Con il Merica, una tipica macchietta cittadina vissuta fra fine Ottocento e la prima metà Novecento, gli autori e le cronache del tempo ebbero di che sbizzarrirsi.
Era, nel ritratto che di lui fece Umberto Zanetti, “un omino dinoccolato alto si e no un metro, che cantava con una vocetta agra, in falsetto, accompagnandosi con una chitarra più grande di lui”.
La sua “lirica”, che sgorgava dal suo genio, commentò argutamente i fatti cittadini per tutto un cinquantennio di storia bergamasca, elevandosi dall’ebbrezza lieve dei vinelli delle colline o tra i purissimi aspri vapori del più autentico “trani”.
Tutta Bergamo lo conosceva ma nessuno, proprio nessuno, sapeva il suo vero nome. “Merica” – spiegò una volta il “cantore” – per via di una bisavola che si chiamava Maria Degna Merita e che aveva gli tramandato il nome, storpiato “in forza di chissà quali occulte leggi di antonomasia matronimica”, scrisse Vajana.
Si sapeva che era nato in SanTomaso, in anni lontanissimi, e ch’era figlio di un poverissimo cocchiere.
La sua bruttezza, “quasi disdicevole”, lo anticipò sin da bambino. Tutto di lui promuoveva al riso: magro impiccato, era alto come un paracarro, aveva le gambe sproporzionatamente corte e storte, malgrado le impaludasse civettuolmente in un giacchettone sproporzionatamente lungo. La sua camminata insicura ed ondeggiante tradiva un difetto alle ginocchia, che scontrandosi si respingevano a vicenda. “Gambestorte” e “crapadrecia”, si era compiaciuto definirsi.
Il busto striminzito reggeva un cranio dalla forma marcata e pressata alle tempie; un visetto da infante, dominato da uno strano naso sottile da cui si allungava una barbetta appuntita e scomposta. Due occhietti vivacissimi e pungenti, quasi da topo, rallegravano quella specie di viso mobilissimo.
Le cronache si accaniscono descrivendo una bocca, “dalle labbra turgide e di un rosso rancido”, somigliante a “una ferita da taglio inferto da uno spadone medioevale”. Povero Merica. Parlava biascicando e il suo balbettio gli lasciava delle vistose bolle bianche ai lati della bocca, che risucchiava con movimenti suoi particolari. Nonostante ciò, anche quando serrava i denti digrignando fino all’esasperazione, riusciva simpatico a tutti.
Tra una canzone e l’altra aveva trovato il tempo di portare all’altare…. – c’è chi dice quattro, c’è chi dice cinque e c’è chi dice sette – donne, e di vederle poi dipartirsi nel regno dell’eternità: curiosamente, aveva sempre pronunciato il suo ‘sì’ mentre l’altra parte era in fin di vita. Sicchè ogni rito nuziale si era trasformato in un rito funebre, al termine del quale, “ol Merica” offriva da bere agli amici.
Le di lui descrizioni sono a dozzine, ma fra tutte, quella di Geo Renato Crippa – che ai tipi bergamaschi dedicò esilaranti e commoventi capitoli – è senz’altro la più ricca e gustosa: nessuno meglio di lui – grande conoscitore delle storie e delle “macchiette” della città – avrebbe potuto né ignorare né lasciarsi sfuggire l’occasione ghiotta di descrivere il Merica.
La madre, una brava donna, illudendosi di farne un bravo artigiano l’aveva affidato a un ciabattino di Borgo Santa Caterina non badando che nello stanzino del “padrone”, fra banchetto, forme, ferri, pece, corde e scarpe, facevan bella vista alla parete due chitarre (una abbastanza passabile, l’altra vecchia e tarlata ma di buon suono) che avevano attirato le amorose attenzioni del giovinetto.
Non appena il “principale” sortiva dal bugigattolo, il nostro cercava di addestrarsi alla bell’e meglio e appassionatamente, e quando udiva qualche suono azzeccato si agitava all’impazzata meravigliandosi, fino a quando, dagli e ridagli e straziando le povere corde all’infinito, finì col realizzare un sogno cullato per settimane e mesi: accordare chitarra e canto fino ad acquistare una certa abilità, che perfezionò con qualche strana maestria.
Scrisse Crippa che “Per non disturbare i suoi di casa – vivevano in una stanza sola in quattro – esercitarsi nel ‘cesso’, all’esterno di una loggetta, fu invenzione prelibata. Questo posto, diceva, era il suo conservatorio, la scuola primaria della sua ‘genialità’ musicale”. Vi canticchiava la notte, cercando di adattare motivi popolari a testi di sua invenzione “amorosi o romantici, scelti in racconti di quartiere o raccolti nella miseria dei rimbrotti, delle accuse, delle stravaganze e delle irriquiete denuncie d’un volto rattrappito”.
Sicchè, “spingerlo a farsi conoscere, dopo averne constatata la bravura, fu operazione infame di un gruppo di buontemponi, decisi a scortarlo nelle osterie, sullo sterrato di piazza Baroni al tempo della Fiera, davanti ai caffè dei signori e sul Sentierone”.
Gli rimediarono così una giacca degna del suo nuovo ruolo, “magari di velluto ed un cappello verde alpino con fior di penna”.
Scortato dalla feroce compagnia, fece la sua prima apparizione pubblica nel suo borgo in due locali “di pregio”: il “Gamberone” e l’Angelo”.
Entrato nelle sale, così conciato, gli urlarono di andarsene alla svelta.
Ma imperterrito, con i suoi imbonitori pronti a difenderlo – “gente conosciuta (un macellaio e due salumieri)” – cominciò timidamente a cantare accompagnandosi alla chitarra scalcinata e “dati due strattoni, iniziò la sua tiritera con energia infuocata. Risa reiterate, battimani, ‘forza’, salutarono la esibizione, mentre, stordito ed in lacrime, l’artista non sapeva se accettare i bicchieri di vino che gli venivano porti da diverse parti: un successo”.
Da quella sera la fama del “cantastorie” percorse l’intera città, dai borghi a Piazza Vecchia e poi ancora giù, in Viale Roma: nei trani, nelle osterie, nei caffè di periferia, lo attendevano, passandosi parola.
E così il suo repertorio mutò con destrezza e dalle fiabe d’amore passò ad improvvisare i fatti cittadini, commentandoli come un Pasquino redivivo.
“Verdi” – scrisse Umberto Ronchi – lo avrebbe assunto come Rigoletto, un Rigoletto generoso, tutto lepidezza e fantasia improvvisatrice”.
L’ometto, agli applausi non ci teneva affatto; voleva soldoni lui, quelli di rame: solidi, pesanti, colla bella faccia di Vittorio Emanuele.
Il castigamatti, “conquistava i suoi “affezionati” accusando prefetto, sindaco, amministratori, vigili, agenti del dazio, di non mantenere le promesse, di aumentare i prezzi delle derrate, di non pulire a dovere le strade, di impicciarsi in cose non di loro pertinenza, di permettere abusi nella applicazione delle tasse, nel non affannarsi a chiedere al governo di Roma il raddoppio della linea ferroviaria per Treviglio, di aumentare i tabacchi, il sale, i francobolli, i ‘trams’ e le cambiali.
Bastava la pubblicazione di un manifesto con nuove ordinanze civiche o militari perchè il Merica, cantante analfabeta, chiesti ragguagli a conoscenti, schiattasse in imprecazioni e querele; uno spasso”.
Quando la guerra chiamò il popolo a raccolta, imbracciò la sua chitarra come un mitra e con la sua vocetta agra intonò il suo canto di battaglia:
“Viva l’Italia
la gran nassiù
che la combàt
per la resù”.
Tra gli avvenimenti accompagnati dal suo lieto e canoro commento, famosa è la nascita del nuovo centro cittadino e di tutti gli edifici che spuntavano come funghi a ridosso delle Mura.
Del rinnovamento sontuoso della sua Bergamo egli ne fu entusiasta, ma la sua gioia fu mortificata dalla tristezza che attribuì alle sue vecchie amiche Mura:
“Che’ diràl chèl curnisù
Quando l’vé la primaera?
Vederàl piö i farfale
a vulà sota la féra?”
Per far posto all’allora palazzo della Banca Bergamasca, sorta in prossimità del chiostro di Santa Marta, venne schiantato un ippocastano che per quasi un secolo aveva assistito a tutte le vicende bergamasche. Si trattava del “piantù” nel Boschetto di Santa Marta, uno stupendo gigante alla cui ombra ristoratrice si erano ritemprati vecchi pensionati e ai cui romantici effluvi si erano confortati dalle sartine ai soldatini.
Quando lo vide crollare con schianto formidabile, compose un brano memorabile:
“Nel bosch de Santa Marta
a gh’era ü vècc piantù
per mèt sö öna strassa d’banca
I l’à mandat a reboldù”
La “strassa d’ banca” era la Banca Bergamasca, fallita e poi occupata dal Banco Ambrosiano, sorta in luogo del complesso monastico di S. Marta.
Le due statue poste ai lati dell’appena inaugurato Palazzo di Giustizia, Il “Diritto” e la “Legge”, furono invece così nominate:
“Gh’è dò bèle statue
sura ü pedestalì
la siura l’è padruna
chèl biòt l’è l’inquilì”
Che le sue argomentazioni fossero in prosa o in rima nessuno se ne accorgeva: per le folle egli era la bocca della verità, il fustigatore, il difensore della poveraglia, l’inquisitore”,
“Bravo, bravo”, gli urlavano, soprattutto se avvinazzate.
La sua acredine degenerava in lamentela disperata verso gli amministratori dei luoghi pii – ospedali, manicomio,“Clementina” – verso i quali gridava come un ossesso a difesa di sordomuti e poveri ciechi, del brefotrofio e relativa “ruota” e di ragazze-madri. Non c’era modo di trattenerlo.
Lo ammansivano assicurando che si sbagliava e con gran fatica lo invitavano a consolarsi: ringraziava e una volta placato soggiungeva, quasi ilare: ‘Vi canterò la storia della Girometta, quella che, per amore, di chiappe ne vendette una fetta’.
Un gorgoglìo, in fondo alla gola, lo quietava prima di sgusciarsela recriminando”.
Con la fede e con i santi era però impossibile tendergli un agguato, e lo seppe, una sera, una certa Paola, famosa passeggiatrice, che tentandolo a sproposito ricevette in cambio una sberla ben assestata.
Sempre avvolto in un pastrano raccattato che gli arrivava alle ginocchia, continuò a cantare finché la voce non divenne fioca e scheggiata fino a ridursi in miseria: “dopo il giro col piattello in mano, notava i pochi centesimi raccolti, borbottava sostenendo che egli non meritava di esser schiavo o sottomesso ad alcuno, ma degno di rispetto nel suo intenso lavorìo di giudice delle malefatte altrui, che egli rivelava da cittadino cosciente ed ardito. Non scherzava lui e non mentiva, o buffoni”.
Persa quasi totalmente la vista, si aggirava per le vie della città accompagnato da una povera fanciulla, anch’essa mezza cieca, perpetrando tristemente “i racconti di giorni perduti, di sindaci morti da anni, del dazio sparito, di denari senza valore e di inutili bazzecole”.
Ebbe però un lampo di poesia alla morte di Antonio Locatelli, scomparso in un agguato in Africa mentre era in missione a Lekemti compiendo voli di ricognizione per far sì che le truppe italiane non cadessero nelle imboscate delle milizie dei Ras finanziati dagli inglesi.
Atterrato in una radura, fu ucciso a tradimento con tutto il suo seguito e del suo corpo non si seppe più nulla “e per ciò, come degli antichi eroi, ben si può dire che il suo corpo, forse arso, trapassò nei leggendari empirei del simbolo”. Ebbe a dire Bortolo Belotti.
Era il 1936 e per Bergamo fu un terribile trauma; anche il Merica, ormai vecchio e misero, lo pianse con dolore sincero.
“Il cuore, consunto, gli dettò una geremiade, mezzo angosciosa, mezzo gloriosa. Forse fu la sola e garbata elegìa sfociata in devoto dolore; la balbettava piangendo, sicuramente affranto:
Me pianze, me pianze, l’è mort, l’è mort, ol poèr Tunì. I la brüsat i nigher, selvaggi de nu dì. L’era grand e bu, mei del pà bianc. Bel, bel coma un angelì. Me pianze, me pianze, ol me poer Tunì”
Morì con un rammarico, quello di non saper comporre musica (“Potevo diventare un Donizetti”…). La morte lo colse all’inizio del 1943 dopo una breve malattia e fu annunciata da un necrologio dell’”Eco”: una colonna e mezza che l’avvocato Alfonso Vajana volle dedicare al povero cantastorie di San Tomaso.
Il Merica l’aveva invitato a comunicare la sua dipartita ai suoi ignari cittadini, nel momento in cui avrebbe per sempre posato la sua chitarra stanca: “Io lo compresi e lo feci con tenerezza. Del resto se l’era meritata…..: aveva servito, a modo suo, parecchie generazioni di bergamaschi, prodigando molto canto, attimi di serenità ed un po’ di sorriso”.
Contenendo a stento la tristezza, nell’angusta prigione del suo corpo breve e storto.
RIFERIMENTI
Geo Renato Crippa, Il “Merica, in “Bergamo così (1900 – 1903?)”.
Alfonso Vajana, “Uomini di Bergamo”, Vol II. Edizioni Orobiche, Bergamo.
Il ricordo della celebre fontana che per un certo periodo accompagnò la quotidianeità del popoloso borgo di San Leonardo, è ancor’oggi ben presente nella memoria collettiva quale simbolo del cuore pulsante della Bergamo di un tempo, nonostante oggi spunti al suo posto una fontana “minimale”, estranea al fascino e dell’atmosfera degli antichi borghi, di cui qui si avverte ancora sommessamente l’eco.
Basta osservare la piazza irregolare, con i suoi caratteristici portici e il groviglio multiforme delle sue case colorate, o passeggiare tra le viuzze che ancora ricordano le attività di un tempo ed inoltrarsi nei vicoli stretti e bui, come è quello che da via Broseta porta in vicolo S. Rocco, tutto voltato a mattoni rossi e, per certi versi, un po’ inquietante.
Dai lati irregolari di questo spazio, che andò articolandosi spontaneamente nel corso dei secoli, si dipartivano radialmente, allora come oggi, le contrade di S. Lazzaro (che si ricongiungeva alla Porta Broseta con la via omonima), di Osio (al tempo della Repubblica Cisalpina chiamata Strada Napoleonica, ora via G. B. Moroni), di Colognola (attuale via S. Bernardino), di Cologno (via Quarenghi dopo il Novecento), di San Defendente (poi via Nova, ora via Zambonate), oltre a quella di di S. Alessandro e la contrada di Prato (oggi via XX Settembre). Nella piazza confluvano così, oltre alle strade che vi affluivano dall’alta città, anche quelle dai paesi della vasta pianura bergamasca.
Il borgo, popolare e borghese, affollato centro di incontri e di traffici, godette per secoli del primato commerciale e artigianale rispetto al resto della città, così da costituire un vero e proprio emporio di merci e somigliare a una città dentro la città.
Qui, più che altrove, “era cospicuo il numero di negozi, botteghe, laboratori, officine, studi. Qui stavano notai, medici fisici, ciroici, barbitonsori, aromatari, preti, magistri di scuola, dipintori, marengoni, calzolai, maestri murari, pellettieri, sarti, confettieri, pristinari, grassinari, osti, locandieri” (1).
Al centro della piazza “Fontana di S. Leonardo” – oggi Largo Rezzara -, accanto alla chiesa da cui il borgo prese il nome, la Fiascona simboleggiava il cuore mercantile della città ed era il fulcro dell’incessante brulichìo del popoloso borgo che la ospitava.
Tutt’attorno – descrive Pelandi – vi prosperavano locande ed osterie: quelle, ormai scomparse, del Bacco, del Borlazò, del Fondech, dell’Ofelì, dell’Asperti, della Zagna, delle Due Ganasse, che era dirimpetto alla stretta degli Asini (l’attuale vicolo delle Macellerie), punto dal quale nell’Ottocento partiva la diligenza per Milano; della Micheletta, quest’ultima luogo di ritrovo del primo direttore de L’Eco di Bergamo, prof. G. Battista Caironi e del professore Nicolò Rezzara.
Di tutte le vecchie osterie del borgo, l’unica sopravvissuta ai giorni nostri è la storica Osteria dei Tre Gobbi, l’ultima vera osteria della Città, che nell’Ottocento era frequentata da artisti, poeti vernacolari, cantanti e musicisti, come il Masi, il Coghetti il Benzoni, il Rubini e il grande Gaetano Donizetti, che amava sostarvi con gli amici più cari durante i suoi soggiorni nella città natale.
In piazza della Legna si tramò contro la Serenissima, innalzando il simbolico Albero della Libertà e “sacrificando i rivoltosi che non volevano abbracciare il nuovo verbo francese” (2).
(2) Luigi Pelandi, Passeggiando per le vie di Bergamo scomparsa – Il Borgo di S. Leonardo. Collana di Studi Bergamaschi – A cura della Banca Popolare di Bergamo. Bergamo, Poligrafiche Bolis, 1962.
Il 3 agosto del 1848, da questa stessa piazza, auspicando l’avvenire di un’Italia unita e repubblicana, “Giuseppe Mazzini, sapendo di comunicare al cuore grande dei bergamaschi, rivolse loro parole infiammate per la lotta contro l’Austria” (3). Durante l’insurrezione antiaustriaca la Fiascona catalizzò gli umori più accesi della città facendo da portavoce al malcontento popolare, un po’ come le famose “pasquinate” di romana memoria: spesso al mattino era facile trovarvi appesi cartelli con satire e sberleffi, o incitazioni di vario genere contro i dominatori asburgici, “come quel Romeo Rosa che nel 1848 pose in cima alla Fiascona il berretto frigio, un copricapo rosso, icona rivoluzionaria, che fece irritare gli austriaci” (4).
(3) Fermo Luigi Pelandi, cit.
(4) L’Eco di Bergamo, Lunedì 04 Novembre 2013, “Demolita o venduta? È un giallo. Ma la Fiascona non zampilla più”. Di Emanuele Roncalli.
Eppure, a dispetto di quella sagoma panciuta quasi evocante le antiche osterie del borgo, le origini della Fiascona sono legate all’Ospedale Grande di San Marco e più precisamente alla ristrutturazione eseguita nel 1536 da Pietro Isabello, progettista del “bell’edificio rinascimentale dotato di cortile, di una fontana (la Fiascona)…” citati dalle fonti (5).
(5) ..”le fonti parlano di un bell’edificio rinascimentale dotato di cortile, di una fontana (la Fiascona)…”. Tosca Rossi, A volo d’uccello – Bergamo nelle vedute di Alvise Cima – Analisi della rappresentazione della città tra XVI e XVIII secolo, Litostampa, Bergamo, 1012, p. 210.
Dal prezioso libro “L’Ospedale nella città – Vicende storiche e architettoniche della Casa Grande di S. Marco”, a cura di Maria Mencaroni Zoppetti (6), apprendiamo che la Fiascona compare in un disegno ottocentesco conservato presso l’Archivio dell’ospedale maggiore (7). Il disegno, eseguito prima delle modifiche apportate al chiostro nel 1858 dall’ing. Carlo Donegani, ci restituisce l’aspetto del cortile dell’Ospedale Grande di San Marco nella risistemazione del 1536 eseguita da Pietro Isabello; sullo sfondo è ormai visibile il torresino della Fiera in muratura, edificata tra il 1734 e il 1740.
Eppure, fatto strano, la Fiascona è ancora al centro del cortile.
(6) Maria Mencaroni Zoppetti (a cura di), L’Ospedale nella città – Vicende storiche e architettoniche della Casa Grande di S. Marco. Collana: Storia della sanità a Bergamo – 1. Fondazione per la Storia Economica e Sociale di Bergamo.
(7) AOMBg, Copia di un disegno con timbro Ernesto Suardo, 1926; cfr. G. INVERNIZZI, Storia e vicende dell’ospedale di S. Marco in Bergamo, “La Rivista di Bergamo”, marzo-aprile 1927, p. 7. Dei disegni delle strutture rinascimentali di Isabello, solo quello del cortile cinquecentesco è conservato presso l’Archivio dell’ospedale maggiore (Maria Mencaroni Zoppetti, cit.).
E’ opinione comune, e ormai da tempo, che la Fiascona abbia fatto la sua comparsa nella piazza “già detta Fontana di S. Leonardo, davanti alla chiesa omonima” (8) nel 1548, come chiaramente tramandatoci da Luigi Pelandi (Bergamo 1877 – 1969) (9). Così nella rubrica “Bergamo scomparsa”, curata dalla studiosa Andreina Franco Loiri Locatelli, dove si legge che “Al decoro della grande piazza del borgo contribuiva nel 1548 l’edificazione di una fontana chiamata popolarmente la ‘Fiascona’ a causa della forma inusitata. Sostituiva l’antica fontana vicinale” (10).
Pelandi – e lo ribadisce più volte – racconta che quando, nel 1575, il cardinale S. Carlo Borromeo pervenne nella piazza di Borgo S. Leonardo, “già da qualche anno (1548), era stata posta la fontana […] (la cosiddetta Fiascona)” […]. Aggiunge poi – ma è solo una curiosità – che “presso la fontana che è segnata sulla carta topografica del XVII secolo” compare una colonna, innalzata a ricordo di “una porta trionfale eretta sull’entrata della piazza” in occasione della Visita Apostolica di S. Carlo Borromeo nel 1575. “Ora tutto è scomparso” (11).
Colonna e fontana sono incise a bulino anche nella”Planimetria prospettica di Bergamo”, eseguita da Stefano Scolari nel 1680, eseguita su disegno di Giovanni Macheri (o Macherio), datato 1660.
(8) “Piazza Fontana”, “nome popolare” dato alla piazza, abolito nel 1910 allorchè quella parte di Borgo S. Leonardo assume il nome di Piazza Pontida (Bergamo e provincia guida 1910 Soc. Editoriale Commerciale). L’indicazione della piazza come “Largo Rezzara” (personaggio eminente del contesto sociale, economico e cattolico tra fine Ottocento e Novecento) risale all’inizio degli anni Cinquanta del Novecento (Guida 1953).
(9) Luigi Pelandi, Passeggiando per le vie di Bergamo scomparsa – Il Borgo di S. Leonardo, cit.
In tutta questa vicenda dunque, l’unico punto fermo sembra riguardare l’originaria presenza della Fiascona nel cortile dell’Ospedale Grande di S. Marco, fatto riportato anche in un più recente articolo apparso sul quotidiano “L’Eco di Bergamo”, che in riferimento al già citato ampliamento cinquecentesco dell’ospedale Grande di San Marco, scrive che è “Proprio qui, in mezzo al grande cortile, che si trovava la Fiascona”.
..salvo poi aggiungere che “Con l’abbattimento del vecchio Ospedale, la fontana dovette traslocare in piazza Fontana (o della Fontana), l’attuale largo Rezzara, in fondo a via XX Settembre”[…] “È stata lì per più di tre secoli – ha scritto Renato Ravanelli –, quasi simbolo ideale di un borgo, come il San Leonardo […] e “Lì resistette sino alla fine dell’Ottocento (1887), quando dovette lasciare spazio ai binari dei primi tram a cavalli” (12).
(12) Dal momento che la Fiascona “È stata lì per più di tre secoli” è lecito pensare che tale riferimento riguardi non la demolizione definitiva del 1937, bensì la ristrutturazione operata dall’Isabello, datata 1536. L’Eco di Bergamo, Lunedì 04 Novembre 2013, “Demolita o venduta? È un giallo. Ma la Fiascona non zampilla più”. Di Emanuele Roncalli.
Eppure, ancora nel 1723, e dunque a distanza di circa due secoli dalla realizzazione del chiostro dell’Isabello, la Fiascona risulta essere ancora nel cortile dell’Ospedale di San Marco: ce lo attesta un cabreo eseguito in quella data da Bernardino Sarzetti (“descritto con precisione nelle sue dimensioni, nel suo andamento, nelle sue specializzazioni, nella sua posizione nella città”), nel quale viene riprodotta la fontana a forma di fiasco che si trovava nel cortile isabelliano e di cui – è il caso di sottolinearlo – “non resta più traccia” in una fotografia ottocentesca eseguita da G. Leidi, che ci restituisce l’aspetto del nuovo chiostro progettato da Donegani (13).
(13) M. Mencaroni Zoppetti, cit.
Dopo quanto osservato e comparando l’immagine delle due fontane – quella al centro del cortile dell’Ospedale Grande di S. Marco e quella in piazza Fontana nel Borgo di S. Leonardo – dobbiamo forse ipotizzare l’esistenza di “due Fiascone”, molto simili ma non identiche, collocate per un dato periodo in due diversi luoghi della città e nominate allo stesso modo?
Comparando invece la Fiascona di Borgo S. Leonardo e quella riprodotta nel cabreo del Sarzetti, si riscontra una vistosa similitudine: nella vasca, nel profilo della fontana vera e propria e persino nella sua parte terminale, verosimilmente una struttura in ferro, terminante a cuspide.
Il chiostro cinquecentesco dell’Isabello subirà trasformazioni solo nel 1858, allorchè l’ing. Carlo Donegani procederà ad una modifica interna del complesso ospedaliero: è solo a quella data che, nel chiostro, “al posto di quella a forma di fiasco è posta una fontana con vasca ottagonale e putti” (14).
(14) M. Mencaroni Zoppetti, cit.
In mancanza di prove tutto è possibile, ma possiamo affermare con certezza che, almeno fino al 1723 – come eloquentemente attestato dal cabreo dell’agrimensore Sarzetti – la Fiascona si trova ancora in mezzo al cortile dell’Ospedale Grande di S. Marco.
Dovremo attendere il 1810 per vederla allegramente zampillare nella chiassosa “piazza di fronte a S. Leonardo”, riprodotta in una mappa topografica della Roggia Serio, conservata nella Biblioteca Civica A. Mai, e ritrovata in un testo pubblicato nel 2001 a cura dell’Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti di Bergamo (15), corredata dalla seguente didascalia: “Dalla contrada di Prato si arrivava alla piazza di fronte a S. Leonardo dove era situata la Fiascona, fontana che veniva rifornita dall’acqua della Roggia Serio”.
La Roggia Serio, allora tutta scoperta, esisteva sin dal XIII secolo, quando fu scavato l’alveo con presa d’acqua ad Albino; lambiva la cinta muraria costruita a metà Quattrocento, chiamata “Muraine”, ed entrava nel Borgo, per il quale era la principale fonte di energia e di lavoro. Ancora sino a metà Ottocento azionava mulini, filatoi, fucine, serviva per l’irrigazione degli orti, per i lavatoi pubblici e privati.
(15) Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti di Bergamo, “Evoluzione di un luogo urbano – Dal Convento delle Grazie al Credito Bergamasco”. Bergamo – Edizioni dell’Ateneo, 2001.
Nel già citato articolo dell’Eco di Bergamo (16) si legge invece che la Fiascona “Distribuiva l’acqua agli abitanti di Borgo San Leonardo ed era alimentata dalla sorgente di Sant’Erasmo, poi, causa siccità, venne alimentata da una derivazione della roggia Curna” (roggia che interessa il lato meridionale del prato di S. Alessandro, la contrada di Prato e il borgo S. Alessandro).
E’ lecito chiedersi il perchè di tale discordanza, ed apprendiamo ad una prima indagine che “In Borgo Canale esisteva la fontana di S. Erasmo, dotata di ampia cisterna, non solo provvedeva ai bisogni degli abitanti ma alimentava un canale che, attraverso i prati, portava l’acqua alla fontana del ‘Paesetto’, a lato del monastero di s. Stefano, quindi alla fontana di s. Benedetto e infine alla fontana di borgo s. Leonardo, in piazza Fontana. Interrotta e non più riparata la conduttura, la fontana del Paesetto continuò a ricevere acqua attraverso una condotta che scendeva dalla fontana di s. Giacomo. Tracce dell’antico canale lungo la via s. Alessandro (o contrade del Mattume) furono trovate nel 1889 in occasione di scavi e giudicate in parte romane e in parte medievali. Si accertò, tra l’altro, che l’acqua veniva fatta scorrere in una canaletta formata da coppi accostati e sovrapposti” (17).
(16) L’Eco di Bergamo, Lunedì 04 Novembre 2013, “Demolita o venduta? È un giallo. Ma la Fiascona non zampilla più”. Di Emanuele Roncalli.
(17) Pino Capellini, “Acqua e acquedotti nela storia di Bergamo”. Ferruccio Arnoldi Editore, Bergamo (manca anno di edizione), p. 143, 148.
La Fiascona continuò la sua permanenza in piazza Fontana sin verso la fine dell’Ottocento, come del resto attestato da un ricco corredo iconografico, benchè possa esserci qualche dubbio riguardo la data esatta della sua rimozione (18).
(18) Riporto a beneficio d’inventario un dato rinvenuto in un catalogo della Biblioteca Civica, dove, in riferimento al periodico “La Rivista di Bergamo”, si legge: “Piazzetta con la fontana detta la Fiascona posta nell’anno 1548 e tolta nel 1890” (Biblioteca Civica di Bergamo, La Rivista di Bergamo, anno 37, vol. 10, data ott. 1936, Autore: Gritti Pietro, Titolo: Piazza Pontida. Declino di un luogo protagonista. Pagina 9).
In quanto alle motivazioni, è ancora L’Eco ad avanzare ipotesi: “Lì resistette sino alla fine dell’Ottocento (1887), quando dovette lasciare spazio ai binari dei primi tram a cavalli. In sostanza la Fiascona era d’intralcio alle vetture trainate dai cavalli che transitavano lungo la contrada di Prato (via XX Settembre). In realtà fu dapprima chiusa agli inizi del 1882 perché, da analisi effettuate dall’Ufficio di sanità nel 1881, risultò che l’acqua era inquinata e, poi, con decreto del 26 settembre 1883 fu rimossa dal Comune. Molti ritennero invece che il vero motivo fosse da ricercare nel passaggio della linea tranviaria” (19).
Il servizio di trasporto pubblico venne inaugurato nella città di Bergamo nel 1887, gestito su concessione del Comune dalla società dell’ing. Ferretti, istituita nel 1887. il progetto di Ferretti “includeva, oltre la funicolare, una modesta rete di tram a cavalli allacciata alla funicolare”, che percorreva il tratto da Piazza Pontida (Cinque Vie) a Borgo Santa Caterina, transitando per le Vie Tasso e Pignolo. Dopo aver posato, a partire dal luglio del 1887, le guide sul viale della Stazione (dove il 30 settembre dell’88 il Brembo e il Serio – le prime due macchine a vapore – percorrevano il viale Vittorio Emanuele), nell’ottobre dello stesso anno “si posero le guide di ferro in Piazza Pontida per il tram a cavalli dei Borghi”. (20).
Bisognerà attendere il 1904 perchè la linea “a cavalli” tra piazza Pontida e la parrocchia di Borgo S. Caterina, venga elettrificata.
“Sulla soglia del 1900 Bergamo era afflitta dalla febbre di grandezza. Si pensi che in quel tempo (1899) si facevano adunanze su adunanze per l’attuazione della ferrovia della Valle Brembana, per lo studio della tramvia Bergamo-Sarnico, si studiava d’estendere la trazione elettrica a tutti i tram cittadini, che fino allora erano trainati da cavalli. Vi ricordate, egregi miei coetanei, del gobbo che accompagnava il terzo cavallo, per assicurare la salita di via Pignolo?” (21).
(19) L’Eco di Bergamo, Lunedì 04 Novembre 2013, “Demolita o venduta? È un giallo. Ma la Fiascona non zampilla più”. Di Emanuele Roncalli.
(20) Luigi Pelandi, Attraverso le vie di Bergamo scomparsa II – La Strada Ferdinandea. Collana di Studi Bergamaschi, a cura della Banca Popolare di Bergamo. Poligrafiche Bolis, Dicembre 1963.
(21) L. Pelandi, cit.
Non resta che chiedersi che fine abbia fatto “La tozza fontana a forma di fiasco, contornata da un’ampia vasca ottagonale” che “finì per essere d’intralcio. Bella non era ma caratteristica sì, con gli spruzzi sottili che gemicavano dai fianchi pietrosi dell’olla pancuta. La sua scomparsa seguì di poco tempo quella delle colonne del Prato, poste fra l’omonima contrada e il campo della Fiera” (22).
Una volta rimossa, dove finì? Lasciamo il finale alle cronache cittadine.
“Fu sicuramente smontata e portata nei magazzini comunali, ma durante la rimozione venne rotta nella parte centrale. Non fu in ogni caso fatta a pezzi, ma da quel magazzino un ben giorno sparì. Dove è finita dunque? Una risposta la diede il compianto assessore Aldo Ghisleni che nell’aprile del 1998 durante una seduta della seconda Commissione consiliare affermò: «La fontana appartiene a un privato, che l’ha regolarmente acquistata dal Comune. D’intesa col sindaco, sto cercando di riacquistarla». Il tentativo fallì. E il fatto che per molti la fontana sia finita ad abbellire il bel parco di una villa (Longuelo? Colli?) non pare più una leggenda metropolitana. Anche Palafrizzoni potrebbe dunque tornare sulle tracce della fontana. O forse anche il legittimo proprietario potrebbe farsi avanti. La Fiascona è sua. Nessuno gliela porta via. Ma almeno ce la mostri. Perché questo pezzo di storia bergamasca non può rimanere nascosta fra aceri e platani” (23).
Luigi Pelandi, Passeggiando per le vie di Bergamo scomparsa – Il Borgo di S. Leonardo. Collana di Studi Bergamaschi – A cura della Banca Popolare di Bergamo. Bergamo, Poligrafiche Bolis, 1962.
L’Eco di Bergamo, Lunedì 04 Novembre 2013, “Demolita o venduta? È un giallo. Ma la Fiascona non zampilla più”. Di Emanuele Roncalli.
Tosca Rossi, A volo d’uccello – Bergamo nelle vedute di Alvise Cima – Analisi della rappresentazione della città tra XVI e XVIII secolo, Litostampa, Bergamo, 1012, p. 210.
Maria Mencaroni Zoppetti (a cura di), L’Ospedale nella città – Vicende storiche e architettoniche della Casa Grande di S. Marco. Collana: Storia della sanità a Bergamo – 1. Fondazione per la Storia Economica e Sociale di Bergamo.
Bergamo scomparsa: la nascita di Piazza Pontida. Andreina Franco Loiri Locatelli per Bergamosera.
Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti di Bergamo, “Evoluzione di un luogo urbano – Dal Convento delle Grazie al Credito Bergamasco”. Bergamo – Edizioni dell’Ateneo, 2001.
Pino Capellini, “Acqua e acquedotti nela storia di Bergamo”. Ferruccio Arnoldi Editore, Bergamo, p. 143,148.
Luigi Pelandi, Attraverso le vie di Bergamo scomparsa II – La Strada Ferdinandea. Collana di Studi Bergamaschi, a cura della Banca Popolare di Bergamo. Poligrafiche Bolis, Dicembre 1963.