La secolare vicenda della conca di Santa Lucia, da valletta rurale a quartiere residenziale

Mollemente disteso lungo il declivio occidentale della collina di Città Alta, il quartiere di Santa Lucia prende il nome dall’antico complesso monastico domenicano femminile “di Santa Lucia in Broseta”, fondato nel 1337, di cui è sopravvissuta la chiesetta posta a fianco del vecchio orfanatrofio maschile (oggi Scuola Imiberg) in via Santa Lucia.

Il quartiere di Santa Lucia nella Valle di Santa Lucia Vecchia, compresa nel vasto anfiteatro che spazia dalla città murata a nord, lo sperone del Fortino ad est (ossia la dorsale che scende dal borgo di Sant’Alessandro) e lo sperone che da Borgo Canale si allunga alla Benaglia ad ovest, delimitata a meridione dall’espansione novecentesca (Ph Moira Vitali)

Ancor’oggi, nonostante l’intensa urbanizzazione la meravigliosa conca rappresenta una sorta di “intervallo”, quasi luogo di sospensione fra la città dei borghi e l’immediata periferia, dove ancora si avverte il profumo di un passato rurale, splendidamente fuso all’impronta elegante del costruito, a partire dalle pregevoli ville e villini di stampo liberty del primo Novecento.

La veduta di Alvise Cima riproduce una larga porzione della Valle di Santa Lucia Vecchia, ai piedi del versante occidentale delle mura medioevali, compresa fra lo sperone di via Sant’Alessandro (terminante nel grumo di case del Paesetto) e la Valle di Sant’Alessandro ai piedi di Borgo Canale, così chiamata per la presenza a monte della basilica alessandrina, distrutta per l’erezione delle mura veneziane (1561-1595), rappresentate con il tratto nero sovrimpresso. La strada che corrisponde all’attuale via Tre Armi, radicalmente mutata per l’erezione delle mura veneziane, rappresentava il legamento al piede delle mura medioevali tra la Porta Santo Stefano (ora S. Giacomo) e l’innesto di Borgo Canale. La costruzione della piattaforma di Santa Grata (P) – che ha interrotto le vie Tre Armi e Paradiso – e del baluardo di San Giovanni (Q) ha isolato ulteriormente la conca di Santa Lucia, già esclusa a valle dal circuito delle Muraine.  Di fronte al Baluardo di S. Giacomo (O), che si innesta su via Tre Armi e su quella di S. Lucia Vecchia, sorgeva il promontorio su cui era costruito il complesso monastico domenicano (Z, 25) corrispondente al Fortino, che in caso d’assedio avrebbe favorito riparo al nemico. Insieme alla vicina porta (N) ha causato la distruzione della chiesa di S. Giacomo (24) e di quella di S. Barnaba e Lorenzino

 

Via Tre Armi presenta verso sud un muro continuo che chiude lo sguardo, bucato solo dalle scalette di collegamento con la conca di Santa Lucia. Verso sud si ricongiunge al Paesetto, dove si trova la seicentesca chiesetta della Madonna del Giglio, quindi a Porta San Giacomo; mentre nella seconda parte sale costeggiando i bastioni e il Seminario, fino a guadagnare l’incrocio con via Borgo Canale, che si diparte all’altezza della colonna posta a ricordo dell’antica Basilica Alessandrina. Proseguendo scende invece su porta Sant’Alessandro

Intessuta com’è da una delle orditure più complesse e sapienti dell’intero paesaggio collinare, la conca conserva, forse più di ogni altra, innumerevoli tracce del suo primitivo carattere agricolo: basta osservare le vecchie case e le cascine sparse, ed in primis i sedumi medioevali ancora presenti nella conca del Paradiso, e il calibro minuto degli appezzamenti evocanti le antiche colture dei broli (orti-frutteti delimitati da muretti a secco), oppure i percorsi acciottolati e i terrazzamenti con i muretti a secco di contenimento, che costrituiscono l’ “armatura” dell’antico paesaggio agricolo.

La Valle di S. Lucia Vecchia in una ripresa del 1884

Se a ciò aggiungiamo i moderni giardini, le alberature e le coltivazioni che ancora resistono, otteniamo un meraviglioso colpo d’occhio sulla grande esedra verde che ancor’oggi chiamiamo a buon ragione “Conca d’Oro”.

Scaletta del Paradiso. Da via Riva di Villasanta si diparte via del Paradiso (nome proveniente da uno scomparso monastero dedicato a Santa Maria del Paradiso), che con ampie curve a gradoni sottopassa un ponticello biforcandosi sotto una grande casa rossa ben restaurata, dove troviamo una lapide con antiche indicazioni, una santella della Madonna e una fontanella. Dal bivio la via prosegue in piano verso destra costeggiando la proprietà della Comunità missionaria del Paradiso, per poi salire l’ultimo tratto con una bella gradinata. Il ramo di sinistra è invece costituito dal vicolo del Paradiso che procede più ripido e più sconnesso con qualche curva, a fianco di un canale di scolo delle acque piovane, fino a sbucare su via Tre Armi un po’ più a monte dell’altro ramo

Un’impronta che si conserva evidente nei tracciati sinuosi – per gran parte gradonati e tutti in forte pendenza – che innervano il pendio intessendo una fitta rete di collegamenti rapidi che dalla piana, dall’antico convento e i suoi dintorni, giungono, oggi come allora, in via Tre Armi, in Borgo Canale, in via Sudorno e in San Martino della Pigrizia.

 Scaletta di Santa Lucia Vecchia. La più “cittadina” delle antiche scalette che conducevano ai campi fuori le Mura, in quanto maggiormente interessata dallo sviluppo urbanistico dell’ultimo secolo, si diparte a fianco della splendida Villa Tentorio, a margine della rotonda Santa Lucia – a mezza strada fra la Galleria Conca d’Oro e la piscina Italcementi -, da dove, con un’elegante doppia scalinata, si stacca il percorso selciato che conduce in via Tre Armi attraverso una teoria di 194 gradini. Si può concatenare alla Scaletta del Paradiso, che si raggiunge salendo via Tre Armi per circa trecento metri, affiancando gli orti posti fra i sovrastanti baluardi di Santa Grata e di San Giovanni

Rimandano alla matrice rurale anche alcuni toponimi, come via degli Orti, dove permane il caratteristico ambiente agricolo collinare, vicolo degli Ortolani nonché via e vicolo Fontanabrolo (“loco ubi dicitur Fontana in valle que dicitur Brolo”), che ricorda la presenza delle acque e la densità dei broli e delle colture da giardino che resero famosa la zona fino a tutto il Cinquecento.

Scaletta di Fontanabrolo. Il suggestivo nome deriva certamente da una sorgente, oggi perduta (la fontana di Cereto) nella zona coltivata a broli (orti). La strada inizia in piano, in via Statuto sopra le piscine, quindi piega a sinistra e sale. Il primo tratto è asfaltato, di servizio ai giardini delle ville, ma presto diventa una vera scaletta acciottolata, molto ripida ma ampia e ben tenuta, che con qualche curva punta verso la chiesa di Borgo Canale. Lungo il muretto “a secco” che l’affianca, corre un caratteristico fosso per le acque pluvie. La via accoglie sulla sinistra il vicolo degli Ortolani (nella zona storica degli orti) scorciatoia di collegamento tra i due spezzoni di via Fontanabrolo – di cui non ha l’eleganza – sfociando su via degli Orti

 

Veduta verso via degli Orti dalla Scaletta di Fontanabrolo (Ph Claudia Roffeni)

Scalette che i contadini percorrevano reggendo le grandi ceste ricolme di ortaggi che foraggiavano la città al piano: via Santa Lucia, via del Paradiso (che si staccano attualmente dalla via Tre Armi), e più defilate, verso Borgo Canale e la Pigrizia, la scaletta delle More, Fontanabrolo (che raggiunge via degli Orti, sul retro della cortina del Borgo Canale), vicolo degli Ortolani e, non dimentichiamo, lo Scalone di Sant’Alessandro, che si diparte dalla parte alta di via Francesco Nullo salendo ripida con i suoi 134 scalini a raggiungere il Paesetto e Porta San Giacomo attraverso la via S. Alessandro.

Anche la breve scaletta delle More, un tempo affiancata da rovi ricchi di frutti, ci porta su via Borgo Canale ma decisamente meno in alto di via Fontanabrolo, concedendoci una lenta e godibile salita, con un’ampia veduta su tutta la Conca d’Oro. La partenza avviene di fronte all’entrata delle piscine, in corrispondenza dell’inizio di via Fontanabrolo. Dapprima il fondo è acciottolato, poi la strada si trasforma in una scaletta con larghi gradini selciati, stringendosi man mano si sale tra i muri. Alla prima curva si può tirare il fiato volgendosi all’indietro e ammirando il panorama che si allarga salendo. Dopo essersi ulteriormente ristretta e passata sotto il balcone di una casa, la scaletta giunge in via Borgo Canale, quasi alla confluenza con via San Martino della Pigrizia. Per raggiungere Città Alta, basta percorrere tutta la via Borgo Canale fino a Porta Sant’Alessandro

LA CONCA E IL SUO ANTICO MONASTERO

La chiesa di Santa Lucia oggi: ciò che resta dell’antico complesso monastico

Ai tempi della fondazione del complesso monastico di Santa Lucia, la devozione alla santa siracusana era già consolidata in Bergamo, come testimonia una scultura del secolo XI inserita nella lunetta del portale d’angolo di Santa Maria Maggiore, dove  Lucia, identificata dal nome inciso nella pietra, partecipa come ancella addetta al bagno della Neonata Maria.

Il portale d’angolo di Santa Maria Maggiore eseguito dai Maestri Campionesi

 

La scultura del secolo XI inserita nella lunetta del portale d’angolo di Santa Maria Maggiore alla metà del XIV secolo e raffigurante la nascita di Maria, vede al centro della scena Lucia (identificata dal nome inciso nella pietra) partecipare come ancella addetta al bagno della piccola Maria

Nella rappresentazione di Bergamo risalente a metà ‘400 – la prima veduta realistica della Città – il monastero “Santa Lizia” è rappresentato con due campaniletti al margine sinistro oltre “lo rizzolo” (antica cinta muraria) e la cinta delle nuove Muraine.

Il monastero di “Santa Lizia” rappresentato nella prima veduta realistica della Città, risalente a metà ‘400

Ma l’isolamento del complesso di Santa Lucia rendeva il monastero rischiosamente esposto a infauste vicende, tanto che nel 1556 (1), a scopo precauzionale le monache decisero di trasferirsi all’interno delle Muraine, trovando definitiva sistemazione nel Prato di Sant’Alessandro – sul luogo dell’attuale Palazzo Frizzoni -, dove si aggregarono al convento occupato fino a quel momento dalle Umiliate di Sant’Agata de Rasolo, fondato nel Duecento dagli Antoniani del vicino ospedale di S. Antonio.

La chiesa, che prima era dedicata a S. Agata, venne unita a quella dell’ospedale di S. Antonio di Prato e dedicata alle Sante Lucia e Agata.

Il convento SS Lucia e Agata in Prato, distrutto negli anni Trenta dell’Ottocento per la costruzione del Palazzo Frizzoni, attuale sede del Comune di Bergamo. Anche il culto di Santa Lucia si trasferisce nel convento di Santa Lucia e Agata in contrada di Prato, all’imbocco di quello che sarà il Sentierone. L’antica devozione a Santa Lucia continuerà nella chiesa dello Spasimo in via XX settembre, poco distante dal convento demolito (particolare dell’incisione del 1815 ca. Proprietà Conte G. Piccinelli, Milano)

Da quel momento, a ricordo del trasferimento della comunità monastica, l’antica chiesa nella conca di Santa Lucia prese il nome popolare di “Santa Lucia Vecchia”, trasmesso poi a tutta la valletta.

La conca di Santa Lucia prima della costruzione dei “Villini”, con al centro l’omonima  chiesa (Raccolta Gaffuri)

La costruzione dello spalto di Santa Grata e del bastione di San Giovanni delle nuove mura veneziane (1561-1595) isolarono ulteriormente la conca di Santa Lucia e presto la chiesa finì in rovina, essendo già, ai tempi della visita apostolica di Carlo Borromeo (1575), piena di attrezzi agricoli.

La Conca d’Oro dopo la costruzione delle mura veneziane (da G. Paolo Lolmo – Pala del voto, 1581)

Ai tempi della peste del 1630 narrata dal Manzoni, il medico Lorenzo Ghirardelli scriveva che nel convento di Santa Lucia, ormai  ridotto a rudere isolato, era sopravvissuto un lembo di muro sbrecciato che manteneva prodigiosamente illeso l’affresco di Cristo curvato sulla strada del Calvario, attirando “i dolenti anche da lontani paesi” così come lo stesso Ghirardelli, che colpito dalla peste vi si rivolse offrendo in voto di ricostruire la chiesa. 

Il medico Lorenzo Ghirardelli documentò la tremenda epidemia di peste del 1630 in una dettagliata cronaca, la “Historia del memorando contagio”

Sopravvissuto il Ghirardelli all’epidemia e acquistate a tal fine “…casa e ortaglie in Santa Lucia Vetera”, ma morto ancor prima di portare a compimento il suo voto (1641), la nuova chiesa verrà edificata grazie ai figli (“padroni di questo luogo”), e consacrata nel 1648 con la nuova intitolazione al Santo Nome di Gesù, in coerenza con l’effigie cui era stata rivolta la promessa ai tempi del “memorando contagio”.

Panoramica della conca di Santa Lucia, fine otto/inizi Novecento (Raccolta Gaffuri)

Nello stesso periodo, il gennaio del 1622, fuori Porta Broseta, nel Borgo Pompiliano (futuro quartiere di Loreto), posto a non più di mezzo miglio dalla città, veniva inaugurato il santuario della Beata Vergine di Loreto e nel mese di giugno, con grande processione la statua della Madonna veniva traslata dal convento di S. Lucia.  

Il santuario di Loreto in uno schizzo di Pietro Ronzoni (1781-1861), nella contrada Broseta Foris, tra il bosco della Trucca e la roggia Serio

A quei tempi, parrocchia dell’intera plaga era la chiesa di Santa Grata inter vites, che abbracciava un’area vastissima.

Tavola topografica disegnata da Angelo Mazzi raffigurante la suddivisione delle vicinie bergamasche nel tredicesimo secolo. Se la strada di S. Lucia vecchia divideva le vicinie di S. Stefano e di Antescolis, l’altra maggior parte del sistema collinare ad occidente della città costituì per secoli la vastissima vicinia di S. Grata inter vites, dipendente dalla omonima chiesa di Borgo Canale

La chiesa nella conca di Santa Lucia (con “quattro reliquie in bellissima urna” sotto l’altare), dotata di abitazione per il sacerdote e per il sacrista, disponeva di un fondo per la messa quotidiana e perpetua e della rendita di terreni siti in Curno.

La chiesa di Santa Lucia, edificata nel 1672 dai figli di Lorenzo Ghirardelli (Alessandro, arciprete di Clusone, e Andrea, cancelliere della città) sulla precedente, fondata dal vescovo Cipriano degli Alessandri nel 1337. Dotata di una navata con volte a botte, presbiterio quadrato e tre altari laterali, la chiesa ha mantenuto il monastero fino al 1910, quando è stato costruito l’oratorio decorato in stile Liberty in armonia con il nascente quartiere

 

La pala d’altare di Francesco Capella, un tempo conservata nella chiesa di Santa Lucia Vecchio, ora nella nuova Parrocchiale (Tempio Votivo)

Alla sua morte nel 1692, Andrea, figlio del medico Lorenzo Ghirardelli, venne sepolto nella chiesa.

Sulla lapide di Andrea Ghirardelli ancora visibile nella chiesa di S. Lucia, si legge: “Le spoglie mortali dell’egregio Signor Andrea Ghirardelli fu Lorenzo segretario solertissimo della Città per anni 45 in questo sacrario da lui fatto costruire in pace riposano nell’anno della salvezza MDCLXXXXII”

La nuova chiesa, come detto intitolata al Santo Nome di Gesù, risultava simile per linee e proporzioni a quella della Madonna del Giglio presso porta San Giacomo, edificata nel 1660 in sostituzione della chiesa vicinale di S. Giacomo, distrutta per la costruzione delle mura veneziane nella seconda metà del Cinquecento.

La seicentesca chiesa della Madonna del Giglio al Paesetto, fuori Porta San Giacomo, sorta con la denominazione di chiesetta della Madonna di San Giacomo in sostituzione della chiesa posta più a monte, distrutta nel corso dell’erezione delle mura veneziane

In realtà, è intitolata alla Madonna del Giglio dal 1806, a ricordo dell’evento miracoloso del 1659 che vide protagonista Felicetta Coltrini, una fanciulla storpia, qui giunta a gran fatica dal borgo San Leonardo per chiedere la grazia alla Vergine dipinta ad affresco nei pressi dei portelli posti ai piedi di Porta di San Giacomo, tra le vie Tre Armi e Sant’Alessandro: la tradizione vuole che persino i gigli ormai appassiti deposti dinnanzi alla sacra immagine, improvvisamente rifiorissero. Dopo la concessione della grazia, l’affresco venne trasportato all’interno della chiesa.  

Chiesa della Madonna del Giglio. L’interno è impreziosito dall’altare in marmo arabescato, opera della bottega dei ticinesi Manni (1714), dalle sei grandi tele di Marco Olmo (1683-1753), lo stesso autore della pala della chiesa della Carità, e dagli affreschi della volta e del lunettone di C. Tencalla, d’inizio ‘700 (Raccolta Gaffuri)

I due edifici risultavano direttamente collegati dal vicolo Santa Lucia che  risale ancor oggi, con la denominazione di via Santa Lucia Vecchia (scaletta), la via Tre Armi (via radicalmente modificata dalla costruzione delle mura veneziane) e la Porta San Giacomo nella Città Alta.

Da via Tre Armi si possono ammirare da vicino le tecniche costruttive delle Mura: il muro a scarpa di base, il redondone (la cornice arrotondata in pietra che delimita il cambio di pendenza del muro) e il parapetto verticale. L’imbocco orientale della via coincide con lo spigolo del bastione di San Giacomo, dalla classica forma a stella, mentre nel tratto sudoccidentale,  interrotto dalla piattaforma di Santa Grata e dal bastione di San Giovanni, è occupato dalle le cannoniere (ingresso sul viale delle Mura), di cui si scorgono le bocche di cannone e le “sortite”, le porte da cui i soldati potevano uscire in campo aperto (Raccolta Gaffuri)

 

La conca di Santa Lucia nell’incisione di Pierre Mortier (Planimetria di Bergamo e suo territorio, 1704. Bergamo, Biblioteca Civica)

Il territorio intorno alla chiesa non subì trasformazioni, cristallizzandosi in un ameno paesaggio agreste che lambiva i non più minacciosi contrafforti della fortezza di Bergamo, come appare in un disegno di Giacomo Quarenghi, databile intorno al 1810.

Disegno di G. Quarenghi, 1810

NELLA CONCA COMPARE IL CIMITERO

Intorno al 1810, in seguito al divieto di sepoltura nelle aree urbane, fuori Porta Broseta, a servizio del sempre più popoloso Borgo di San Leonardo venne creato un cimitero dalla forma pentagonale intitolato a Santa Lucia, con ciò restituendo la devozione dell’antico e indimenticato monastero.

Il cimitero pentagonale di Santa Lucia nella pianta di Bergamo del 1810; il cimitero si trovava alla metà dell’attuale via Nullo

Il piccolo camposanto, uno dei tre cimiteri storici sorti in quel periodo fuori le Muraine (2), si trovava esternamente alla cortina del Lapacano ed era ancora in uso nel periodo in cui, a pochi passi, era già stato avviato il cantiere per il nuovo impianto della centrale della Società elettrica Bergamasca (1911 -1926), chiamata in seguito ENEL.

Via Nullo negli anni ’20, con l’edificio novecentesco della Società elettrica Bergamasca (nata ai primi del ’900 dalla fusione fra la Società elettrica prealpina e la Società bergamasca per la distribuzione dell’energia elettrica), costruito fra il febbraio 1911 e il 1926 su progetto dell’architetto Luigi Bergonzo, padre di Alziro, il progettista dell’attuale Casa della Libertà. Il cimitero di Santa Lucia venne dismesso nel 1813

 

Del  recente complesso residenziale costruito sull’area della vecchia centrale ENEL sono sopravvissuti i prospetti del grande edificio d’angolo tra le vie Nullo e Mazzini (un tempo destinato a sala macchine e trasformatori) e la palazzina della sottostazione di trasformazione edificata tra il 1923 e il 1926. Il nuovo isolato è composto da cinque corpi di fabbrica, su progetto dello studio di Antonio Citterio e Patricia Viel and Partners

Anche se ormai dismesso, e sostituito dal nuovo camposanto di S. Giorgio alla Malpensata, nella pianta del Manzini del 1816 il piccolo cimitero è ancora presente; intanto, nel 1910, il Comune aveva già decretato l’ampliamento dell’attuale via Nullo (parallela alla distrutta cinta del Lapacano), demolendo la preesistente centrale della Società elettrica prealpina, per ricostruirne una nuova.

Pianta dell’ing. Manzini del 1816. Cerchiato in basso il cimitero pentagonale di S. Lucia (a questa soglia già dismesso) e in alto la chiesetta di Santa Lucia Vecchia, congiunte dal tracciato della roggia Curna, che dall’attuale via Garibaldi prosegue verso il futuro Ospedale Maggiore. Da questo momento si individua parte della via Santa Lucia Vecchia nell’attuale via XXIV maggio dove, all’altezza dell’ex camera mortuaria sorgeva la Cascina del Ghetto (documentata in una pianta del 1930), il cui toponimo ricorrerà nel 1939 nella definizione dei confini della parrocchia di Santa Lucia, istituita in quell’anno

 

In un atto del novembre 1336 apprendiamo che nel corso del XV secolo, in concomitanza con un “ampliamento della cerchia antica sul colle per ricomprendere la parte alta del borgo di S. Stefano”, la contrada di Broseta si dilatò verso ovest e si creò il muro del Lapacano con una nuova porta fortificata di Broseta, da cui saliva a ricongiungersi con le mura medioevali nei pressi dell’attuale porta S. Giacomo (fotografia del 1884 eseguita da Cesare Bizioli – Patrimonio Lucchetti-Museo delle Storie di Bergamo – rielaborata da Gianni Gelmini)

Nel 1838 in Porta Broseta si insediava la filanda Berizzi, dando avvio al nuovo destino proto-industriale della parte bassa della conca di Santa Lucia, lambita dalla roggia Serio.

Gli insediamenti proto-industriali fuori Porta Broseta in direzione Loreto, lungo il corso della roggia Serio

Eletto a parrocchia nel 1863, il santuario di Loreto diventava parrocchia di riferimento anche per la zona di Santa Lucia vecchia e le sue pertinenze. Nello stesso anno, il lascito Ghirardelli finiva nelle proprietà dell’Opera Pia Azzanelli Cedrelli e la chiesa diventava di patronato della stessa Opera.

Il secentesco santuario della Beata Vergine di Loreto, nella contrada Broseta Foris nel Borgo Pompiliano, era preceduto dalla Porta Nera (qui ritratta prima della sua demolizione, avvenuta nel 1831), uno degli sbarramenti avanzati medioevali, di cui è sopravvissuta solo la stongarda di San Matteo a Longuelo

Ma nel 1902 la chiesa di santa Lucia passò alla famiglia Migliorini Carminati, che acquistò le Ortaglie del Paradiso,  la chiesa e gli annessi fabbricati, con l’intenzione d’istituirvi un Orfanatrofio, realizzato nel 1916.

Romeo Bonomelli – Ritratto della famiglia Carminati. La chiesa viene officiata dal 1902 al 1922 da don Angelo, sacerdote, ultimo esponente della facoltosa famiglia Carminati, che devolverà tutto il patrimonio all’abbellimento della chiesa e all’aiuto ai derelitti

CADONO LE MURAINE: NASCE IL QUARTIERE LIBERTY ED IN SEGUITO  L’OSPEDALE 

Via Nullo, primi ‘900, con Villa Bracciano in primo piano a sx

Mentre la Città Bassa aveva cominciato a trasformarsi già a partire dall’Ottocento, dando vita ad un moderno centro cittadino con grandi palazzi istituzionali, ampie strade e innovativi mezzi di trasporto, l’abbattimento delle Muraine agli albori del Novecento cambiava il volto degli antichi borghi, decretando la perdita di isolamento anche per la conca intorno alla chiesa di Santa Lucia.

1890: le Muraine viste dal Paradiso  prima della loro demolizione

In quel “grazioso angolo di campagna con meravigliose visioni di papaveri nei campi a primavera” (ma anche ad oriente del contrafforte di S. Stefano) sorsero le prime ville padronali e le prime palazzine in stile Liberty, costruite per famiglie borghesi, professionisti, imprenditori e commercianti, per massima parte tra il 1905 e il 1915 determinando la nascita di un quartiere ordinato a scacchiera, che andrà sviluppandosi fino alla fine della Seconda Guerra mondiale, acquisendo un nuovo impulso con l’avvento del boom economico.

Il nascente quartiere di Santa Lucia, ai primi del Novecento

 

Bergamo, via Nullo. Viaggiata nel 1924 da Bergamo a Roma (proprietà Marta Volta, ricevuta da Laura Ceruti)

Nel frattempo, nel 1916 sui terreni del lascito Carminati agli Istituti Educativi  iniziava la costruzione dell’Orfanatrofio Maschile (divenuto nel periodo della Prima guerra mondiale Ospedale Militare di Riserva).

La chiesetta di Santa Lucia Vecchia con a destra il grande fabbricato dell’Orfanatrofio Maschile

 

L’Orfanatrofio Maschile, adibito nel periodo della Prima guerra mondiale a Ospedale Militare di Riserva, con cappellano don Angelo Roncalli

In quel periodo, la società dei fratelli Ingegnoli di Milano aveva acquistato i terreni per un fronte di 500 metri dal Lapacano verso S. Lucia, iniziando la costruzione dei cosiddetti “Villini” della Conca d’oro, riecheggiando l’idea della città-giardino.

All’incrocio con via Nullo, Villa Bracciano, al civico 28, ambita dimora dell’alta borghesia, probabilmente la prima a essere costruita nel 1905-1906 nel nuovo quartiere di Santa Lucia. Fu commissionata da Carlo Bracciano all’architetto Luigi Bergonzo, padre del più noto Alziro. Il motto virgiliano LABOR OMNIA VINCIT in tipici caratteri Liberty, ben esprimeva l’etica del lavoro tanto caro alla borghesia bergamasca

 

Della stagione liberty è esempio monumentale la bizzarra Villa La Bassiana (in cima a via Nullo, al civico 50, in angolo con via Albricci), costruita da Angelo Sesti nel 1916 per l’avvocato Bassano Gabba (sindaco di Milano nel biennio 1909-10 e senatore del Regno dal 1924) che ne andava particolarmente fiero. Quasi simile a un castello, i numerosi disegni del progetto sono oggi conservati presso la Biblioteca Angelo Mai

 

Poco alla volta, i moderni edifici in cemento (poco costoso e facilmente lavorabile), abbinato al ferro battuto di cancelli ed inferriate, cambiarono il volto del quartiere andando ad occupare una vasta area tutta intorno alla futura via Statuto, che presto divenne residenza della media e alta borghesia del tempo, desiderosa di distinguersi attraverso la nuova espressione artistica d’inizio secolo.

Nell’immagine, risalente al primo Novecento, l’attuale via Santa Lucia, allora chiamata via al Paradiso, dall’incrocio con via Statuto. Oggi la via del Paradiso è ubicata più avanti, lungo la scaletta che porta in Città Alta. Nate dal disegno degli architetti e dalla personalità dei committenti, le fantasiose facciate Liberty furono affrescate con motivi floreali, geometrie, iscrizioni, eleganti figure femminili dipinte o scolpite, putti, festoni di frutta e cornici curvilinee, ripresi sia dal gusto proveniente dal Nord Europa, sia dagli esempi del passato

In un primo momento, essendo la zona completamente priva di servizi, il nascente quartiere era ancora congiunto alla città dal tortuoso tracciato di via delle Cavette (attuale via Sant’Antonino), che dal sagrato di Sant’Alessandro in Colonna arrivava fino al Lapacano costeggiando il parco dei conti Belli, mentre l’idea del “traforo del Fortino” per connettere il nascente quartiere con la città, comincerà a farsi strada solo a partire dal piano regolatore promosso dal Rotary nel 1926.

Scorcio verso la Conca d’Oro

Nel 1922, l’area era abitata da circa 400 persone, ma le costruzioni in atto e l’intricata rete del tracciato stradale – già dotato delle nuove vie Milano, Torino, Albrici, Alborghetti, Rismondo -, lasciavano presagire un notevole sviluppo tra la zona immediatamente pedecollinare (l’attuale via Rosmini) e le vie Statuto (completata nel 1933), Negri, XXIV Maggio, ai tempi percorse solo da carri e da una comoda linea tranviaria che arriverà fino al nuovo Ospedale, inaugurato nel 1930, epoca in cui si comincerà a pensare ad una chiesa nuova per il quartiere.

Ex Ospedale Maggiore Il grande complesso dell’ex Ospedale Maggiore viene realizzato negli anni 1927-1930 su progetto dell’ing. Giulio Marcovigi di Bologna. L’inaugurazione avvenne alla presenza dei futuri re Umberto II e regina Mara Jose, in onore della quale venne intitolato “Principessa di Piemonte” mantenendo tale denominazione sino all’avvento della Repubblica. L’edificio ha fatto la storia del quartiere e della città intera

L’ELEZIONE A PARROCCHIA DELLA CHIESA DI SANTA LUCIA, LA CREAZIONE DEL RIFUGIO ANTIAEREO E LA NASCITA DEL TEMPIO VOTIVO 

All’inizio degli anni Trenta gli abitanti della zona erano circa 1.000, e mentre si era da tempo acquistato il “bellissimo campo d’angolo” tra via Statuto e via Alborghetti dove edificare la nuova chiesa, nel 1939 la chiesa al Santo nome di Gesù veniva smembrata da quella suburbana di Santa Maria di Loreto per essere eletta a parrocchia con il titolo di “Chiesa di Santa Lucia vergine e martire”, recuperando l’antica dedicazione.  L’anno successivo veniva ceduta dall’amministrazione dell’Orfanatrofio alla curia di Bergamo.

Chiesa di Santa Lucia vergine e martire, in via Santa Lucia

Intanto, negli anni Quaranta nella zona c’erano poche case isolate, con la chiesetta di S. Lucia dominata dal poderoso edificio dell’Orfanatrofio maschile e la roggia Curna che correva lungo la via Statuto a demarcare le due anime del rione: quella alta ed elegante e quella bassa, ancora campestre, ricca di  campi di grano, gelsi, e frutteti, delimitati da piccoli fossati.

Il quartiere di Santa Lucia, chiamato comunemente “I Villini”. La via Mazzini (oggi Garibaldi) è già tracciata nel 1908 (annullo postale del 1929 – Raccolta Domenico Lucchetti)

 

Il quartiere di Santa Lucia, chiamato comunemente “I Villini” (ripresa fotografica del 1930 – Raccolta Domenico Lucchetti)

 

Il quartiere di Santa Lucia, chiamato comunemente “I Villini” (ripresa fotografica del 1930 ca. – Raccolta Domenico Lucchetti)

 

Il quartiere di Santa Lucia, chiamato comunemente “I Villini” (edizione del 1939 – Raccolta Domenico Lucchetti)

Ma a parte le ville liberty nell’insieme la valletta era ancora un’area agricola, perennemente baciata dal sole e ancora chiamata Conca d’Oro per l’amenità del sito e per l’abbondanza e varietà dei suoi coltivi.

Scorcio sui coltivi nella conca di Santa Lucia, nell’attuale zona delle piscine (Raccolta Gaffuri)

Nel frattempo, nel 1944 era iniziato lo scavo della Galleria Conca d’Oro sotto il colle del Fortino per creare il bunker antiaereo del Comando Germanico Werhmacht, collegato in “verticale” alla sovrastante villa (oggi nota come villa Bizioli) mediante una scala scavata nella roccia di cui è ancora visibile la porta in ferro di arrivo nel bunker, il quale era a doppia uscita.

Il rifugio antiaereo nella Galleria Conca d’Oro, nel 1949 ancora chiusa al traffico, con la strada sterrata e l’interno completamente buio

In quella bellissima residenza con torre ad altana/belvedere, si svolsero le trattative che, si dice, nel 1943/’45 salvarono la città, prima da un bombardamento alleato e poi dallo scontro insurrettivo.

L’imbocco della Galleria Conca d’Oro nel 1949, adibita in tempo di guerra a rifugio antiaereo del Comando Germanico Werhmacht, collegato in “verticale” alla sovrastante villa (oggi nota come villa Bizioli), sul colle del Fortino, mediante una scala scavata nella roccia di cui è ancora visibile la porta in ferro di arrivo nel bunker, il quale era a doppia uscita

Con lo scavo della galleria,  si poneva la premessa per la realizzazione del collegamento veicolare che dal 1953 sarà la Galleria della Conca d’oro.

A causa della guerra, ma anche per mancanza di fondi la cupola inconfondibile del Tempio Votivo cominciava ad emergere solo nel 1949, avviandosi al completamento l’anno successivo (poco dopo il Congresso Eucaristico diocesano e la proclamazione del dogma dell’Assunta), quando le anime della parrocchia di Santa Lucia erano ormai salite a 3.000.

Il 25 aprile del 1952, a sei anni esatti dalla posa della prima pietra, con grande concorso di popolo la nuova chiesa venne solennemente consacrata dal vescovo Bernareggi, dedicata al “Cuore Immacolato della Beata Vergine Maria” ma presto nominata Tempio Votivo (3) in segno di gratitudine per aver risparmiato la zona dall’orrore dei bombardamenti, adempiendo al voto fatto dalla Città di Bergamo nel 1943 (4).

Un momento della solenne processione propiziatoria sulle mura veneziane, convocata dal Vescovo Adriano Bernareggi il 14 marzo 1943 (prima domenica di quaresima e terzo anno di guerra), cui presero parte oltre 40.000 persone , “al seguito del venerato Crocifisso di Rosate…che ben altre volte vide davanti a sé la folla prostrata dei fedeli bergamaschi…” (dalla cronaca de L’Eco di Bergamo del 16 marzo ’43. Fotografia tratta da L’Eco di Bergamo del 15 marzo 1943)

 

Il Tempio Votivo della Pace, costruito su progetto dell’ingegner Federico Rota, è un corpo cilindrico dal diametro interno di 20 metri e alto 24 metri, sormontato da cupola emisferica cieca di 30 metri al vertice, con profonda abside e scarselle sulle diagonali. L’esterno viene rivestito in conci di pietra di Credaro ben squadrati, con elementi in Calcare bianco Zandobbio. Nell’altare maggiore sono sigillate le reliquie dei santi Adriano, Alessandro, Grata e Lucia. L’abside è rivestita da mosaico. I quattro stemmi modellati da Elia Ajolfi per l’altare del voto ricordano chi ha maggiormente contribuito all’adempimento: il vescovo Bernareggi, la diocesi, il Comune e la Provincia di Bergamo. Ma non va dimenticato il grandissimo contributo dei parrocchiani di Santa Lucia. Tra le pregevoli opere d’arte, la “Sacra conversazione” attribuita ad Andrea del Sarto, una “Deposizione” copia da Luca Giordano e un Crocifisso seicentesco in avorio (ora sull’altare maggiore). Inoltre, vi sono opere di Ugo Riva (Via Crucis), Attilio Nani (altare maggiore e vasca battesimale), Piero Brolis (Pietà e Crocifisso), Vanni Rossi (affreschi), Angelo Gritti e Trento Longaetti, a cui si devono anche le vetrate.  Inoltre, due dipinti di ambito locale dedicati alla figura di Santa Lucia, entrambi del XVI secolo

 

Il Tempio Votivo, al centro dell’immagine, è la chiesa parrocchiale della Conca d’Oro: eretto per adempiere il voto fatto dalla Città di Bergamo nel 1943 e consacrato il aprile 1952. Vi si tengono le principali liturgie

GLI ANNI DEL BOOM E L’APERTURA DELLA GALLERIA CONCA D’ORO

Negli anni ‘50-’60, pur mantenendosi residenziale la zona si adeguò ai mutamenti economici e sociali: dagli anni ‘50 cominciarono a comparire i primi condomini di via Rosmini, via Bologna, via Milano e via Santa Lucia.

In una cartolina del 1959 gli edifici ad appartamenti segnano ormai il volto di via IV Novembre

Nel 1953 venne portato a termine il collegamento veicolare fra il quartiere di Santa Lucia e il viale Vittorio Emanuele, realizzato mediante la Galleria Conca d’Oro, lunga circa 245 metri e tutta illuminata al neon.

Galleria Conca d’Oro

Fortunatamente non andò a buon fine il progetto concepito nel 1954 per creare un’altra strada partendo dalla rotonda di S. Lucia, che avrebbe dovuto aggredire con una serie di tornanti questa zona collinosa della città, creando “una rusticana passeggiata, una specie di ‘Viale dei Colli’ meno classico certamente del celebrato viale di Firenze, ma anch’esso allagato di sole, stornellato a primavera dalle chiome dei peschi che sui nostri colli esplodono prestissimo in fiore”.

Il Tempio Votivo oggi

Così come non andò a buon fine l’idea di far passare per la galleria una linea del tram, “nella suggestione di un traforo”, per raggiungere il bel quartiere di Santa Lucia (5).

Scorcio sulla Conca d’Oro e l’Ospedale Maggiore, 1955

In seguito, nel 1964 fu istituita la parrocchia di S. Paolo, al confine col quartiere, nell’ottobre del ’63 iniziarono a costruire le piscine Italcementi, entro il 1972 fu completato il complesso dell’Eurocollege, che dall’84 ospita l’Accademia della Guardia di Finanza e, sempre nel corso degli anni ’70, i contigui nuovi insediamenti di via Anna Frank e di via Damiano Chiesa.

La costruzione del nuovo Seminario, tra il 1960 e il 1967, portò un parziale rimodellamento della morfologia della conca di Santa Lucia, compreso l’interramento di una casa. Per contenere il materiale di conferimento e scarico derivante dalla costruzione del Seminario, lungo il pendio sottostante la via Tre Armi fu piazzata una muraglia di pietre ingabbiate, oggi non più visibile perché occultata da una rigogliosa vegetazione. Nella zona delle piscine Italcementi, che funse da gigantesca discarica, vennero provvisoriamente trasportati detriti per oltre 100.000 metri cubi

 

Le piscine Italcementi negli anni Settanta. Il Centro Sportivo Italcementi distribuito su una superficie di circa 30 mila mq, di cui 6.300 coperti, per un totale di cinque piscine oltre a un palazzetto dello sport e una piccola palestra. A destra dell’ingresso, apposta alla parete un’opera di Elia Ajolfi (Bergamo 1916-2001), mentre all’interno una scultura di Franco Normanni (Bergamo 1927-2005) dedicata alla Fontanabrolo.

La chiesa di Santa Lucia,  embrione di tutta la valletta, dopo un adeguato restauro venne riaperta al culto nel 1980, quando la parrocchia contava ormai circa 8.000 abitanti; anche se, come detto, le principali liturgie si tengono a tutt’oggi al Tempio Votivo, eletto a chiesa parrocchiale della Conca d’Oro.

Nel complesso, nel quartiere convivono pacificamente le tante anime che nel tempo vi si sono sedimentate, all’ombra del pendio dorato della conca dove  natura e costruito continuano a coniugarsi in perfetta armonia.

 

Note

(1) Per il Pasta 1586, per G.B. Angelini 1590. Per notizie relative ai due siti di S. Lucia si veda anche E. Fornoni, Le vicinie cittadine, pp. 440-411.

(2) In seguito alle nuove disposizioni imposte da Napoleone con l’Editto di Saint-Cloud, emanato in Francia nel 1804 per motivi d’igiene e di salute pubblica nel 1810 a Bergamo sorsero ben tre cimiteri, tutti fuori dalle Muraine: quelli di Santa Lucia, San Maurizio e Valderde. Nel 1813, ritenuta inadatta la sua localizzazione, il cimitero di S. Lucia venne dismesso e sostituito dal nuovo camposanto di S. Giorgio, costruito alla Malpensata, tra la chiesa e il grande parcheggio a lungo occupato dal mercato del lunedì. I tre cimiteri confluiranno in seguito nel Cimitero Unico costruito in viale Pirovano agli inizi del Novecento.

(3) La solenne consacrazione avviene in coincidenza con la conclusione del Sinodo diocesano svoltosi il 23 e 24 aprile e l’apertura definitiva al culto è del ‘53.

(4) Durante la solenne processione tenutasi il 14 marzo 1943, in piazza del Duomo il vescovo proclama solenne voto: “Per la città domandiamo la protezione di Dio; domandiamo tale protezione con la mediazione del Crocifisso, perciò è stato portato in trionfo; e domandiamo tale protezione anche con l’intercessione di Maria. Ecco il mio desiderio: se saremo risparmiati dai danni delle incursioni aeree, noi promettiamo e facciamo voto di erigere, quale parrocchia nel quartiere di Santa Lucia, a guerra terminata un tempio votivo al Cuore Immacolato di Maria, tempio che rappresenti nei secoli la nostra gratitudine al Signore”. L’epigrafe latina voluta dal vescovo Bernareggi a fascia di tutto il perimetro esterno dell’edificio proclama dunque: “COLOMBA BELLISSIMA CHE PORTI L’ULIVO DELLA PACE/ACCOGLI IL VOTO DELLA CITTÀ INDENNE PER IL TUO SOCCORSO/TI RENDIAMO GRAZIE O CREATURA DELLA TRINITÀ/SIGNORA DELL’ALTISSIMO GAUDIO DELLA CHIESA SPERANZA DEL MONDO/A TE CHE HAI CALPESTATO IL MOSTRO DELLA GUERRA/DEDICHIAMO PER LE MANI DI ADRIANO VESCOVO QUESTO TEMPIO”.

(5) L’Eco di Bergamo.

Bibliografia e sitografia essenziale

Progetto Il colle di Bergamo, Lubrina, 1988.

Valentina Bailo, Roberto Cremaschi, Perlita Serra, Alle porte  di Citta’ Alta, 2012, Associazione per Città Alta e i Colli di Bergamo.

Parrocchia di S. Lucia

Tosca Rossi, A volo d’uccello Bergamo nelle vedute di Alvise Cima Analisi della rappresentazione della città tra XVI e XVIII secolo. Litostampa istituto grafico, Bergamo, 2012.

Ultima modifica: 26 marzo 2024

Giro ad anello fra Astino e le colline di Mozzo, fra scorci mozzafiato e tracce di storia

La facile escursione, che si svolge nella parte occidentale dei colli, ricca di valenze storico-naturalistiche, si diparte dalla piana di Astino, con al centro il  complesso benedettino vallombrosano, immerso tra campi coltivati e dolci versanti terrazzati coltivati a vite e a frutteto. Il percorso si dirige verso Mozzo – dove spicca per importanza storica l’emergenza di Castello Presati – e prosegue salendo la cima del monte Gussa sino a lambire il balcone soleggiato di Villa Bagnada, dominante sulla pianura. Raggiunta la sella di Madonna del Bosco, il nostro percorso ideale s’inoltra nel Bosco dell’Allegrezza che cela, avviluppati nella folta vegetazione, i ruderi dell’omonimo “Castello”: una delle tante fortificazioni che punteggiano la zona. L’anello si conclude presso il monastero di Astino, uno dei monumenti più affascinanti di Bergamo, che al centro di una conca verdeggiante accoglie e ritempra il viandante, fra la secolare quiete delle sue spesse mura ed un piacevole effluvio aromatico sprigionato da innumerevoli essenze: il tutto, leggendo i tanti segni lasciati dai Vallombrosani in questa valle miracolosamente sopravvissuta al trascorrere del tempo.

Via Astino, arteria dell’omonima valletta compresa fra lo sperone della Benaglia e il bosco dell’Allegrezza. I licheni che vivono sulle cortecce degli aceri americani e dei frassini ornamentali disposti lungo il viale , indicano una qualità dell’aria decisamente superiore a quella cittadina

Il giro ad anello ha inizio dalla via Astino – che raggiungiamo anche dalle vie Sudorno, Torni e Lavanderio -, dove spicca la mole del monastero vallombrosano con la torre gotica del Beato Guala e la chiesa del S. Sepolcro, totalmente recuperati.

All’inizio dalla salita che conduce al monastero, adagiato su un terrazzo prativo alle prime balze della collina, il visitatore è accolto da uno splendido esemplare di Quercus petraea (rovere), che dominava questi territori prima del dissodamento per lasciar posto ai coltivi. I parenti più stretti si trovano nella Riserva boscata di Astino e dell’Allegrezza, sui due versanti della valle

Più in là, la Cascinetta del Mulino, un tempo adibita a legnaia ed oggi reception e spazio ricreativo, ricorda con il suo nome le attività che un tempo si svolgevano nella valle, ancor’oggi caratterizzata da attività agricole ad alto rendimento, grazie alla a un microclima termofilo, alla fertilità del terreno e dell’abbondante presenza d’acqua.

La vocazione agricola della conca di Astino è oggi perseguita sui terrazzamenti coltivati e nella piana, solcata dal reticolo di antiche rogge

Siamo nell’ultimo angolo della città rimasto quasi immutato nel tempo, ricco di presenze storiche e di grande suggestione paesaggistica: qui tutto “parla” del monastero e delle grandi opere intraprese dai benedettini Vallombrosani sin dal lontano 1070, quando si insediarono in terre per gran parte feudo dei Mozzo e dei Suardi, in un latifondo oggi sopravvissuto miracolosamente alla frammentazione e agli appetiti speculativi: da quel momento, i Vallombrosani cominciarono ad intrecciare una fitta rete di relazioni con le vicende politiche e civili della città.

Come quello benedettino di Valmarina all’opposto versante, l’ex monastero di Astino caratterizza fortemente il luogo in cui sorge, facendone il più ricco di valenze culturali all’interno dei Colli di Bergamo

Giunti ad Astino, i frati cominciarono a dissodare e livellare i terreni e a trasformare il luogo con sapienti lavori di irrigazione, terrazzando i declivi anche con muretti a secco di contenimento, così da poterli coltivare a fondo: era il periodo in cui i lavori intrapresi dai grandi impianti conventuali di Astino, Santa Lucia e Valmarina, emancipavano l’intero territorio comunale al ruolo di suburbio agricolo del “Comunis Pergami”.

La via Astino e il suo monastero agli inizi del Novecento. La strada campestre collegava la chiesa della Madonna del Bosco al monastero ed era percorsa da processioni, contadini, carichi agricoli

Se ci guardiamo intorno, possiamo ritrovare le tracce di quel lontano passato nelle cascine sorte intorno al monastero, inserite in un disegno minuto di vigneti ed orti, di pendii tagliati a gradoni, di viottoli e scalette, di muretti costruiti a secco sorretti da archetti.

E boschi, boschi rigogliosi come quello sopra Astino, che gli abitanti del posto chiamano familiarmente “Scabla”: un querceto secolare d’importanza comunitaria, la cui forma ricorda la pelle di un orso.

Il plurisecolare querceto del bosco di Astino (Ph Claudia Roffeni)

Osservando con attenzione, vediamo intrecciarsi strettamente le storie degli uomini e del lavoro nei campi e vedere nelle vicende attuali il futuro di questa fertile valle, da sempre vocata all’agricoltura.

Le cascine sorte con l’arrivo dei Vallombrosani avevano l’aspetto di fortezze, come si evince dalle grosse mura perimetrali o dalle torri poi inglobate in ristrutturazioni postume; solo con il tempo si trasformarono in cascine aperte, i cosiddetti “sedumi” che compaiono negli antichi cabrei.

Prese forma il minuscolo borgo del Lavanderio, e, insieme, ad una fitta rete di percorsi di terra – di cui il convento era il fulcro – e di vie d’acqua.

una delle cascine sopravvissute nella valletta di Astino negli anni ’70 (Ph Edgardo Salvi)

Fin dall’epoca del suo insediamento, il monastero si approvvigionava di acqua dalla fontana “Astina”, ovvero il Lavanderio.

L’antica fontana “Astina” detta “Lavanderio”, da cui ha tratto origine la denominazione del borgo (Ph Claudia Roffeni)

L’autorizzazione alla captazione da parte del Podestà di Bergamo risale al 1203, ma prima, nel 1156, il monastero aveva ottenuto il diritto a captare l’acqua anche dalla fontana dell’Acquamorta, che insieme alla fonte del Gavazzolo alimentava generosamente l’acquedotto di Sudorno.

Dal XII secolo la sorgente dell’Acqua Morta (documentata dal 1156), posta in via S. Sebastiano al di sotto delle Case Moroni, fornì le sue acque alla conca di Astino; ad ovest del monastero resta traccia del condotto che vi giungeva

La piana di Astino è ancor’oggi disegnata dai canali di irrigazione che documentano la sapienza delle antiche opere idrauliche intraprese dai Vallombrosani: come il Canale del Pomperduto (che deriva l’acqua dal Serio sotto il ponte di Gorle e la conduce con tre “seriole” che tagliano la città, fino alla pianura di Stezzano e Levate) e la Roggia Curna, una derivazione della Morlana, a sua volta alimentata con acque dal fiume Serio.

Ideata primariamente dai Benedettini di Astino a cavallo del 1100 d.C., fu rifatta completamente da Bartolomeo Colleoni nel 1475 per portare le acque irrigue nelle sue estese proprietà terriere ad ovest di Bergamo, quindi verso Mozzo, Curno, Treviolo e Ponte San Pietro, notoriamente in balia delle estati siccitose. La Curna è tuttora di proprietà del Luogo Pio della Pietà Istituto dallo stesso condottiero.

Oggi il reticolato idrico è stato semplificato per facilitare il movimento dei moderni mezzi agricoli e i canali sono stati approfonditi allo scopo di drenare i campi convogliando l’eccesso delle acque superficiali.

Affiancato da platani e ontani, l’antico canale disegna oggi una grande ansa tra i campi, accorpati dal secondo dopoguerra in seguito all’abbandono delle campagne. Nel tratto a valle dell’attraversamento stradale, costituisce un corridoio ecologico con canneti e ripe vegetate, offrendo rifugio a fauna e flora spontanea

Ancor’oggi la valle d’Astino ha acque proprie, sia di origine sorgentizia, sia perché solcata da canali d’impluvio (qui nasce il torrente Morletta), mentre la falda sotterranea, ricca d’acqua, alimenta il pozzo recente servendo l’attuale progetto agricolo biologico: acque preziose, da sempre tenute in grande considerazione e gestite con oculatezza, a partire dai primi contadini che vi abitavano.

Tra gli appezzamenti di maggiore estensione oggi si alternano cereali (frumenti, segale, farro) e leguminose (soia), circondati da frutteti coltivati biologicamente. La presenza di un’ampia varietà di prodotti disponibili in ogni stagione, permette di rifornire direttamente i consumatori e i banchetti dei mercatini agricoli: un esempio di produzione a km 0

I PERCORSI

Anche le strade che percorriamo ricalcano l’antica rete dei collegamenti – imperniati sulla presenza del monastero – ed in primis il tracciato che sale al Lavanderio o quello che si inoltra nel bosco dell’Allegrezza per risalire all’antica via Bagnada, scollinando alla Madonna del Bosco.

L’antico monastero era uno snodo della strada proveniente dalla bassa Valle Brembana, che dal ponte di Briolo si dirigeva al Rizzolo del Pascolo e da lì alla sella di Madonna del Bosco, discendendo per l’antica via Bagnada, l’Allegrezza e il monastero. Raggiunto il Lavanderio, si risaliva alla Botta di San Sebastiano e da li a San Vigilio, in direzione Città Alta. Oggi il collegamento più immediato con Città Alta avviene attraverso i Torni e via Sudorno (un altro successivo asse è quello costituito da via San Martino della Pigrizia che da via Longuelo o da Strada Vecchia saliva a confluire in via Borgo Canale, antico confine tra le vicinie)

Il borgo del Lavanderio, il cui nome deriva dal lavatoio ancora presente, è sorto proprio sul percorso che collegava Città Alta – e lo stesso monastero di Astino – ai ponti di attraversamento sul Brembo attraverso Rizzolo del Pascolo; un percorso la cui antichità è comprovata dalla torre difensiva  medioevale, mozzata ed inserita nella cortina edificata posta all’altezza del portico, il quale ne ha celato la vista dalla valletta.

L’erta salita che conduce al minuscolo borgo del Lavanderio (Ph Claudia Roffeni)

IL PERCORSO: TRA VILLE, BOSCHETTI E ANTICHE FORTIFICAZIONI 

In un ambiente così conservato, percorrendo il nostro itinerario possiamo ancora “leggere” i segni del sistema difensivo medioevale eretto attorno alla città, di cui vi sono ampie tracce nelle strutture isolate d’avvistamento e segnalazione presenti tra Longuelo e Mozzo, dove, sia in pianura che in collina, sorgono torri, “castelli” e cascine turrite.

La zona di Astino è proprio quella che conserva il più articolato sistema di torri e fortificazioni, che controllavano le principali vie di penetrazione proteggendo sia il suburbio che la città murata, compresi i borghi che erano sorti lungo i suoi fianchi (a loro volta protetti da addizioni, cui si accedeva attraverso porte fortificate come quella dei Sanici in Borgo Canale).

A oriente della valletta di Astino, il colle di San Matteo della Pigrizia termina con l’emergenza settecentesca di villa Benaglia sorta sul luogo di un’antica fortificazione databile intorno al XV secolo, posta in collegamento visivo le  torri circostanti

All’estremità nord-occidentale dei colli, l’antichissima roccaforte di Sombreno, posta a controllo delle valli Brembana e S. Martino, svolgeva le medesime funzioni di avvistamento, mentre al vertice di tutto il sistema di segnalazione il Castello di S. Vigilio e, dal XIV secolo, la Rocca sul versante opposto, assicuravano in caso di pericolo una puntuale difesa.

Lo stesso monastero era in contatto visivo con la trecentesca casa-torre che sorge ad ovest, in via Astino 41, proprio in angolo con via Ripa Pasqualina: un antico fortilizio inglobato in un edificio.

La torre di via Astino 41

 

La fortificazione all’angolo tra via Astino e via Ripa Pasqualina, come si presentava nel 1910

Era poi in contatto visivo con la torre della cascina Bechèla (Becchella), nella via omonima, che si innesta allo svicolo tra via Astino e via Madonna del Bosco.

La Torre trecentesca della Cascina Becchella, posta al centro di un complesso rurale che incorpora la rozza torre, valorizzata in un successivo restauro. La via prende il nome dall’antica cascina fortificata Boccaleone detta Bechèla

Proseguendo per via Madonna del Bosco ed oltrepassata la cascina-trattoria Lozza, con animali in bella mostra per la gioia dei bambini, ci dirigiamo verso l’edificio delle Suore delle Poverelle (fondato nel 1869 dal Beato don Luigi Palazzolo ed ora casa di riposo per le suore), raggiungendo in breve la Chiesa di Madonna del Bosco, costruita nel 1762 abbattendo la primitiva cappella del 1615.

La chiesa di Madonna del Bosco, sorta nel 1762 in luogo di una cappella votiva dedicata alla Madonna che era stata eretta nel 1615 dalla gente della Val d’Astino, in questa località evidentemente ricca di alberi. Dal 1925 è chiesa parrocchiale

All’inizio dei tornanti che salgono ripidi alla sella di via Madonna del Bosco (strada aperta nel secondo dopoguerra), la piccola via della Vena portava a una cava di pietra arenaria, ora abbandonata, e le cui tracce sono ben visibili sui tornanti della nuova strada.

La fontanella che si incontra all’imbocco di via Castello Presati

Ma all’altezza della chiesa il nostro itinerario piega a sinistra lungo la pianeggiante via Castello Presati, che prende il nome dal possente fortilizio dei Capitani di Mozzo e che si incontra dove la strada, restringendosi, diviene sterrata.

In via Castello Presati

Mantenendoci lungo via Castello Presati costeggiamo il muro del campo da golf, attraversato da un antico bosco di roveri, incontrando diversi edifici tra cui la Casa Carnazzi e l’attigua cappella dedicata a Sant’Anna, sorte in età barocca quando Mozzo acquisì un ruolo di villeggiatura suburbana.

Villa S. Anna, in via Castello Presati

Giungiamo quindi a Castello Presati, adagiato su un dossello coltivato a vite e alla cui base sorgono cascine dal tardo medioevo. L’edificio è identificato nelle sue strutture più antiche con il castello dei signori di Mozzo.

Cartello Presati, citato all’inizio del XII secolo da Mosè del Brolo, è posto su una collinetta  in vista delle difese di Astino ad est e del territorio a ovest

Si sostiene che la sua torre quadrata sia stata fatta abbassare in epoca Napoleonica.

La corte di Castello Presati. Verso monte si intravedono il bellissimo arco acuto dell’ingresso e gli spigoli vivi delle pietre angolari

Da via Castello Presati, lasciata a sinistra la via che scende verso Longuelo, proseguiamo per via Borghetto di Mozzo, ammirando la conca stretta tra lo sperone del castello Presati (265 m.) e quello del colle Lochis (m. 287-309 s.l.m.), la propaggine che conclude a sud-ovest il sistema collinare, caratterizzando il crinale con cipressi secolari e disegnando il pendio con la trama dei vigneti e le case a corte con rustici, aperte a meridione.

Il colle costituiva una linea fortificata avanzata a difesa della città, dominata dal “castrum” dei capitani di Mozzo, un’importante famiglia documentata nel IX secolo, che contribuì alla nascita del monastero di Astino.

Colle Lochis, in territorio di Mozzo, dominato dalla residenza sorta in luogo di un’antica fortificazione, sul crinale caratterizzato da viale di cipressi. Alla base del pendio dolce e riparato si sviluppa il nucleo del Borghetto

Fiancheggiato il centro di recupero funzionale (ex Ospedale di Mozzo), continuiamo su via Borghetto (che segue l’andamento del colle tra villette, vigneti e bosco) sino a via Castello (una via asfaltata chiusa alle auto da una catena), che seguiremo in salita piegando a destra. Più si sale e più il panorama diviene ampio ed invidiabile.

Dopo il tratto di salita, la via Castello diviene pianeggiante sovrastando bellissimi vitigni; raggiunto il punto in cui la strada comincia a scendere, abbandoniamo via Castello per piegare nettamente a destra (indicazioni) imboccando il largo sentiero 805 CAI che si immette nel fitto e fresco bosco.

Poco oltre, raggiunto il primo bivio sentieristico, pieghiamo a sinistra per raggiungere in poco più di dieci minuti la modesta cima del Monte Gussa (390 m) in territorio di Mozzo (segnavia 807 CAI), dove è presente la croce metallica costruita dagli scouts nel 1950 e ricostruita dagli Alpini di Mozzo nel 1981.

La croce metallica del Monte Gussa in territorio di Mozzo: una zona attorniata da sentieri

Torniamo al precedente bivio sentieristico e pieghiamo a sinistra per raggiungere in breve la carrareccia che costeggia il lungo muro di contenimento della tenuta dell’imponente Villa Bagnada , punto panoramico in comunicazione visiva con il colle della Benaglia.

Villa Bagnada, immortalata da Claudia Roffeni. L’interno della villa è completamente affrescato

La villa, un esempio di architettura neoclassica di fine dell’Ottocento concepita come casa di villeggiatura, fu presumibilmente occupata dai capitani di Mozzo, data la sua posizione e i muri medioevali su cui è fondato il corpo centrale.

Vista frontale di Villa Bagnada, immersa nell’omonima tenuta (Ph Claudia Roffeni)

La dimora,  oggi dei fratelli Bonassi, si trova al centro di un paesaggio collinare ancora integro, dominando sola soletta la conca, al limite del bosco, e restando ben visibile dalla pianura.

Villa Bagnada: la semplicità dell’architettura è riscattata dalla bellezza della posizione e della natura. Su via della Vena, ai piedi del colle, è segnalata anche una cascina Bagnada bassa

 

L’interno dell’attigua chiesetta, costruita nel 1661 dal nobile  Giacomo Francesco Bagnati del fu Guardino, conserva una pala d’altare raffigurante una Madonna con Bambino, S. Francesco d’Assisi e S. Felice

Nonostante la modesta quota (338 m), il panorama sulla città di Bergamo e sulla pianura occidentale è davvero apprezzabile e la vicinanza ricorda la vicina frasca, ormai divenuta casa privata, cui si accedeva dalla sterrata di via Caneva (da “cantina, deposito di vino”, appunto).

Via Caneva, strada campestre posta tra via Bagnada e via Rabaiona

Lasciata alle spalle l’omonima villa, ripariamo mantenendoci su via Bagnada, che diviene in breve nuovamente asfaltata, e proseguiamo sempre dritti su via Rabaiona, toponimo derivante probabilmente dal cognome Rabaioni o Rabaglio, conservato nel nome di una cascina.

In lieve discesa raggiungiamo la sella di Madonna del Bosco (il valico che collega la conca di Astino con quella di Sombreno) per immergerci, al di là della strada, nel fitto bosco dell’Allegrezza attraverso un sentiero che ridiscende dolcemente sino al bivio sentieristico che indica verso destra la direzione per il Castello – Cascina dell’Allegrezza.

Il bosco dell’Allegrezza, in vista dell’antica fortificazione. Il toponimo sembra derivare dal termine “Grangia”, deformato in “Granza”; troviamo nel corso dei secoli: “la Granza”, “Alagranza”, “de la legranza”, “Allegraza”, “Allegrezza”. Ma potrebbe essere anche una deformazione del termine “leporizia”, un’allusione alla ricchezza di selvaggina (Ph Claudia Roffeni)

In breve raggiungiamo i ruderi del Castello dell’Allegrezza (280 m), nel medioevo presidio fortificato di proprietà della potentissima famiglia Suardi, inserito nel sistema difensivo del suburbio. Era dotato di un’alta torre di avvistamento posta in contatto visivo con il Castello Presati.

I ruderi del Castello dell’Allegrezza, presidio fortificato medioevale poi adattato a cascina (Ph Claudia Roffeni)

 

Il Castello dell’Allegrezza, proprietà fortificata della potentissima famiglia Suardi (Ph Claudia Roffeni)

Esaurita la funzione originaria, il complesso venne adattato a cascina con l’apertura di alcune finestre, la creazione di una corte e la costruzione di un porticato sul fianco est, per poi essere abbandonato alla fine degli anni 50 del secolo scorso.

I ruderi lasciano trapelare la solida geometria delle sue architetture, con le cortine murarie in massicci blocchi di pietra a vista, accuratamente squadrata (Ph Claudia Roffeni)

Il Castello è immerso in una Riserva tutelata, grazie alla presenza di un querceto misto a specie rare nella collina Bergamasca (come il cerro), lungo il sentiero che congiunge la Madonna del bosco alla valletta di Astino.

Scorcio sul bosco dell’Allegrezza con il suo “Castello” (Ph Claudia Roffeni)

Non mancano i castagni, che erano fonte di alimento e di materiale da impiegare nel vigneto e per riscaldare e, con un po’ di attenzione, si scoprono anche i vecchi terrazzamenti.

Il Castello è immerso in un’area speciale di tutela, grazie alla presenza di un querceto misto a farnia, rovere e specialmente cerro (ampiamente diffuso in Appennino e facilmente riconoscibile per la cupola della ghianda aculeata), con carpino bianco e frassino minore, un’autentica rarità nella collina Bergamasca, ove prosperano i robineti e i vecchi castagneti che tentano a fatica di ritornare querceti come in origine (Ph Claudia Roffeni)

 

Il ruderi del Castello-Cascina dell’Allegrezza (Ph Claudia Roffeni)

Ritorniamo indietro sino al precedente bivio e seguiamo ancora in discesa il sentiero che in breve si immette sulla strada asfaltata di via Allegrezza, da cui si apre una veduta di largo respiro sulla piana coltivata di Astino.

Dalla via dell’Allegrezza si può godere della vista del terrapieno del monastero, un tempo destinato alle colture difese dagli alti muri e i cui prodotti erano destinati alla cucina. Si può anche apprezzare l’eccezionale l’amenità del luogo e il profumo delle essenze (camomilla, malva, calendula, menta ed equiseto) e il colore delle bacche mature (more, lamponi, mirtilli giganti, cespugli di ribes rossi e gialli, di uva-spina e fragole), ricche di vitamine ed antociani dalle proprietà antiossidanti

Percorriamo la strada raggiungendo in breve tempo il complesso monastico, che i frati rinnovarono dagli inizi del ‘500, quando nella valletta fortificata intervennero importanti cambiamenti.

Il chiostro dell’ex monastero di Astino prima degli interventi di recupero

AGLI ALBORI DEL CINQUECENTO: IL RINNOVAMENTO AGRICOLO E LA NASCITA DELLE CASE DI VILLEGGIATURA

Con gli interventi di rinnovamento eseguiti nella chiesa e nel monastero anche  la terra divenne oggetto di un rinnovato impegno di sfruttamento agricolo: le nuove cascine sorte intorno al monastero e distribuite lungo il calibro minuto  dei tracciati medioevali, vennero adattate ad usi rurali, così come i robusti impianti fortificati circostanti quali il Castello dell’Allegrezza o la torre del Lavanderio, che da quel momento vennero a dipendere dall’abbazia: un documento del 1516 rivela che il terreno intorno al Castello dell’Allegrezza era ‘coltivato a vite, prugni, castagni da frutto e da legna, meli, peri, noci, ciliegi, fichi, salici, roveri, cerri’.

L’ambiente naturale intorno ai ruderi dell’antica Cascina-Fortezza dell’Allegrezza (Ph Claudia Roffeni)

Già nel Quattrocento, sulla collina di San Vigilio erano sorti i primi roccoli,  avviando una tradizione tipica della terra bergamasca e dei suoi abitanti. Ora considerata pratica crudele, la caccia con le reti era un tempo l’unica che consentisse a montanari e contadini di aggiungere nel piatto – dove prevaleva la polenta – la saporita carne degli uccelli stanziali e di passo; quotidianamente, dai colli giungevano alla città  lunghe sfilze di tordi.

L’inizio del Cinquecento è anche il momento in cui la plaga di Astino è già ambito e collaudato luogo di villeggiatura suburbana, con le “villulae” che punteggiano qua e là i crinali ed i pendii.

L’ingresso di un’antica dimora affacciata sulla valle di Astino, lungo la strada del Lavanderio (Ph Claudia Roffeni)

 

Prospetto della dimora affacciata sulla valle di Astino, lungo la strada del Lavanderio (Ph Claudia Roffeni)

Ville di dimensioni raccolte affiancate da rustici, in una semplicità di elementi costruttivi, di impiego di materiali e colori, felicemente fusi in un paesaggio disegnato da alberi e coltivazioni. Oggi, non sempre riconoscibili in quanto trasformate da ristrutturazioni successive.

La forcella della Botta di San Sebastiano nel 1938: è in questo importante nodo viario che si concentrano i maggiori interventi del periodo, con la chiesa di S. Sebastiano e la cortina edificata della Botta e la piccola piazza alla quale confluiscono le vie del Colle dei Roccoli,  del Rione, S. Sebastiano (quest’ultima tracciata proprio agli inizi del ‘500) e la via Botta

La tradizione vuole che Plinio il Giovane, nipote dell’altro Plinio (morto nell’eruzione del Vesuvio), avesse una villa sui colli. Nativo di Como, Bergamo doveva essergli familiare e si volle identificare in una villa sul crinale tra il Pascolo dei Tedeschi e la valle d’Astino la dimora – chiamata ancor oggi Villa Plinia, sede delI’Istituto Palazzolo-Noviziato Suore delle Poverelle – dove trascorreva le vacanze.

Com’era Il monastero nel 1972 (Ph Gianni Gelmini)

Del tardo Quattrocento riconosciamo la “Cascina Moroni”, mollemente adagiata su un terrazzo soleggiato al di sotto della Bastia: fu edificata dai monaci di Astino come tubercolosario ad uso privato (è infatti impreziosita da affreschi di soggetto religioso) e poi divenne un edificio padronale.

Al bivio tra via Case Moroni e via del Rione, la “Cascina Moroni” è conservata nel suo aspetto originario. Dal 1600 divenne proprietà dei conti Moroni e negli anni ’50 fu adibita a “frasca”, gestita dalla famiglia Nessi fino agli anni ‘80. La sua origine non rurale si riconosce nella netta distinzione tra la parte padronale e quella rustica giustapposte, la prima con portico ad archi ribassati su pilastri di arenaria e loggia sovrastante ad archi su colonne

 

Come appariva il versante dei Torni negli anni 70, quando ancora si coltivava la vite. Via alle Case Moroni attraversa il pendio fino all’omonima cascina, in quegli anni adibita a frasca

Nella fase cinquecentesca delle ville sui colli rientra anche la non lontana Villa Benaglia, che dominando il piano di Longuelo forma una delle più spiccate emergenze architettoniche e ambientali del Parco dei Colli.

Villa Benaglia, con l’arioso fronte meridionale a portico e loggiato ad archi; il raddoppio delle arcate al primo piano richiama i loggiati rustici e i chiostri conventuali del XV secolo

Dal 1600, il versante meridionale, terrazzato dagli stessi Vallombrosani, fu vitato con uva bianca moscatella, vernaccia e malvasia, regalando la sua impronta al paesaggio della Val d’Astino.

I tralci di vite erano sostenuti da pali ricavati dai castagni del bosco e maritati a olmi o aceri campestri. La terra tra i filari, distanziati tra loro di 3-4 metri, era coltivata zolla per zolla, concimata dal letame che usciva dalle stalle

I grappoli, portati al monastero lungo i sentieri campestri, venivano immersi negli enormi tini delle imponenti cantine, dove affluivano anche uve di altri territori che fecero del monastero la prima cantina sociale della Bergamasca.

Un momento della degustazione dei vini e delle birre artigianali del Birrificio Elav nella suggestiva cornice di antiche volte in pietra delle Cantine del Monastero, tra le secolari botti in legno

 

Astino negli anni ’70 (Ph Edgardo Salvi)

LA STAGIONE LIBERTY DEL COLLE

L’antico spazio rurale è radicalmente mutato, insieme ai colori e alla tessitura dei pendii; i contadini hanno da tempo lasciato le loro cascine, trasformate in residenze stabili o di villeggiatura sul finire dell’Ottocento e ancor di più nel primo Novecento, quando gli abitanti della città hanno cominciato a scoprire le splendide colline panoramiche di monte Bastia e S. Vigilio, felicemente esposte e baciate dal sole in ogni stagione.

La fioritura del Liberty sul colle di San Vigilio (stampa di Partrick Serra)

Alle poche case che punteggiavano la conca, ch’era ancora fortemente rurale, si sono sovrapposti gli edifici in stile liberty, che hanno trasformato questi luoghi sulla scia dei modelli di città-vacanza facendo loro acquisire quella singolarità paesistica e panoramica che oggi ben conosciamo:  non più solo case di villeggiatura nella vecchia casa di famiglia o per le cacce quindi, ma vere e proprie residenze che i cittadini più abbienti hanno cominciato a costruire nei luoghi più accessibili.

L’arrivo della funicolare, con l’impianto di collegamento rapido tra S. Vigilio e Città Alta, impose la sua discreta presenza nel paesaggio collinare

Sui pendii che abbracciano la conca sono fiorite ville e villini di stampo Liberty felicemente fusi nel paesaggio vario di coltivazioni e alberi: è il caso di Villa Keller, a oriente del monastero, o del Villino Neri sui Torni, costruita su una casa preesistente e delicatamente decorata in stile.

Villino Neri sui Torni, dimora decorata in stile liberty costruita una casa preesistente, con il fronte su strada affrescato con soavi figure femminili di gusto preraffaelita e ingentilito da modanature in stile

Villa Keller, di timbro romantico-eclettico, è circondata da uno splendido parco naturalmente legato al plurisecolare querceto di Astino, adagiato sul versante nord-occidentale della dorsale di Sudorno: un bosco che, insieme a quello dell’Allegrezza, ha conservato condizioni che avvicinano agli antichi equilibri.

Villa Keller immersa nel bosco di Astino (Ph Carlo Leidi)

Ai piedi di via Monte Bastia spicca l’emblema più vistoso del fenomeno che in quel periodo fa divenire la località ambito sito di villeggiatura: la monumentale Villa Viviani, nata dalla ristrutturazione e dall’ampliamento negli anni Venti di un edificio cinquecentesco corrispondente alla torretta terminale medioevaleggiante.

Villa Viviani, con lo scenografico giardino che prospetta su via S. Sebastiano. Come altri villini della zona, le due piccole dipendenze rustiche sono di aggiornato gusto déco, mentre la parte nuova, con gli apparati decorativi interni, è neobarocca

A questa singolare ed esclusiva concezione dell’abitare si è accompagnata la fioritura di giardini, che oggi mimetizzano i crinali così come lo stesso Castello di S. Vigilio.

A poco a poco, al verde tradizionale costituito anche da colture legnose come la vite e gli alberi da frutto, si è sostituito il verde dei giardini con la comparsa di nuove essenze, anche esotiche, e l’introduzione di alcune conifere.

Il Belvedere di San Vigilio

A partire dagli anni ’50 del secolo scorso, via via che le famiglie abbandonavano le attività agricole e le cascine intorno al Monastero, si è assistito al degrado degli edifici, all’estirpazione dei vigneti, all’espansione del bosco sui terrazzamenti, alla trasformazione della piana agricola in una grande monocoltura a mais.

Le viti sono così scomparse dalla valle, con qualche rara eccezione, come in prossimità della cascina La Schésa, adagiata sul lato sud-est della conca, databile nelle sue strutture più antiche tra il ‘400 e il ‘500.

Oggi, il nuovo vigneto appena sotto il Monastero rappresenta quindi un grande ritorno.

Oggi il vigneto di Astino produce le prime uve bio della Bergamasca di chardonnay, le uve bianche destinate alla produzione di ‘bollicine’ con metodo classico, 24 mesi sui lieviti. Il terreno interfilare è gestito a prato, in luogo di una precedente monocoltura a mais. Sull’altro lato del viale è previsto un altro impianto con un mix tra due cloni di Pinot bianco e Riesling renano. Inoltre, la coltivazione di luppolo, la prima della Bergamasca, è destinata a diventare componente di una birra biologica aromatizzata con more e lamponi coltivati in loco, insieme a una vasta gamma di frutti di bosco

Anche il “colore” e la tessitura dei pendii, ora disegnati da una più minuta architettura vegetale, è cambiato, ed oggi non possiamo che ammirarne supefatti la bellezza struggente e variegata, fatta di terrazzamenti rigogliosi, campiture di colore e giardini grandi e piccoli, che donano alla valletta uno strepitoso pregio paesaggistico.

Soprattutto, la piana e le prime balze della collina mantengono le caratteristiche di un’oasi agricola, dove permane la  consuetudine della passeggiata domenicale, della colazione sull’erba o in qualche radura del bosco, con frotte di persone che percorrono viuzze, boschi, sentieri e scalette.

La scaletta della Ripa Pasqualina – toponimo derivante dalla famiglia Pasqualini, un tempo proprietaria di alcuni appezzamenti di terreno ai margini della scaletta – attraversa il bosco di Sudorno fino alla splendida balconata affacciata sulla Conca d’Oro, consentendo un percorso ad anello che riconduce alla piana di Astino

Ed infine, ben esposto sulle terrazze secolari che un tempo accoglievano viti e coltivi, è tornato l’olivo, ove un tempo vi era un podere denominato Monte Oliveto, in linea con la lunga tradizione sui colli di Bergamo.

La valle di Astino, un ambiente rurale oggi “rivisitato”, tanto da potersi fregiare dell’ambito titolo di “valle della Biodiversità”, la sezione dell’Orto botanico di Bergamo che avvicina il pubblico al Regno delle Piante utili e contribuisce a dare nuova vita al compendio agricolo e forestale di Astino

Nella piana racchiusa tra i boschi la vita scorre lenta all’ombra del monastero, dove grazie al lavoro dell’uomo la natura elargisce frutti a piene mani.

Dove la sera, il volo delle cornacchie lascia spazio al suono dei rapaci e al gracidìo di raganelle, che zittiscono al sorgere del sole quando un cinguettio indistinto prende a scandire il tempo insieme al canto del Cucù.

Nella Valle che profuma di Storia, dove il tempo sembra essersi fermato.

 

Riferimenti essenziali
“Il Parco dei Colli di Bergamo – Introduzione alla conoscenza del territorio”: “Caratteri urbanistici e presenze architettoniche”, Graziella Colmuto Zanella. “Spunti per una lettura del paesaggio del Parco dei Colli”, Lelio Pagani.
“Alle porte di Città Alta”, V. Bailo, R. Cremaschi, P. Serra – Associazione per Città Alta e i Colli di Bergamo – Spaggiari edizioni Srl, 20.

A cura del Parco dei Colli, “Progetto Il Colle di Bergamo”.  Lubrina, 1989.

La storica funicolare di San Pellegrino e il rilancio di Vetta, piccolo paradiso della Valle Brembana

E’ di questi giorni la notizia del riavvio della storica funicolare San Pellegrino-Vetta, previsto per la primavera-estate 2019 a trent’anni esatti dalla chiusura avvenuta nel marzo del 1989, per la riduzione del traffico passeggeri.

La prima funicolare, progettata dall’ingegnere monzese Giovanni Villoresi, fu attiva fin dall’origine nella sola stagione termale, fra giugno e settembre. In fase di rimozione proprio in questi giorni, è stata ritratta in uno strepitoso HDR da Pio Rota

Un primo passo verso la riabilitazione della funicolare si era già compiuto  in vista del programma di rilancio di San Pellegrino previsto per l’Expo 2015, quando cioè l’impianto e l’edificio annesso vennero sottoposti ad un totale rinnovamento. Si sta provvedendo ora alla rimozione della vecchia carrozza, che verrà sostituita da nuovi vagoni realizzati dalla Leitner di Bolzano.

Il cantiere dell’impianto della funicolare e dell’edificio annesso, aperto in vista del programma di rilancio di San Pellegrino previsto per l’Expo 2015 (Ph Angelo Galani)

 

Il termine dei lavori di ripristino dell’impianto della funicolare e dell’edificio annesso (adibito a sede espositiva), ancora con la vecchia funicolare  (Ph Angelo Galani, ottobre 2011)

La riabilitazione della funicolare rimetterà in comunicazione San Pellegrino con l’amena località Vetta, sede di attrezzature turistiche, in via di recupero, che un tempo ne costituivano il fiore all’occhiello.

La graziosa località Vetta è posta sul pizzo del Sole ed è chiamata anche San Pellegrino Kulm. Vi sorgono numerose ville e un Hotel di stampo liberty. Ma non solo…

 

L’interno di una villa liberty in località Vetta

La sistemazione del parco della Vetta potrà offrire, oltre alle visite alle Grotte del Sogno, interessanti percorsi escursionistici, fra i quali merita una menzione particolare quello che conduce alla vicina sorgente Boione, ricchissima di cascate e cascatelle d’ogni sorta.

Il caratteristico ingresso delle Grotte del Sogno, riaperte nel 2011, ritratte da Maurizio Scalvini per www.Pieroweb.com

Lo sviluppo edilizio di Vetta fu intimamente legato a quello turistico-termale di San Pellegrino, dove al culmine della Belle Epoque vennero realizzati alcuni complessi di pregio architettonico tipici delle “villes d’eau” mitteleuropee, quali il Grand Hotel, il Casinò, lo Stabilimento Termale e alcune ville storiche sorte ai primi del Novecento.

Gita in barca sul Brembo nel cuore della Belle Epoque!

 

Il Casino, il Palazzo della Fonte e la funicolare con San Pellegrino Vetta

 

Nel 1906 la stazione climatica di San Pellegrino era stata raggiunta dalla ferrovia della Valle Brembana, incrementando notevolmente l’afflusso turistico dell’area.

I titolari della Società Anonima Fonte Bracca concepirono così l’idea di una funicolare che raggiungesse Vetta, dove realizzare, secondo la moda dell’epoca, un ristorante con terrazza panoramica che rappresentasse il fiore all’occhiello del luogo.

L’hotel Vetta, accanto alla stazione superiore della funicolare

 

La stupenda terrazza dellHotel Vetta, rigorsamente in stile liberty

E la funicolare divenne a tutti gli effetti un mezzo assai utilizzato in alternativa all’erta e scomoda strada comunale.

Oltre all’originaria fermata intermedia, presso il punto d’incrocio in località La Botta, nel tempo furono aggiunte le ulteriori fermate di Paradiso e Falecchio, di cui è allo studio una proposta di ripristino.

Da San Pellegrino l’impianto progettato nel 1907 dall’ing. monzese Giovanni Villoresi, già progettista della funicolare Como-Brunate, conduce alla frazione Vetta. La realizzazione dell’impianto fu affidata alla Ceretti e Tanfani (l’immagine risale al 1915)

Vetta divenne quindi un raffinato quartiere residenziale estivo di stampo liberty, ad uso e consumo dei molti frequentatori abituali della stazione climatica.

Alle Terme di San Pellegrino, inizi Novecento

 

La funicolare venne inaugurata il 25 luglio del 1909 insieme al grande “Albergo Fonte Bracca”, in Val Serina, entrambi progettati dall’ing. Villoresi, che solo due anni prima aveva fatto costruire il primo stabilimento d’imbottigliamento dell’acqua Bracca.

Nel 1907, accanto alle sorgenti sorse l’Albergo Fonte Bracca, nella località omonima in Val Serina

 

Fonte Bracca, 1912

 

Gitanti milanesi a Bracca, nel 1908

Dopo una lunga e complicata serie di passaggi (le cui vicende sono illustrate qui), la gestione della funicolare venne affidata alla Società Gestione Fonti Minerali controllata dalla Sanpellegrino, la Società che aveva avviato lo sfruttamento economico della nota acqua minerale, e che provvedette alla revisione e alla manutenzione della funicolare fra il 1978 e l’83.

La funicolare per Vetta in una cartolina del 1983, all’epoca in cui venne gestita alla Società Gestione Fonti Minerali controllata dalla Sanpellegrino

Ma a causa della riduzione del traffico passeggeri, la funicolare venne chiusa il 6 marzo 1989 ed in seguito l’edificio annesso venne utilizzato come civile abitazione.

Un primo tentativo per il ripristino della funicolare fu condotto nel 1990 grazie a un finanziamento regionale. Un successivo stanziamento di 5 milioni di euro permise di avviare l’iter per la ricostruzione dell’impianto la cui riapertura, connessa con la ristrutturazione dello storico Grand Hotel e al generale rilancio turistico di San Pellegrino, era prevista per il 2017.

Il Comune di San Pellegrino aveva infatti da tempo effettuato il recupero della stazione  e dell’attiguo edificio, trasformandolo in fabbricato atto ad ospitare allestimenti artistici.

L’edificio originario annesso alla funicolare

 

All’edificio originario (con pianta a croce e tre locali per piano dislocati su tre livelli e con un piccolo interrato) si erano aggiunti nel tempo alcune superfetazioni che ne avevano parzialmente modificata la struttura. E’ stato quindi necessario modificare la distribuzione funzionale dei locali interni al fine di ottenere un percorso espositivo continuo (Ph Angelo Galani)

 

Stazione ed edificio annesso alla funicolare, ottobre 2011 (Ph Angelo Galani)

In precedenza, dalla piazzetta, attraverso un ampio accesso ad arco si raggiungeva la sala d’attesa e da qui i due piccoli locali riservati all’addetto al funzionamento della funicolare. Per accedere all’alloggio era invece necessario uscire nel giardino privato ed aggirare l’edificio fino a raggiungere l’accesso del vano scala che distribuiva i due livelli abitabili ed il sottotetto.
In funzione della nuova destinazione d’uso, è stato quindi realizzato un unico accesso ben posizionato.

Stazione ed edificio annesso alla funicolare, ottobre 2011 (Ph Angelo Galani)

 

Stazione ed edificio annesso alla funicolare, ottobre 2011 (Ph Angelo Galani)

Per il rilancio di Vetta, insieme al ripristino della funicolare è nell’aria un progetto di riapertura dell’ex Hotel Vetta (destinato anche ad ospitare le terme curative), nonchè una serie di proposte contenute in uno studio realizzato da un gruppo di studenti del Politecnico di Milano,  come la realizzazione di luoghi di sosta per la valorizzazione dell’acqua, con fontane o cisterne, e un albergo diffuso in località Paradiso (un’ex area ricettiva).

Per l’ex pista del Sole, un tempo prestigiosa pista da sci estivo, si è pensato invece ad una riconversione in campeggio, valorizzando l’aspetto naturalistico e sportivo, rivolto ad un turismo più sostenibile.

Pista del Sole – Centro sportivo – San Pellegrino Terme – foto dall’alto 1966 (Proprietà Francesco Nicola Cima). Negli anni Settanta la famiglia Cima, facoltosa famiglia brembana proprietaria della cartiera di S. Giovanni Bianco, realizzò la Pista del Sole, un’innovativa pista da sci in plastica a monte di San Pellegrino, una delle prime di questo genere in ambito montano. Inaugurata nel ’75 divenne un vero e proprio polo sportivo, con una pista di discesa ed una di fondo (vi gareggiarono Thoeni e Jean Claude Killy), una palestra per il gioco del tennis e un’area di tiro con l’arco

 

Il bar-ristorante annesso alla Pista del Sole, ritrovo elegante ed escusivo dell’epoca, da tempo in disuso