Il ponte che ancor oggi regge validamente il traffico di via Borgo Palazzo fu costruito nel 1550, ma la presenza di un ponte sulla Morla, proprio là dove oggi sorge l’attuale, è sicuramente antichissima. Lasciamo stare la solita storiella di chi lo volle innalzato su ordine di Carlo Magno: quella di voler nobilitare edifici e monumenti attribuendoli a grandi personaggi del passato, era un’abitudine piuttosto diffusa.
In realtà, il ponte cinquecentesco fu rifatto al posto di un altro che aveva un livello più basso. L’ing. Fornoni nelle sue “Vicinie” precisa che, sul finire dell’Ottocento, in occasione dello scavo per una fognatura, ad oltre un metro al di sotto del piano attuale venne trovato il lastricato della strada antica: l’antico ponte era piantato a filo della casa sull’angolo con la via Madonna della Neve, per cui la strada era tutta letto del torrente.
La statua collocata sulla spalletta orientale del ponte risale al 1747 e rappresenta San Giovanni Nepomuceno, il santo polacco che, torturato e buttato nella Moldava dal celebre ponte Carlo IV di Praga, venne eletto patrono e protettore non solo (o non tanto) dei ponti, come si crede, bensì di tutte le persone in pericolo di annegamento. In seguito la sua protezione venne estesa anche ai confessori (il perché lo scoprirete leggendo la didascalia sottostante, che dobbiamo a Tosca Rossi).
Il ponte sul torrente Morla in Borgo Palazzo e la sua statua. San Giovanni Nepomuceno (Jan di Nemopuk, località presso Pilsen in Boemia) era il vicario generale dell’arcidiocesi di Praga e al contempo canonico della cattedrale di Praga, nonché predicatore alla corte di re Venceslao IV e confessore della regina Giovanna di Baviera. Visse nella seconda metà del XIV secolo e venne martirizzato nel 1393 per volontà dello stesso re, a cui rifiutò di svelare quanto detto dalla consorte durante la Penitenza. Il suo corpo venne gettato dal ponte Carlo IV di Praga nel fiume Moldova e secondo le diverse versioni riemerse il giorno successivo esibendo per alcuni una lingua dorata, a riprova della sua fedeltà nel rispettare i termini del sacro sacramento, per altri recando una corona di stelle attorno al capo. Da allora la sua protezione è rivolta a tutte le persone in pericolo di annegamento e successivamente estesa anche ai confessori
La sua storia così come il modo in cui venne martirizzato giustificano quindi la consuetudine di collocare una statua che lo ritrae sopra i ponti fluviali, intento ad adorare il Cristo crocifisso, messo bene in vista per la devozione di chiunque si trovasse a transitare in quei luoghi: oltre al ponte sul torrente Morla, a Bergamo e provincia molte sono le sue presenze, tra cui ad esempio sul ponte di Gorle o a Trescore Balneario.
Il nostro, realizzato in Pietra di Zandobbio ed elevato su un alto piedistallo, è privo di aureola ma calza il copricapo distintivo; è vestito dell’abito talare, della cotta e dell’almuzia impreziosita da un’alta fascia in pizzo, aperta sul petto e alzata alle estremità dal gesto che porta all’orazione visiva e mentale del Cristo.
La scolpì Giovanni Antonio Sanz (lo stesso che ritrasse le allegorie delle quattro stagioni e delle Arti Maggiori di Palazzo Terzi in Bergamo Alta) per esaudire il desiderio di un nobile residente nel borgo, il conte Gerolamo Albani (tenente maresciallo e cameriere della Chiave d’Oro di sua Maestà Imperiale), il quale, morto il 20 agosto 1747, lasciò per testamento che si ponesse una statua di San Nepomuceno, lasciando l’incarico al fratello Carlo.
La statua fu realizzata quello stesso anno, includendo il nome del conte nella specchiatura affacciata sulla via, recando la scritta seguente: PER TESTAMENTO / DEI CONTI / GIROLAMO ALBANI / I MARESCIALLO / CESAREO / MDCCXLVII.
IL PONTE E LE SUE “MACCHIETTE”, ANIME DEL BORGO
Borgo Palazzo ebbe i suoi personaggi e anche le sue macchiette. Figure pittoresche, che hanno lasciato una traccia nella cronaca spicciola e in qualche racconto. Una di queste, celebre nei primi decenni del Novecento, sia nel borgo che in tutta Bergamo, fu Giovanni Servalli detto “ol Barba”, “il principe delle macchiette bergamasche, principe lustrascarpe”, come definito dal giornalista Giovanni Banfi in un opuscolo del 1920. Anche il poeta Guerrino Masserini, “Ol Girù”, si è occupato del Servalli. Ma è il ritratto delicato di Geo Renato Crippa, a restituire a Servalli, al di là di ogni faciloneria, la dignità che gli spetta, quella cioè di un uomo sensibile e sfortunato.
Descritto come pazzoide e accattone dignitoso, con una gran barba profetica, il lustrascarpe ed attacchino Servalli era un oratore spassoso, incarnando a meraviglia la parodia oratoria. Con il suo berrettone calato sulla fronte e l’ampia palandrana, soleva intrattenere gli avventori nel recinto della vecchia Fiera, dove innalzava una tribuna improvvisata convinto di rivolgersi “al colto pubblico”, cui proclamava la propria nobiltà.
Giovanni Servalli presso la chiesa di S. Bartolomeo nella caricatura del talentuoso Alfredo Faino, disegnatore alla Daumier nonché scultore. Del Servalli, la cosa più importante, consisteva nel suo vestiario. Dal cappelluccio con l’aletta corta, sino a certi calzari di tipo “biblico”, tutto era uno sfavillio di stagnole argentee o dorate, tali da farlo sembrare un cavaliere dell’era medievale che camminasse dopo una battaglia. Trovava queste carte presso drogherie e pasticceri, dalle suore di istituti educativi e conventini, dopo le feste dedicate alle loro fondatrici. Dopo le festività natalizie o pasquali, i negozianti lo rifornivano con ciò che, nelle vetrine, aveva sfavillato per una o due settimane. Qualcuno regalava persino qualche nastro colorato mandandolo in estasi, togliendogli, dalla gioia, il respiro che, in ultimo, aveva pesante
Sosteneva di essere un figlio bastardo della “gloriosa casa Giovanelli di Venezia” e di essere giunto in città da una grossa borgata di montagna, dove quella famiglia, un tempo di famosi commercianti s’era talmente avvantaggiata, in mercature nell’Oriente, da richiedere alla Serenissima titoli nobiliari e cavallereschi. Vantando l’appartenenza al lignaggio principesco, finiva col parlare di tutto, stralunando ogni tanto gli occhi e volgendosi impietosito al cielo, gesticolando con solennità, come un patriarca.
“Ol Serval” invita la popolazione a visitare la mostra di Alfredo Faino
I suoi discorsetti pomposi erano per lo più un caotico aggrovigliamento di idee d’ogni sorta, buttate fuori alla brava, con parole in lingua italiana non certo ossequienti ai precetti della Crusca. Non si potevano ascoltare alcune delle sue frasi senza abbandonarsi ad una irrefrenabile ilarità, scatenata dalla sua potenza comica e dalle inflessioni della voce, Il Servalli continuava allora il suo proclama sottolineando la serietà degli argomenti ed esclamando “L’è roba internazionale!”.
Agghindato di stagnole e nastrini, girava l’intera città rullando su un tamburello che gli era stato donato dai componenti della fanfara degli alpini. Circa gli itinerari da percorrere non sbagliava giorno ed ora: alla periferia di dedicava il mattino, ai borghi il pomeriggio, al tramonto raggiungeva il centro cittadino picchiando a più non posso il suo strumento. Di tanto in tanto emetteva una parola di saluto e se incontrava persone di sua conoscenza, ma molto rispettate e riverite, il rullio del tamburo prendeva tono solenne, seguito da silenzi ritmati durante i quali, da fermo, pronunciava cenni d’ossequio ripetuti con calma dignitosa. Possedeva, il Servalli, regole di galateo di sua invenzione, sostenute con toni tra il religioso e il melodrammatico.
Giovanni Servalli s’incammina verso il ponte della Morla con la lampada votiva. La caricatura è di Alfredo Faino, che ha eternato “Ol Barba” in gustosissimi bozzetti, in sapide caricature anche in creta e nei piccoli bronzi
Appena faceva buio, se ne tornava in Borgo Palazzo, suo dominio incontrastato, e all’imbrunire si recava al ponte della Morla reggendo una scala pioli, che saliva per accendere una lampada ad olio innanzi alla statua di San Giovanni Nepomuceno, protettore dei ponti e delle acque.
Giovanni Servalli è ricordato dalle cronache anche per la consuetudine di accendere ogni sera una lampada votiva ai piedi della statua del suo santo protettore, quella di San Giovanni Nepomuceno, sul ponte della Morla, in Borgo Palazzo. Chi narra che “ol Servàl” fosse devoto al santo dei ponti perché proteggeva la sua nobile miseria e chi attribuisce tale consuetudine al ricordo di un miracolo, ottenuto in passato, a favore della sola donna, “amata in purezza, poi, dopo un lustro, morta consunta in una corsia d’opedale, invocando il nome di quegli che fu il suo sogno incantato”. Gli fosse stato possibile, il Servalli avrebbe ornato quel luogo – dove negli anniversari recava qualche fiore – di ori e di gemme (caricatura di Alfredo Faino)
Soddisfatto della sua buona azione quotidiana, rincasava con la scala a spalla; la sua stamberga era luogo di abituale convegno di topi e di gatti, educati – diceva egli stesso – ad un fraterno vicendevole amore. Si seppe poi, allorché egli passò a miglior vita, come la sua povera dimora, che era accanto ad una stalla, fosse pulita ed in ordine, il giaciglio tenuto con cura, le casse e le cassette per riporre la sua roba, linde e divise con accuratezza, giornali e cartoni ammucchiati con esattezza in un angolo. Lo stanzone era illuminato da una finestra che dava su un’ortaglia e la porta aperta sul retro di un “cortilone” d’osteria, con gioco delle bocce, usato nel passato per radunare greggi e mandrie di passaggio. Il silenzio non veniva rotto che la domenica, le sere d’estate e nei giorni di mercato. Appeso a un chiodo pendeva il tamburo. Accanto un tascapane zeppo di libriccini e foglietti che celavano poesie e canzoni che il Servalli cantava nei giorni di sagra, sugli sterrati dei paesini o sui sagrati delle chiese. Dopo lo strazio subito da suo cuore, di pretesti amorosi egli non volle mai saperne: bastavano le storie di re e regine, principi e principesse, marchesi e conti, castelli, foreste, ruscelli, fonti, uccelli variopinti. Fiabe leggere leggere, oneste, dense di umanità, umili, trasognate e innocue. Di lui si conserva ancora un vivido ricordo.
Più modesto un altro personaggio, “ol Fioruna”, che percorreva il borgo e lo stradale di Seriate tutto infagottato con un cappellaccio a piuma, sempre scuotendo un campanello. “Trin trin ‘l passa ol Fioruna, che quando ‘l viasa al suna”.
Anche lui raggiungeva il ponte della Morla ma, mentre il “Barba” Servalli vi si attardava con la sua barba profetica per accendere il lume sulla statua del santo, il Fioruna, che viveva di carità e si sborniava di frequente, utilizzava il ponte, o meglio, uno dei suoi archi, per passarvi la notte. Morì nel vicino manicomio.
All’incrocio tra via Camozzi e l’asse Pignolo/Borgo Palazzo alla fine degli anni Cinquanta. L’edificio in primo piano sulla destra fu adibito tra il 1919 e il 1955 a Dormitorio pubblico. Successivamente venne impiegato anche come Asilo degli Ebbri, ovvero ricovero per gli amanti di Bacco, i quali, dopo essere stati raccolti per le vie della città dalle forze dell’ordine, venivano messi a letto dopo una doccia gelata…. I nuovi edifici, tra cui il supermercato PAM, sono sorti intorno al 1967
E poi c’era “ol Roco de Borg Palass”, che aveva una propria dimora all’Albergo popolare. Era sempre infagottato in vestiti più grandi di lui, con certe calzature scalcagnate. Lo si vedeva sempre correre borbottando frasi, certo, nell’intenzione di erudire i passanti sui fasti o insuccessi della sua grande Atalanta; poi via di corsa svettando a destra e a sinistra, stralunando gli occhi. Si accontentava di qualche pezzo di pane, che condiva con l’immancabile “repubblica” che otteneva facilmente e con larghezza dai bottegai della città. Non si lamentava mai di questa sua vita grama. Gli bastava essere libero di borbottare le sue preferenze atalantine.
Rocco girava trascinando le gambe, sempre malmesso, con un lungo pastrano anche in estate e si appoggiava a un bastone. Fuori dal suo borgo, la zona prediletta era quella dei giardini Donizetti. Fu ricoverato alla casa di riposo “Clementina” a spese del Comune e gli fu riservato un trattamento speciale. Gli fu anche assegnato un letto col televisore a fronte; e quando era in programma una partita dell’Atalanta, il vecchio Rocco tirava fuori un bandierone e lo sventolava a mo’ di sudario sul proprio letto
Il pittore Jannucci ha immortalato in questa caricatura le sembianze del Rocco, ai suoi tempi definito il più popolare tifoso dell’Atalanta. L’ultima macchietta cittadina, con lo smunto berretto da agente daziario, i vecchi giornali su braccio e le cianfrusaglie in saccoccia, il passo caracollante e il vociare sgraziato. Anche la sua figura appartiene ormai al mondo dei ricordi di casa nostra
Ultimo di questi singolari personaggi che si addentravano dalla periferia nei borghi, ma raramente per giungere fino in centro, fu il “Gioanì de Tor”. Doveva risiedere a Torre Boldone, o esservi nato, ma nessuno lo seppe mai con precisione. Era un ometto che portava anche d’estate un cappotto sdrucito e un largo cappello. Più alto di lui, un grosso bastone intagliato gli conferiva come una statura diversa. Scomparve improvvisamente. Un giorno nessuno lo vide più. Forse era più vecchio di quanto non si credesse ed era finito in qualche ricovero. O forse non gli era riuscito di superare qualche malanno dell’ultimo inverno. Oggi per lui, sull’asfalto, nel traffico, nella periferia senza più orti e pollai, non ci sarebbe più posto.
Ahimé, non ci sono più le frasche sui colli, non si trovano più le mescite con i cortiletti acciottolati, ingentiliti da un glicine o da una vite all’americana, le panche, i tavolini di pietra, il pergolato. Che tempi!
Diceva bene Umberto Zanetti riguardo le frasche, osterie improvvisate nei casolari dei contadini che coltivavano la vite, che qualche decennio fa, su quei declivi soleggiati sorgevano a dozzine. Se ne stavano lì, discretamente nascoste tra boschetti, coltivi ed ortaglie, racchiuse in muretti che i contadini del posto curavano con perizia e dedizione.
La Città, scrigno di notevole fascino. Meraviglioso spettacolo naturale attorniata dai colli, piccole perle di rara bellezza, al centro di un paesaggio che esalta la loro avvenenza di una grandiosità stupenda. Nascosti tra le le loro pieghe una moltitudine di “frasche”, adagiate tra vigneti domestici ed orti, tra case e cascine, contadini e ortolani, in una composizione di meravigliosa armonia
Per l’occasione, i contadini – piccoli proprietari, mezzadri o fattori – solevano allestirle in rustiche cascinette o nel cortile di qualche casa colonica, come nella cinquecentesca Casa Moroni, ai piedi della Bastia, affacciata sulla Val d’Astino.
Cascina Moroni, la storica frasca dei Nessi ai piedi di Monte Bastia, attorniata da coltivi (Archivio Wells)
Le stradette, tracciate con gusto come via Sudorno, i Torni e S. Sebastiano, s’insinuavano fra dozzine di cascinali, fattorie e ville padronali, talvolta quasi aeree come lo Scorlazzino, con i suoi 210 scalini, e lo Scorlazzone, con i 165 gradini ripidi e faticosi. Ma anche sentieri fortunosi come quello dei Vasi.
1958: dalla scaletta dello Scorlazzino verso Sudorno
Via Sudorno: l’abitato si fonde con il tessuto coltivato in pittoresca disposizione. Al civico 49 vi sorgeva la frasca “al Caminù”, oggi abitazione privata
I colli della Bastia e di San Sebastiano e i Torni da San Vigilio nel 1922, con le armoniche ondulazioni, a lenti declivi o balze gradinate di vigneti, piccole aree a varie tonalità di colore e, intorno, piccoli cascinali, strette e tortuose vie gradinate selciate (rissòi, acciottolati), tratti di bosco incassati nelle strette, piccole valli che recano al piano le acque piovane e sorgive
Fra tanta bellezza, agli inizi degli anni Cinquanta sui colli ne spuntavano ancora una quarantina e nei primi anni Settanta ne sorgevano in Castagneta (frasca dei Rizzi)…
tra San Vigilio e Monte Bastia (le frasche dei Nessi, dei Lazzaroni, dei Bagià, la Marchina)…
Monte Bastia
ad Astino (la frasca del Martì). Mentre alla Madonna del Bosco era ancora attiva quella della Bagnada, l’ultima dei colli a cessare l’attività.
Sulle prime balze della collina sopra Astino si trovava la frasca di Mario Carissoli, nota come “frasca del Martì”
Se ne stavano lì, beatamente appollaiate sui crinali o nascoste tra le pieghe di qualche ombrosa vallecola, sospese fra i contrafforti montani – così vicini da accarezzarli con la mano – e la pianura, così vasta da non poterla abbracciare tutta con lo sguardo.
La musicalità della Conca d’Oro in una rara cartolina da collezione: passeggiate fuori le mura. La varietà dei toni, i chiaroscuri, i ricami della terra: tutto è stato felicemente disposto dalla natura
Le più famose erano quelle comprese nel classico “Gir dèle Sèt cése”: quelle dei Casati, dei Biondi, dei Carminati, dei Bagià, dei Canali, dei Rizzi, dei Nessi.
Scorcio su Fontana da San Sebastiano
Di solito le rustiche “frasche” dei colli restavano aperte da Pasqua a settembre e comunque sino a che il vino non era terminato.
Chi aveva prodotti migliori preferiva non fare “cantina” e vendeva il proprio vino ad acquirenti della città. Benché fosse di bassa gradazione era una proficua fonte di reddito per il contadino, che si barcamenava tra lo smercio del suo prodotto e la scampagnata primaverile dei gitanti, allorché si elevava al rango di “oste” mettendo a disposizione bicchieri, piatti e posate per consumare in loco …Cosa per la quale la legge strizzava l’occhiolino: “fanno canti ossia servono vino e, se proprio hai fame, ti dànno contra legem rapido ma saporito cibo”, scriveva Veronelli negli anni ’70.
La famiglia Lazzaroni (“Lasarù”) , proprietaria dell’omonima “frasca” in via Monte Bastia 17 – depositaria del vino migliore -, oggi abitazione privata così come la frasca “del Cavato” al civico 38. La paura dello Scuàss nel ricordo di Mario Lazzaroni: “Lo Scuàss era un diavoletto dispettoso che nelle cascine seminava lo scompiglio. Al mattino molti contadini trovavano il bestiame impaurito e i cavalli con le criniere annodate, sudati come dopo una lunga corsa. A volte, in piena notte, si udivano pietre che rotolavano con grande fragore, porte che si aprivano e si chiudevano con cigolii sinistri. Favole? Scherzi di cattivo gusto? Forse. Però si chiamava subito il prete per l’esorcismo. Se lui falliva, entravano in scena alcune terribili vecchie, autentiche megere, che facevano bollire nell’acqua le chiavi di casa e della stalla recitando formule di rito. Una tortura che lo Scuàss (o era il Maligno?) non riusciva a sopportare”. “Sì, lo so che oggi nessuno ci crede. Ma a quei tempi ci credevano tutti. C’erano intere famiglie terrorizzate dallo Scuàss”
Con l’insegna si arrangiava assecondando un’antica usanza, già citata negli Statuti di Brescia nel Quattrocento, esponendo sul cancello a mo’ di richiamo alcuni rami messi alla brava – di ciliegio, gelso o edera -, ai quali veniva appeso il fiaschetto.
Ma prima di appendere frasca e fiasco ed aprire la casa agli avventori, i contadini ricevevano il permesso comunale e facevano daziare le botti di vino previo versamento di una tassa.
I contadini di un tempo solevano esporre una “frasca” all’entrata della propria cascina per segnalare ai possibili avventori la disponibilità in loco di cibo o di vino; tale offerta fu legata, almeno inizialmente, ai ritmi cadenzati della vita contadina: la vendemmia, il raccolto, l’uccisione del maiale
La si arrangiava all’aperto con qualche tavolo in graniglia oppure utilizzando, capovolti, i cosiddetti caalér, le vecchie tavole per l’allevamento dei bachi da seta; vi si aggiungeva una dozzina di sedie e qualche panca di legno, che venivano disposte all’ombra di un un porticato o di tigli, noci, ciliegi e deliziosi pergolati di vite americana, se non di glicine dal profumo inebriante.
Táol dé lègn, öna banchèta.. (Umberto Zanetti)
Frasca sui colli di Bergamo
Accanto a qualche rustico vasetto di fiori e a una gabbietta appesa, nient’altro c’era se non attrezzi del mestiere come falci, rastrelli, zappe e gerle di ogni foggia.
Immancabili per chi desiderava uno spuntino erano le acciughe, i sottaceti, le salsicce e i salami veraci, i formaggi e gli stracchini casalinghi, le lattughe ed in primis le uova sode (i ciàpe de öf) accompagnate da radicchi dell’orto, esposto al sole e sempre curato con perizia.
Alla frasca “La Marchina” (o “dei Palvis”), in via Monte Bastia (da Bergamore): poetica e socialità. La struttura è attualmente abitazione privata
Il tutto, innaffiato dal leggero vinello dei colli che allora come oggi non si prestava a lunghi invecchiamenti, andando gustato nel luogo d’origine; un vino che aumentava di gradazione se mischiato con uve o vini meridionali (Tarantino, Manduria, Trani, Bisceglie), noti nel bergamasco perché prima del 1880 fungevano da toccasana contro la pellagra, che era ai tempi molto diffusa.
I vitigni di Castagneta nel 1912
Altro non poteva essere offerto se non nella stagione degli asparagi nostrani (i teneri löertis raccolti nel bosco), delle fragoline e delle ciliegie. O meglio, delle amarene e delle marasche.
Via Colle dei Roccoli con la chiesa di San Sebastiano sullo sfondo
A volte ci scappavano anche i salamini piccanti fatti in cascina con il maiale ucciso a Natale, il cotechino alla brace o, quando andava di lusso, gli spiedini di uccelletti con polenta: classica, taragna o chissöla; e pure il grappino ottenuto con l’alambicco nascosto in cantina: il tutto ancor più buono se gustato con gli amici davanti a una tavola rustica, all’aria aperta, nella pace di una bella giornata d’inizio primavera.
Capitava che alcune frasche aprissero per qualche giorno anche in inverno dopo l’uccisione del maiale: come quella dei Bagià in San Vigilio, che preparava per gli intimi la tipica torta di sangue e una succulenta trippa.
Il colle dei Roccoli nel 1975. Nella via omonima sorgevano anche: censita da Bresciani e Pagani al civico 15, la frasca-trattoria “L’Alpino” (attualmente ristorante, segnalato al civico 13 di via Colle dei Roccoli); al civico 44 la frasca “del Michelo” e al n. 46 la frasca “dei Canali”, oggi abitazioni private
L’odore acre del vino novello, ancora giovane e asprigno, saliva dalle cantine aleggiando nell’aria e sembrava ancor più buono dopo la bella camminata. Perché sui colli ci si arrivava a piedi, salendo piano piano… e giunti alla frasca quel vino pareva nettare per gli dei.
San Vigilio e i suoi giardini racchiusi da rustici muri allacciati a stradette
Sempre pronto in cucina – “bianca di calce fresca e linda da specchiarvisi il rame” -, c’era un ricco assortimento di boccali e boccaletti di maiolica dalle tipiche forme e con i motti spiritosi in bella vista: “Bevi e paga, questo nettare ti resuscita”, oppure, “Chi beve vino campa più del medico che lo proibisce”.
Come d’incanto, a primavera inoltrata, sparsi tra i brevi filari esplodeva un tripudio di colori, con ciliegi in fiore e peschi di un impareggiabile color rosa che s’innalzavano al di sopra dei morbidi prati fioriti.
Bergamo nel canto della primavera
“Brezze profumate, nella calda estate, di fieni e di quante erbe odoravano strane e distinte”: mai espressione fu più felice.
Durante le gite fuori porta, frotte di giovanotti si appartavano beatamente sui prati e stesa un’enorme coperta traevano dai borsoni le abbondanti vettovaglie: ancor più buone se gustate all’aria aperta e innaffiate dal vinello dei colli, che insieme alle gazzose, alle birre e alla spuma veniva messo a disposizione dall’oste.
Borgo Canale: disegni diversi da un brolo all’altro
Da presso giungeva il suono di un’orchestrina arrangiata alla buona di chitarre, mandolini e fisarmonica, e si udivano i canti e le risate provenire dall’aia. Il repertorio variava dai canti di montagna alle canzoni melodiche del tempo, non disdegnando quelle napoletane. Ma si cantavano a squarciagola anche quelle un po’ “spinte”, piccanti.
Quando poi nella frasca arrivava qualche bella voce, si puntava pure su brani lirici come “La furtiva lacrima”, o a gran richiesta “Di quella pira l’orrendo fuoco”, con l’immancabile, solenne “DO di petto” finale, come quello – celebre – del Cuminetti, idraulico di professione e tenore mancato, che terminava con una clamorosa steccata. Un’atmosfera festosa che non lasciava spazio, malgrado l’ebbrezza, a litigi o a battibecchi: le urla erano riservate al gioco della morra.
Il celebre Cuminetti, idraulico di professione e amante del bel canto, amava esibirsi presso la Trattoria Rapizza, sul colle di San Sebastiano. Una delle tante anime scomparse di Bergamo Alta
Storica è in particolare la frasca dei Rapizza sul colle di San Sebastiano, di cui si ha notizia sin dal 1860!
La frasca dei Rapizza in via Botta di San Sebastiano al civico 1, nel 1936
Una missiva da Marsala del garibaldino Alessandro Airoldi, che non desiderava altro che tornarvi, diceva infatti: “Spero che potremo rivederci presto e andare dai Rapizza a mangiare pane e salame”.
Quando la lunga giornata volgeva al termine e dietro le torri e le cupole di Città Alta un tramonto di fuoco arrossava il cielo, i grilli canterini prendevano ad allietare l’oscurità.
Il profilo di Città Alta nel 1830
Le varie compagnie allora discendevano in ordine sparso lungo i ripidi viottoli, e spesso capitava che qualcuno rovinasse tra i rovi per le troppe libagioni!
La discesa nei “Borghi”
Quando poi arrivava settembre, “sostare alle frasche nei giorni feriali procurava un senso di timida letizia.. si godeva dell’umiltà di un fascino domestico, del tranquillo tramestio della cucina, del battere di un falcetto sulla siepe, del chiacchiericcio del pollaio…E nemmeno stordiva una voce perduta lontano…”: una sensazione decifrabile solo dai moti del cuore.
Ma quando il fiaschetto appeso al ramo spariva, significava che la stagione delle “frasche” era finita.
Vista su Bergamo Alta da San Vigilio (Racc. Gaffuri)
Il rito “di Sèt cése”
Colle Aperto ai primi del Novecento
Nelle domeniche di primavera e fino al termine dell’estate per le comitive dei bergamaschi era un’allegra consuetudine ritrovarsi alle nove in Colle Aperto per raggiungere questa o quella frasca.
Da Piazza Mascheroni, nel 1960
In Colle Aperto intorno agli anni Quaranta (Archivio Evi Pagani)
Si aspettavano l’un l’altro all’ombra dei rigogliosi ippocastani, nell’attesa di incamminarsi verso la meta prescelta.
In Colle Aperto ai primi del Novecento (Archivio storico-fotografico D. Lucchetti)
A frotte arrivavano dai borghi inerpicandosi per il colle e risparmiando il fiato nell’attesa di riunirsi ai compagni, pregustando il premio finale di una gustosa merenda all’aperto consumata in allegria.
Da Porta San Lorenzo
Da Porta San Giacomo
Da San Martino della Pigrizia (1905), dove, al civico 17, sorgeva la frasca “del Fino”, attualmente abitazione privata
Dal centro cittadino (viale Vittorio Emanuele)
Dopo aver spedito una staffetta per prenotare il tavolo, a poco a poco le varie compagnie si disperdevano, fra canti e risate, tra le cascine che esponevano una frasca.
Ed immancabilmente la camminata procurava qualcosa di nuovo, di inaspettato, di stregato.
In Sudorno
Chi saliva da Castagneta per raggiungere i Casati, i Birondi o i Carminati…
Veduta su Castagneta nel 1961: la tenerezza del paesaggio
Chi vi si dirigeva da Colle Aperto…
1875: veduta da Colle Aperto verso il palazzo dei conti Roncalli e la strada per Castagneta (fotografia probabilmente eseguita dal conte Antonio Roncalli
…e chi s’incamminava per la Ripa di San Vigilio per raggiungere le frasche che si trovavano in quella zona.
Il bivio tra via Sudorno e la Ripa in direzione San Vigilio
La salita della Ripa ripresa nella parte mediana. Prima del 1933 era una sorta di mulattiera, poi venne modficata e perfezionata divenendo una bellissima strada. Lunga circa settecento metri, è larga mediamente otto metri, con il marciapiede ornato da un filare di piante imbrifere (Racc. Gaffuri)
I più anziani e le famiglie con bambini troppo piccoli, preferivano servirsi della funicolare, risparmiandosi la fatica della Ripa.
L’esterno di Porta Sant’Alessandro, con a sinistra l’ingresso della funicolare per San Vigilio
Dopo aver trascorso la giornata in letizia, giocando, cantando, gustando la cucina nostrana e bevendo fiumi di vino, verso le 22 si ritornava a casa; solitamente i vecchi, le donne e i bambini scendevano prima….
Il rientro domenicale nei Borghi nel 1880, passando per S. Agostino
…mentre i più giovani – i tiratardi -, rispedite a casa le famiglie cominciavano un rito che consisteva nel cosiddetto “gir di sèt cése” (letteralmente: giro delle sette chiese): una sorta di maratona godereccia durante la quale si beveva e si cantava fino a notte fonda, concludendosi naturalmente con una sonora ciucca.
Scorcio su Borgo Canale e via degli Orti
Un curioso aneddoto è contenuto nel bellissimo fascicolo di Evaristo Pagani e Luca Bresciani, pubblicato dalla Biblioteca Circoscrizionale “Gianandrea Gavazzeni”, dove un certo signor Gaetano racconta che dopo aver completato il “giro delle sette chiese”, prima di rientrare in città passava con gli amici per Borgo Canale, dove raggiunta la casa natale di Donizetti intonava un’appassionata “Furtiva lagrima”, celebre romanza dell’Elisir d’amore.
Scorcio di Borgo Canale nel 1910
I lunedì le frasche erano frequentate soprattutto dai barbieri, che nei mercoledì delle Ceneri solevano inaugurare il periodo di “astinenza e digiuno” peregrinando tra le frasche e le osterie di Borgo Canale: quale simbolico richiamo alla Quaresima tenevano infilata un’aringa affumicata nel nastro del cappello, giusto per osservare il prescritto precetto di “magro” previsto il primo giorno quaresimale.
Borgo Canale con via degli Orti
Alle frasche era poi consuetudine festeggiare anniversari, Prime Comunioni ed ogni altra occasione un po’ speciale, persino matrimoni.
1950. Il pranzo di matrimonio di Elia Parietti e Maria Bonacina (suoceri di Dario Gamba, proprietario dell’immagine), alla frasca del “Gnuc”, nei pressi del Roccolino sopra Porta Garibaldi. Le vivande furono interamente portate alla frasca dai genitori degli sposi
1950. Foto-ricordo del pranzo di matrimonio di Elia Parietti e Maria Bonacina alla frasca del “Gnuc”, nei pressi del Roccolino
1950. Foto-ricordo del pranzo di matrimonio di Elia Parietti e Maria Bonacina alla frasca del “Gnuc”, nei pressi del Roccolino
Ma era soprattutto a Pasquetta che i bergamaschi raggiungevano la frasca preferita per il tradizionale pranzo a base di salame e insalatina fresca, accompagnando il tutto con il vinello dei colli e riservando ai bambini l’immancabile bottiglietta di gazzosa tappata con la caratteristica biglia di vetro.
La frasca dei Rapizza sul colle di S. Sebastiano nel 1959. Il grande edificio sulla destra era il convento delle suore che ospitavano in collegio i figli dei carcerati. Sul crinale la storica cantina “Rapesa”. In via Torni, all’altezza del cipresso, si nota il viottolo che scende alle case del Lavanderio (Archivio Wells)
Dopo il pranzo c’era tempo per una partita alle bocce sui precari campi improvvisati che confinavano con gli orti, e mentre i bambini giocavano, gli adulti si concedevano una passeggiata lungo i Torni godendosi fino all’ultimo il tepore del sole che baciava i colli e la città murata, al canto degli uccelli, merli, usignoli.
Da San Vigilio ai primi del Novecento
In lontananza, l’Ave Maria delle campane di Fontana era un rintocco quasi malinconico e struggente.
La piana di Fontana dal Pascolo dei Tedeschi
La più antica: la frasca-trattoria dei Rapizza, in via Botta di San Sebastiano
La frasca più antica di cui si ha memoria è quella dei Rapizza sul colle di San Sebastiano: nel 1860 esisteva già.
Lo splendido balcone della frasca dei Rapizza in via Botta di San Sebastiano al civico 1 (il recto della cartolina indica tuttavia via S. Sebastiano al civico 22). Il locale si fregiava del titolo di “Trattoria” ed attualmente è abitazione privata
Il panorama dalla terrazza della Trattoria Rapizza
La tradizione vuole che ancora prima Gaetano Donizetti approdasse talora a questa oasi di pace dove, più di un secolo più tardi, negli anni quaranta del Novecento, in certe sere il tenore Alessandro Dolci sedeva al pianoforte e cantava; con lui spronava esibirsi alcuni provetti dilettanti del bel canto. La frasca allora si riempiva di avventori e il repertorio di arie e romanze durava fino a tarda ora.
Il tenore Alessandro Dolci (Bergamo 1890 – 1954), fu il più grande cantante lirico del primo novecento bergamasco, la sua voce venne definita: potente e morbida, dal timbro d’acciaio eppure carezzevole come il tocco del velluto e la dizione nitida ed autorevolissima. Mascagni gli fece interpretare per 18 volte la sua “Parisina” (di cui esiste una registrazione fonografica). Cantò nei più importanti teatri del mondo
Altre frasche sorsero fra i primi del Novecento e gli anni ’20.
La frasca – osteria del Pinì, in via Castagneta, n. 17
Castagneta tra otto e Novecento (Racc. Gaffuri)
La frasca-osteria venne aperta nei primi anni del Novecento da Giuseppe Donizetti, con il supporto della moglie e dei figli che lo sostituivamo quand’egli si recava nelle stalle ad accudire i suoi cinque cavalli, o quando col suo carretto curava, per conto del Monopolio, la distribuzione del sale e dei tabacchi.
Uno degli ultimi carretti del Monopolio di Stato a circolare in città. Il carretto circolava ancora alla metà degli anni ’80. Trasportava sale e tabacchi e raggiungeva anche Città Alta
Diversamente dalle classiche “frasche”, il locale restava aperto tutto l’anno. Nei momenti di grande afflusso, il proprietario si serviva di qualche “sbandato” della zona, retribuendolo con un buon pasto caldo, un calice di vino e l’alloggio per la notte. Tra questi c’era un tal Rosaspina, una “macchietta”, da cui probabilmente deriva il nome della frasca, che accoglieva tra gli altri anche il Mèrica – famoso cantastorie – e il Mènech, suonatore di fisarmonica.
Il signor Giuseppe lasciò al figlio la conduzione dell’osteria nel 1928 per condurre la gestione del “Pianone”, dagli inizi del ‘900 adibita a “frasca fuori porta” e poi a “taverna con alloggio”.
Fra le frasche di Castagneta è ricordata, dagli inizi del ‘900, anche quella presso l’attuale ristorante Pianone, poi adibita a “taverna con alloggio”, scomparsa alla fine del secolo allorchè lo stabile è stato completamente ristrutturato e la vite rimossa. Immerso nel verde di Castagneta, con la stupenda terrazza panoramica affacciata sulla città e le sue valli, l’edificio fu Casa padronale di una vasta tenuta, sorta nella seconda metà del ‘600 sui ruderi di una fortificazione medievale (estrema propaggine del Castello di San Vigilio) prende il nome dal colle su cui sorge, spianato dai Visconti per motivi di avvistamento militare. La cantina è infatti la “santabarbara” del primitivo fortilizio e il salone con il grande camino è voltato. Nel 1740 la bergamasca famiglia Mascheroni tornò dopo circa 50 anni da Venezia e acquistò la proprietà sul colle del Pianone: il 13 Maggio 1750 qui nacque, da Maria Ceribelli e Giovanni Paolo, Lorenzo Mascheroni, primo di quattro figli. Nel 1962 Enrico Panattoni con geniale intuizione ne rilevò la gestione e, in vari e successivi interventi, trasformà l’originale avamposto nel suggestivo ristorante
Veduta dal Pianone – Acquaforte di Sandro Angelini
La frasca del Vecchio Roccolino o“l’ostarèa di précc”, nell’omonima via
La frasca-osteria del “Vecchio Roccolino”, al civico 30, era gestita nel 1930 da Fulvio Cerea.
Via Roccolino è un vicoletto pavimentato a ciottoli che collega via Costantino Beltrami, in Città Alta, con la zona di Valverde
Era detta “l’ostarèa di précc” perché un gruppetto di giovani preti soleva trascorrervi il giovedì pomeriggio, non disdegnando qualche partitella a carte.
Si godeva di una quiete straordinaria e di una cucina genuina dove degustare il buon vino prodotto dal vigneto del proprietario. Sul bel caminetto posto nel cucinotto la moglie preparava i tipici piatti bergamaschi – polenta, casoncelli, costine.. – mentre i figli servivano ai tavoli.
Vista su Valverde e Valtesse dalla Fara
I clienti durante la bella stagione si disponevano sotto il pergolato posto nel cortile della casa, accolti da un intenso profumo di glicine ed estasiati da una bella veduta panoramica su Città Alta. La frasca era poi provvista di un campo di bocce, dove si giocavano interminabili partite a carte sui tavoli in graniglia.
Anche qui si notavano spesso le “macchiette” dell’epoca, che con le loro storielle e canzoni divertivano gli avventori: il Mèrica, il Pipelét, lo Svìsser, il Bignòca, abile suonatore di fisarmonica.
Nelle frasche capitava spesso d’imbattersi in una delle tante “macchiette” della città, personaggi stravaganti peri loro particolarissimi atteggiamenti. Tra queste, un posto di preminenza spetta senza dubbio al “Mèrica”(al secolo Signorelli Giovanni), figura piccola con gambe ad arco, che abbandonò la sua professione di calzolaio per fare il cantastorie. Cantava canzoni sue che commentavano argutamente i fatti cittadini. Qui è ritratto nel 1920 nei pressi del Duomo
“Ol Pipelet”, un abitante di Città Alta teneramente descritto qui, nel ricordo di Anna Rosa Galbiati
L’osteria doveva chiudere tassativamente verso le 22, ora in cui gli ultimi clienti, a volte un po’ alticci, venivano prelevati e messi alla porta.
La chiusura della frasca avvenne nel 1936 ma ancora verso gli anni ’90 la cascina non aveva subito cambiamenti esterni, mantenendo intatta la sua rusticità.
La frasca di Burì o del Castèl, in via Castello Presati (Mozzo)
La frasca, immersa in un’area ricca di vigneti e coltivazioni ortofrutticole, venne adibita nel 1910 nel suggestivo cortile interno del Castèl, all’ombra dell’antica torre, un tempo più elevata.
Castel Presati, identificato nelle sue strutture più antiche con il Castello dei Signori di Mozzo – già ricordato all’inizio del Xll secolo da Mosè del Brolo – prima dei restauri degli anni Venti. La vecchia frasca è attualmente abitazione privata
I principali clienti della frasca – gestita dal signor Burini – provenivano da Curno, Mozzo e zone limitrofe, apprezzando il vino ritenuto fra i migliori prodotti sui colli, grazie alla favorevole posizione dei vigneti.
Castel Presati
La capienza del cortile e la vicinanza dei prati circostanti assicuravano agli avventori ampi spazi per i loro divertimenti e la domenica la frasca registrava il tutto esaurito: vi si trovava immancabilmente un certo Carminati – che con baracca e burattini intratteneva i clienti raccontando le avventure di Gioppino -, e tra i tavolacci di legno si aggirava un certo Previtali con il suo cestino di vimini ricolmo di òss de mórcc, galète e biligòcc.
A portare allegria con canti, barzellette e strumenti musicali un po’ scordati c’erano anche il Milani, il Nervi e i fratelli Fumagalli , che inscenavano recite degne del miglior teatro dialettale.
Sotto il porticato si svolgevano di sotterfugio interminabili partite a morra – gioco d’azzardo e perciò proibito, ma qualche grattacapo fu arrecato al gestore dalle camicie nere, che più volte banchettarono nella sua frasca senza pagare il conto.
Il portico di Castel Presati
A Pasquetta si mangiava con grande devozione un pezzetto dell’uovo prodotto dalle sue galline il Venerdì Santo. Ogni bambino bolliva e colorava alcune uova e poi si aggirava per la frasca alla ricerca di contendenti per la sfida al pichèt, battendo l’uno contro l’altro la punta del proprio uovo: chi riusciva a mantenerlo integro s’impossessava dell’uovo del contendente (i più furbi sapevano che le più resistenti erano le uova a punta).
La frasca dovette chiudere i battenti nel 1936 a causa del chiasso che infastidiva i proprietari del castello e del terreno circostante, cui il gestore era vincolato da un contratto a mezzadria; i sui figli continuarono tuttavia con passione ad occuparsi del vigneto: “…noi siamo come il vitigno, arriva un momento in cui questo non produce più e lo sostituiamo con un altro, buttando quello vecchio nel camino…”.
La frasca dei Bagià, in via Scalvini (S. Vigilio)
Tante belle compagnie e che bevute!
La “frasca” si trovava in via Scalvini 11, al termine della panoramica per San Vigilio, ed era gestita dal sig. Burlezzaghi, coadiuvato dalla moglie e dai figli.
L’attività ebbe inizio nel 1920, quando i Bagià (appellativo dato ai contadini brianzoli, come lo erano appunto i nonni del gestore) ottennero il permesso dai proprietari della tenuta.
La zona era molto bella, ricca di alberi da frutta con un esteso vigneto di uva Isabella, disposto a terrazze.
Il cuore della frasca era il cortiletto posto all’uscita del rustico cucinotto, allestita con qualche tavolo in legno e in pietra per la sosta dei numerosi avventori (che l’oste preferiva chiamare “amici”), provenienti soprattutto da Città Alta.
Alla frasca della Bepina nel 1960, in via Scalvini, per gentile concessione di Dario Gamba. In primo piano, i genitori e la sorella di Dario
Alla frasca dei Bagià (San Vigilio) nel 1960 per gentile concessione di Dario Gamba. In primo piano, la mamma di Dario con in mano la mitica caraffa. La cascina, parzialmente ristrutturata, è adibita attualmente ad abitazione privata
Anche se il vino non era dei migliori, l’oste conservava in cantina una botticella di vino speciale da riservare alla sua famiglia o agli amici più intimi, per i quali la frasca veniva aperta, in occasioni speciali, anche nelle lunghe sere invernali dei fine settimana. Allora si gustava una succulenta trippa preparata con maestria dalla moglie del gestore, depositaria delle antiche ricette di cucina locale: quando si uccideva il maiale preparava una torta di sangue immancabilmente accompagnata ad un solido vin brulè.
Tutte le mattine di primavera a San Vele arrivava da via Pignolo un tizio accompagnato da una ventina di capre, che mungeva su richiesta. Vi giungeva anche la polaröla col suo cestino di uova, galline ruspanti e qualche galletto novello, alcuni già pronte per la casseruola, altri ancora vivi, “da tirarci il collo”. Anche il castragài si aggirava per le cascine dei colli, senza volere un compenso: ripassava quando i galletti castrati, erano ormai… capponi.
Dei suoi avventori il gestore ricordò la presenza dei fratelli Pagani – veri e propri intrattenitori ed abili cantanti – ai quali offriva il vino gratuitamente purché non lo “tradissero” con qualche altro concorrente.
Ma un ricordo indimenticabile è legato ad un gruppo di cantanti e di coristi lirici che saliti alla frasca al termine di una serata al Donizetti,“dopo aver mangiato e bevuto nel cucinotto intonarono un malinconico “Va, pensiero”. Beh, ancora adesso quel coro mi risuona nelle orecchie e mi fa venire la pelle d’oca”.
cartolina di San Vele del 1920
Nel 1971 il gestore dovette suo malgrado cessare l’attività perché la moglie si era ammalata e l’età cominciava a farsi sentire: “Se avessi qualche anno in meno sarei ancora là in mezzo ai miei vigneti e ai miei amici di Città Alta”, affermò commosso. Intorno agli anni ’80 lasciò la sua amata San Vele per stabilirsi a Ponteranica.
Sempre in via Scalvini sorgevano la frasca “del Barba” (di cui non si conosce l’esatta collocazione) e quella “della Matèla”, attualmente abitazione privata.
La frasca dei Montagnér, in via Castagneta
La frasca della famiglia Carminati, proveniente da Gerosa e dunque detta dei Montagnér, si trovava in via Castagneta al n. 35. Oggi la cascina sopravvive come abitazione privata, dopo essere stata adeguatamente ristrutturata nel rispetto delle caratteristiche originarie.
Castagneta (Archivio Wells)
I Carminati avevano avviato l’attività nel 1925 con l’aiuto di tutta la famiglia (quattro maschi e quattro femmine), producendo vino in proprio così come la stragrande maggioranza dei gestori.
Dal momento che ogni botte doveva essere rigorosamente dissigillata dall’impiegato del dazio – previo versamento di una congrua tassa -, il contadino eludeva i controlli spostando abilmente il cerchio e praticando un piccolo foro nella botte, da cui versava il vino mancante: e tra un controllo e l’altro trascorreva parecchio tempo!
La frasca chiuse nel 1953 ma ancora nel maggio dell’87 il signor Carlo continuava a coltivare la vite, selezionando i vitigni.
La frasca dei Bepo Casati, in via Costantino Beltrami
Al civico 42 di via Costantino Beltrami, la frasca dei Casati aveva aperto i battenti nel 1927 nel bel cascinale a due piani con una terrazza in legname, già ristrutturato nell’86 presentando solo in parte la rusticità di un tempo. Nell’ampio cortile i cinque tavolacci in legno erano ricavati da tavole utilizzate per la lavorazione del baco da seta, dette caalér.
Via Beltrami nel 1905 in direzione Castagneta, con il Palazzo dei Conti Roncalli e la chiesetta di S. Pietro sullo sfondo
Gli avventori provenivano per lo più dall’alta città ma anche dai borghi; negli anni ’50 vi giungevano gruppi di famiglie milanesi con le “1100” e le “Topolino”.
Grazie anche alla felice posizione del vigneto esposto al sole e protetto dai venti freddi, si gustava un ottimo vinello, bianco e rosso, considerato “…uno dei migliori che si potevano bere sui nostri colli”.
Campi coltivati, da via Beltrami
La vendita stagionale iniziava nei primi giorni di primavera e solitamente coincideva con il 25 aprile – festa di San Marco -, terminando nel mese di giugno. Ma se avanzava del vino si poteva richiedere alle autorità competenti un proroga della licenza stagionale, prolungando l’attività di mese in mese.
Il signor Bepo ricordava che il più importante fra i suoi clienti fu lo scultore Manzù – ai tempi non ancora affermato -, che amava trascorrere il pomeriggio alla sua frasca, spesso animata da qualche burattinaio che montava la sua baracca improvvisando uno spettacolo.
Esilarante il ricordo di un cliente che preso dai fumi dell’alcool finì a gambe all’aria dentro una botte ancora mezza piena dove – diceva – avrebbe voluto passare il resto dei suoi giorni: dovettero estrarlo con la forza.
Nel 1957, pur con molti rimpianti i Casati decisero di cessare l’attività; gli introiti erano scarsi e il frastuono della frasca avrebbe arrecato troppo disturbo alle nuove abitazioni che stavano per sorgere in zona. Continuarono tuttavia a lavorare la vite ottenendo risultati soddisfacenti.
La frasca di Bíròncc, in via Roccolino
Quella dei Biròncc (Birondi), in via Roccolino 34, era la prima frasca che s’incontrava fuori le mura veneziane negli anni Trenta del Novecento.
Veduta dal Roccolino
Nel cortiletto pavimentato del piccolo ma accogliente cascinale, i tavolacci lignei stavano all’ombra di un pergolato sin dal 1934.
L’apertura della stagione avveniva il 27 aprile in coincidenza con la festa di San Pellegrino, venerato in Borgo Canale nella parrocchiale di Santa Grata Inter Vites, dove per l’occasione affluiva una gran folla che dopo le funzioni prendeva d’assalto le bancarelle per poi rifocillarsi nelle frasche o nelle osterie della zona, alcune delle quali, come vedremo, furono descritte da Luigi Pelandi. Gli avventori si disponevano allora nel campo dei Bíròncc, e, come un esercito in marcia finiva immancabilmente col calpestare o rovinare giovani pianticelle da frutto e i germogli di verdura.
Il culto verso S. Pellegrino Laziosi si festeggia nella chiesa di S. Grata Inter Vites, in Borgo Canale. Sin dalla vigilia processioni di balie e di mamme provenienti dai borghi e dal vicino contado si recavano presso la statua del santo mettendovi a contatto gli indumenti dei loro piccoli. Venivano benedetti i panetti che andavano messi nel pancotto o nel “pantrito” quando i bambini erano malati
Vi perveniva una compagnia molto affiatata, che dopo essersi rifocillata provava delle scenette di stampo dialettale, “dirette” dai signori Cortinovis e Lusetti.
Il signor Birondi ricorda inoltre che il lunedì, la frasca diventava luogo di ritrovo di non pochi calzolai della città che vi trascorrevano la loro giornata di riposo.
Data la scarsa produzione di vino, il periodo stagionale di apertura era molto breve (un paio di mesi al massimo), cosi come è stata breve la storia di questa frasca, che cessò di esistere dopo soli otto anni di attività in quanto poco redditizia.
Al maggio del 1987, l’ex cascina era adibita ad abitazione privata e vi risiedeva ancora la famiglia Birondi. L’ambiente non aveva subito alcun restauro, mantenendo integre le stesse caratteristiche di allora.
LE FRASCHE-OSTERIE DI BORGO CANALE NEL RICORDO DI LUIGI PELANDI
La frasca-osteria del Nicola, in via Borgo Canale
Il borgo di Canale e San Vigilio alla sommità. In quella che fu la frasca-osteria del Nicola si svolge attualmente un’altra attività commerciale
C’era un’osteria, quasi di fonte alla parrocchiale di Santa Grata inter vites, che gli abitanti del borgo chiamavano “trani”. Una mescita di vino, condotto da un certo signor Rana, un barese di nome Nicola; e per lui l’osteria andò perdendo il nome generico di “trani” per quello di “Nicola”.
Questo pugliese era un buon uomo, sempre indaffarato e pieno di iniziative per il bene della clientela, pittoresco nella sua parlata italiana infarcita di vocaboli e di espressioni dialettali nostre.
Il suo locale, alla sera e durante i giorni festivi, era sempre affollato sia per la modestia dei prezzi e sia per la robustezza del suo vino, apprezzato in particolare dagli ortolani di San Martino e dei Torni.
Il budello di Borgo Canale con la chiesa di Sant’Erasmo
Le famiglie del borgo e delle vicinie prendevano lì il bottiglione di vino da portare a casa per la domenica; e le donne si facevano riempire la bottiglia di quell’olio denso che Nicola faceva arrivare dal suo paese. Un portento per la cura dei sofferenti e deboli di stomaco, una medicina preventiva contro le gastriti e le ulcere.
La frasca-osteria I bèi tep, in via Borgo Canale n. 52
Il borgo di Canale e San Vigilio alla sommità. L’antica frasca-osteria de “I bèi tep” è attualmente abitazione privata. Nella medesima via sorgevano: la frasca-osteria “La Scaletta” (attigua alla scaletta che scende dai Torni), la frasca “di Arcangei” al civico 72 e quella “del Bonaita” al civico 88 (attualmente tutte abitazioni private)
Il locale era la meta preferita da chi, abitando in città, desiderava passare una mezza giornata in campagna e far merenda all’aria aperta.
Poiché quando sorse era ben fuori dal centro e si raggiungeva con una passeggiata in campagna, non dev’essere errato pensare che incominciasse la sua attività esponendo la frasca per smerciare il prodotto delle vigne nella conca di Fontanabrolo.
La Conca d’Oro nel 1932
“[…] Dalla casa al “Paesetto” dove abitavo da ragazzo, vedevo la folla festosa ai tavoli del locale e ne udivo i canti fino a tarda ora della domenica; anzi, fin da allora, nelle giornate di sole, si udiva una fisarmonica e si travedeva la gente che faceva quattro salti sotto il portico.
Quando incominciai a frequentarlo, con gli amici, era ancora un locale che sapeva di campagna e di rustico; travi ai soffitti, muri grossi, pavimento di cemento.
Fuori un pergolato di uva isabella, con sotto i tavoli di graniglia e il gioco delle bocce.
La Conca d’Oro nel ’77
Ebbe diversi gestori e varia fama. Trattoria, ritrovo per passatempo e giochi innocenti, ma anche teatro di qualche scontro. Vi scoppiarono rise e pestaggi. Ricordo due uomini che si affrontarono brandendo ciascuno un tavolo, un altro che venne legato con le cinghie dei pantaloni di alcuni presenti fin che gli svanì la sbornia e la voglia di picchiare.
Tra i gestori de “I bei tep” ci fu un gran giocatore di morra: un uomo basso, tarchiato, dal faccione di luna piena e dal carattere d’oro.
Altra figura i rilievo fu un pezzo di Marcantonio volontario di tutte le guerre. La sua mole giovanile scoraggiava qualsiasi intemperanza; bastava uno sguardo neanche troppo significativo sull’importuno per smorzare ogni velleità. E ce n’era bisogno in quel periodo immediatamente dopo la guerra che aveva scatenato tutte le passioni!”.
La frasca dei Rizzi, in Castagneta
Famosa in Castagneta è stata a lungo la frasca dei Rizzi, aperta nel 1936 e con vitigni di proprietà. Si trovava a metà di una delle scalette poste in fondo alla via del Pianone, dove un sentierino collega Castagneta con Valverde.
Vista sui colli da Castagneta
C’erano tavoli in pietra disposti nell’aia della casa, qualche tavolino in legno all’interno del cucinotto, un caminetto per cucinare un piatto di polenta, una stanzetta fresca dove si appendevano a stagionare i salami. C’era spesso gente allegra, con chitarra e mandolino, che cantava e ballava.
Castagneta con via Pianone indicata dalla freccia nella parte superiore dell’immagine
Ogni tanto vi capitava una macchietta che intratteneva i clienti con un lungo repertorio di barzellette o con racconti particolarmente comici.
La costruzione è stata infine demolita. Sempre in via Castagneta, al civico 14 sorgeva la frasca “dei Colombì”, poi adibita ad abitazione privata.
La frasca dei Bisù, in via Pianone
I Gotti iniziarono a “fare cantina” nel 1936, in via Pianone n. 9. producendo parecchio vino. Nel cucinotto posto al piano terra, lavoravano la moglie del signor Leone, gestore della frasca, e i figli (tre fratelli e due sorelle).
Numerose le persone provenienti da tutti i quartieri della città, dove potevano assistere, a domeniche alterne, a spettacoli di burattini condotti da Carlo Sarzetti – un personaggio dell’alta città -, ripagato con un buon litro di vino accompagnato da “pà e salam”.
Il burattinaio Carlo Sarzetti nella sua abitazione di via Tassis, a Bergamo Alta (Museo storico di Bergamo)
Sui tavolacci di legno si svolgevano interminabili partite di marianna e di scopa, ma soprattutto si giocava al cöc (il cucco), ed era divertentissimo guardare i giocatori che di soppiatto si facevano numerosi “segni”: “al cöc si segnava puntando la carta sul tavolo (l’immagine di un gufo su un ramo), mentre la brèssa (il leone con sole e stemma a colori rosso e giallo, simbolo di Bergamo) “si segnava con un pugno sul tavolo, tenendo la carta che si giocava“. La posta ordinaria era costituita dal “mezzino” o dallo “scodelletto”; pagava ovviamente la coppia perdente.
Nel 1955 la famiglia Gotti cessò l’attività: nella zona nascevano nuove abitazioni che non avrebbero consentito gli schiamazzi provenienti dalla frasca.
Verso la fine degli anni ottanta divenne abitazione privata; il caseggiato ha subito interventi di restauro consistenti che hanno ne hanno modificato le caratteristiche rurali; è invece rimasta intatta la preziosa cantina dove venivano stipati vino e salami da stagionare.
LE ULTIME RESISTENZE
La frasca del Martì, in via Astino
La conca di Astino
La frasca del Martì (Martino), al civico 9 di via Astino, sorgeva in uno dei paesaggi più genuinamente agresti che i colli possano ancora offrire, la Val de Sti (Valle di Astino), culla dell’ex monastero, circondata da alberi di castagno, carpini e robinie.
La frasca di Mario Carissoli si trovava appena sopra il monastero di Astino, e mesceva “vino di fresca beva, adatto a scorribande festaiole”, secondo l’espressione di Veronelli. Verso gli anni ’90, nonostante la frasca avesse chiuso i battenti da una decina d’anni la zona presentava ancora, oltre a coltivazioni di frumento, qualche vitigno ben coltivato
Era stata aperta nella primavera del 1944, esponendo nel porticato della cascina il tradizionale “ram de murù”.
Si beveva dell’ottimo vino rosso prodotto con uve miste, ottenendo una produzione consistente. Il primo gestore della frasca – il signor Burini – raccontava che “durante la vendemmia l’uva veniva portata nei tini del monastero, dove veniva pigiata; il vino veniva messo nelle botti e collocato nelle secolari cantine dello stesso. Ogni contadino della zona aveva la sua botte personale, sigillata dagli ufficiali daziari che all’occorrenza venivano chiamati a togliere il sigillo; quindi si tracimava il tino nelle damigiane per portarlo successivamente alla frasca”.
Le cantine dell’ex monastero di Astino prima del restauro
Molte gli avventori provenienti dai borghi della città. Tra questi un certo Belù, un facchino famelico che alla domenica mangiava 12 uova e mezzo salame: “una volta aveva vinto al lotto, celebrò l’avvenimento divorando dodici razioni di trippa con altrettanti pani e tracannando sette litri di vino”.
Poi c’era ol Pöles, un cliente “talmente sporco che la sua puzza si sentiva a venti metri, ma lui diceva che così si conservava!”.
Nel 1960 la famiglia Burini cessò l’attività; i figli abbandonarono la campagna mentre e i genitori, ormai vecchi, non avevano più le forze per continuare.
Qualche anno più tardi la famiglia Carissoli riaprì la cascina – che era ormai in grave stato di degrado – e con grande impegno riuscì a ricostruire un ambiente decoroso ed accogliente: divenne la frasca di sic sorèle: delle cinque sorelle, che la gestivano con i genitori.
La conca di Astino negli anni ’60
Verso la fine degli anni ’70 la zona stava notevolmente cambiando; la gente vi arrivava non più a piedi ma in automobile e i cascinali vicini, radicalmente ristrutturati, divennero ambite abitazioni di facoltosi bergamaschi e milanesi. Così anche la cascina subì lo stesso destino: fu venduta nel 1980 e completamente ristrutturata per essere adibita ad abitazione privata.
In via Astino non potevano mancare altre frasche: quella “del Regì” al civico 27 e la frasca “dei Sana” al civico 1, entrambe attualmente abitazioni private.
La frasca dei Nessi, in via Alle Case Moroni (Monte Bastia)
Unico nel suo genere nel panorama dei colli di Bergamo, l’edificio noto come Cascina Moroni (via Alle Case Moroni, n. 20) si adagia sulle pendici soleggiate poste fra la Bastia e San Vigilio con ai suoi piedi l’incantevole Riserva Naturale di Astino e dell’Allegrezza, dove lo sguardo si allarga sulla pianura occidentale.
Sulle pendici soleggiate del monte Bastia sorge Casa Moroni (ritratta nel 1910), adibita a frasca dalla famiglia Nessi dal 1950 all’85. All’esterno, nell’ampio cortile alcuni tavoli in legno si alternavano a solidi tavoli in graniglia
L’edificio era stato edificato nel Quattrocento dai monaci di Astino come tubercolosario ad uso privato, il che giustifica la presenza sulle pareti di affreschi di soggetto religioso; dal 1600 divenne proprietà dei conti Moroni e nel 1950 fu adibita a “frasca” dalla famiglia Nessi.
Nella cascina, il pregevole impianto tardo-quattrocentesco lascia trasparire la sua origine non rurale, con la parte padronale al pian terreno protetta da un grande porticato avente volte a crociera che, come il loggiato superiore, sono sorrette da colonne in arenaria locale (pietra di Sarnico). Il cortile presenta ancora una vera da pozzo risalente al Cinquecento
La famiglia Nessi ne ottenne la licenza dopo diverse difficoltà, dovute soprattutto alla collocazione di Ca’ Moroni, raggiungibile attraverso la stretta mulattiera che si snoda fra terrazzamenti distanziati l’uno dall’altro da un salto di ben tre metri: un serio pericolo per i frequentatori che dopo aver “alzato il gomito” rischiavano di ruzzolare con molta facilità (cosa che qualche volta si verificò, anche se fortunatamente senza grossi danni).
Il sentiero di via Alle Case Moroni e i terrazzamenti coltivati a vite in una foto d’antan
Tutt’attorno v’erano terrazze coltivate a vigna – oggi ahinoi incolte -, con bellissimi alberi da frutta ed ortaglie con ogni ben di dio.
Il cucinotto, posto al piano terra, era il regno incontrastato della signora Nessi, che curava personalmente anche la “contabilità” per far quadrare il bilancio familiare.
L’apertura stagionale aveva inizio il 17 marzo, ma anche poco prima se la primavera anticipava i suoi tepori. Quattro mesi più tardi, quando il vino era terminato si toglieva dall’ingresso il ramo appeso col caratteristico fiaschetto e la famiglia Nessi tornava alle normali attività agricole.
Il vino aveva un sapore gradevole e, come spesso accadeva fra i contadini dei colli, venivano “mischiate” diverse qualità di uve; i Nessi producevano anche un ottimo moscato, un vero e proprio rosolio dalla preparazione lunga e laboriosa, “nervoso e sostenuto, certo meglio del taglialingua”, a detta di Luigi Veronelli.
Il giorno di Pasquetta era una gran festa, gli avventori giungevano a frotte e chitarre e fisarmoniche davano luogo a canti, balli e giochi sino a tarda sera. Scorreva vino in grande quantità ad innaffiare uova sode, “radici” e salame nostrano in abbondanza. Poi il ritorno in città, tutti gratificati da una giornata trascorsa all’aria buona e in allegria.
Foto-ricordo alla frasca dei Nessi (Ca’ Moroni) nel 1958 (per gentile concessione di Dario Gamba)
Giorni di festa, ma anche giorni tristi, come raccontava il signor Nessi: “Quando la tempesta ci rovinava il raccolto, ed allora il duro lavoro dei campi non ti veniva ripagato, restare senza vino era un grosso problema. Fortunatamente qualche produttore di altre zone, ne vendeva del proprio, così riuscivamo a tirare avanti”.
Cessata l’attività nel 1985, la frasca di Ca’ Moroni fu fra le ultime a chiudere i battenti, seguita da quella gestita dalla famiglia Pezzotta alla Bagnada.
“I tempi erano cambiati, avevamo avuto qualche problema con i proprietari della cascina, con i residenti delle ville vicine, anche gli avventori erano cambiati, purtroppo taluni non si accontentavano più del vino, ma raggiungevano i nostri colli per appartarsi in qualche sentiero nascosto dove si iniettavano la droga: non poche volte io e mia moglie abbiamo trovato giovani in condizioni disperate e prontamente li abbiamo soccorsi”.
A lungo la famiglia Nessí continuò con grande passione e sacrificio l’attività agricola, prevalentemente ortiva, che trovava nel mercato di Bergamo un immediato canale di raccolta. Il vigneto fu parzialmente ridotto ma qualitativamente migliorato. Cascina Moroni è ormai destinata a trasformarsi in un complesso agrituristico. Di una delle più belle frasche dei colli è rimasto ormai solo un nostalgico ricordo.
La frasca della Bagnada, in via Rabaiona (Madonna del Bosco): la fine di un’epoca
Nella magnifica tranquillità di Madonna del Bosco, imboccata una stradina che conduce all’ottocentesca Villa Bagnada, fra distese prative e ricchi vigneti sorgeva una perla di cascinetta dove, sino agli anni ’80 si potevano ancora trovare “uova e radici” e salame nostrano.
Un brindisi alla frasca “La Bagnata” presso la Madonna del Bosco. Poco distante, nella via Madonna del Bosco sorgeva anche la frasca “dei Lozza” al civico 12 (attualmente ristorante) e quella “della Gianna” al civico 11 (attualmente abitazione privata) – (Ph di Luigi Rota)
Gestita dalla famiglia Pezzotta, fu l’ultima frasca dei colli a cessare l’attività dopo quella dei Nessi.
La famiglia Pezzotta svolgeva l’attività dalla metà degli anni ’50 (dapprima a S. Paolo d’Argon), passando dalla mezzadria a un contratto d’affitto. I coniugi erano aiutati dai cinque figli, ma solo Leonida, la maggiore, mostrava la passione che animava i suoi genitori.
Ancora verso la fine degli anni ’80 il tempo pareva essersi fermato. Sembrava incredibile ritrovare sui colli le stesse cose di allora: i tavoli in pietra, le tazze in terracotta, le caratteristiche bottiglie del litro, del mezzo e del quartino; galline e pulcini pigolanti lasciati in libertà, lo starnazzare delle oche e il caratteristico goglottìo del tacchino.
La “frasca” apriva i battenti coi primi tepori di primavera proseguendo l’attività sino al termine del vino, prodotto in loco ed ottenuto con un misto d’uve la cui gradazione ottimale si aggirava sugli 11 gradi.
Gli avventori erano soprattutto interi nuclei familiari che trascorrevano i pomeriggi a giocare a carte e cantare al suono di chitarre e fisarmoniche; ma verso la fine degli anni ’80 le compagnie erano meno numerose, solitamente ragazzotti che disturbavano la quiete con rumorosissime radio ed enormi altoparlanti, spaventando le bestie.
E così anche i gusti erano ormai cambiati, si chiedeva meno vino, preferendo birra, aranciata, o peggio, Coca Cola. La cascina che un tempo allietava i pomeriggi degli amanti dei colli è fu poi adibita ad abitazione privata.
§ § §
Tutto perduto. Nel giro di due generazioni, agli inizi degli anni ottanta le poche frasche rimaste iniziarono a sparire ad una ad una. Chiusero per ultime quelle dei Rizzi in Castagneta, dei Carissoli ad Astino, dei Nessi a San Vigilio ed infine dei Pezzotta alla Madonna del Bosco, stanchi delle continue lamentele provenienti dagli abitanti delle ville circostanti e stretti nella morsa di una legislazione troppo rigida e impossibile da rispettare senza dover stravolgere i vecchi edifici; a ciò si aggiunse la scomparsa dei vecchi gestori e la mancanza di motivazione per i figli nel continuare la tradizione.
I tempi erano ormai cambiati e con essi gli avventori, che non si contentavano più di quel vinello un tempo tanto amato. Le cascine di allora si sono trasformate in residenze private, dislocate lungo i più ameni itinerari collinari oggi tanto ambiti quanto frequentati.
Con la chiusura dell’ultima frasca si è conclusa un’epoca e nessun complesso agrituristico potrà mai rimpiazzare la poesia, la rusticità e la bellezza delle vecchie “frasche”, perché così come i colli di Bergamo, con tutto ciò che racchiudevano e significavano, erano di tutti e per tutti: un mondo che non tornerà mai più e che possiamo solo ricordare con infinita nostalgia.
Riferimenti
Evaristo Pagani, Luca Bresciani: Le “frasche” sui colli di Bergamo. Circoscrizione n. 3 – Città alta e colli, 1999.
Da Geo Renato Crippa, “Le frasche sui colli”, in: Bergamo così (1900-193??). Banco di Bergamo – Editore. Bergamo, 1980.
Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa – Borgo Canale”, vol. VI, Bolis, 1967.
1920: il cantastorie Giuseppe Signorelli detto Merica nei pressi del Duomo
Con il Merica, una tipica macchietta cittadina vissuta fra fine Ottocento e la prima metà Novecento, gli autori e le cronache del tempo ebbero di che sbizzarrirsi.
Era, nel ritratto che di lui fece Umberto Zanetti, “un omino dinoccolato alto si e no un metro, che cantava con una vocetta agra, in falsetto, accompagnandosi con una chitarra più grande di lui”.
La sua “lirica”, che sgorgava dal suo genio, commentò argutamente i fatti cittadini per tutto un cinquantennio di storia bergamasca, elevandosi dall’ebbrezza lieve dei vinelli delle colline o tra i purissimi aspri vapori del più autentico “trani”.
Rivendita di vini pugliesi in piazzetta S. Pancrazio (da “Bergamo nelle vecchie fotografie” – D. Lucchetti)
Tutta Bergamo lo conosceva ma nessuno, proprio nessuno, sapeva il suo vero nome. “Merica” – spiegò una volta il “cantore” – per via di una bisavola che si chiamava Maria Degna Merita e che aveva gli tramandato il nome, storpiato “in forza di chissà quali occulte leggi di antonomasia matronimica”, scrisse Vajana.
Si sapeva che era nato in SanTomaso, in anni lontanissimi, e ch’era figlio di un poverissimo cocchiere.
Via S. Tomaso nel 1910, con la donna che ha appena attinto l’acqua dalla fontanella (da “Bergamo nelle vecchie cartoline” di D. Lucchetti)
La sua bruttezza, “quasi disdicevole”, lo anticipò sin da bambino. Tutto di lui promuoveva al riso: magro impiccato, era alto come un paracarro, aveva le gambe sproporzionatamente corte e storte, malgrado le impaludasse civettuolmente in un giacchettone sproporzionatamente lungo. La sua camminata insicura ed ondeggiante tradiva un difetto alle ginocchia, che scontrandosi si respingevano a vicenda. “Gambestorte” e “crapadrecia”, si era compiaciuto definirsi.
“Ol Merica” nel commiato di Vajana
Il busto striminzito reggeva un cranio dalla forma marcata e pressata alle tempie; un visetto da infante, dominato da uno strano naso sottile da cui si allungava una barbetta appuntita e scomposta. Due occhietti vivacissimi e pungenti, quasi da topo, rallegravano quella specie di viso mobilissimo.
Le cronache si accaniscono descrivendo una bocca, “dalle labbra turgide e di un rosso rancido”, somigliante a “una ferita da taglio inferto da uno spadone medioevale”. Povero Merica. Parlava biascicando e il suo balbettio gli lasciava delle vistose bolle bianche ai lati della bocca, che risucchiava con movimenti suoi particolari. Nonostante ciò, anche quando serrava i denti digrignando fino all’esasperazione, riusciva simpatico a tutti.
Tra una canzone e l’altra aveva trovato il tempo di portare all’altare…. – c’è chi dice quattro, c’è chi dice cinque e c’è chi dice sette – donne, e di vederle poi dipartirsi nel regno dell’eternità: curiosamente, aveva sempre pronunciato il suo ‘sì’ mentre l’altra parte era in fin di vita. Sicchè ogni rito nuziale si era trasformato in un rito funebre, al termine del quale, “ol Merica” offriva da bere agli amici.
Il passeggio in Fiera nel 1902
Le di lui descrizioni sono a dozzine, ma fra tutte, quella di Geo Renato Crippa – che ai tipi bergamaschi dedicò esilaranti e commoventi capitoli – è senz’altro la più ricca e gustosa: nessuno meglio di lui – grande conoscitore delle storie e delle “macchiette” della città – avrebbe potuto né ignorare né lasciarsi sfuggire l’occasione ghiotta di descrivere il Merica.
La madre, una brava donna, illudendosi di farne un bravo artigiano l’aveva affidato a un ciabattino di Borgo Santa Caterina non badando che nello stanzino del “padrone”, fra banchetto, forme, ferri, pece, corde e scarpe, facevan bella vista alla parete due chitarre (una abbastanza passabile, l’altra vecchia e tarlata ma di buon suono) che avevano attirato le amorose attenzioni del giovinetto.
Il ponte di Borgo Santa Caterina
Non appena il “principale” sortiva dal bugigattolo, il nostro cercava di addestrarsi alla bell’e meglio e appassionatamente, e quando udiva qualche suono azzeccato si agitava all’impazzata meravigliandosi, fino a quando, dagli e ridagli e straziando le povere corde all’infinito, finì col realizzare un sogno cullato per settimane e mesi: accordare chitarra e canto fino ad acquistare una certa abilità, che perfezionò con qualche strana maestria.
Scrisse Crippa che “Per non disturbare i suoi di casa – vivevano in una stanza sola in quattro – esercitarsi nel ‘cesso’, all’esterno di una loggetta, fu invenzione prelibata. Questo posto, diceva, era il suo conservatorio, la scuola primaria della sua ‘genialità’ musicale”. Vi canticchiava la notte, cercando di adattare motivi popolari a testi di sua invenzione “amorosi o romantici, scelti in racconti di quartiere o raccolti nella miseria dei rimbrotti, delle accuse, delle stravaganze e delle irriquiete denuncie d’un volto rattrappito”.
Sicchè, “spingerlo a farsi conoscere, dopo averne constatata la bravura, fu operazione infame di un gruppo di buontemponi, decisi a scortarlo nelle osterie, sullo sterrato di piazza Baroni al tempo della Fiera, davanti ai caffè dei signori e sul Sentierone”.
Città Alta domina sul Sentierone con la Fiera e l’Ospedale di S. Marco e la chiesa di S. Bartolomeo (da “Bergamo nelle vecchie cartoline” di D. Lucchetti)
Gli rimediarono così una giacca degna del suo nuovo ruolo, “magari di velluto ed un cappello verde alpino con fior di penna”.
Il lato della Fiera sull’attuale Largo Belotti (da “Bergamo nelle vecchie fotografie – D. Lucchetti)
Scortato dalla feroce compagnia, fece la sua prima apparizione pubblica nel suo borgo in due locali “di pregio”: il “Gamberone” e l’Angelo”.
Entrato nelle sale, così conciato, gli urlarono di andarsene alla svelta.
Borgo S. Caterina. Nei pressi si trovavano, poco distanziate fra loro, le trattorie delle Tre Corone, dell’Angelo, del Gambero e della Scopa (in “Bergamo nelle vecchie fotografie” di D. Lucchetti)
Ma imperterrito, con i suoi imbonitori pronti a difenderlo – “gente conosciuta (un macellaio e due salumieri)” – cominciò timidamente a cantare accompagnandosi alla chitarra scalcinata e “dati due strattoni, iniziò la sua tiritera con energia infuocata. Risa reiterate, battimani, ‘forza’, salutarono la esibizione, mentre, stordito ed in lacrime, l’artista non sapeva se accettare i bicchieri di vino che gli venivano porti da diverse parti: un successo”.
1910 circa: scoricio di Borgo S. Caterina (da “Bergamo nelle vecchie cartoline” – D. Lucchetti)
Da quella sera la fama del “cantastorie” percorse l’intera città, dai borghi a Piazza Vecchia e poi ancora giù, in Viale Roma: nei trani, nelle osterie, nei caffè di periferia, lo attendevano, passandosi parola.
Il gioco delle bocce in una trattoria di Bergamo, 1890 (da “Bergamo nelle vecchie fotografie” – D. Lucchetti)
E così il suo repertorio mutò con destrezza e dalle fiabe d’amore passò ad improvvisare i fatti cittadini, commentandoli come un Pasquino redivivo.
“Verdi” – scrisse Umberto Ronchi – lo avrebbe assunto come Rigoletto, un Rigoletto generoso, tutto lepidezza e fantasia improvvisatrice”.
L’ometto, agli applausi non ci teneva affatto; voleva soldoni lui, quelli di rame: solidi, pesanti, colla bella faccia di Vittorio Emanuele.
Ol Merica in una caricatura del “Giupì” (da L. Pelandi, Attraverso le vie di Bergamo scomparsa II – La Strada Ferdinandea, 1963)
Il castigamatti, “conquistava i suoi “affezionati” accusando prefetto, sindaco, amministratori, vigili, agenti del dazio, di non mantenere le promesse, di aumentare i prezzi delle derrate, di non pulire a dovere le strade, di impicciarsi in cose non di loro pertinenza, di permettere abusi nella applicazione delle tasse, nel non affannarsi a chiedere al governo di Roma il raddoppio della linea ferroviaria per Treviglio, di aumentare i tabacchi, il sale, i francobolli, i ‘trams’ e le cambiali.
Le giostre in tempo di Fiera (da “Bergamo nelle vecchie fotografie” – D. Lucchetti)
Bastava la pubblicazione di un manifesto con nuove ordinanze civiche o militari perchè il Merica, cantante analfabeta, chiesti ragguagli a conoscenti, schiattasse in imprecazioni e querele; uno spasso”.
1925 circa: il Sentierone (da “Bergamo nelle vecchie cartoline” – D. Lucchetti)
Quando la guerra chiamò il popolo a raccolta, imbracciò la sua chitarra come un mitra e con la sua vocetta agra intonò il suo canto di battaglia:
“Viva l’Italia
la gran nassiù
che la combàt
per la resù”.
Il rifugio antiaereo scavato in Piazza Dante
Porta Nuova nel 1940. Sulla fronte dei tempietti si legge: “Il passato è già dietro le nostre spalle. L’avvenire è nostro” e “Disciplina Concordia e Lavoro per la ricostruzione della Patria”
Tra gli avvenimenti accompagnati dal suo lieto e canoro commento, famosa è la nascita del nuovo centro cittadino e di tutti gli edifici che spuntavano come funghi a ridosso delle Mura.
La Fiera in demolizione (1922-’24) e la nascita del centro piacentiniano
La Fiera in demolizione (1922-’24)
Del rinnovamento sontuoso della sua Bergamo egli ne fu entusiasta, ma la sua gioia fu mortificata dalla tristezza che attribuì alle sue vecchie amiche Mura:
“Che’ diràl chèl curnisù
Quando l’vé la primaera?
Vederàl piö i farfale
a vulà sota la féra?”
Panorama di Bergamo, 1938
Per far posto all’allora palazzo della Banca Bergamasca, sorta in prossimità del chiostro di Santa Marta, venne schiantato un ippocastano che per quasi un secolo aveva assistito a tutte le vicende bergamasche. Si trattava del “piantù” nel Boschetto di Santa Marta, uno stupendo gigante alla cui ombra ristoratrice si erano ritemprati vecchi pensionati e ai cui romantici effluvi si erano confortati dalle sartine ai soldatini.
1920 circa: il centro direzionale della ‘Nuova Fiera’ (Da “Bergamo nelle vecchie cartoline” di D. Lucchetti)
Quando lo vide crollare con schianto formidabile, compose un brano memorabile:
“Nel bosch de Santa Marta
a gh’era ü vècc piantù
per mèt sö öna strassa d’banca
I l’à mandat a reboldù”
La “strassa d’ banca” era la Banca Bergamasca, fallita e poi occupata dal Banco Ambrosiano, sorta in luogo del complesso monastico di S. Marta.
Il Sentierone e i suoi rigogliosi giardini negli anni ’30
Le due statue poste ai lati dell’appena inaugurato Palazzo di Giustizia, Il “Diritto” e la “Legge”, furono invece così nominate:
“Gh’è dò bèle statue
sura ü pedestalì
la siura l’è padruna
chèl biòt l’è l’inquilì”
Il Palazzo di Giustizia in Piazza Dante, da poco edificato
Che le sue argomentazioni fossero in prosa o in rima nessuno se ne accorgeva: per le folle egli era la bocca della verità, il fustigatore, il difensore della poveraglia, l’inquisitore”,
“Bravo, bravo”, gli urlavano, soprattutto se avvinazzate.
La sua acredine degenerava in lamentela disperata verso gli amministratori dei luoghi pii – ospedali, manicomio,“Clementina” – verso i quali gridava come un ossesso a difesa di sordomuti e poveri ciechi, del brefotrofio e relativa “ruota” e di ragazze-madri. Non c’era modo di trattenerlo.
Il fronte della fabbrica cinquecentesca (demolita nel 1937) dell’Ospedale vecchio di S. Marco: oggi, del grande complesso un tempo parte del quadrilatero della vecchia Fiera, è rimasta solo la chiesa che porta lo stesso nome
Il Manicomio Provinciale entrò in servizio dopo che fu chiuso, nel 1892, il manicomio di Astino. La ripresa fotografica è anteriore al 1905 (da “Bergamo nelle vecchie cartoline” – D. Lucchetti)
Marzo 1915: il trasloco della Pia Casa di Ricovero delle “Grazie” (ex convento degli Zoccolanti ed ora Credito Bergamasco) al nuovo edificio della Clementina. Nelle “Grazie” subentrò l’ospedale militare della CRI (da “Bergamo nelle vecchie cartoline” – D. Lucchetti)
Il Piazzale Porta Nuova con l’ex convento degli “Zoccolanti”: Casa di ricovero “di Grassie” sino al 1915, poi ospedale militare della CRI. Annullo postale del 14 – 7 – 1919 (da “Bergamo nelle vecchie cartoline” – D. Lucchetti)
Lo ammansivano assicurando che si sbagliava e con gran fatica lo invitavano a consolarsi: ringraziava e una volta placato soggiungeva, quasi ilare: ‘Vi canterò la storia della Girometta, quella che, per amore, di chiappe ne vendette una fetta’.
Un gorgoglìo, in fondo alla gola, lo quietava prima di sgusciarsela recriminando”.
La Fiera settecentesca e il Sentierone. serie, riservata al mercato francese, fu stampata in tricromia dall’Istituto Italiano d’Arti Grafiche nel 1905 ca. (da “Bergamo nelle vecchie cartoline” di D. Lucchetti)
Con la fede e con i santi era però impossibile tendergli un agguato, e lo seppe, una sera, una certa Paola, famosa passeggiatrice, che tentandolo a sproposito ricevette in cambio una sberla ben assestata.
Sempre avvolto in un pastrano raccattato che gli arrivava alle ginocchia, continuò a cantare finché la voce non divenne fioca e scheggiata fino a ridursi in miseria: “dopo il giro col piattello in mano, notava i pochi centesimi raccolti, borbottava sostenendo che egli non meritava di esser schiavo o sottomesso ad alcuno, ma degno di rispetto nel suo intenso lavorìo di giudice delle malefatte altrui, che egli rivelava da cittadino cosciente ed ardito. Non scherzava lui e non mentiva, o buffoni”.
Persa quasi totalmente la vista, si aggirava per le vie della città accompagnato da una povera fanciulla, anch’essa mezza cieca, perpetrando tristemente “i racconti di giorni perduti, di sindaci morti da anni, del dazio sparito, di denari senza valore e di inutili bazzecole”.
Ebbe però un lampo di poesia alla morte di Antonio Locatelli, scomparso in un agguato in Africa mentre era in missione a Lekemti compiendo voli di ricognizione per far sì che le truppe italiane non cadessero nelle imboscate delle milizie dei Ras finanziati dagli inglesi.
1920 ca. Questa cartolina, con Antonio Locatelli ed il suo inseparabile S.V.A., non è una vera e propria cartolina commerciale, ma è interessante poichè sul retro porta il visto della “censura fotografica” militare. La più grossa impresa sportiva di Locatelli fu la “prima trasvolata delle Ande”. Compì l’impresa di andata e ritorno tra il 31 luglio ed il 5 agosto 1919, effettuando anche il primo servizio di posta aerea tra l’Argentina e il Cile” (da “Bergamo nelle vecchie cartoline” di D. Lucchetti)
Atterrato in una radura, fu ucciso a tradimento con tutto il suo seguito e del suo corpo non si seppe più nulla “e per ciò, come degli antichi eroi, ben si può dire che il suo corpo, forse arso, trapassò nei leggendari empirei del simbolo”. Ebbe a dire Bortolo Belotti.
Era il 1936 e per Bergamo fu un terribile trauma; anche il Merica, ormai vecchio e misero, lo pianse con dolore sincero.
“Il cuore, consunto, gli dettò una geremiade, mezzo angosciosa, mezzo gloriosa. Forse fu la sola e garbata elegìa sfociata in devoto dolore; la balbettava piangendo, sicuramente affranto:
Me pianze, me pianze, l’è mort, l’è mort, ol poèr Tunì. I la brüsat i nigher, selvaggi de nu dì. L’era grand e bu, mei del pà bianc. Bel, bel coma un angelì. Me pianze, me pianze, ol me poer Tunì”
Morì con un rammarico, quello di non saper comporre musica (“Potevo diventare un Donizetti”…). La morte lo colse all’inizio del 1943 dopo una breve malattia e fu annunciata da un necrologio dell’”Eco”: una colonna e mezza che l’avvocato Alfonso Vajana volle dedicare al povero cantastorie di San Tomaso.
Il Merica l’aveva invitato a comunicare la sua dipartita ai suoi ignari cittadini, nel momento in cui avrebbe per sempre posato la sua chitarra stanca: “Io lo compresi e lo feci con tenerezza. Del resto se l’era meritata…..: aveva servito, a modo suo, parecchie generazioni di bergamaschi, prodigando molto canto, attimi di serenità ed un po’ di sorriso”.
Contenendo a stento la tristezza, nell’angusta prigione del suo corpo breve e storto.
RIFERIMENTI
Geo Renato Crippa, Il “Merica, in “Bergamo così (1900 – 1903?)”.
Alfonso Vajana, “Uomini di Bergamo”, Vol II. Edizioni Orobiche, Bergamo.