei arcate che attraversava il torrente Imagna a una notevole altezza cambiando in modo spettacolare e definitivo il panorama di quella valle.

Per portare l’acqua fino a Clanezzo venne costruito un canale di derivazione che a Strozza attraversava il torrente sull’ardito e grandioso ponte-canale che ha preso il nome dall’ing. Giuseppe Chitò, che l’ha progettato e costruito nel 1897.  il canale a pelo libero, ora dismesso, raggiungeva i prati sovrastanti l’abitato di Clanezzo, fiancheggiando in quota il torrente per poi scendere di colpo tramite una condotta forzata alla centrale posta sul greto dell’Imagna. Ora la centrale è stata smantellata e sul sedime del canale, in parte ritombato e sistemato, passa il percorso ciclo-pedonale del Chitò (Fotografia Maurizio Scalvini)

 

Percorso ciclo-pedonale del Chitò: una pista molto peculiare, che corre a mezza costa nei boschi tenendo alla sua destra il monte Ubione e a sinistra il torrente Imagna, sviluppandosi interamente in sicurezza. La ciclovia percorre il sedime del dismesso canale che alimentava la Centrale idroelettrica minore di Clanezzo , fiancheggiando in quota il torrente Imagna, che qui si inforra per circa due chilometri prima di confluire nel Brembo a Clanezzo. Questo fa sì che la pista sia quasi interamente piana e che abbia molte grate che lasciano intravedere il corso d’acqua originale. Il percorso offre  ombra e frescura, anche grazie alle pozze, alle sorgenti e ai numerosi rivoli d’acqua che lo punteggiano, nonché particolari scorci paesistici di notevole bellezza. Sul sentiero sono presenti affioramenti di dolomia e sorgenti incrostanti con fenomeni di deposito concrezionale di particolare interesse naturalistico, rari per la bergamasca. In prossimità di Strozza (terzo chilometro) si giunge al suggestivo ed arditissimo ponte-canale del Chitò, grandiosa costruzione in pietra, a sei arcate, che attraversa il torrente Imagna a una notevole altezza, consentendo di passare sulla sua riva destra. Oltre il ponte la ciclabile prosegue ancora per un chilometro parallela alla strada provinciale SP14 per poi terminare in località Medega nei pressi di Capizzone (Fotografia Maurizio Scalvini)

Le nuove attività industriali avevano aumentato considerevolmente il volume delle merci e la mobilità della popolazione diveniva un problema sempre più pressante. Nonostante l’arrivo della Ferrovia delle Valli, Clanezzo era ancora completamente isolata: non c’era strada verso monte e per raggiungere la stazione c’era solo la mulattiera che saliva dalla passerella sospesa sul Brembo (che, come vedremo, diverrà proprietà comunale nel 1913).

Inizi ‘900: l’arrivo della Ferrovia a Clanezzo, con i binari e la galleria in basso e a destra dell’immagine. La Ferrovia della Val Brembana favorì lo sviluppo sociale ed economico della Valle

Ancora una volta, il suo isolamento impediva lo sviluppo economico del borgo e dei suoi abitanti. Era quindi necessario realizzare strade più comode e veloci.

Nel 1910 fu realizzata la nuova strada carrozzabile tra Ubiale e i Ponti di Sedrina, scavata negli strapiombi della riva destra del Brembo. A questo punto il vecchio percorso Clanezzo-Ubiale-Ponte del Capèl che si svolgeva lungo una scomoda mulattiera venne abbandonato (Raccolta Ketto Cattaneo)

 

L’ex stazione ferroviaria di Clanezzo è ubicata nel punto in cui dalla ciclabile si accede al Porto e alla passerella di Clanezzo, sul Brembo. la stazione, aperta nel 1906 al completamento della prima tratta della ferrovia della Valle Brembana (che giungeva fino a S. Giovanni Bianco), era posta a servizio del comune di Ubiale Clanezzo e Botta, frazione di Sedrina. La Ferrovia della Valle Brembana fu attiva fino al 1966

Intanto, il conte Giulio Roncalli, allora sindaco del paese, propose al Comune l’acquisto della passerella sospesa sul Brembo, necessaria per l’accesso alla stazione e alla strada provinciale attraverso la mulattiera. L’acquisizione con atto di vendita redatto il 21 luglio 1913 nel palazzo dei conti Roncalli in piazza Mascheroni a Bergamo, permise finalmente ai cittadini di non dover più pagare un pedaggio di 5 centesimi per attraversarla.

Clanezzo cominciava ad uscire dal secolare isolamento grazie alla nuova strada carrozzabile realizzata dopo la costruzione, nel 1925, del ponte sull’Imagna, fatto costruire dalla contessa Maria Roncalli, anche se nei primi anni il transito fu consentito solo ai Roncalli.  La strada, che si fermava al Castello (dove era la sede del Comune), venne poi prolungata fino al cimitero, per facilitare l’accesso ad una cava di quarzo sopra Clanezzo.

L’elegante ponte ad arco sull’Imagna, risalente al 1925, permise di collegare in quota i due pianori che si fronteggiano sul torrente. Il manufatto – il primo ponte in cemento armato costruito in Italia – è di proprietà privata ma lasciato in uso pubblico (Fotografia Maurizio Scalvini)

Qualche anno più tardi si costruì il tratto Clanezzo-Bondo e nel 1980 circa si diede inizio al collegamento con Ubiale, che s’immette sulla strada statale, collegando comodamente i due principali centri del comune.

§ § §

Da secoli ormai le due piccole fortezze del posto sono sguarnite d’armigeri; il millenario ponte ad arco è sgombro di nemici e privo degli antelli d’accesso; la torretta della Dogana è senza più vedette e il porticciolo sul Brembo è ormai in disuso. Anche il maglio non romba più per armature, alabarde e per falci da fieno e l’umile gleba non impingue più i granai e non offre le primizie dei campi al feudatario. La fortezza sull’Ubione è ormai ridotta a pochi resti, mentre il Castello ha dismesso da tempo il cipiglio guerresco: gli invitanti effluvi della cucina del ristorante fanno dimenticare le traversie del passato.

Ma nonostante i cambiamenti, il microcosmo di Clanezzo riesce ancora ad affascinare: per la posizione straordinaria accoccolata su un dirupo alla confluenza di due corsi d’acqua, per la bellezza del sito impervio ed accogliente insieme, per la suggestione dei rimandi storici ancora avvertibili, che continuano a farne un’affascinante meta, oggi valorizzata da un importante operazione di recupero, che ci fa amare ancor di più quel fazzoletto verde lambito dall’azzurro cangiante delle sue acque.

COME ARRIVARE

Clanezzo è raggiungibile sia dalla strada statale della Valle Brembana prendendo lo svincolo che all’altezza di Sedrina si immette per Ubiale, o accedendovi dall’edificio del Casino, a Villa d’Almè (parcheggio), da dove si diparte una comoda stradetta. Vi si arriva anche dalla strada provinciale di Almenno San Salvatore, dove, oltrepassato il ponte costruito dai Conti Roncalli nel 1925, l’abitato si annuncia con l’antico Castello, oggi adibito a ristorante.

Note

(1) Dal periodo romano Clanezzo ed Ubiale facevano parte del distretto territoriale di Lemine (Pagus Lemmenis) insieme alla Valle Imagna, la Valle Brembilla e parte della bassa Valle Brembana. infatti il “Rotulus Episcopatus” come parti del “territorio di lemene” nell’anno 1258 cita le località di “clanezo de lemene”, “monte obiono”, “bondum”, “lunga cavallina”, “finalle et callus de calcibio”, la via “que vadit ad letezolum”, “obiolo” e “ubiallo”. Pertinenza di Almenno fino al XIII secolo, fu, fino al 1443, parte integrante di quella zona generalmente chiamata Brembilla o Valle Brembilla, che era molto più estesa dell’attuale. Con tale nome si intendeva il fazzoletto di terra bergamasca a sud del colle di Berbenno, chiuso tra il fiume Brembo, il torrente Imagna e il torrente Brembilla, comprendente quindi i comuni di Ubiale Clanezzo, Brembilla ed assorbendo entro i propri confini anche le porzioni territoriali di Strozza e Capizzone poste alla sinistra del torrente Imagna. In seguito prese il nome di Brembilla Vecchia, nome che conservò sino alla fine del 1700, quando diventò Clanezzo con Ubiale. Qualche anno più tardi sparì l’indicazione “Ubiale” e il Comune diventò “Clanezzo”. Dal 1927 si chiama Ubiale Clanezzo (Umberto Gamba, “Ubiale Clanezzo. Storia di una comunità”. Ferrari Editrice, Anno 2000).

(2) Sotto il dominio longobardo furono soppressi i pagi e l’amministrazione del territorio venne accentrata nella città, la quale, con il passare degli anni, assumeva sempre più l’aspetto di una corte (Umberto Gamba, op. Cit.).

(3) Con la conquista franca del 774 e l’incoronazione di Carlo Magno, questi ristrutturò l’amministrazione e il governo del territorio, creando i conti e altre figure istituzionali. Ideò un regime feudale fondato sul vassallaggio, che trovò terreno fertile in Italia e, una volta radicatosi, vi rimase per lunghissimi anni. Passata nelle mani di nuovi signori, la Corte Franca di Almenno doveva essere solo una residenza di campagna o, considerando la natura dei luoghi, una tenuta di caccia. Doveva però essere bella e appetibile, dato che per lunghi anni fu tenuta in grande considerazione sia dai re longobardi che dai re carolingi. Nell’anno 875 Ludovico il Germanico la concedeva, insieme alla corte Morgola, ad Ermengarda (figlia di re Ludovico II, Imperatore del Sacro Romano Impero e sovrano d’Italia), che la tenne in possesso fino a quando gliela sottrasse l’imperatore Carlo il Grosso, salito al trono nell’881. In seguito, Autari concesse la corte a Guido da Spoleto, il quale, divenuto imperatore nell’892, la donò, su istanza della moglie Agertruda, al marchese Corrado, conte di Lecco, suo fedele margravio e anche parente. Corrado e la moglie Ermengunda presero possesso della corte e la tennero fino all’895, anno in cui Radaldo succedeva a Corrado e veniva a sua volta investito della corte. Divennero poi conti di Lecco Guiberto e infine Attone (957 – 20 giugno 975), sposo della longobarda Ferlinda (Umberto Gamba, op. Cit.).

(4) Storie nuove della Valle Brembana, di Giuseppe Pesenti. Saggi Storici Quaderni Brembani. Edizioni Centro Storico Culturale Valle Brembana, Corponove, Bergamo. Di questo antico percorso oggi è rimasto solo un tratto di circa 600 metri, ancora in discrete condizioni, che dal centro di Ubiale conduce in orizzontale verso la valle di Brembilla, sovrastando di circa 40 metri gli strapiombi del Brembo e la carrozzabile del 1910, e giungendo improvvisamente sul ciglio della cava di calcare che ha divorato già da parecchi decenni la collina pianeggiante a forma di panettone da cui poi tale percorso, con alcuni tornanti, scendeva al ponticello sopra il torrente Brembilla (Giuseppe Pesenti, Op. cit. in questa nota).

(5) Il 3 Marzo 1220 con una transazione il Vescovo investiva del feudo il comune, riservandosi il palazzo nel castello e le sue pertinenze, ma lasciando al comune l’elezione del portinaio. Il vescovo inoltre riservava a sé le decime e, tra le altre cose, il monte Ubione e la sua rocca”. Finalmente, il 3 settembre 1266 “il Comune di Almenno donava alla città duemilasettecento lire imperiali garantite da Bartolomeo del Zoppo e diventava borgo cottadino” (Umberto Gamba, op. Cit.).

(6) La divisione tra guelfi e ghibellini aveva avuto origine in Germania già nel 1140, durante la guerra che vide opposti il duca di Svevia e quello di Sassonia. Questa differenziazione si espanse anche in Italia e durò fino a tutto il Quattrocento. Essere ghibellini significava parteggiare per l’imperatore di Germania, che oltre a detenere il potere temporale, voleva anche la guida spirituale delle comunità a lui sottoposte; essere guelfi invece voleva dire essere dalla parte del Papa e sostenerne così sia il dominio spirituale, sia le mire di potere terreno, molto forti all’epoca anche da parte del clero. Questa divisione ideologica si ripercuoteva in quasi tutta Europa e si affiancava alle lotte già in corso tra i vari stati. In Italia la presenza del Papa rendeva ancor più accentuate queste contese; qui i vari stati e le famiglie più importanti si dividevano alleandosi col Papa o con l’Imperatore a seconda delle convenienze (I guelfi e i ghibellini in val Brembilla. In: Quaderni brembani. “Il Castello di Cornalba e le lotte sulle montagne brembillesi”, a cura del “Gruppo Sentieri amici della storia” di Brembilla testo di Cristian Pellegrini). Il dominio visconteo a Bergamo iniziò nel 1315 con Matteo Visconti, al quale fu offerta la città dai ghibellini bergamaschi.

(7) I fatti dell’epoca si possono ricostruire grazie al “Chronicon Bergomense guelpho-ghibellinum” di Castello Castelli e alla “Storia di Bergamo e dei Bergamaschi” di Bortolo Belotti.

(8) I rapporti di fiducia e di reciproca collaborazione tra i Brembillesi e Bernabò sono testimoniati anche da un atto redatto da Regina, moglie di Bernabò, e dal figlio Rodolfo i quali, dovendo porre rimedio alla forte emigrazione delle valli, ridussero a un quarto le taglie e le condanne per debiti e assolsero del tutto gli abitanti della Brembilla e i pochi ghibellini di Val Imagna (Umberto Gamba, op. Cit.).

(9) La giurisdizione di Brembilla comprendeva un’area molto vasta che includeva gli attuali comuni di Brembilla, Gerosa, Blello, ed anche Ubiale Clanezzo, Berbenno, Strozza e Capizzone. Lo stemma della Brembilla presentava nella parte superiore l’aquila nera su sfondo oro, a significare la comune fede ghibellina; 6 bande oblique di uguali dimensioni, oro e azzurre, a indicare le 6 principali frazioni della valle. Separava i due campi una banda rossa sormontata da una croce, a significare che tali frazioni erano di proprietà del vescovo. L’emblema della Brembilla si può ancora ammirare sulla parete di una casa di Almenno S. Salvatore lungo la strada che porta in Valle Imagna, all’ingresso del Castello di Clanezzo, dipinto sulla volta, con un castello al posto della croce, ed infine nel gonfalone del comune di Brembilla (Umberto Gamba, op. Cit.).

(10) Grazie ad alcuni documenti del XII e XIII secolo possiamo conoscere i nomi dei primi abitanti del luogo e delle prime contrade. Nei libri dei “Censuali dell’Episcopato di Bergamo si leggono i nomi delle famiglie Dalamsoni di Clanezzo (1189), dei Bonoreni (1195), famiglia originaria di Ca Bonorè, contrada che prende il nome da questa famiglia, una delle più belle del paese e che fino agli anni ’70 conservò intatto il fascino e l’architettura delle origini. Costruita in posizione strategica con le sembianze di una piccola fortificazione, Ca Bonorè è sicuramente una delle località più vecchie e importanti del paese; basti pensare che è menzionata, con Clanezzo, nelle mappe più antiche, nelle quali spesso è l’unico riferimento al paese. Secondo P. Tosino la famiglia Bonoreni si stabilì a Bergamo ed ottenne diritto di cittadinanza e titolo di nobiltà. C’erano poi i Carminati e Bertinalli (1246) di Ubiale: menzionate in quanto, verosimilmente, doveva trattarsi delle famiglie più abbienti. Capostipite dei Dalmasoni di Clanezzo è un certo Dalmatius de Clenezo, di cui si ha notizia nel 1189, Quando Clanezzo faceva parte della corte vescovile di Almenno. La nobile famiglia dei Dalmasoni di Clanezzo tenne il paese fino a circa il 1400. Probabilmente erano abbastanza ricchi ed operosi, perché nel 1300 vengono nominati circa 40 volte nei “Codici e libri dell’Estimo della città e del contado bergamasco”. Capostipite della nobile famiglia Carminati , originaria di Brembilla, fu un Bartolomeo Carminati esule della Val Brembilla nel 1443 per ordine della Serenissima. Da questa stirpe uscirono uomini potenti e famosi tra i quali, secondo alcuni storici, anche un papa; Giovanni XVIII Fasano, anche se su ciò vi sono molti dubbi. I Carminati per alcuni secoli ebbero un posto di primo piano nelle vicende di questo territorio. A Cadelfoglia di Brembilla compare sulla facciata di una casa lo stemma della famiglia Carminati, cognome che affonda le radici in Valle Brembilla e deriva sia dal territorio (contrada Carminata, posta sulle prime alture di Mortesina, in Valle Imagna ex Brembilla Vecchia), e sia dalla parola carro (mestiere del carrettiere). Eugenio, Simome, Savino, e Mogna de’ Carminati, furono tutti capi del partito Ghibellino e fautori della nobile famiglia dei Conti Suardo (Padre Donato Calvi, “Effemeridi”, pag, 226)  (Umberto Gamba, op. Cit.).

(11) “Il castello di Clanezzo”. Opuscolo illustrato Litostampa Bergamo, pag. 8.

(12) Cristian Pellegrini, “Il Castello di Cornalba e le lotte sulle montagne brembillesi”, in: “Quaderni Brembani n.2”. Ed. Corponove BG – dicembre 2003.

(13) “Fedeli a Venezia erano rimasti invece gli abitanti di Gerosa e di Sedrina. I primi chiesero e ottennero di essere separati dalla Val Brembilla come comunità autonoma aggregata direttamente alla città di Bergamo. I secondi, nominati dalla Serenissima ‘fideles nostri’ ebbero diversi privilegi. Gli abitanti di Almenno Inferiore, che erano stati solidali con i brembillesi, furono puniti con la confisca dei beni, acquistati poi da quelli di Almenno Superiore per undicimila scudi d’oro”. “Sappiamo che il conflitto fra Milano e Venezia durò altri dieci anni coinvolgendo anche diversi potentati italiani, ma la nostra città ne fu solo indirettamente toccata, più che altro perché gravata dai contributi che la Repubblica richiedeva per le spese di guerra”. Dalla Repubblica di Venezia la Valle Imagna ebbe un trattamento di favore, come riferisce il Calvi. “I Valdimagnini per la loro obbedienza al Vescovo, integrità della fede e fedeltà alla Repubblica, difendendola contro il Duca di Milano, furono dal Principe (il Doge) con vani privilegi, grazie e favori arricchiti et honorati (anno 1428)” (Andreina Franco Loiri Locatelli per Bergamosera, non più on line).

(14) Nel 1485 Venezia aveva ceduto Clanezzo all’Istituto di Pietà Bartolomeo Colleoni, che trovandosi in gravi condizioni economiche dopo le guerre del Cinquecento aveva deliberato (1539) di venderla a Bernardino Buscoloni, originario di Almenno. La proprietà includeva anche alcune contrade vicine. Dai Buscoloni la proprietà passò ai Tironi (1560) e nel 1614 toccò ad Elena Furietti, moglie di Lelio Martinengo. La figlia Cecilia si sposò in seconde nozze con il conte bresciano Francesco Leopardo Martinengo da Barco, la cui famiglia ne mantenenne il possesso fino agli inizi del 1800. Questa famiglia di studiosi e mecenati della cultura, legata alla Serenissima occupando cariche militari di rilievo, si estinse con Francesco Leopardo, senatore del Regno, morto il 6 agosto 1884 legando alla città di Brescia il palazzo, la pinacoteca e la biblioteca. A Francesco, morto nel 1689, successe il figlio Leopardo e, dopo il 1716, Gianfrancesco Leopardo. Fu uno dei figli di quest’ultimo, Giovanni (1722-1817), a far edificare a Clanezzo, nel 1786, una chiesa più grande della precedente, che potesse contenere il crescente numero di fedeli. La chiesa divenne parrocchia nel 1707 e il conte Francesco Leopardo Martinengo da Barco ne ebbe l’Jus Patronato. Tale istituzione rimase in vigore fino al 1977, quando passò ai sigg. Beltrami ed in seguito ai Roncalli, quando nel 1885 comperarono il castello e la sua tenuta. Don Verri, parroco di Clanezzo dal ‘48 al 1978, affermava che il patronato probabilmente venne istituito con la dote della sorella di Leopardo, la Beata Margherita dei Conti da Barco, che, nata nel 1687, fu beatificata nel 1900: ebbe rapporti indiretti con Clanezzo, ma potrebbe aver contribuito alla nascita della parrocchia (Umberto Gamba, op. Cit.).

(15) Con la conquista degli Austriaci e la creazione del Regno Lombardo – Veneto (7 agosto 1815) molti militari bergamaschi si dimisero per non entrare a far parte del costituendo esercito austriaco. Tra loro anche il capitano del genio Luigi Felice Beltrami che, divenendo membro della deputazione comunale, inizierà ad occuparsi dell’amministrazione del comune di “Clanezzo con Ubiale”. Anche Egidio, come il fratello, proprietario del Castello e delle terre, fu tra i primi deputati del Comune. Vincenzo Beltrami (1820-1880) fu invece il primo sindaco del comune di Clanezzo, nel 1863 (Umberto Gamba, op. Cit.).

(16) Un importantissimo documento dello splendore e della storia del luogo è il libro dei visitatori un tempo esistente nel Castello di Clanezzo, nel quale i visitatori a volte, scrivevano un pensiero, un commento o alcuni versi a ricordo del loro passaggio. Deve essere stata, questa, un’idea di Paolo Beltrami e quando questi morì, il figlio Vincenzo ne continuò la tradizione. Alcune pagine del libro, scritte alcuni anni prima del 1848 mostrano già i fremiti del sentimento patriottico che di lì a poco sfocerà nell’aperta ribellione all’Austria. Leggendole siamo indotti a pensare che Paolo Beltrami, nutrisse sentimenti di simpatia nei confronti dei patrioti e che il suo palazzo (il Castello di Clanezzo) fosse per loro un possibile rifugio. La tesi è convalidata anche da alcune sue amicizie, come quella con Giovan Battista Bazzoni, scrittore di ispirazione romantica e quindi presumibilmente patriota, più volte ospitato nel suo palazzo. Il libro rispecchiava anche gli avvenimenti italiani e lombardi. Era diviso in tre volumi e cominciava in data 2 maggio 1837; purtroppo è sparito, ma una parte significativa è presente nel saggio di Bortolo Belotti, “Fantasia storia e poesia sul castello di Clanezzo” (Umberto Gamba, op. Cit.).

(17) Nel 1885 il conte Antonio Roncalli, deputato politico al parlamento nazionale per la Valle Brembana, acquistava da Giulia Lana de Terzi, vedova del Beltrami, la tenuta di Clanezzo. In seguito la proprietà passava al figlio Giulio e da questi alla nipote, contessa Maria in Guffanti. Il rag, Giovanni Calcaterra, nativo di Malpaga, fu a lungo valido agente dei Roncalli e per alcuni anni ricoprì anche la carica di sindaco. Nel Castello soggiornarono inoltre lo storico Angelo Mazzi, del grande Torquato Taramelli, che, forse in cerca di resti preistorici, visita Clanezzo il 30 aprile 1893. Inoltre, Giacomo Beccaria, nipote del celebre Cesare, Pietro Ruggeri da Stabello (1838), e moltissimi altri (Umberto Gamba, op. Cit.).

(18) “Noi non sappiamo quando venne costruito il traghetto; sappiamo solo che nel 1614 esisteva già, perchè è di quell’anno la divisione dei beni tra le sorelle Furietti e nel documento relativo, tra le varie voci si legge ‘la metà del porto ad uso ed beneficio di quello ed indiviso'”. Il traghetto era di proprietà di Egidio Beltrami; era gestito da un barcaiolo che trasportava (quando il Brembo non faceva le bizze)  persone, merci ed altro, dall’altra parte del fiume. Il Beltrami pagava al costode (un certo Dellauro?) una somma di 100 £ annue per il trasporto dei suoi coloni, dei generi dei propri fondi, come legna, carbone, frutti e pagava un canone annuo alla finanza. “In tempi non molto lontani era possibile visionare un quaderno dove venivano registrati i viaggi fatti dal traghetto, i compensi ricevuti e le tariffe per il trasporto; anche questo però oggi non è più rintracciabile” (Umberto Gamba, op. Cit.).

(19) La sua antichità è comprovata anche dal fatto che, nel 1512, a seguito del crollo del ponte della Regina ad Almenno (avvenuto nel 1493), il Comune di Bergamo aveva concesso la gestione del nuovo porto per le valli Imagna e S. Martino (P. Mazzariol, 1997).

(20) Ricaviamo questo dato da un atto del 1686, che cita un tal Carlo Colnago “…portinaro al ponte di Clanezzo della Brembilla Vecchia…” (Umberto Gamba, op. Cit.).

(21) L’opera venne realizzata nonostante il 7 maggio 1862 la Ditta Beltrami avesse avuto dall’Amministrazione Demaniale la concessione, rinnovata nel 1875, di attraversare il fiume con battello dietro il pagamento di un canone annuo, ma non l’aveva ottenuta per la costruzione del ponte. La pratica si risolse dopo la morte di Vincenzo Beltrami. Il fiume si poteva attraversare, ma visto che il ponte era stato realizzato arbitrariamente, senza cioè la necessaria approvazione delle autorità competenti, fu il conte Antonio Roncalli, nuovo proprietario subentrato agli eredi Beltrami, a farsi carico di una sanatoria. Una copia del disegni del ponte, allegato alla domanda si sanatoria, è conservata presso il Genio Civile di Bergamo (Umberto Gamba, op. Cit.).

Riferimenti principali

Umberto Gamba, “Ubiale Clanezzo. Storia di una comunità”. Ferrari Editrice, Anno 2000.

Il “porto” di Clanezzo – di Sergio Tiraboschi. Quaderni brembani n. 4. Anno 2006. Corponove BG – dicembre 2005.

“Valorizzazione dei percorsi storici che collegano Clanezzo ad Almenno S. Salvatore e Villa d’Almè attraversando il fiume Brembo ed il torrente Imagna”. Iniziativa promossa dai Comuni di Ubiale Clanezzo, Almenno S. Salvatore, Villa d’Almè, di concerto con la Provincia di Bergamo ed il contributo della Regione Lombardia, con il patrocinio di Castello di Clanezzo.

Il “porto” di Clanezzo 59 di Sergio Tiraboschi, in : QUADERNI BREMBANI Bollettino del Centro Storico Culturale Valle Brembana. Corponove, Bergamo, dicembre 2005.

Bibliografia

Gio. Battista Bazzoni, “I Guelfi dell’Imagna o il Castello di Clanezzo”. Racconto storico illustrato con cenni storici su l’antica Valle Brembilla, il Castello di Clanezzo e la Rocca di Monte Ubione Manini, Milano, 1841.

Castello Castelli, “I guelfi e i ghibellini in Bergamo. Cronaca di Castello Castelli delle cose occorse in Bergamo negli anni 1378-1407”. Prefazione e note del cav. Gio. Finazzi C. Colombo libraio editore, Bergamo, 1870

Ringraziamenti

Ringrazio il fotografo Maurizio Scalvini per le belle fotografie e per i preziosi consigli.

Ultima modifica: 25/04/2024.

Il Ponte della Regina, l’anima di Almenno, nascosta e dimenticata

Fotografie di Maurizio Scalvini

L’antico Lemine, il comprensorio dal quale ebbero origine i due Almenno (San Salvatore e San Bartolomeo), per secoli fu, a partire dai romani, uno dei più importanti centri del territorio bergamasco, raggiungendo il culmine nel corso della dominazione longobarda. Un luogo denso di memorie storiche e consacrato da un non comune patrimonio d’arte, rappresentato dalle chiese antichissime che qui sono sorte allo scemare delle paure dell’anno Mille, ed ancor prima, costituendo le più emblematiche ed importanti della cultura romanica in Lombardia.

Basti pensare all’incredibile santuario della Madonna del Castello in Almenno S. Salvatore, che, sorto in un luogo di cruciale importanza, racchiude in sé quasi duemila anni di storia inglobando ben tre edifici sacri, essendo stato sede del Pagus e della Pieve, i due vasti comprensori amministrativi nei quali fu suddiviso il territorio rispettivamente in età romana e medioevale.

Il santuario della Madonna del Castello, costruito all’inizio del Cinquecento ed oggi intitolato a Santa Maria Addolorata, ingloba la chiesa di San Salvatore, sede della Pieve in età medioevale

Una scia di edifici antichissimi, che dalle sponde del Brembo continua dipanandosi lungo le sponde dell’Adda e che induce a chiedersi il perché di questo concentrarsi di edifici romanici in una zona della Bergamasca che in quel periodo non era attraversata d itinerario storico importante, come poteva essere per esempio quello della Via Francigegna, lungo la quale erano sorte  basiliche, monasteri e ospizi per i pellegrini.

Non va dimenticato che per la vasta plaga di Lemine transitava la Strada della Regina, l’antica via militare romana che portava alle Rezie, supportata nel periodo tardoimperiale da un ponte monumentale (il Ponte di Lemine, meglio noto come “Ponte della Regina”), eretto sul sito dell’attuale Madonna del Castello per il passaggio di truppe, uomini e merci, e presto divenuto importante crocevia di traffici e di comunicazioni.

Il suo volto, o meglio, ciò che ne rimane, sfugge ai tanti automobilisti che da Almè percorrono la strada per Almenno, a volte ignorando anche l’esistenza di una storica via militare, che, ormai celata sotto prati ed edifici, corre da quasi due millenni sotto l’inaccessibile strapiombo scavato nella roccia dalla corrente del fiume Brembo.

Al termine di via Ponte Regina, in Almè, un’area privata (nel riquadro rosso) impedisce l’accesso al terrazzo fluviale affacciato sui ruderi del Ponte della Regina (nell’immagine), eretto tra le due sponde opposte di Almè e Almenno S. Salvatore, a poca distanza da sito dal sito in cui è sorto il santuario della Madonna del Castello (Ph Maurizio Scalvini)

Come fu destino di altri importanti ponti romani, intorno al Ponte di Lemine convergevano numerose strade, lungo le quali sorsero insediamenti (vici), villae e luoghi di culto, e più tardi torri, palazzi e castelli che in molti casi han trovato la loro ragion d’essere proprio in relazione con questo antico ponte.

Il Pagus di Lemine, uno dei distretti territoriali  della Bergamo romana, doveva grosso modo corrispondere alla Pieve medioevale, comprendendo le Valli Imagna, Brembilla e Brembana fino a tutto S. Pellegrino Terme (1). Perciò non stupisce il fatto che in età romana il distretto di Lemine costituisse una corte imperiale, una vera e propria corte posseduta personalmente dall’imperatore romano,  passata dai re invasori dell’era barbarica ai re longobardi, che la “restaurarono” istituendovi una curtis regia.

L’importanza del sito della Madonna del castello in epoca romana è attestata anche da il ritrovamento nei pressi di un altare dedicato al dio Silvano, conservato al Museo Archeologico di Bergamo, dai resti di un impianto produttivo e da quelli un grande complesso residenziale che ha restituito  migliaia di frammenti di pregevole intonaco dipinto: una vera e propria rarità nel panorama bergamasco

L’imperatore doveva risiedere in quel palazzo romano di età augustea venuto alla luce sul sito della Madonna del Castello, a breve distanza dal Ponte della Regina; utilizzato come residenza saltuaria dai sovrani che qui si sono avvicendati, il palazzo fungeva da sede di controllo civile, militare ed economico di tutto il territorio circostante.

Attigua al sacro palazzo vi era la cappella palatina, un luogo di culto dedicato al Santo Salvatore, di cui si rintracciano parte dei muri perimetrali nella cripta che in seguito le è stata addossata. Nella cripta della Pieve rimane quindi un ricordo tangibile e prezioso dell’antica cappella palatina.

Ma per quale motivo? Nel X secolo i Conti di Lecco, nuovi signori della corte di Almenno, avevano fortificato tutta l’area attorno al loro palazzo cingendola di mura; la cappella, trovandosi sul perimetro delle mura venne trasformata in cripta, e sopra di essa venne realizzata una nuova chiesa: la Pieve di San Salvatore.

Delle quattro colonne che sostengono la copertura della cripta, tre sono d’epoca romana, compresi i capitelli recuperati in loco da un antico costruttore.

La cripta della Pieve alla Madonna del Castello è un edificio a pianta rettangolare diviso a metà da una fila di 4 colonne (di cui tre d’età romana) che sostengono le vele della copertura. Una parte dei muri perimetrali della cripta appartengono all’antica cappella palatina

 

Varcata la grande porta situata a destra del tempietto posto in corrispondenza dell’altare del Santuario, si entra nell’antica Pieve di San Salvatore, eretta sopra la cripta altomedievale. La pieve era una chiesa a cui venivano affidati i compiti pastorali propri della parrocchia, quali l’amministrazione dei sacramenti e la riscossione delle decime

Ma le sorprese non finiscono, perché agli inizi del Cinquecento la Pieve di San Salvatore venne inglobata nel santuario della Madonna del Castello, di cui oggi costituisce la parete di fondo.

Il cinquecentesco santuario della Madonna del Castello si presenta composto in due parti, due chiese distinte ma tra loro congiunte poiché la facciata dell’antica chiesa plebana dedicata a San Salvatore, risalente al IX secolo, costituisce la parete di fondo del grande edificio rinascimentale ad archi trasversi che oggi rappresenta la chiesa principale del santuario e che comunica con l’antica basilica per mezzo di una porta situata a destra dell’altare maggiore 

Il sito della Madonna del Castello, cresciuto all’ombra dell’antica strada militare romana e del suo ponte, era dunque la sede di una corte imperale romana, mantenutasi tale fino al periodo longobardo e poi passata a nuovi signori.

Sul fianco della rupe a strapiombo sulla quale sorge il santuario della Madonna del Castello, un terrazzo fluviale posto alla destra idrografica del fiume Brembo, si apre una grotta con una sorgente chiamata “fontana del Ròch”, la cui presenza fa ipotizzare che in epoca romana qui vi fosse un Ninfeo, un edificio dedicato al culto di una ninfa. Nel tardo impero i ninfei vennero spesso utilizzati come struttura portante dei battisteri paleocristiani. Un accostamento interessante potrebbe essere costituito dal ritrovamento dei resti di una vasca battesimale sotto l’attuale pavimentazione della Pieve di San Salvatore, all’interno del santuario della Madonna del Castello (Ph Maurizio Scalvini)

Ma prima di poter tracciare le grandi strade militari, i Romani dovettero preoccuparsi di sedare le resistenze indigene delle vallate e le continue incursioni provenienti dalle Alpi, che soprattutto sul finire dell’età repubblicana e primo augustea facevano delle vallate orobiche un’area militarmente turbolenta.

Dall’altura del Santuario di Sombreno, la veduta sulla piana dei due Almenno, cui fa da quinta l’Albenza con la Roncola, tra la Valle S. Martino e la Valle Imagna

Le vette del Resegone, dell’Albenza, del Canto Alto, del Misma e del Torrezzo costituivano il limite del mondo romanizzato, una linea lungo la quale i Romani avevano disposto una sorta di  “strada di arroccamento”, che fungeva da confine tra l’area romanizzata e non.

Ad Almenno, naturale sbocco della Valle Imagna,  questa linea correva a sud dell’Albenza, dove sulle alture collinari dei monti Castra e Duno, esistevano presidi militari facenti parte del sistema difensivo romano lungo il confine.

Sulla sinistra i due cocuzzoli della collina di Castra, in una foto aerea del 1952. La collina ospitò un accampamento romano, un distaccamento di confine presumibilmente col passaggio dai Galli ai Romani, nell’ultimo periodo della Roma Repubblicana

La postazione sul Monte Castra, sorta nella fase di passaggio dai Galli ai Romani,  venne supportata da un acquedotto, che correva per due chilomentri sul fianco dell’Albenza.

Il tracciato dell’acquedotto romano dalla Valle Pessarola in Comune di Strozza, a Castra, L’acquedotto in cocciopesto, che correva sui fianchi dell’Albenza, dalla località Piscina, posta nella valle dell’Amagno, giungeva al Corno di Cantagallo in Val Settimana e terminava alla Forcella di Castra (sede di un accampamento romano), raggiungendo una lunghezza di due chilometri

L’accampamento di Duno era invece sorto come baluardo gallico per poi essere assorbito nel sistema difensivo romano lungo il confine di quel territorio che dall’epoca longobarda si chiamerà Lemine (2).

Veduta aerea (parziale) della collina di Duno (1952), termine celtico indicante un luogo fortificato, posta al confine di Almenno, dove l’Imagna confluisce nel Brembo. Tutta la sommità della collina è recintata da un muro lungo circa 900 metri e largo da 60 cm a un metro, formato da borlanti cementati disposti a lisca di pesce (la linea continua mostra quelli ancora visibili), mentre la sommità appare livellata e disposta a terrazzi sorretti da muri di sostegno (Almenno S. Salvatore, Archivio Parrocchiale)

Entrambi i presidi costituivano una difesa dalle incursioni che potevano giungere dalla Valtellina attraverso la Valle Imagna.

La collina di Duno e in secondo piano quella di Vigna, anch’essa sede di ritrovamenti, viste dal monte Ubione. Nella zona d’ombra, i gradoni che tagliano il fianco nord (Almenno S. Salvatore, Archivio Parrocchiale)

Le due postazioni vennero abbandonate quando nel 43 a.C. gli eserciti romani, sotto il comando del console Decimo Bruto (luogotenente della Gallia Cisalpina) assoggettarono gli ultimi irriducibili della popolazione locale liberando tutta la fascia collinare orobica. A quel punto i confini si spostarono in cima alle vallate più turbolente (es. Valcamonica e Valtellina), nel periodo in cui la Cisalpina cessava di essere una provincia per diventare uno degli undici distretti d’Italia.

Fu solo allora che i Romani poterono fondare la Comum-Bergomum-Brixia, la grande arteria militare che tagliava longitudinalmente buona parte del nord Italia passando ai margini dei rilievi, dislocando lungo tutto il suo percorso una serie di presidi militari (3).

Il fiume Brembo all’altezza dei resti del Ponte della Regina e il monte Ubione sullo sfondo (Ph Maurizio Scalvini)

La strada riprendeva il tracciato dell’antica via “pedemontana”, che secoli prima era percorsa dai traffici tra gli Etruschi e principi celti d’Oltralpe; traffici che avevano arricchito anche il nostro territorio permettendo lo sviluppo di un centro protourbano sul Colle di Bergamo (4).

Un avanzo del pilone appartenuto al Ponte della Regina, sulla sponda almennese. Sullo sfondo fa capolino il campanile della chiesa della Madonna del Castello (Ph Maurizio Scalvini)

Alla lenta penetrazione dei coloni corrispose lo sfruttamento delle terre conquistate; la  centuriazione interessò l’area compresa tra il Brembo e i torrenti Tornago e Armisa, fino ai ponti della Regina e del Tarchino (5). Fu così che crebbero quegli aggregati rurali cresciuti all’ombra della strada militare, come Agro, Borgo e Campino, i cui abitanti dovevano lavorare su quei terreni che venivano disboscati lungo le prime vie di comunicazione.

Disegni dei reperti archeologici romani del la villa rustica in Campino, sorta grazie alla vicinanza di corsi d’acqua (“Ritrovamento Malliani in Campino”, da Vimercati Sozzi, Spicilegio archeologico nella provincia di Bergamo dall’anno 1835 all’anno 1868 –  Biblioteca civica A. Mai)

In età imperiale la via militare per Como andava acquisendo ulteriore importanza: i passi che dalla città lariana conducevano al cuore dell’Europa erano ormai percorribili in tutta sicurezza e le città d’oltralpe fungevano da centro di confluenza e di smistamento per tutta l’Europa, delle merci che arrivavano ai principali porti del Mediterraneo centrale (6).

E fu proprio allora, data l’importanza commerciale assunta dalla Bergomun-Comum, che la strada venne supportata dalla realizzazione del Ponte della Regina, un ponte monumentale voluto dall’imperatore Traiano, per permettere un passaggio rapido e sicuro agli eserciti diretti verso le Rezie.

La presenza più grandiosa della presenza romana ad Almenno sono i ruderi del Ponte della Regina ad Almenno San Salvatore, costruito nel II secolo d.C. sfruttando un isolotto al centro del Brembo. Inserito nel sistema viario della via pedemontana, il ponte era crocevia del passaggio militare e commerciale verso l’Europa (Ph Maurizio Scalvini)

Le sue grandi dimensioni erano giustificate dal superamento del considerevole avvallamento che separa le due sponde, costituendo un esempio di quella capacità costruttiva romana della quale si trovano tracce in varie parti dell’impero. L’impatto ambientale e paesaggistico fu così notevole da suscitare l’attenzione, oltre che degli storici, anche di poeti e di pittori come Lorenzo Lotto, uno dei massimi esponenti della pittura lombarda.

Nella rappresentazione di paesaggio, la pittura riprese più volte l’iconografia del ponte della Regina. Dettaglio dalle “Nozze mistiche di S. Caterina” di L. Lotto (1523)

Dell’imponente manufatto, celebre per la sua grandiosità e per la sua vita millenaria, attualmente si conservano una pila (restaurata nel 1985) e le tracce di altre due. Ma in origine, secondo la ricostruzione dell’ing. Elia Fornoni (7) l’imponente struttura era composta da otto arcate impostate su sette pile, per una lunghezza totale di circa 180 metri, un’altezza di 25 e una larghezza di 6 metri e mezzo.

Del ponte di Lemine sono sopravvissuti i resti di una pila e le tracce di altre due. Ripresa eseguita dalla sponda di Almenno (Ph Maurizio Scalvini)

Il Ponte di Lemine, sebbene non raggiungesse l’audacia costruttiva di quello di Traiano costruito sul Danubio – assai più lungo e con il piano in legno -, era tuttavia un’opera grandiosa, singolarmente somigliante al ponte romano di Alcantara, meglio conservato, costruito nello stesso periodo sul fiume Tago.

In un punto più lontano dalla riva, nel grande campo emerge il pilone della sponda di Almenno. La figura umana lascia intuire l’imponenza dell’antico ponte, che, unico manufatto di rilievo lungo la strada Bergamo-Como, fu importante per le attività e i traffici passanti per la valle S. Martino (Ph Maurizio Scalvini)

Il manufatto protrasse la sua esistenza sin verso la fine del XV secolo, permettendo una stretta relazione tra le due opposte sponde, tra i centri romanici di Lemine e la sede della corte regia di Almè, occupata poi dai Ghisalbertini, di cui restano tracce nel castello e nella chiesa di S. Michele.

Il ponte della Regina in un particolare della “Carte militaire du moyen age rappresentant le theatre de la guerre”. Dipinto a colori su pelle (cm 40×56), prima metà del sec. XV. Biblioteca Nazionale di Parigi (Gritti, 1997)

Lo sviluppo di Almenno ricevette inoltre un grande contributo dalla vicinanza all’Isola Brembana, il cui ruolo strategico, dal punto di vista militare e degli approvvigionamenti, era legato sia alla Bergomum-Comum che a Milano, città che in età tardoantica era stata eletta a rango di capitale dell’impero: e non a caso, lungo la linea che dal Brembo si diparte verso l’Adda, una decina di centri hanno dato vita alle più importanti chiese romaniche sorte intorno all’anno Mille quasi seguendo un percorso immaginario che dalle sponde del Brembo si snoda fino all’Adda. Un percorso che vede in S. Tomè l’emergenza di spicco e dove talvolta si avverte la presenza del fiume nei ciottoli levigati, come nella basilica di Santa Giulia, a Bonate Sotto. Un itinerario che prosegue fino all’abside romanica della parrocchiale di San Bartolomeo a Marne e alla chiesa di San Fermo, poco distante dalla strada romana tra Bergamo e Milano, per attestarsi, dopo aver superato numerose chiese antichissime, a Vaprio d’Adda, dove sorge la chiesa romanica di San Colombano.

INRESSANTI INCONTRI LUNGO L’ITINERARIO DELLA VIA BERGOMUM-COMO

Varie ipotesi sull’effettivo itinerario della Bergomum-Comum si sono succedute nel tempo, anche seguendo le indicazioni fornite dalle fonti antiche, tra le quali la Tabula Peutingeriana (carta geografica del III secolo d.C. dipinta su pergamena, conservata nella Biblioteca Imperiale di Vienna), in cui risulta essere documentata insieme alle principali direttrici viarie romane

La via militare Bergamo-Como si trova indicata nel segmento III della Tabula Peutingeriana, che la mostra al centro verso l’alto, con le indicazioni Como, Bergamo, Leuceris, Brescia. Dubbi permangono per quanto concerne il percorso da Almenno a Como, sia per l’identificazione dei fiumi Ubartum e Umana che non trovano corrispondenze con gli attuali corsi d’acqua, e sia sul possibile errore di posizionamento della località Leuceris, identificata dal Rota con Lovere, dal Mazzi con Lecco, dalla Cantarelli e dal Manzoni con Chiari, quest’ultima ritenuta l’ipotesi più probabile (Bergamo, Biblioteca Civica S. Mai)

Il tracciato si snodava con un percorso di quasi 60 km lungo una stretta fascia pedemontana della Lombardia centrale, attraversando le attuali provincie di Bergamo, Lecco e Como, e si svolgeva in posizione intermedia tra l’ambiente montano delle prealpi orobiche a Nord e la fascia delle risorgive dell’alta pianura a Sud, correndo a settentrione dei laghi brianzoli.

Da Bergomum, il ponte era raggiungibile partendo dalla strada di San Lorenzo sulla cerchia delle mura, che scendendo fino a Valtesse varcava la Morla a Pontesecco, risaliva la collina della Ramera per raggiungere il piano della Rovere a Petosino e poi Cavergnano tra Almé e Bruntino; da qui, con un rettilineo dolcemente degradante fino al ciglio del Brembo, si presentava al Ponte di Lemine. Non è difficile immaginare le truppe varcare il Brembo ad Almenno per immettersi sulla grande arteria lastricata.

Sembra che dalla città, la strada fosse larga oltre quattro metri, con un fondo assai curato, tutta selciata e in qualche punto anche lastricata. Di fatto la sua presenza, unitamente alla direttrice che dalla porta Sant’Alessandro conduce alla piana verso Mozzo, ha condizionato fortemente l’assetto del territorio.

Per la restante parte del percorso permangono dubbi, non ancora completamente chiariti dai ritrovamenti archeologici.

Come indicato dal Fornoni, partendo dal Ponte di Lemine a Ca’ Plazzoli il tracciato, oggi celato sotto i campi ancora coltivati, proseguiva lontano dall’abitato di Almenno San Bartolomeo, fino al ponte del Tarchino sul torrente Tornago, nei pressi di San Tomè.

Lungo la ripa che scende verso il corso del Tornago, è sorta la Rotonda di San Tomè, a poca distanza dal tracciato della Bergomum-Comum

Un ponticello che nonostante i rifacimenti subiti nel corso dei secoli, porta ancora un’impronta della sua origine romana. Oggi avvolto dalla vegetazione selvaggia, è guardato dall’alto da quello in cemento armato della nuova strada per la Val S. Martino.

Il modesto ponte del Tarchì sul Tornago, eretto sul viadotto su cui correva la strada militare romana in prossimità dello sbocco nel Brembo. Anticamente chiamato ponte del Diavolo, fu realizzato in epoca medievale (XII-XIII secolo) probabilmente come rifacimento di un manufatto romano. La struttura, con arco singolo, presenta muratura in conci squadrati e allineati fino alla chiave dell’arco, mentre superiormente è realizzata in pietra e meno rifinita e in ciottoli di fiume, a tratti disposti a spina di pesce

Alcuni resti rinvenuti sotto il presbiterio di San Tomè parlano dell’esistenza in questo luogo di un antico tempio pagano, forse dedicato a Pale, la dea silvestre, come farebbe supporre una lapide ritrovata non lontano.

Rotonda di San Tomè

Ed è proprio qui, all’ombra della Rotonda, che tombe romane del I secolo indicano l’esistenza di un luogo di sepoltura.

Le tombe romane rinvenute sul sito dell’attuale Rotonda di S. Tomè

La strada romana passava in questo punto tagliando per il fitto bosco che degradava verso il Brembo. Il viandante vi giungeva attraverso i campi che si estendono fino alla Val San Martino o dopo aver superato il Brembo, imbattendosi nel tempio della dea che lo invitava alla sosta.

In questo stesso luogo, tra il VII e l’VIII secolo, un ignoto architetto innalzò l’edificio romanico, riutilizzando le pietre dell’antico tempio pagano per abbellire i capitelli, ornati da sculture primitive.

Ancor’oggi, al riparo della nicchia formata dagli alberi che circondano l’inconfondibile sagoma cilindrica, riusciamo a cogliere lo stretto rapporto che lo lega a questa parte più antica del territorio. Un rapporto che non smette di colpire la nostra immaginazione e affascinarci.

Il Mazzi ricostruisce il tracciato successivo, verso occidente: dice che dal Tornago la via volgeva verso Barzana, passava poi poco discosta da Arzenate e da qui si dirigeva verso S. Sosimo e Gromlongo, raggiungendo Pontida, per poi proseguire a Cisano e Caloziocorte.

Ma per lo studioso P.L. Tozzi è verosimile che con le operazioni della centuriazione (di cui restano tracce fino a Brembate di Sopra), i Romani preferissero superare il Brembo più a valle, a Briolo o a Ponte S. Pietro, rendendo i collegamenti fra Bergamo e Lecco più diretti.

L’antichissimo ponte a doppia arcata di Briolo

Altri studi ritengono più probabile che la via puntasse su Como transitando per Brivio. Ci muoviamo comunque entro il campo delle ipotesi, anche se si ritiene che l’esistenza di percorsi alternativi fosse molto probabile: a Olginate, in provincia di Lecco, in corrispondenza di un restringimento si sono individuati i piloni di un monumentale ponte romano del III secolo d.C. per l’attraversamento dell’Adda (8); poggiava su 16-18 pile, aveva una lunghezza di m 150 ed una larghezza di m 4. Secondo Tozzi questi resti non sembrano una prova decisiva che vi passasse la Bergomum-Comum o perlomeno che vi passasse sempre ed esclusivamente; casomai il ponte poteva riferirsi a una variante del percorso affermatasi in età imperiale avanzata, o anche servire a una via da Milano per Lecco, da dove sicuramente per via lacustre, ma probabilmente anche terrestre, si perveniva a Chiavenna, quindi in Valtellina e, attraverso il passo dello Spluga si raggiungevano il Reno ed il lago di Costanza, dunque l’Europa centrale (9).

In ogni caso, grazie al ponte di Olginate si potenziarono i collegamenti tra Bergamo e Como e tra Milano e Lecco, passando per Monza (10).

IL PONTE FRA CURE E MANOMISSIONI

Anche dopo la caduta dell’Impero Romano la strada mantenne la sua importanza di infrastruttura viaria cruciale per tutto il territorio pedemontano, e nel medioevo, come è provato dalle spese di manutenzione previste e imposte dagli Statuti di Bergamo, divenne, se non l’unica, la principale via di comunicazione con la Val S. Martino, servizio che non si esaurì del tutto anche dopo l’apertura di nuovi sbocchi. Per questa sua importanza, anche il ponte subì numerosi interventi di ripristino e restauro.

Il corso del  Brembo in località Molina, da una carta topografica del 1777. Da notare i ruderi del Ponte di Lemine, la seriola, gli edifici dei molini e della segheria (Dipartimento del Serio. Serie acque. Cartella n. 21. Bergamo, Archivio di Stato)  (Prefettura del Dip. Serio, b. 21)

 

Particolare del Ponte e della Strada della Regina

E’ facile immaginare che la struttura possa aver subito danneggiamenti durante le invasioni barbariche e una mancata o inadeguata opera di manutenzione, in particolare nella seconda metà del millennio; senza contare che durante le scorrerie e le distruzioni verificatesi nel Bergamasco alla fine del XII secolo nel corso delle lotte tra guelfi e ghibellini, la struttura potrebbe essere stata sottoposta a gravi danni.

E’ con l’autunno, con le prime nebbie, il sole pallido, il lieve fruscio delle foglie sotto i piedi, che il fascino del luogo e della sua storia colpiscono il visitatore e la sua immaginazione. Nell’immagine, i resti del ponte sulla sponda di Almè  (Ph Maurizio Scalvini)

 

Sponda di Almè: al centro fra i due piloni sono evidenti i recenti rimaneggiamenti subiti dal manufatto, che, realizzato per la via militare che portava alla Rezia, rimase in uso fino al XV secolo, e cioè fino alla rovinosa alluvione del 1493 (Ph Maurizio Scalvini)

Nessuno comunque avrebbe potuto fermare, oltre alle accanite devastazioni delle guerre, il secolare logorìo delle acque, tanto che nell’arco del XIII secolo le fonti cominciano a fornire alcune informazioni evidenziando il vero e proprio calvario per le casse del comune e dei villaggi fortemente interessati nel ripristinare al meglio la struttura, indicando ad esempio la realizzazione di un pilone nella parte mediana del ponte che vent’anni dopo risulta già molto eroso alle fondamenta, e segnalando la presenza di alcuni resti rovesciati che opponendosi al corso del fiume potevano danneggiare ulteriormente gli stessi piloni (11).

Resti del Ponte di Lemine nel 1894 (da Elia Fornoni, Il Ponte di Lemine, Tavv. I e II)

E’ probabile che le continue riparazioni e addirittura ricostruzioni cui il ponte fu sottoposto nel corso de XIII secolo ne abbiano compromesso la stabilità, in particolare a causa dei considerevoli gorghi provocati dalla costruzione di nuovi piloni, eretti, per ragioni di economia, sfruttando come basi quelli crollati e adagiati sul greto del fiume, ritenuti sufficientemente consistenti.

Resti del Ponte di Lemine nel 1894 (da Elia Fornoni, Il Ponte di Lemine, Tavv. I e II)

La maldestra riparazione e le periodiche turbolenze delle acque furono le cause maggiori dei danni che via via si verificarono nel tempo, fino al crollo del 1493.

IL ROVINOSO CROLLO DEL 1493

Rimasto in uso sino al XV secolo e superata l’ingiuria del tempo, il ponte resistette fino all’alluvione del 1493, quando, già compromesso dai rifacimenti, il 31 agosto crollò rovinosamente sotto l’impeto della piena eccezionale del Brembo, che danneggiò altri ponti e strade causando numerose vittime. Il Ponte della Regina perse così cinque archi: due per ogni estremità e un altro poco appresso.

Restarono in piedi solo le tre arcate centrali, sopra le quali rimasero bloccate per ben tre giorni trentasei persone in balia della furia del fiume. Per mantenerle in vita veniva loro lanciato del pane con le fionde; vennero soccorse con scale e corde solo quando l’acqua tornò ad un livello normale.

Le tre arcate superstiti si opposero al Brembo per ben trecento anni: una cedette il 15 giugno del 1783, le altre due dieci anni dopo, ormai logore per l’azione costante dell’acqua.

Disegno dei ruderi del Ponte di Lemine o della Regina eseguito nel 1784 dal Lupi (Codex diplomaticus, 1784-1799)

Dell’opera monumentale un poeta ne rievocò la memoria: …Tu, lungo spettro, fra le rive appari, ed in colonna, su le vane arcate, ripassano cantando i legionari (12).

IL MITO DELLA REGINA

Dopo la caduta del ponte, la storia della struttura ha iniziato ad intrecciarsi con le antiche tradizioni longobarde. Il suo ricordo e la presenza delle rovine sull’acqua ha colpito la fantasia popolare facendo sorgere tra gli abitanti della zona il mito che lo voleva attribuito a una regina longobarda: da alcuni alla grande regina Teodolinda e da altri alla commovente figura di Teutperga, rifugiatasi a Pontida dopo il ripudio dell’imperatore Lotario e poi, secondo la leggenda, animosa fondatrice del Monastero di Fontanella (13), dove sarebbe ancora sepolta. Avvolto in questo alone di leggenda, l’antico “Pontis de Brembo”, o “ponte de Lemine”, ha iniziato a chiamarsi “Ponte della Regina”, anche se qualcuno ha pensato che il nome potesse alludere a un intervento sul ponte in epoca longobarda.

“Dintorni di Bergamo”: avanzi del ponte di Lemine, una suggestiva rievocazione ottocentesca del Ponte delIa Regina nell’incisione di Boromèo Gilberto (1815-1885)

Nel nome, vi fu anche chi ravvisò un’interpretazione popolare della parola “Rezia”, la zona della Alpi Retiche verso cui conduceva la strada romana che attraversava il ponte sul Brembo.

L’ASPETTO ORIGINARIO DEL PONTE

Dato che i resti del vetusto ponte costituivano un pericolo per le opere di presa sulla sponda sinistra, il 28 marzo del 1893 il Prefetto della Provincia di Bergamo ne ordinò la demolizione, che fu eseguita dalla ditta dell’ing. Ceriani & C., proprietaria del Linificio e Canapificio Nazionale di Villa d’Almé. All’ing. E. Fornoni fu affidato l’incarico di studiare il manufatto affinché fossero demolite “sole parti dell’èra media”, salvaguardando quelle d’epoca romana.

Dall’osservazione dei resti emergevano le modifiche subite dal ponte nel corso de tempo: il manufatto originario era formato da grossi conci di pietra arenaria (cavata nella vicina località Merletta) che misuravano sino a m 1,75 di lunghezza e m 0,70 di altezza; una solida muratura di cava costituiva il paramento interno e le pietre combaciavano nel paramento esterno.

Negli interventi successivi, osservava invece materiali più scadenti e una diversa tecnica costruttiva, con un nucleo centrale composto da sassi di fiume e un rivestimento di pietre più piccole e grezze, unite da abbondante malta.

Le modifiche subite nel corso della sua storia sono evidenti ancor’oggi, osservando i differenti materiali che compongono quanto ne rimane, dove accanto a grossi conci di pietra arenaria troviamo pietre grezze e sassi di fiume legati grossolanamente.

Sponda di Almè: la massiccia e imponente struttura delle parti più antiche (Ph Maurizio Scalvini)

 

Il confronto con la figura restituisce la misura dell’imponenza dei ruderi del Ponte della Regina (Ph Maurizio Scalvini)

Effettuando rilievi sui reperti e sulla scorta delle versioni offerte da alcuni studiosi del passato (14), il Fornoni ne ipotizzò l’aspetto originale paragonandolo al coevo ponte romano costruito ad Alcantara sul fiume Tago, in cui la spalla centrale culminava fino al parapetto per sorreggere un arco trionfale dedicato a Traiano.

Ricostruzione grafica del ponte romano di Lemine secondo l’ipotesi dell’ing. Elia Fornoni, secondo il quale il ponte doveva essere lungo complessivamente m. 184 e alto m. 24,31; formato da otto archi con due raggiature diverse ma medesimo piano d’imposta e dotato di due esili spalle; i piloni dovevano essere sette, muniti da spalle formanti complessivamente una pianta esagonale: di queste solo quella centrale doveva culminare fino al parapetto come il coevo il ponte di Alcantara, dove i cappucci delle pile avevano lo scopo di sorreggere “le spalle o piedritti di un arco trionfale dedicato a Trajano”

 

Il ponte romano costruito ad Alcantara sul fiume Tago in epoca traianea

Le ripetute modifiche subite dal ponte nella sua storia e in particolare la rifondazione dei piloni, rendendo irriconoscibile la struttura primitiva ha dato luogo nel tempo a svariate interpretazioni.

Esisteva anche una seconda ipotesi circa la forma del ponte originario, abbozzata da C.M. Rota e studiata nei minimi particolari dall’ing. G.S. Paganoni,  che presentò il ponte in sette archi, sei piloni e senza spalle ai lati, ma impiantato direttamente sulle sponde rocciose del fiume, con la lunghezza di m. 209,43 e l’altezza di m. 24,25

Abbandonato il percorso antico che su di esso si snodava, sono andate perdute le tracce e riferimenti che per ben oltre un millennio avevano segnato questo ambito del nostro territorio: le nuove direttrici, impostate più a monte, hanno guidato altrove le attenzioni. Ed è strano che nell’ampliamento dell’abitato di Almenno non sia mai stato pensato un adeguato riferimento alla presenza dell’antica strada romana e del suo ponte, i cui resti meriterebbero, per importanza storica, un’attenta  rivalutazione in rapporto con l’ambiente circostante.

UNA CURIOSITA’

Fonti attendibili dicono che nel 1512, a seguito del crollo del ponte della Regina avvenuto alla fine del Quattrocento, in sua vece venne ripristinato il porto di Clanezzo per assicurare le comunicazioni alle valli Imagna e S. Martino

Una barca doveva collegare le due sponde finché ad Almenno non si fosse realizzato un nuovo ponte, il quale, contrariamente alle intenzioni iniziali, venne realizzato solo nel 1628 non ad Almenno bensì a Clanezzo, situata più a monte dell’antico tracciato (15).

Il ponte ligneo di Clanezzo costruito nel 1628, apparteneva alla Serenissima ma nel 1648 fu venduto a Girolamo Santino d’Adda e veduto nel 1673 alla comunità della Valle Imagna. Solo nel 1878, dopo l’ennesima piena che distrusse il porto di Clanezzo, al suo posto fu definitivamente realizzata, con piloni in gusto neogotico una passerella pedonale sospesa (Gamba, 2000) – (Ph Maurizio Scalvini)

Dopo essere stato distrutto da una piena, fu realizzata una nuova struttura in legno e l’idea di recuperare il ponte di Lemine venne così definitivamente abbandonata.

Solo verso la metà del XVI secolo i suoi resti furono coinvolti in un progetto di più larga scala redatto dall’ingegnere idraulico veronese Isepo de li Pontoni per la formazione di un canale anche parzialmente navigabile derivato da fiume Brembo e diretto alla città di Bergamo in direzione Paladina-Curno-Broseta. Il progetto però non venne attuato in quanto, in prossimità del ponte, si sarebbero dovuti realizzare costosissimi scavi nella roccia.

Nonostante l’avvenuto crollo del 1493 Isepo de li Pontoni intendeva utilizzare i massicci piloni rimasti in piedi per il suo progetto di diga per la formazione di un canale navigabile derivato dal Brembo, 1583 (Gritti, 1997)

Un ex-voto apposto su una parete del santuario della Madonna del Castello, sembra comunque indicare che ancora verso la fine dell’Ottocento una barca collegasse le due sponde affacciate sul Brembo.

La scena di un naufragio nel Brembo, nell’ex-voto datato 1883 apposto su una parete del santuario della Madonna del Castello. Sullo sfondo a destra il santuario della Madonna del Castello, mentre a sinistra, abbarbicato sul cocuzzolo della collina, è riconoscibile il Santuario di Sombreno

 

Note

(1) Gli storici suppongono che pieve e pagus dovessero abbracciare approssimativamente lo stesso territorio. Secondo il Mazzi la pieve di Lemine comprendeva tutta la Valle Imagna, la piccola valle del torrende Borgogna con Palazzago, fino ai confini con la Val San Martino, spingendosi anche sulla sinistra del Brembo, estendendovi il suo nome con Almé (Lemen) e Villa d’Almé (Villa Leminis), e abbracciando nel suo ambito almeno i territori di Bruntino e di Sedrina. Indicazioni del Rotulum Decimarum Leminis 1353 confermano che anche la Valle Brembilla sino ai confini della Val Taleggio, tutta la sponda destra del Brembo con Zogno e S. Pellegrino fino a Fuipiano, ampie zone del piano, come Locate, Ambivere, Tresolzio e forse Chignolo (“rationes decimarum”), appartenevano al pagus Lemennis (da Manzoni, Op. Cit. in bibliografia).

(2) Lemine (o, nelle sue varianti, Lemmenne, Leminne, Leminis, Lemennis), è il toponimo con cui nel Medioevo si individuava un vasto comprensorio territoriale ad occidente del fiume Brembo che aveva costituito una corte regia longobarda.

(3) Lungo il percorso della Comum-Bergomum-Brixia si sono rinvenuti alcuni reperti archeologici databili tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C.: a e Monte Castra ad Almenno, a Caslino, Castelmarte e Incino.

(4) Nella fase preromana (VIII-IV a.C.) la via pedemontana svolgeva un ruolo strategico e commerciale unendo gli insediamenti etruschi del mantovano con i paesi transalpini attraverso l’abitato di Como. Indizio dell’antichità del tracciato sono una seria di reperti rinvenuti su alture poste controllo del possibile tracciato viario (Duno, Vercurago, Chiuso) che presentano sia materiali affini alla cultura locale di Golasecca di frammenti di ceramiche greche ed etrusche. Verso la metà del IV a.C. si assiste ad una maggiore influenza della cultura di matrice transalpina celtico-insubre che modifica la struttura degli insediamenti e il sistema commerciale precedente favorendo la città di Milano. In età romana la via pedemotana costituiva l’asse Est-Ovest, della centuriazione relativa al territorio di Almenno.

(5) L’area compresa tra gli attuali Almenno S. Salvatore e Almenno S. Bartolomeo presenta tracce di centuriazione, in particolare nelle località Agro e Bosenta, area compresa tra Brembo, Tornago e Arrisa; si inseriscono nell’impianto di centuriazione il cosiddetto Ponte della Regina sul Brembo, la località di Stazanum, nei pressi del ponte sulla valle del Tornago, e lo stesso ponte sul Tornago. All’interno di una maglia centuriata compresa tra I tre corsi d’acqua esistevano probabilmente ville rustiche, la cui presenza è indirettamente testimoniata dal ritrovamento di una tomba tardoromana in località Campino, nel campo detto la Noca.

(6) La strada romana Comum-Bergomum-Brixia venne tracciata dai Romani a partire dall’89 a.C., momento in cui venne concesso alla Transpadania il diritto latino. Dal III secolo d.C. connetteva l’antica Aquileia, nel Veneto, con i territori d’oltralpe attraverso Como, da dove raggiungeva la provincia romana della Rezia, posta in corrispondenza dell’attuale Canton Grigioni e del Tirolo, e da lì l’Europa centrale. Venne soggiogata sotto Augusto nel 16 d. C. dopo due lunghe campagne contro i Rezi, i Celti e i Vindelici, che permisero di raggiungere i valichi in condizioni di assoluta sicurezza. Da allora la città lariana divenne il perno di un sistema di comunicazioni che comprendeva il lago, i passi del S. Bernardino, del Maloja, del Septimer, del Julier e, se si vuole, dello Spluga, del Lucomagno e del Gottardo. Gli sbocchi erano il Rodano, il lago di Costanza, il Reno, il Danubio e con essi tutte le città (a cominciare da Coira = Curia Raetorum) che fungevano da centro di confluenza e di smistamento per tutta l’Europa delle merci che arrivavano ai principali porti del Mediterraneo centrale. In questo quadro Como acquistò il ruolo di intermediaria fra il centro Europa, l’Italia e l’Oriente, anche perché la direttrice Milano-Como-Spluga-Brigantium era la più breve per raggiungere il Reno, grazie alla navigazione longitudinale del Lario, che con notevole risparmio di tempo (almeno due giorni) e di fatica, rispetto al percorso di terra, portava a Summus Lacus, ove cominciava il percorso trasversale della Raetia per l’alta valle del grande fiume europeo. Roma ne perse il controllo nel IV sec. d. C. quando venne invasa dai alemanni, bavari e svevi.

(7) E. Fornoni, Il Ponte di Lemine, Bergamo 1894; dello stesso autore anche L’antica Corte di Lemine: il Ponte sul Brembo. L’ipotesi ricostruttiva di Fornoni venne fatta sulla scorta degli studi precedenti di Lupo, Rota e Mazzi.

(8) Degrassi 1946.

(9) Storia economica e sociale di Bergamo. Secondo Cantarelli (Carta Archeologica della Lombardia, cit. in bibliografia) un secondo tracciato più diretto passava tra il Brembo e Brivio (ove furono notate in passato tracce di un ponte antico) e si manteneva più lungo il versante dei colli che precedono Bergamo (Fontana, la Madonna della Castagna).

(10) Storia economica e sociale di Bergamo.

(11) Proprio nell’arco del XIII secolo le fonti cominciano a fornire alcune informazioni evidenziando il vero e proprio calvario per le casse del comune e dei villaggi fortemente interessati nel ripristinare al meglio la struttura. Queste continue attenzioni sono dimostrate anche dal fatto che lo Statuto cittadino impegnava il Podestà alla verifica annuale dei ponti, (per il caso di Almè le ricognizioni vennero effettuate tre volte l’anno).
Nel 1208 e nel 1209 il Comune di Lemine dovette contrarre un prestito di 20 lire imperiali per restaurare il ponte sul Brembo. Il 19 novembre del 1250 i sovrintendenti al pontis novus de Lemen chiesero ed ottennero dai maestri che lavoravano al ponte l’opportunità di realizzare una pillam….in medio ponte. Ancora nel 1273 il Comune di Bergamo mandò alcuni deputati ed il perito Bertramo de Forzella a vedere e riferire su una pila que est multum smaganiata propter fondamentum…quod multum est cavatum sub glera ipsius Brembi. I sovrintendenti riferirono poi sulla necessità di rimuovere alcuni resti rovesciati i quali, opponendosi al corso del fiume potevano danneggiare ulteriormente gli stessi piloni. Nel 1283 infine la vicinia di S. Pancrazio pagò quattro lire e mezza imperiali imposite ipse vicinancie pro Pergami occasione reformationis pontis de Lemine.

(12) Bortolo Belotti, Poeti e poemi del Brembo, 1931.

(13) P. Manzoni, Op. Cit. in bibliografia.

(14) Per quanto concerne la forma e le dimensioni del ponte, Fornoni si rifà a quella originata dal Lupi e poi accettata con piccole variazioni da G.B. Rota, da Maironi da Ponte e dall’Ab. Calepio, confortata dal punto di vista storico e architettonico dal Mazzi e dallo stesso Fornoni, il più profondo e completo studioso della questione.

(15) P. Mazzariol, 1997.

Riferimenti essenziali

Paolo Manzoni, Lemine dalle origini al XVII secolo. Comune di Almenno S. Salvatore. Comune di Almenno S. Bartolomeo. Bergamo, Poligrafiche Bolis, 1988.

Carta Archeologica della Lombardia – II La Provincia di Bergamo – I Il territorio dalle origini all’altomedioevo. A cura di Raffaella Poggiani Keller. Ed. Panini, Modena, 1992.

Fondazione per la storia economica e sociale di Bergamo – Istituto di studi e ricerche, Storia economica  e sociale di Bergamo – I primi millenni – Dalla preistoria al medioevo. Volume II. Bergamo, Poligrafiche Bolis, marzo 2007.

Per uno studio del territorio di Almè in epoca romana

Reportage fotografico di Maurizio Scalvini, che ringrazio  per le utilissime indicazioni raccolte sul campo e per la preziosa collaborazione.

Almè, via Ponte Regina: l’antico tracciato che conduce a ciò che rimane dell’omonimo, grandioso ponte romano che si estendeva fra le opposte sponde di Almenno e Almè
Collocato all’imbocco della Valle Brembana sulla sponda sinistra del fiume Brembo, a circa otto chilometri dal capoluogo orobico, il comune di Almè sorge nei pressi di un’area di notevole rilevanza naturale, il “Piano del Petosino”, bacino lacustre singlaciale e interglaciale sede di fossili paleontologici e di ritrovamenti archeologici.
Tracce di popolamento protostorico sono state rilevate in tutta l’area all’imbocco delle valli Brembana e Imagna, nel territorio di Lemine, un vasto comprensorio territoriale racchiuso tra la sponda occidentale del Brembo e quella orientale dell’Adda, che per secoli mantenne una posizione di preminenza su tutto il circondario, e il cui nome si lega essenzialmente all’istituzione della pieve ed alla curtis regia longobarda.
L’origine del toponimo Lemine (1) sembra, secondo gli storici, giustificare una presenza celtica in Almè .
Poco distante, il Dunum di Clanezzo, fortificazione di matrice celtica della I età del Ferro erroneamente attribuita ai Galli (2), posta alla confluenza tra il torrente Imagna e il fiume Brembo,  presenta la struttura tipica di un oppidum,  riconducibile alla cultura Golasecchiana e alla stirpe degli Orobi.
Si tratta di un insediamento posto  a controllo della via pedemontana, il cui tracciato costituiva un’importante direttrice di traffico che, in direzione Est-Ovest, metteva in comunicazione Como (nel V secolo punto di mercato in cui si incontravano gli itinerari commerciali fra i popoli transalpini e quelli dell’Etruria centro Italica) con Brescia via Bergamo, passando per Almenno (3).
Un percorso  riconfermato in epoca romana, quando diviene tracciato militare (la celebre “Strada della Regina”) congiungendo Aquileia (Friuli) con la Rezia (Svizzera)  attraverso Verona, Brescia, Bergamo e Como, ripercorrendo così l’antica direttrice Bergamo-Como di matrice protostorica (4) e divenendo asse  della centuriazione relativa al territorio di Almenno.

Da V. Gastaldi Fois, ‘La rete viaria romana nel territorio del Municipium di Bergamo’ in ‘Rendiconti dell’Istituto Lombardo’, 105, 1971

In quanto crocevia militare e commerciale verso l’Europa, la Strada della Regina percorreva un territorio immerso in un’area militarmente turbolenta, occupato da diversi presidi militari.

Via Ponte Regina si diparte dalla vecchia stazione ferroviaria di Paladina da dove, per un lungo tratto, scorre tra anonime abitazioni ed edifici industriali. Solo a partire dall’incrocio con via Riviera (nell’immagine) si scorgono, a lato della stretta sede stradale, gli alti muri di ciotoli per la protezione di frutteti, orti, giardini, che fanno rimpiangere l’integrità di strade unitariamente fiancheggiate da case coloniche dai caratteristici loggiati in legno

Percorsi un centinaio di metri, quando la via si restringe in prossimità di una curva, le montagne si profilano in lontananza, insieme alla familiare sagoma del campanile della “Madonna del Castello” di Almenno

Ecco le case di via Ponte Regina osservate dal loro lato più agreste, che sfugge ai tanti automobilisti che percorrono questa viuzza per sfuggire alle code della Statale, probabilmente ignorando che stanno viaggiando su un’importantissima, secolare, via di comunicazione

Non a caso ad Almenno la postazione romana fortificata sulla colline di Duno (il Dunum di Canezzo ormai incluso nel sistema difensivo romano) e di Castra (5), in una posizione dominante gli accessi alle valli Imagna e Brembana, svolse la funzione di proteggere la Strada della Regina –  lungo la quale erano sorti accampamenti – dalle incursioni provenienti dalle valli; incursioni dovute alla resistenza indigena che continuò anche dopo la latinizzazione dell’ager bergomense.

All’altezza di un antico edificio in borlanti, via Ponte Regina compie una decisa curva a gomito per infilarsi lungo una lieve discesa lunga un centinaio di metri. Interessante è lo spigolo dell’edificio, rimarcato da grosse pietre squadrate

Al termine della discesa vi è il salto verticale della rupe che si affaccia sul fiume Brembo. Dalla sponda di Almè, il Ponte della Regina sorgeva proprio laddove ora si scorge un muretto
Nel I sec. a. C. le vittorie sui Galli (6) estesero la presenza romana nelle nostre zone portando una sorta di stabilità: nell’89 a.C. fu esteso il diritto romano alle città indigene transpadane, nel 49 a.C., quando Bergomum divenne municipium (7), la Bergamasca venne divisa in distretti (a loro volta suddivisi in più piccoli insediamenti), dislocati in particolare lungo le vie romane nei punti strategici e militari.

Uno dei distretti con cui i romani divisero la bergamasca fu appunto il pagus Lemennis.
Avente il centro amministrativo in Almenno S. Salvatore, presumibilmente nei pressi della Madonna del Castello, il pagus comprendeva diversi vici, fra cui quello di Almè (Lemene).

Le valli orobiche furono liberate dai rischi delle intemperanze degli avversari più irriducibili solo nel 43 a.C.; fu solo quindi in seguito a questa data che cominciò una lenta penetrazione dei coloni, insieme alla romanizzazione della popolazione locale e allo sfruttamento delle terre conquistate.

Questa colonizzazione si concretizzava con la formazione di nuovi insediamenti, nuclei o edifici sparsi di carattere rurale, o con l’integrazione di quelli esistenti, in particolare in quelli situati nei punti strategici e militari.
Tali insediamenti dovevano essere costituiti da edifici realizzati con materiali poveri o ricavati dalle risorse locali (legno, pietre di fiume).

A sorpresa sotto il malandato asfalto emerge il vecchio selciato, una preesistenza probabilmente medioevale, ma che induce inevitabilmente a domandarsi cosa possa celare lungo tale percorso
Si può ipotizzare che il territorio della futura Almè sia uscito da un certo isolamento solo dopo la conquista romana della Valle Padana, e più precisamente in occasione dei lavori per la costruzione della via militare per la Rezia (la Strada della Regina), che proprio in quest’area richiese opere di notevole impegno.
Ai confini dell’attuale territorio di Almè pare infatti siano stati eseguiti i lavori per il taglio del passo fra Almè e Bruntino al colle Cavergnano (un nome chiaramente di origine romana) e poi quelli per la costruzione del grande ponte sul Brembo, il celebre Ponte della Regina, il cui intervento, in particolare, richiedendo una prolungata presenza di tecnici, operai e soldati nella zona, fa supporre che essa abbia dato luogo all’impianto di insediamenti stabili che trovarono nel fertile pianoro riparato dai monti un luogo ideale, destinato ad attrarre anche parte della popolazione locale (in prossimità del punto di innesto del grande ponte sulla riva del Brembo sopravvive ancora il toponimo Fornaci, attestato già nel 1220, che sembra derivare proprio dalla presenza di un’officina, impiantata in età romana, per approntare i materiali necessari alla costruzione del ponte).

Il sito su cui sorgeva il Ponte della Regina, con in primo piano il punto d’innesto del pilone poggiante sulla sponda di Almè. Si nota un notevole salto verticale: rispetto al greto del fiume la struttura si elevava di circa 27 metri!

Il rettangolo rosso evidenzia i ruderi del pilastro di Almè; il rettangolo giallo indica i resti sommersi sulla sponda di Almenno; il rettangolo azzurro indica il grande pilone di Almenno. La linea color ciclamino è perfettamente in asse ai due pilastri su cui sorgeva il ponte ed anche Maurizio, scattando dalla sua postazione, si sente “perfettamente in asse” con questa emozione! (Elaborazione di Maurizio Scalvini)

Ed infine, visualizzata dalla sponda di Almenno, la rupe da cui si dipartivano i piloni dell’imponente Ponte della Regina, con in primo piano i resti del pilastro di Almè. Contrassegnato in rosso, il punto esatto in cui termina la via Ponte Regina, da cui si dipartiva il piano del ponte che fu a lungo percorso dagli eserciti romani e dove attualmente sorge il muretto da cui sono state scattate queste belle immagini

Certamente quindi, la presenza di una infrastruttura di rilievo quale è il Ponte della Regina favorì la formazione di insediamenti romani nella zona.

Ricostruzione del ponte di Lemine di Elia Fornoni, 1894. Il monumentale ponte di Lemine, o ponte della Regina, edificato per l’attraversamento del Brembo all’altezza di Almenno S. Salvatore, sorse (II sec d.C.) lungo la Strada della Regina, che ricalcava un antichissimo itinerario commerciale già ripercorso dai celti lungo il territorio di Lemine

Proprio il nucleo di Almè potrebbe essere sorto e sviluppatosi come caposaldo attestato in prossimità del ponte romano: la testimonianza documentaria di due torri medievali nel luogo detto corobiolo (dal latino quadrivium), ad est della Torre d’oro, potrebbero giustificare la presenza più antica del presidio.

Un documento del 867 d.C. cita un fundo et vico Larno oggetto della permuta tra Garibaldo, vescovo di Bergamo, e un certo Pietro di Presionico. La definizione contemporanea di vico e fundo è ritenuta associabile ad un insediamento attorniato da terre coltivabili (l’uso del termine vico e fundo in epoca altomedievale può autorevolmente giustificare un’antica presenza romana).

Strutture difensive medievali presso il Ponte della Regina (Gritti, 1997)

L’analisi della toponomastica locale ricavata da documenti medievali ci permette di ipotizzare una frequentazione del territorio di Almè suddivisa in diverse aree. Si individua quindi un’area detta dell’Arme – che ricorda l’antica dizione – entro la quale, racchiuso tra i torrenti Rino e Quisa, vicino alla via di Sombreno, poteva sorgere un insediamento ora scomparso: una trama catastale di particolare interesse proprio in questo sito potrebbe far pensare ad una derivazione dell’antico frazionamento.
Lo stesso dicasi per il toponimo Caprinium (Cavergnano), nome antichissimo di una località che si ricollega alla romana gens Caprinia.
S’individua poi la località 10 Pertiche situato tra Almè e Larno lungo l’asse diretto a Sud, a Agro collocato tra Villa d’Almè e Almè.

Particolare della carta dei dei luoghi dei ritrovamenti, delle famiglie del culto di Santi romani in Lemene e Val Breno, su un’ipotesi di maglia di centuriazione (elaborazione: Studio Gritti). In evidenza la toponomastica locale relativamente alle località dell’Arme, Caprinium e 10 Pertiche

Proseguendo verso sud lungo la medesima direttrice si incontrano altri nuclei, vici, quali Palatina, Scanum e Motium, dei quali sono stati scoperti pochi reperti pressochè tutti riferibili al I-II sec. d.C., e quindi in coincidenza di un effettivo progresso della società bergamasca.

Particolare della carta dei dei luoghi dei ritrovamenti, delle famiglie del culto di Santi romani in Lemene e Val Breno, su un’ipotesi di maglia di centuriazione (elaborazione: Studio Gritti). In evidenza la toponomastica locale per quanto concerne le località Palatina, Scanum e Motium, in cui sono riaffiorati reperti databili I-II sec. d.C.

Di grande suggestione è anche l’osservazione del culto dei Santi locali: vi si ritrovano dediche tutte ipoteticamente riconducibili al periodo tardo romano: tra queste S. Faustino e Giovita (Villa d’Almè), a S. Maria e S. Giovanni Battista (Almè, Mozzo), a S. Maria, S. Alessandro e SS. Fermo e Rustico (Sombreno e Paladina), a S. Vito (Ossanesga), a SS. Cosma e Damiano (Scano).

Inoltre, grazie al ritrovamento di alcune lapidi nei vici lungo la Valbreno, a Mozzo e a Ponte S. Pietro si conoscono il nome di alcune famiglie in parte di origine celtica (che testimomierebbero di una base sociale indigena) e in parte in relazione con l’area di Piacenza, d’altra parte legata a Bergamo come facente parte della tribù Voturia. Tra i personaggi di rilievo Marco Maesio Massimo, e la famiglia Calidii.

Carta dei dei luoghi dei ritrovamenti, delle famiglie del culto di Santi romani in Lemene e Val Breno, su un’ipotesi di maglia di centuriazione (elaborazione: Studio Gritti). Nella colonna a destra s’individua il culto dei Santi Romani riferito ad ogni singola località. Nella colonna a sinistra sono elencati i nomi di alcune famiglie locali, individuati mediante il ritrovamento di lapidi dislocate lungo il territorio
L’unica testimonianza archeologica rilevante nel territorio di Almè è il ritrovamento di un’ara dedicata al dio Silvano in località Cavergnano, che fu successivamente depositata nel campanile di Almè. L’ara, riferibile al II secolo, venne dedicata alla divinità da Marziale Reburro, probabilmente di derivazione celtica, figlio di Publio e di Igia (8).

La presenza di diversi insediamenti è testimoniata dal ritrovamento di numerose testimonianze archeologiche, la più importante delle quali è un’Il ritrovamento dell’ ara votiva al dio Silvano (II sec.), trovata proprio nell’area circostante il ponte, in loc. Cavergnano

Per quanto riguarda le direttrici viarie, sono stati individuati due tracciati che dal Ponte della Regina raggiungevano Bergamo, passando per Almè.

Strutture difensive nel comparto nord-ovest di Bergamo (elaborazione Studio Gritti)

Un tratto, inizialmente rettilineo, percorreva un tracciato che, passando per Almè, si dirigeva verso Brughiera, Petosino, Ramera, Ponte Secco, Valverde, fino alla porta di S. Lorenzo.

Si ipotizza poi che vi fosse un altro tratto – quello ritenuto più sicuro – che, passando per Almè, percorreva la spina dorsale che da Sombreno, salendo da Fontana, raggiungeva le pendici del colle di Bergamo accedendo alla città attraverso porta S. Alessandro, la porta occidentale (9).

Altre direttrici oltre a quelle sopracitate ebbero nuovo impulso a partire dalla fondazione della colonia di Piacenza (218 a.C.).

Da un punto di vista archeologico-topografico, l’originaria scelta insediativa del nucleo di Almè, potrebbe riallacciarsi ad un ipotetica direttrice proveniente da Sud: ovvero al percorso storico della transumanza (l’antica via Bergamo-Crema), l’antico tracciato di origine preromana che dalla pianura conduceva ai pascoli brembani disegnando l’asse Mozzo-Scano-Ossanesga-Sombreno-Paladina-Almè, lo stesso che proseguendo verso sud sarebbe poi divenuto in epoca romana, un asse di riferimento per la centuriazione, forse riferibile al cardo n. XX indicato dal Tozzi, ovvero il cardo massimo della prima centuriazione del territorio bergamasco (10). E ciò in relazione a quanto supposto in recenti studi.

Se così fosse, anche la via per Sombreno, prolungamento naturale del cardo, risalterebbe nella regolarizzazione centuriata delle terre adiacenti.
Alcuni ritrovamenti d’epoca romana e l’aiuto della toponomastica locale, ovvero l’indicazione circa la presenza di famiglie riconducibili all’area di Piacenza, sembrerebbero avvalorare questa ipotesi, testimoniando quindi l’esistenza di insediamenti romani presumibilmente impostati sulla centuriazione.

E’ lecito dunque chiedersi se esisteva una centuriazione nella piana di Almè. Le tracce rilevabili all’oggi sono piuttosto esili ma, osservando i catasti ottocenteschi si intravede una suddivisione dei terreni perpendicolare alla direttrice sopracitata, seguita dai luoghi ritenuti presenti in epoca romana:
Motium, Scanum, Ossanisga e Palatina.

Dal catasto ottocentesco. In generale i sistemi di misurazione e valutazione dei possedimenti risultano essere molto spesso tra gli elementi portanti su cui si basa una ricostruzione storica. Questo vale in particolare nel caso di Almè, sia per la questione della omonimia con Almenno (la già citata definizione Lemene), sia per la carenza di memorie storiche locali

 

Almè, mappa catastale del periodo Lombardo-Veneto, primo rilievo (Archivio di Stato di Milano)

Si potrebbe quindi scorgere una divisione particellare che suscita particolare attenzione individuando due diversi orientamenti.

Particolare della carta dei dei luoghi dei ritrovamenti, delle famiglie del culto di Santi romani in Lemene e Val Breno, su un’ipotesi di maglia di centuriazione (elaborazione: Studio Gritti)

Il primo, continuativo a quello presente nella piana sottostante, sarebbe individuabile sia in una griglia particellare nell’area presumibilmente occupata dall’antico vico Larno, sia lungo l’asse che da Sud conduce alla strada della Regina nel sito anticamente detto 10 Pertiche.

Il secondo, comprendente l’abitato di Lemene ed i terreni e SE, sarebbe invece impostato secondo la direttrice della Strada della Regina.
Verso Nord, la presenza dei toponimi corobiolo e agro nonchè del centro di Villa Lemene ci potrebbero indicare un prolungamento della centuriazione fino alla base collinare.

NOTE
(1) La comunità di Almè ed il suo territorio, fino a quasi tutto il XVI secolo, sono sempre stati indicati nei documenti con il nome LEMINE o LEMENE, esattamente come la vicina comunità di Almenno, stabilita sull’opposta riva del fiume. Per questo, l’analisi di ogni documento relativo alle due comunità presuppone un laborioso accertamento che possa stabilire con sicurezza a quale di esse si riferisca il documento in questione.
(2) Secondo il Rota (Origine di Bergamo, lib. III) “dun” è un’espressione che nel linguaggio gallico significa “colle o monte”; nella Gallia oltremontana si hanno infatti numerosi esempi di città situate in luoghi elevati i cui nomi finivano in “dun”, che poi i latini modificarono in “dunum”.
(3) La cultura di Golasecca, civiltà sviluppatasi nella regione dei laghi lombardi, tra il Po e l’arco alpino, si trovava in posizione di rilievo nei rapporti economici tra la civiltà etrusca e, oltralpe, quella celtica. Tale situazione, oltre al naturale sviluppo di una rete viaria locale, favorì il formarsi di direttrici di traffico comprese in lunghe rotte commerciali, sulle quali si attestarono anche centri urbani quali Como (nel V secolo punto di mercato in cui si incontravano gli itinerari commerciali fra i popoli transalpini e quelli dell’Etruria centro Italica), Bergamo e Brescia. Tra queste, vi erano quelle definite come la Transalpina e la Pedemontana. La Transalpina, in direzione NO-SE, congiungeva la valle del Reno con Felsina e l’area del Mincio seguendo il tracciato passo di S. Bernardino – Bellinzona – Canton Ticino – Como – Brembate – Fiume Mincio e Mantova. La Pedemontana, in direzione E-O, metteva in comunicazione Como, centro nodale per l’accesso a Nord, con Brescia via Bergamo (De Marinis annota che da Bergamo il tracciato forse si divideva in due direttrici: “a nord attraverso la valle S. Martino si perveniva a Chiuso e quindi a Lecco….a sud seguendo il corso del Brembo si poteva passare l’Adda all’altezza di Brembate e di Trezzo” e quindi proseguire per Como – cfr. R.C. De Marinis, 1995, p.4 -).
Altre vie ipotizzate erano quelle che seguivani i corsi dei principali fiumi quali l’Adda, il Serio, l’Oglio, nonchè le valli Seriana e Cavallina e, infine, un tracciato tradizionalmente usato per la transumanza attraversante Crema – Mozzanica – Bariano – Morengo – Cologno – Urgnano – Zanica. Da qui si ipotizza una biforcazione conducente ai pascoli subalpini, verso Est, in valle Seriana e, verso Ovest, in valle Brembana.
(4) Fra il III e il II sec. a.C. si assiste a una decisa penetrazione romana verso Nord. La necessità di un controllo di un territorio più ampio e l’introduzione di una politica intesa al dominio disciplinato delle popolazioni autoctone viene attuata dalla repubblica romana mediante l’imposizione di nuovi tracciati, la razionalizzazione di quelli esistenti, e l’applicazione del sistema di centuriazione. In area lombarda si favorirono i collegamenti di pianura. Questi privilegiavano i percorsi da Milano verso Novara, Pavia, Piacenza, Cremona, Brescia, Bergamo e Como.
(5) Alle pendici della collina di Castra, sono venuti alla luce i resti di di un acquedotto di epoca romana, il cui impianto idrico consisteva in un condotto in calcestruzzo con sezione ad “U”, privo di copertura, della lunghezza di circa 2 km, che prelevava l’acqua da una cascata portandola fino alla forcella di Castra.
(6) Man mano i Romani avanzavano verso il nord Italia, la reazione tenace dei Celti fu domata dopo 5 anni di aspra guerra; le ultime due resistenze, specie nelle valli, furono fiaccate dal console Valerio nel 196 a. C.. Cosicché Roma portò oltre il Po la sua potenza ed il nostro territorio fu certamente latinizzato (in sequenza le vittorie furono: 222 a.C. sull’Oglio, 199 a.C. sul Mincio, 198 a.C. a Como, 196 a.C. a Milano (Cfr. P.Manzoni, Lemine dalle origini al XVI secolo, Bergamo 1988, p. 19).
(7) Nel Bergamasco i confini non dovevano inizialmente oltrepassare le cime dell’Albenza, del Resegone e del Canto Alto.
Nel I sec. a. C. le vittorie sui Galli (in sequenza le vittorie furono: 222 a.C. sull’Oglio, 199 a.C. sul Mincio, 198 a.C. a Como, 196 a.C. a Milano (Cfr. P.Manzoni, Lemine dalle origini al XVI secolo, Bergamo 1988, p. 19) estesero la presenza romana nelle nostre zone portando una sorta di stabilità: nell’89 a.C. fu esteso il diritto romano alle città indigene transpadane, nel 49 a.C. Bergomum divenne municipium (Il “municipio” romano era diviso in distretti, a loro volta suddivisi in più piccoli insediamenti, dislocati in particolare lungo le vie romane nei punti strategici e militari.
Fu solo nel 43 a.C. quando le valli orobiche vennero assoggettate al dominio romano liberando tutta la fascia collinare dai rischi delle intemperanze degli avversari più irriducibili, che cominciò una lenta penetrazione dei coloni, insieme alla romanizzazione della popolazione locale e allo sfruttamento delle terre conquistate. Questa colonizzazione si concretizzava con la formazione di nuovi insediamenti, nuclei o edifici sparsi di carattere rurale, o con l’integrazione di quelli esistenti, in particolare in quelli situati nei punti strategici e militari.

(8) Silvano, dio romano forse assimilabile ad una divinità agreste celtica Cfr. M. Vavassori (a cura di), Le antiche lapidi di Bergamo e del suo territorio. Materiali, iscrizioni, iconografia, in “Notizie archeologiche bergomensi”, n. 1, 1993, pp. 145-146.

(9) E’ importante, a tale proposito, precisare che le direzioni delle vie principali che si dipartono (e convergono) dalle antiche porte della città, furono fissate già dai tempi antichi, almeno dal periodo romano, quando le probabili porte della cinta romana, erano, così come oggi, orientate secondo quattro punti principali (in qualche modo riconducibili ai quattro punti cardinali) che si aprivano verso Milano, Brescia, Como e la Valle Seriana, corrispondenze che furono poi confermate dalle aperture principali di quella medievale e poi fissate in quelle della fortezza veneta: Porta S. Alessandro – verso Ovest -, Porta S. Giacomo – verso Sud -, Porta S. Agostino – verso Est -, Porta S. Lorenzo – verso nord.
(10) “Conseguentemente all’ammissione dello ius Latii (89 a.C.), iniziò la centuriazione del territorio bergamasco. Studi precedenti hanno individuato due fasi distinte: la prima, interamente compresa nell’area pianeggiante del territorio, riferibile all’epoca dell’ammissione, la seconda, in parte sovrapposta alla precedente, realizzata in epoca augustea in una situazione meglio definita militarmente. Seguendo le indicazioni del Tozzi la prima centuriazione venne orientata secondo l’asse Spirano-Stezzano. In seguito la Cantarelli ha ipotizzato come Cardo massimo, il tracciato di riferimento per la prima centuriazione, l’antica via Bergamo-Crema – anticamente usata per la transumanza – passante per Verdello e identificata dal Tozzi come cardo XX: Se così fosse, anche la via per Sombreno, prolungamento naturale del cardo, risalterebbe nella regolarizzazione centuriata delle terre adiacenti” (Gritti, op cit.)

Riferimento principale
A cura di Andrea, Luigia e Pietro Gritti, “Almè, l’antico nucleo e il territorio”, 1997.

Un ringraziamento alla gentilissima signora che ha aperto a Maurizio i cancelli del suo cortile, postazione ideale per gli scatti fotografici presenti nel post.

L’articolo è pubblicato anche in Due passi nel mistero