Il Ponte della Regina, l’anima di Almenno, nascosta e dimenticata

Fotografie di Maurizio Scalvini

L’antico Lemine, il comprensorio dal quale ebbero origine i due Almenno (San Salvatore e San Bartolomeo), per secoli fu, a partire dai romani, uno dei più importanti centri del territorio bergamasco, raggiungendo il culmine nel corso della dominazione longobarda. Un luogo denso di memorie storiche e consacrato da un non comune patrimonio d’arte, rappresentato dalle chiese antichissime che qui sono sorte allo scemare delle paure dell’anno Mille, ed ancor prima, costituendo le più emblematiche ed importanti della cultura romanica in Lombardia.

Basti pensare all’incredibile santuario della Madonna del Castello in Almenno S. Salvatore, che, sorto in un luogo di cruciale importanza, racchiude in sé quasi duemila anni di storia inglobando ben tre edifici sacri, essendo stato sede del Pagus e della Pieve, i due vasti comprensori amministrativi nei quali fu suddiviso il territorio rispettivamente in età romana e medioevale.

Il santuario della Madonna del Castello, costruito all’inizio del Cinquecento ed oggi intitolato a Santa Maria Addolorata, ingloba la chiesa di San Salvatore, sede della Pieve in età medioevale

Una scia di edifici antichissimi, che dalle sponde del Brembo continua dipanandosi lungo le sponde dell’Adda e che induce a chiedersi il perché di questo concentrarsi di edifici romanici in una zona della Bergamasca che in quel periodo non era attraversata d itinerario storico importante, come poteva essere per esempio quello della Via Francigegna, lungo la quale erano sorte  basiliche, monasteri e ospizi per i pellegrini.

Non va dimenticato che per la vasta plaga di Lemine transitava la Strada della Regina, l’antica via militare romana che portava alle Rezie, supportata nel periodo tardoimperiale da un ponte monumentale (il Ponte di Lemine, meglio noto come “Ponte della Regina”), eretto sul sito dell’attuale Madonna del Castello per il passaggio di truppe, uomini e merci, e presto divenuto importante crocevia di traffici e di comunicazioni.

Il suo volto, o meglio, ciò che ne rimane, sfugge ai tanti automobilisti che da Almè percorrono la strada per Almenno, a volte ignorando anche l’esistenza di una storica via militare, che, ormai celata sotto prati ed edifici, corre da quasi due millenni sotto l’inaccessibile strapiombo scavato nella roccia dalla corrente del fiume Brembo.

Al termine di via Ponte Regina, in Almè, un’area privata (nel riquadro rosso) impedisce l’accesso al terrazzo fluviale affacciato sui ruderi del Ponte della Regina (nell’immagine), eretto tra le due sponde opposte di Almè e Almenno S. Salvatore, a poca distanza da sito dal sito in cui è sorto il santuario della Madonna del Castello (Ph Maurizio Scalvini)

Come fu destino di altri importanti ponti romani, intorno al Ponte di Lemine convergevano numerose strade, lungo le quali sorsero insediamenti (vici), villae e luoghi di culto, e più tardi torri, palazzi e castelli che in molti casi han trovato la loro ragion d’essere proprio in relazione con questo antico ponte.

Il Pagus di Lemine, uno dei distretti territoriali  della Bergamo romana, doveva grosso modo corrispondere alla Pieve medioevale, comprendendo le Valli Imagna, Brembilla e Brembana fino a tutto S. Pellegrino Terme (1). Perciò non stupisce il fatto che in età romana il distretto di Lemine costituisse una corte imperiale, una vera e propria corte posseduta personalmente dall’imperatore romano,  passata dai re invasori dell’era barbarica ai re longobardi, che la “restaurarono” istituendovi una curtis regia.

L’importanza del sito della Madonna del castello in epoca romana è attestata anche da il ritrovamento nei pressi di un altare dedicato al dio Silvano, conservato al Museo Archeologico di Bergamo, dai resti di un impianto produttivo e da quelli un grande complesso residenziale che ha restituito  migliaia di frammenti di pregevole intonaco dipinto: una vera e propria rarità nel panorama bergamasco

L’imperatore doveva risiedere in quel palazzo romano di età augustea venuto alla luce sul sito della Madonna del Castello, a breve distanza dal Ponte della Regina; utilizzato come residenza saltuaria dai sovrani che qui si sono avvicendati, il palazzo fungeva da sede di controllo civile, militare ed economico di tutto il territorio circostante.

Attigua al sacro palazzo vi era la cappella palatina, un luogo di culto dedicato al Santo Salvatore, di cui si rintracciano parte dei muri perimetrali nella cripta che in seguito le è stata addossata. Nella cripta della Pieve rimane quindi un ricordo tangibile e prezioso dell’antica cappella palatina.

Ma per quale motivo? Nel X secolo i Conti di Lecco, nuovi signori della corte di Almenno, avevano fortificato tutta l’area attorno al loro palazzo cingendola di mura; la cappella, trovandosi sul perimetro delle mura venne trasformata in cripta, e sopra di essa venne realizzata una nuova chiesa: la Pieve di San Salvatore.

Delle quattro colonne che sostengono la copertura della cripta, tre sono d’epoca romana, compresi i capitelli recuperati in loco da un antico costruttore.

La cripta della Pieve alla Madonna del Castello è un edificio a pianta rettangolare diviso a metà da una fila di 4 colonne (di cui tre d’età romana) che sostengono le vele della copertura. Una parte dei muri perimetrali della cripta appartengono all’antica cappella palatina

 

Varcata la grande porta situata a destra del tempietto posto in corrispondenza dell’altare del Santuario, si entra nell’antica Pieve di San Salvatore, eretta sopra la cripta altomedievale. La pieve era una chiesa a cui venivano affidati i compiti pastorali propri della parrocchia, quali l’amministrazione dei sacramenti e la riscossione delle decime

Ma le sorprese non finiscono, perché agli inizi del Cinquecento la Pieve di San Salvatore venne inglobata nel santuario della Madonna del Castello, di cui oggi costituisce la parete di fondo.

Il cinquecentesco santuario della Madonna del Castello si presenta composto in due parti, due chiese distinte ma tra loro congiunte poiché la facciata dell’antica chiesa plebana dedicata a San Salvatore, risalente al IX secolo, costituisce la parete di fondo del grande edificio rinascimentale ad archi trasversi che oggi rappresenta la chiesa principale del santuario e che comunica con l’antica basilica per mezzo di una porta situata a destra dell’altare maggiore 

Il sito della Madonna del Castello, cresciuto all’ombra dell’antica strada militare romana e del suo ponte, era dunque la sede di una corte imperale romana, mantenutasi tale fino al periodo longobardo e poi passata a nuovi signori.

Sul fianco della rupe a strapiombo sulla quale sorge il santuario della Madonna del Castello, un terrazzo fluviale posto alla destra idrografica del fiume Brembo, si apre una grotta con una sorgente chiamata “fontana del Ròch”, la cui presenza fa ipotizzare che in epoca romana qui vi fosse un Ninfeo, un edificio dedicato al culto di una ninfa. Nel tardo impero i ninfei vennero spesso utilizzati come struttura portante dei battisteri paleocristiani. Un accostamento interessante potrebbe essere costituito dal ritrovamento dei resti di una vasca battesimale sotto l’attuale pavimentazione della Pieve di San Salvatore, all’interno del santuario della Madonna del Castello (Ph Maurizio Scalvini)

Ma prima di poter tracciare le grandi strade militari, i Romani dovettero preoccuparsi di sedare le resistenze indigene delle vallate e le continue incursioni provenienti dalle Alpi, che soprattutto sul finire dell’età repubblicana e primo augustea facevano delle vallate orobiche un’area militarmente turbolenta.

Dall’altura del Santuario di Sombreno, la veduta sulla piana dei due Almenno, cui fa da quinta l’Albenza con la Roncola, tra la Valle S. Martino e la Valle Imagna

Le vette del Resegone, dell’Albenza, del Canto Alto, del Misma e del Torrezzo costituivano il limite del mondo romanizzato, una linea lungo la quale i Romani avevano disposto una sorta di  “strada di arroccamento”, che fungeva da confine tra l’area romanizzata e non.

Ad Almenno, naturale sbocco della Valle Imagna,  questa linea correva a sud dell’Albenza, dove sulle alture collinari dei monti Castra e Duno, esistevano presidi militari facenti parte del sistema difensivo romano lungo il confine.

Sulla sinistra i due cocuzzoli della collina di Castra, in una foto aerea del 1952. La collina ospitò un accampamento romano, un distaccamento di confine presumibilmente col passaggio dai Galli ai Romani, nell’ultimo periodo della Roma Repubblicana

La postazione sul Monte Castra, sorta nella fase di passaggio dai Galli ai Romani,  venne supportata da un acquedotto, che correva per due chilomentri sul fianco dell’Albenza.

Il tracciato dell’acquedotto romano dalla Valle Pessarola in Comune di Strozza, a Castra, L’acquedotto in cocciopesto, che correva sui fianchi dell’Albenza, dalla località Piscina, posta nella valle dell’Amagno, giungeva al Corno di Cantagallo in Val Settimana e terminava alla Forcella di Castra (sede di un accampamento romano), raggiungendo una lunghezza di due chilometri

L’accampamento di Duno era invece sorto come baluardo gallico per poi essere assorbito nel sistema difensivo romano lungo il confine di quel territorio che dall’epoca longobarda si chiamerà Lemine (2).

Veduta aerea (parziale) della collina di Duno (1952), termine celtico indicante un luogo fortificato, posta al confine di Almenno, dove l’Imagna confluisce nel Brembo. Tutta la sommità della collina è recintata da un muro lungo circa 900 metri e largo da 60 cm a un metro, formato da borlanti cementati disposti a lisca di pesce (la linea continua mostra quelli ancora visibili), mentre la sommità appare livellata e disposta a terrazzi sorretti da muri di sostegno (Almenno S. Salvatore, Archivio Parrocchiale)

Entrambi i presidi costituivano una difesa dalle incursioni che potevano giungere dalla Valtellina attraverso la Valle Imagna.

La collina di Duno e in secondo piano quella di Vigna, anch’essa sede di ritrovamenti, viste dal monte Ubione. Nella zona d’ombra, i gradoni che tagliano il fianco nord (Almenno S. Salvatore, Archivio Parrocchiale)

Le due postazioni vennero abbandonate quando nel 43 a.C. gli eserciti romani, sotto il comando del console Decimo Bruto (luogotenente della Gallia Cisalpina) assoggettarono gli ultimi irriducibili della popolazione locale liberando tutta la fascia collinare orobica. A quel punto i confini si spostarono in cima alle vallate più turbolente (es. Valcamonica e Valtellina), nel periodo in cui la Cisalpina cessava di essere una provincia per diventare uno degli undici distretti d’Italia.

Fu solo allora che i Romani poterono fondare la Comum-Bergomum-Brixia, la grande arteria militare che tagliava longitudinalmente buona parte del nord Italia passando ai margini dei rilievi, dislocando lungo tutto il suo percorso una serie di presidi militari (3).

Il fiume Brembo all’altezza dei resti del Ponte della Regina e il monte Ubione sullo sfondo (Ph Maurizio Scalvini)

La strada riprendeva il tracciato dell’antica via “pedemontana”, che secoli prima era percorsa dai traffici tra gli Etruschi e principi celti d’Oltralpe; traffici che avevano arricchito anche il nostro territorio permettendo lo sviluppo di un centro protourbano sul Colle di Bergamo (4).

Un avanzo del pilone appartenuto al Ponte della Regina, sulla sponda almennese. Sullo sfondo fa capolino il campanile della chiesa della Madonna del Castello (Ph Maurizio Scalvini)

Alla lenta penetrazione dei coloni corrispose lo sfruttamento delle terre conquistate; la  centuriazione interessò l’area compresa tra il Brembo e i torrenti Tornago e Armisa, fino ai ponti della Regina e del Tarchino (5). Fu così che crebbero quegli aggregati rurali cresciuti all’ombra della strada militare, come Agro, Borgo e Campino, i cui abitanti dovevano lavorare su quei terreni che venivano disboscati lungo le prime vie di comunicazione.

Disegni dei reperti archeologici romani del la villa rustica in Campino, sorta grazie alla vicinanza di corsi d’acqua (“Ritrovamento Malliani in Campino”, da Vimercati Sozzi, Spicilegio archeologico nella provincia di Bergamo dall’anno 1835 all’anno 1868 –  Biblioteca civica A. Mai)

In età imperiale la via militare per Como andava acquisendo ulteriore importanza: i passi che dalla città lariana conducevano al cuore dell’Europa erano ormai percorribili in tutta sicurezza e le città d’oltralpe fungevano da centro di confluenza e di smistamento per tutta l’Europa, delle merci che arrivavano ai principali porti del Mediterraneo centrale (6).

E fu proprio allora, data l’importanza commerciale assunta dalla Bergomun-Comum, che la strada venne supportata dalla realizzazione del Ponte della Regina, un ponte monumentale voluto dall’imperatore Traiano, per permettere un passaggio rapido e sicuro agli eserciti diretti verso le Rezie.

La presenza più grandiosa della presenza romana ad Almenno sono i ruderi del Ponte della Regina ad Almenno San Salvatore, costruito nel II secolo d.C. sfruttando un isolotto al centro del Brembo. Inserito nel sistema viario della via pedemontana, il ponte era crocevia del passaggio militare e commerciale verso l’Europa (Ph Maurizio Scalvini)

Le sue grandi dimensioni erano giustificate dal superamento del considerevole avvallamento che separa le due sponde, costituendo un esempio di quella capacità costruttiva romana della quale si trovano tracce in varie parti dell’impero. L’impatto ambientale e paesaggistico fu così notevole da suscitare l’attenzione, oltre che degli storici, anche di poeti e di pittori come Lorenzo Lotto, uno dei massimi esponenti della pittura lombarda.

Nella rappresentazione di paesaggio, la pittura riprese più volte l’iconografia del ponte della Regina. Dettaglio dalle “Nozze mistiche di S. Caterina” di L. Lotto (1523)

Dell’imponente manufatto, celebre per la sua grandiosità e per la sua vita millenaria, attualmente si conservano una pila (restaurata nel 1985) e le tracce di altre due. Ma in origine, secondo la ricostruzione dell’ing. Elia Fornoni (7) l’imponente struttura era composta da otto arcate impostate su sette pile, per una lunghezza totale di circa 180 metri, un’altezza di 25 e una larghezza di 6 metri e mezzo.

Del ponte di Lemine sono sopravvissuti i resti di una pila e le tracce di altre due. Ripresa eseguita dalla sponda di Almenno (Ph Maurizio Scalvini)

Il Ponte di Lemine, sebbene non raggiungesse l’audacia costruttiva di quello di Traiano costruito sul Danubio – assai più lungo e con il piano in legno -, era tuttavia un’opera grandiosa, singolarmente somigliante al ponte romano di Alcantara, meglio conservato, costruito nello stesso periodo sul fiume Tago.

In un punto più lontano dalla riva, nel grande campo emerge il pilone della sponda di Almenno. La figura umana lascia intuire l’imponenza dell’antico ponte, che, unico manufatto di rilievo lungo la strada Bergamo-Como, fu importante per le attività e i traffici passanti per la valle S. Martino (Ph Maurizio Scalvini)

Il manufatto protrasse la sua esistenza sin verso la fine del XV secolo, permettendo una stretta relazione tra le due opposte sponde, tra i centri romanici di Lemine e la sede della corte regia di Almè, occupata poi dai Ghisalbertini, di cui restano tracce nel castello e nella chiesa di S. Michele.

Il ponte della Regina in un particolare della “Carte militaire du moyen age rappresentant le theatre de la guerre”. Dipinto a colori su pelle (cm 40×56), prima metà del sec. XV. Biblioteca Nazionale di Parigi (Gritti, 1997)

Lo sviluppo di Almenno ricevette inoltre un grande contributo dalla vicinanza all’Isola Brembana, il cui ruolo strategico, dal punto di vista militare e degli approvvigionamenti, era legato sia alla Bergomum-Comum che a Milano, città che in età tardoantica era stata eletta a rango di capitale dell’impero: e non a caso, lungo la linea che dal Brembo si diparte verso l’Adda, una decina di centri hanno dato vita alle più importanti chiese romaniche sorte intorno all’anno Mille quasi seguendo un percorso immaginario che dalle sponde del Brembo si snoda fino all’Adda. Un percorso che vede in S. Tomè l’emergenza di spicco e dove talvolta si avverte la presenza del fiume nei ciottoli levigati, come nella basilica di Santa Giulia, a Bonate Sotto. Un itinerario che prosegue fino all’abside romanica della parrocchiale di San Bartolomeo a Marne e alla chiesa di San Fermo, poco distante dalla strada romana tra Bergamo e Milano, per attestarsi, dopo aver superato numerose chiese antichissime, a Vaprio d’Adda, dove sorge la chiesa romanica di San Colombano.

INRESSANTI INCONTRI LUNGO L’ITINERARIO DELLA VIA BERGOMUM-COMO

Varie ipotesi sull’effettivo itinerario della Bergomum-Comum si sono succedute nel tempo, anche seguendo le indicazioni fornite dalle fonti antiche, tra le quali la Tabula Peutingeriana (carta geografica del III secolo d.C. dipinta su pergamena, conservata nella Biblioteca Imperiale di Vienna), in cui risulta essere documentata insieme alle principali direttrici viarie romane

La via militare Bergamo-Como si trova indicata nel segmento III della Tabula Peutingeriana, che la mostra al centro verso l’alto, con le indicazioni Como, Bergamo, Leuceris, Brescia. Dubbi permangono per quanto concerne il percorso da Almenno a Como, sia per l’identificazione dei fiumi Ubartum e Umana che non trovano corrispondenze con gli attuali corsi d’acqua, e sia sul possibile errore di posizionamento della località Leuceris, identificata dal Rota con Lovere, dal Mazzi con Lecco, dalla Cantarelli e dal Manzoni con Chiari, quest’ultima ritenuta l’ipotesi più probabile (Bergamo, Biblioteca Civica S. Mai)

Il tracciato si snodava con un percorso di quasi 60 km lungo una stretta fascia pedemontana della Lombardia centrale, attraversando le attuali provincie di Bergamo, Lecco e Como, e si svolgeva in posizione intermedia tra l’ambiente montano delle prealpi orobiche a Nord e la fascia delle risorgive dell’alta pianura a Sud, correndo a settentrione dei laghi brianzoli.

Da Bergomum, il ponte era raggiungibile partendo dalla strada di San Lorenzo sulla cerchia delle mura, che scendendo fino a Valtesse varcava la Morla a Pontesecco, risaliva la collina della Ramera per raggiungere il piano della Rovere a Petosino e poi Cavergnano tra Almé e Bruntino; da qui, con un rettilineo dolcemente degradante fino al ciglio del Brembo, si presentava al Ponte di Lemine. Non è difficile immaginare le truppe varcare il Brembo ad Almenno per immettersi sulla grande arteria lastricata.

Sembra che dalla città, la strada fosse larga oltre quattro metri, con un fondo assai curato, tutta selciata e in qualche punto anche lastricata. Di fatto la sua presenza, unitamente alla direttrice che dalla porta Sant’Alessandro conduce alla piana verso Mozzo, ha condizionato fortemente l’assetto del territorio.

Per la restante parte del percorso permangono dubbi, non ancora completamente chiariti dai ritrovamenti archeologici.

Come indicato dal Fornoni, partendo dal Ponte di Lemine a Ca’ Plazzoli il tracciato, oggi celato sotto i campi ancora coltivati, proseguiva lontano dall’abitato di Almenno San Bartolomeo, fino al ponte del Tarchino sul torrente Tornago, nei pressi di San Tomè.

Lungo la ripa che scende verso il corso del Tornago, è sorta la Rotonda di San Tomè, a poca distanza dal tracciato della Bergomum-Comum

Un ponticello che nonostante i rifacimenti subiti nel corso dei secoli, porta ancora un’impronta della sua origine romana. Oggi avvolto dalla vegetazione selvaggia, è guardato dall’alto da quello in cemento armato della nuova strada per la Val S. Martino.

Il modesto ponte del Tarchì sul Tornago, eretto sul viadotto su cui correva la strada militare romana in prossimità dello sbocco nel Brembo. Anticamente chiamato ponte del Diavolo, fu realizzato in epoca medievale (XII-XIII secolo) probabilmente come rifacimento di un manufatto romano. La struttura, con arco singolo, presenta muratura in conci squadrati e allineati fino alla chiave dell’arco, mentre superiormente è realizzata in pietra e meno rifinita e in ciottoli di fiume, a tratti disposti a spina di pesce

Alcuni resti rinvenuti sotto il presbiterio di San Tomè parlano dell’esistenza in questo luogo di un antico tempio pagano, forse dedicato a Pale, la dea silvestre, come farebbe supporre una lapide ritrovata non lontano.

Rotonda di San Tomè

Ed è proprio qui, all’ombra della Rotonda, che tombe romane del I secolo indicano l’esistenza di un luogo di sepoltura.

Le tombe romane rinvenute sul sito dell’attuale Rotonda di S. Tomè

La strada romana passava in questo punto tagliando per il fitto bosco che degradava verso il Brembo. Il viandante vi giungeva attraverso i campi che si estendono fino alla Val San Martino o dopo aver superato il Brembo, imbattendosi nel tempio della dea che lo invitava alla sosta.

In questo stesso luogo, tra il VII e l’VIII secolo, un ignoto architetto innalzò l’edificio romanico, riutilizzando le pietre dell’antico tempio pagano per abbellire i capitelli, ornati da sculture primitive.

Ancor’oggi, al riparo della nicchia formata dagli alberi che circondano l’inconfondibile sagoma cilindrica, riusciamo a cogliere lo stretto rapporto che lo lega a questa parte più antica del territorio. Un rapporto che non smette di colpire la nostra immaginazione e affascinarci.

Il Mazzi ricostruisce il tracciato successivo, verso occidente: dice che dal Tornago la via volgeva verso Barzana, passava poi poco discosta da Arzenate e da qui si dirigeva verso S. Sosimo e Gromlongo, raggiungendo Pontida, per poi proseguire a Cisano e Caloziocorte.

Ma per lo studioso P.L. Tozzi è verosimile che con le operazioni della centuriazione (di cui restano tracce fino a Brembate di Sopra), i Romani preferissero superare il Brembo più a valle, a Briolo o a Ponte S. Pietro, rendendo i collegamenti fra Bergamo e Lecco più diretti.

L’antichissimo ponte a doppia arcata di Briolo

Altri studi ritengono più probabile che la via puntasse su Como transitando per Brivio. Ci muoviamo comunque entro il campo delle ipotesi, anche se si ritiene che l’esistenza di percorsi alternativi fosse molto probabile: a Olginate, in provincia di Lecco, in corrispondenza di un restringimento si sono individuati i piloni di un monumentale ponte romano del III secolo d.C. per l’attraversamento dell’Adda (8); poggiava su 16-18 pile, aveva una lunghezza di m 150 ed una larghezza di m 4. Secondo Tozzi questi resti non sembrano una prova decisiva che vi passasse la Bergomum-Comum o perlomeno che vi passasse sempre ed esclusivamente; casomai il ponte poteva riferirsi a una variante del percorso affermatasi in età imperiale avanzata, o anche servire a una via da Milano per Lecco, da dove sicuramente per via lacustre, ma probabilmente anche terrestre, si perveniva a Chiavenna, quindi in Valtellina e, attraverso il passo dello Spluga si raggiungevano il Reno ed il lago di Costanza, dunque l’Europa centrale (9).

In ogni caso, grazie al ponte di Olginate si potenziarono i collegamenti tra Bergamo e Como e tra Milano e Lecco, passando per Monza (10).

IL PONTE FRA CURE E MANOMISSIONI

Anche dopo la caduta dell’Impero Romano la strada mantenne la sua importanza di infrastruttura viaria cruciale per tutto il territorio pedemontano, e nel medioevo, come è provato dalle spese di manutenzione previste e imposte dagli Statuti di Bergamo, divenne, se non l’unica, la principale via di comunicazione con la Val S. Martino, servizio che non si esaurì del tutto anche dopo l’apertura di nuovi sbocchi. Per questa sua importanza, anche il ponte subì numerosi interventi di ripristino e restauro.

Il corso del  Brembo in località Molina, da una carta topografica del 1777. Da notare i ruderi del Ponte di Lemine, la seriola, gli edifici dei molini e della segheria (Dipartimento del Serio. Serie acque. Cartella n. 21. Bergamo, Archivio di Stato)  (Prefettura del Dip. Serio, b. 21)

 

Particolare del Ponte e della Strada della Regina

E’ facile immaginare che la struttura possa aver subito danneggiamenti durante le invasioni barbariche e una mancata o inadeguata opera di manutenzione, in particolare nella seconda metà del millennio; senza contare che durante le scorrerie e le distruzioni verificatesi nel Bergamasco alla fine del XII secolo nel corso delle lotte tra guelfi e ghibellini, la struttura potrebbe essere stata sottoposta a gravi danni.

E’ con l’autunno, con le prime nebbie, il sole pallido, il lieve fruscio delle foglie sotto i piedi, che il fascino del luogo e della sua storia colpiscono il visitatore e la sua immaginazione. Nell’immagine, i resti del ponte sulla sponda di Almè  (Ph Maurizio Scalvini)

 

Sponda di Almè: al centro fra i due piloni sono evidenti i recenti rimaneggiamenti subiti dal manufatto, che, realizzato per la via militare che portava alla Rezia, rimase in uso fino al XV secolo, e cioè fino alla rovinosa alluvione del 1493 (Ph Maurizio Scalvini)

Nessuno comunque avrebbe potuto fermare, oltre alle accanite devastazioni delle guerre, il secolare logorìo delle acque, tanto che nell’arco del XIII secolo le fonti cominciano a fornire alcune informazioni evidenziando il vero e proprio calvario per le casse del comune e dei villaggi fortemente interessati nel ripristinare al meglio la struttura, indicando ad esempio la realizzazione di un pilone nella parte mediana del ponte che vent’anni dopo risulta già molto eroso alle fondamenta, e segnalando la presenza di alcuni resti rovesciati che opponendosi al corso del fiume potevano danneggiare ulteriormente gli stessi piloni (11).

Resti del Ponte di Lemine nel 1894 (da Elia Fornoni, Il Ponte di Lemine, Tavv. I e II)

E’ probabile che le continue riparazioni e addirittura ricostruzioni cui il ponte fu sottoposto nel corso de XIII secolo ne abbiano compromesso la stabilità, in particolare a causa dei considerevoli gorghi provocati dalla costruzione di nuovi piloni, eretti, per ragioni di economia, sfruttando come basi quelli crollati e adagiati sul greto del fiume, ritenuti sufficientemente consistenti.

Resti del Ponte di Lemine nel 1894 (da Elia Fornoni, Il Ponte di Lemine, Tavv. I e II)

La maldestra riparazione e le periodiche turbolenze delle acque furono le cause maggiori dei danni che via via si verificarono nel tempo, fino al crollo del 1493.

IL ROVINOSO CROLLO DEL 1493

Rimasto in uso sino al XV secolo e superata l’ingiuria del tempo, il ponte resistette fino all’alluvione del 1493, quando, già compromesso dai rifacimenti, il 31 agosto crollò rovinosamente sotto l’impeto della piena eccezionale del Brembo, che danneggiò altri ponti e strade causando numerose vittime. Il Ponte della Regina perse così cinque archi: due per ogni estremità e un altro poco appresso.

Restarono in piedi solo le tre arcate centrali, sopra le quali rimasero bloccate per ben tre giorni trentasei persone in balia della furia del fiume. Per mantenerle in vita veniva loro lanciato del pane con le fionde; vennero soccorse con scale e corde solo quando l’acqua tornò ad un livello normale.

Le tre arcate superstiti si opposero al Brembo per ben trecento anni: una cedette il 15 giugno del 1783, le altre due dieci anni dopo, ormai logore per l’azione costante dell’acqua.

Disegno dei ruderi del Ponte di Lemine o della Regina eseguito nel 1784 dal Lupi (Codex diplomaticus, 1784-1799)

Dell’opera monumentale un poeta ne rievocò la memoria: …Tu, lungo spettro, fra le rive appari, ed in colonna, su le vane arcate, ripassano cantando i legionari (12).

IL MITO DELLA REGINA

Dopo la caduta del ponte, la storia della struttura ha iniziato ad intrecciarsi con le antiche tradizioni longobarde. Il suo ricordo e la presenza delle rovine sull’acqua ha colpito la fantasia popolare facendo sorgere tra gli abitanti della zona il mito che lo voleva attribuito a una regina longobarda: da alcuni alla grande regina Teodolinda e da altri alla commovente figura di Teutperga, rifugiatasi a Pontida dopo il ripudio dell’imperatore Lotario e poi, secondo la leggenda, animosa fondatrice del Monastero di Fontanella (13), dove sarebbe ancora sepolta. Avvolto in questo alone di leggenda, l’antico “Pontis de Brembo”, o “ponte de Lemine”, ha iniziato a chiamarsi “Ponte della Regina”, anche se qualcuno ha pensato che il nome potesse alludere a un intervento sul ponte in epoca longobarda.

“Dintorni di Bergamo”: avanzi del ponte di Lemine, una suggestiva rievocazione ottocentesca del Ponte delIa Regina nell’incisione di Boromèo Gilberto (1815-1885)

Nel nome, vi fu anche chi ravvisò un’interpretazione popolare della parola “Rezia”, la zona della Alpi Retiche verso cui conduceva la strada romana che attraversava il ponte sul Brembo.

L’ASPETTO ORIGINARIO DEL PONTE

Dato che i resti del vetusto ponte costituivano un pericolo per le opere di presa sulla sponda sinistra, il 28 marzo del 1893 il Prefetto della Provincia di Bergamo ne ordinò la demolizione, che fu eseguita dalla ditta dell’ing. Ceriani & C., proprietaria del Linificio e Canapificio Nazionale di Villa d’Almé. All’ing. E. Fornoni fu affidato l’incarico di studiare il manufatto affinché fossero demolite “sole parti dell’èra media”, salvaguardando quelle d’epoca romana.

Dall’osservazione dei resti emergevano le modifiche subite dal ponte nel corso de tempo: il manufatto originario era formato da grossi conci di pietra arenaria (cavata nella vicina località Merletta) che misuravano sino a m 1,75 di lunghezza e m 0,70 di altezza; una solida muratura di cava costituiva il paramento interno e le pietre combaciavano nel paramento esterno.

Negli interventi successivi, osservava invece materiali più scadenti e una diversa tecnica costruttiva, con un nucleo centrale composto da sassi di fiume e un rivestimento di pietre più piccole e grezze, unite da abbondante malta.

Le modifiche subite nel corso della sua storia sono evidenti ancor’oggi, osservando i differenti materiali che compongono quanto ne rimane, dove accanto a grossi conci di pietra arenaria troviamo pietre grezze e sassi di fiume legati grossolanamente.

Sponda di Almè: la massiccia e imponente struttura delle parti più antiche (Ph Maurizio Scalvini)

 

Il confronto con la figura restituisce la misura dell’imponenza dei ruderi del Ponte della Regina (Ph Maurizio Scalvini)

Effettuando rilievi sui reperti e sulla scorta delle versioni offerte da alcuni studiosi del passato (14), il Fornoni ne ipotizzò l’aspetto originale paragonandolo al coevo ponte romano costruito ad Alcantara sul fiume Tago, in cui la spalla centrale culminava fino al parapetto per sorreggere un arco trionfale dedicato a Traiano.

Ricostruzione grafica del ponte romano di Lemine secondo l’ipotesi dell’ing. Elia Fornoni, secondo il quale il ponte doveva essere lungo complessivamente m. 184 e alto m. 24,31; formato da otto archi con due raggiature diverse ma medesimo piano d’imposta e dotato di due esili spalle; i piloni dovevano essere sette, muniti da spalle formanti complessivamente una pianta esagonale: di queste solo quella centrale doveva culminare fino al parapetto come il coevo il ponte di Alcantara, dove i cappucci delle pile avevano lo scopo di sorreggere “le spalle o piedritti di un arco trionfale dedicato a Trajano”

 

Il ponte romano costruito ad Alcantara sul fiume Tago in epoca traianea

Le ripetute modifiche subite dal ponte nella sua storia e in particolare la rifondazione dei piloni, rendendo irriconoscibile la struttura primitiva ha dato luogo nel tempo a svariate interpretazioni.

Esisteva anche una seconda ipotesi circa la forma del ponte originario, abbozzata da C.M. Rota e studiata nei minimi particolari dall’ing. G.S. Paganoni,  che presentò il ponte in sette archi, sei piloni e senza spalle ai lati, ma impiantato direttamente sulle sponde rocciose del fiume, con la lunghezza di m. 209,43 e l’altezza di m. 24,25

Abbandonato il percorso antico che su di esso si snodava, sono andate perdute le tracce e riferimenti che per ben oltre un millennio avevano segnato questo ambito del nostro territorio: le nuove direttrici, impostate più a monte, hanno guidato altrove le attenzioni. Ed è strano che nell’ampliamento dell’abitato di Almenno non sia mai stato pensato un adeguato riferimento alla presenza dell’antica strada romana e del suo ponte, i cui resti meriterebbero, per importanza storica, un’attenta  rivalutazione in rapporto con l’ambiente circostante.

UNA CURIOSITA’

Fonti attendibili dicono che nel 1512, a seguito del crollo del ponte della Regina avvenuto alla fine del Quattrocento, in sua vece venne ripristinato il porto di Clanezzo per assicurare le comunicazioni alle valli Imagna e S. Martino

Una barca doveva collegare le due sponde finché ad Almenno non si fosse realizzato un nuovo ponte, il quale, contrariamente alle intenzioni iniziali, venne realizzato solo nel 1628 non ad Almenno bensì a Clanezzo, situata più a monte dell’antico tracciato (15).

Il ponte ligneo di Clanezzo costruito nel 1628, apparteneva alla Serenissima ma nel 1648 fu venduto a Girolamo Santino d’Adda e veduto nel 1673 alla comunità della Valle Imagna. Solo nel 1878, dopo l’ennesima piena che distrusse il porto di Clanezzo, al suo posto fu definitivamente realizzata, con piloni in gusto neogotico una passerella pedonale sospesa (Gamba, 2000) – (Ph Maurizio Scalvini)

Dopo essere stato distrutto da una piena, fu realizzata una nuova struttura in legno e l’idea di recuperare il ponte di Lemine venne così definitivamente abbandonata.

Solo verso la metà del XVI secolo i suoi resti furono coinvolti in un progetto di più larga scala redatto dall’ingegnere idraulico veronese Isepo de li Pontoni per la formazione di un canale anche parzialmente navigabile derivato da fiume Brembo e diretto alla città di Bergamo in direzione Paladina-Curno-Broseta. Il progetto però non venne attuato in quanto, in prossimità del ponte, si sarebbero dovuti realizzare costosissimi scavi nella roccia.

Nonostante l’avvenuto crollo del 1493 Isepo de li Pontoni intendeva utilizzare i massicci piloni rimasti in piedi per il suo progetto di diga per la formazione di un canale navigabile derivato dal Brembo, 1583 (Gritti, 1997)

Un ex-voto apposto su una parete del santuario della Madonna del Castello, sembra comunque indicare che ancora verso la fine dell’Ottocento una barca collegasse le due sponde affacciate sul Brembo.

La scena di un naufragio nel Brembo, nell’ex-voto datato 1883 apposto su una parete del santuario della Madonna del Castello. Sullo sfondo a destra il santuario della Madonna del Castello, mentre a sinistra, abbarbicato sul cocuzzolo della collina, è riconoscibile il Santuario di Sombreno

 

Note

(1) Gli storici suppongono che pieve e pagus dovessero abbracciare approssimativamente lo stesso territorio. Secondo il Mazzi la pieve di Lemine comprendeva tutta la Valle Imagna, la piccola valle del torrende Borgogna con Palazzago, fino ai confini con la Val San Martino, spingendosi anche sulla sinistra del Brembo, estendendovi il suo nome con Almé (Lemen) e Villa d’Almé (Villa Leminis), e abbracciando nel suo ambito almeno i territori di Bruntino e di Sedrina. Indicazioni del Rotulum Decimarum Leminis 1353 confermano che anche la Valle Brembilla sino ai confini della Val Taleggio, tutta la sponda destra del Brembo con Zogno e S. Pellegrino fino a Fuipiano, ampie zone del piano, come Locate, Ambivere, Tresolzio e forse Chignolo (“rationes decimarum”), appartenevano al pagus Lemennis (da Manzoni, Op. Cit. in bibliografia).

(2) Lemine (o, nelle sue varianti, Lemmenne, Leminne, Leminis, Lemennis), è il toponimo con cui nel Medioevo si individuava un vasto comprensorio territoriale ad occidente del fiume Brembo che aveva costituito una corte regia longobarda.

(3) Lungo il percorso della Comum-Bergomum-Brixia si sono rinvenuti alcuni reperti archeologici databili tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C.: a e Monte Castra ad Almenno, a Caslino, Castelmarte e Incino.

(4) Nella fase preromana (VIII-IV a.C.) la via pedemontana svolgeva un ruolo strategico e commerciale unendo gli insediamenti etruschi del mantovano con i paesi transalpini attraverso l’abitato di Como. Indizio dell’antichità del tracciato sono una seria di reperti rinvenuti su alture poste controllo del possibile tracciato viario (Duno, Vercurago, Chiuso) che presentano sia materiali affini alla cultura locale di Golasecca di frammenti di ceramiche greche ed etrusche. Verso la metà del IV a.C. si assiste ad una maggiore influenza della cultura di matrice transalpina celtico-insubre che modifica la struttura degli insediamenti e il sistema commerciale precedente favorendo la città di Milano. In età romana la via pedemotana costituiva l’asse Est-Ovest, della centuriazione relativa al territorio di Almenno.

(5) L’area compresa tra gli attuali Almenno S. Salvatore e Almenno S. Bartolomeo presenta tracce di centuriazione, in particolare nelle località Agro e Bosenta, area compresa tra Brembo, Tornago e Arrisa; si inseriscono nell’impianto di centuriazione il cosiddetto Ponte della Regina sul Brembo, la località di Stazanum, nei pressi del ponte sulla valle del Tornago, e lo stesso ponte sul Tornago. All’interno di una maglia centuriata compresa tra I tre corsi d’acqua esistevano probabilmente ville rustiche, la cui presenza è indirettamente testimoniata dal ritrovamento di una tomba tardoromana in località Campino, nel campo detto la Noca.

(6) La strada romana Comum-Bergomum-Brixia venne tracciata dai Romani a partire dall’89 a.C., momento in cui venne concesso alla Transpadania il diritto latino. Dal III secolo d.C. connetteva l’antica Aquileia, nel Veneto, con i territori d’oltralpe attraverso Como, da dove raggiungeva la provincia romana della Rezia, posta in corrispondenza dell’attuale Canton Grigioni e del Tirolo, e da lì l’Europa centrale. Venne soggiogata sotto Augusto nel 16 d. C. dopo due lunghe campagne contro i Rezi, i Celti e i Vindelici, che permisero di raggiungere i valichi in condizioni di assoluta sicurezza. Da allora la città lariana divenne il perno di un sistema di comunicazioni che comprendeva il lago, i passi del S. Bernardino, del Maloja, del Septimer, del Julier e, se si vuole, dello Spluga, del Lucomagno e del Gottardo. Gli sbocchi erano il Rodano, il lago di Costanza, il Reno, il Danubio e con essi tutte le città (a cominciare da Coira = Curia Raetorum) che fungevano da centro di confluenza e di smistamento per tutta l’Europa delle merci che arrivavano ai principali porti del Mediterraneo centrale. In questo quadro Como acquistò il ruolo di intermediaria fra il centro Europa, l’Italia e l’Oriente, anche perché la direttrice Milano-Como-Spluga-Brigantium era la più breve per raggiungere il Reno, grazie alla navigazione longitudinale del Lario, che con notevole risparmio di tempo (almeno due giorni) e di fatica, rispetto al percorso di terra, portava a Summus Lacus, ove cominciava il percorso trasversale della Raetia per l’alta valle del grande fiume europeo. Roma ne perse il controllo nel IV sec. d. C. quando venne invasa dai alemanni, bavari e svevi.

(7) E. Fornoni, Il Ponte di Lemine, Bergamo 1894; dello stesso autore anche L’antica Corte di Lemine: il Ponte sul Brembo. L’ipotesi ricostruttiva di Fornoni venne fatta sulla scorta degli studi precedenti di Lupo, Rota e Mazzi.

(8) Degrassi 1946.

(9) Storia economica e sociale di Bergamo. Secondo Cantarelli (Carta Archeologica della Lombardia, cit. in bibliografia) un secondo tracciato più diretto passava tra il Brembo e Brivio (ove furono notate in passato tracce di un ponte antico) e si manteneva più lungo il versante dei colli che precedono Bergamo (Fontana, la Madonna della Castagna).

(10) Storia economica e sociale di Bergamo.

(11) Proprio nell’arco del XIII secolo le fonti cominciano a fornire alcune informazioni evidenziando il vero e proprio calvario per le casse del comune e dei villaggi fortemente interessati nel ripristinare al meglio la struttura. Queste continue attenzioni sono dimostrate anche dal fatto che lo Statuto cittadino impegnava il Podestà alla verifica annuale dei ponti, (per il caso di Almè le ricognizioni vennero effettuate tre volte l’anno).
Nel 1208 e nel 1209 il Comune di Lemine dovette contrarre un prestito di 20 lire imperiali per restaurare il ponte sul Brembo. Il 19 novembre del 1250 i sovrintendenti al pontis novus de Lemen chiesero ed ottennero dai maestri che lavoravano al ponte l’opportunità di realizzare una pillam….in medio ponte. Ancora nel 1273 il Comune di Bergamo mandò alcuni deputati ed il perito Bertramo de Forzella a vedere e riferire su una pila que est multum smaganiata propter fondamentum…quod multum est cavatum sub glera ipsius Brembi. I sovrintendenti riferirono poi sulla necessità di rimuovere alcuni resti rovesciati i quali, opponendosi al corso del fiume potevano danneggiare ulteriormente gli stessi piloni. Nel 1283 infine la vicinia di S. Pancrazio pagò quattro lire e mezza imperiali imposite ipse vicinancie pro Pergami occasione reformationis pontis de Lemine.

(12) Bortolo Belotti, Poeti e poemi del Brembo, 1931.

(13) P. Manzoni, Op. Cit. in bibliografia.

(14) Per quanto concerne la forma e le dimensioni del ponte, Fornoni si rifà a quella originata dal Lupi e poi accettata con piccole variazioni da G.B. Rota, da Maironi da Ponte e dall’Ab. Calepio, confortata dal punto di vista storico e architettonico dal Mazzi e dallo stesso Fornoni, il più profondo e completo studioso della questione.

(15) P. Mazzariol, 1997.

Riferimenti essenziali

Paolo Manzoni, Lemine dalle origini al XVII secolo. Comune di Almenno S. Salvatore. Comune di Almenno S. Bartolomeo. Bergamo, Poligrafiche Bolis, 1988.

Carta Archeologica della Lombardia – II La Provincia di Bergamo – I Il territorio dalle origini all’altomedioevo. A cura di Raffaella Poggiani Keller. Ed. Panini, Modena, 1992.

Fondazione per la storia economica e sociale di Bergamo – Istituto di studi e ricerche, Storia economica  e sociale di Bergamo – I primi millenni – Dalla preistoria al medioevo. Volume II. Bergamo, Poligrafiche Bolis, marzo 2007.

Sulla Via delle castagne al Canto Alto, fra i segreti dei biligòcc di Poscante

Reportage fotografico di Maurizio Scalvini

Dal Canto Alto, la tradizione bergamasca dei “biligòcc” 

Tutti conosciamo il Canto Alto per la grandiosa quinta scenica che si staglia alle spalle della città e lo apprezziamo per i panorami che si godono da lassù o  per le grotte nascoste nella boscaglia (di cui la più famosa è quella del Pacì Paciana, non facile da individuare) e per la selvaggia Valle del Giongo, riserva naturalistica di pregio, ricca di acque e di fenomeni carsici, inclusa nel Parco dei Colli di Bergamo.

Pochi sanno invece che questa cima così familiare in passato è stata uno strategico punto di osservazione sulle vallate bergamasche, fungendo da tramite di un’importante via di comunicazione che connetteva Zogno alla città attraverso un sentiero storicamente documentato e chissà quali altri tracciati di cui s’è persa la memoria, disposti lungo le sue pendici: il primo partiva da Poscante, piccola frazione di Zogno, e valicando il Monte di Nese giungeva a Nese e proseguiva per Ranica, Marzanica, Baio, la Martinella arrivando al Vico Plorzano, ovvero Borgo Santa Caterina.

Nel corso del medioevo la sua vetta è stata poi presidiata da un ampio fortilizio in muratura, ripetutamente distrutto e ricostruito durante le aspre contese fra guelfi e ghibellini, ed abbattuto definitivamente all’inizio del Trecento: i suoi resti sono stati scoperti nel corso degli scavi per le fondamenta della croce.

Il versante ovest del Canto Alto (1146 m.). Conosciuto come “Piz Dent” o “Pizzidente” (dalla voce dialettale “dent” relativa alla valle che scende a Sorisole), si staglia tra Zogno e Sorisole, separando con la sua dorsale le Valli Brembana e Seriana

Ma il Canto Alto presenta altri volti che ne accrescono il fascino e che possiamo scoprire a pochi passi dalla città: un pugno di tranquille contrade  adagiate sulle pendici a nord, preziose depositarie della storia e della cultura locale, ancora molto viva e sentita fra i suoi abitanti.

Contrade che per secoli hanno tratto sostentamento dalle rigogliose selve di Castagno che ne ricoprono le pendici, rivestendo un ruolo fondamentale per la popolazione di Zogno e dei comuni limitrofi nell’approvvigionamento del legname e dei prelibati frutti.

Ed è proprio lungo il versante nord che fra le amene contrade di Poscante nasce la “Via delle Castagne”, un’antica mulattiera che si snoda per circa tre chilometri dal borgo rurale di Piazza Martina a Castegnone, patria d’origine dei biligòcc, le castagne essiccate e affumicate con un procedimento del tutto particolare.

Alle pendici del Canto Alto sulla “via delle Castagne”

Nell’alimentazione contadina la castagna era “il pane dei poveri” anche per il suo elevato contenuto di carboidrati: dalla sua farina si ricavavano pani, gnocchi, polenta, zuppe e dolci, mentre l’essiccazione e l’affumicatura consentivano la lunga conservazione del frutto, da riservare al consumo locale nonché alla vendita.

Per ottenere i gnocchi di castagne occorrono 400 gr di patate e 400 gr di castagne secche messe in acqua per una notte e poi fatte bollire. Una volta schiacciate, vanno  mischiate a un uovo, 150 gr di burro e sale. Impastare il tutto con farina e poca acqua e condire con burro e salvia o, in alternativa, con salvia, panna e funghi (finferli, porcini..)

Ma non solo, il Castagno veniva sfruttato per la legna da ardere o per fabbricare pali per la viticoltura, mentre il fogliame tornava utile nelle stalle.  

Autunno nei Foldoni, nel territorio di Poscante (Ph Ettore Ruggeri)

Arrostite sul camino, le castagne allietavano le serate quando la famiglia si riuniva per la scorciatura del granoturco mentre soprattutto in tempo di guerra erano molte le famiglie che ricavavano dalla vendita dei frutti affumicati i mezzi per il proprio sostentamento.

Con grandi sacchi di iuta si partiva verso la pianura per barattarli con granoturco, frumento e patate o, nel migliore dei casi, per guadagnare qualche soldo.

1947: Andrea Gavazzi, nato a Poscante in contrada Ripa nel 1897, noto produttore e venditore di biligòcc , venduti alle fiere paesane nel periodo tra la metà di gennaio e l’inizio febbraio. I biligòcc venivano prelevati direttamente dal sacco di iuta con i misurini e consegnati in sacchetti di carta (Fotografia tratta da “Poscante e dintorni – ieri e oggi”, a cura di Tarcisio Bottani)

Il piccolo ma costante commercio dei biligòcc trovava il suo culmine nelle feste patronali invernali fino alla madonna Candelora, rivaleggiando con quello di Vall’Alta in Val Seriana: dalla festa di Santa Lucia sul Sentierone a quella di San Mauro che si teneva il 15 gennaio sia in città che a Bruntino, alla festa di Sant’Antonio abate che si teneva alla Fiera il 17 gennaio, dove si portavano a benedire gli animali da cortile, adornati con nastri e fiocchi.

Un gustoso disegno a pastello di Alfredo Faino, con un venditore di biligòcc alle prese con due monelli scalzi durante la festa di Sant’Antonio: sullo sfondo, spunta la chiesa di San Marco

Gli uomini in tabarro e cappello arrivavano in Bergamo nel cuore della notte, e dopo aver depositando i sacchi sul sagrato della chiesa di San Marco iniziavano a lanciare il famoso richiamo: “bei biligòcc, biligòcc, alè gente!”.

I biligòcc di Poscante, oltre ad essere famosi per la loro bontà avevano la caratteristica di essere i più belli perché le donne li mettevano nell’olio e con uno panno di lana li lucidavano: un segreto che li ha resi celebri in tutta la Lombardia.

1925: Aquilino e Leone e Luigi Gavazzi alla fiera di Sant’Antonio a Bergamo detta “del porcellino” . Ól Chilo e i Gigante (Foto tratta da “POST CANTUM – un paese”, a cura di Maurizio Buscarino

Celebre è anche la sagra che si svolge ancor’oggi a Sant’Antonio Abbandonato, frazione di Brembilla, in concomitanza con la festa padronale di San Mauro, che si tiene ogni anno il 15 di gennaio.

Ol Rino di Benecc (Rino Ruggeri) col sàc di biligòcc a Sant’ Antonio Abbandonato, 1979 (Foto Tito Terzi)

Oggi la tradizione dei biligòcc si è conservata soprattutto nelle loro terre d’origine, presentandosi in forma di lunghe collane in Valle Seriana e prevalentemente sfuse in Valle Brembana, dove i castagneti intorno a Poscante erano e sono assai floridi e produttivi, soprattutto lungo le pendici nord del Canto Alto sino a circa 900 metri di quota.

Basti pensare che nell’Archivio di Stato di Milano è conservata una mappa del censimento austriaco dell’area intorno a Poscante ai primi dell’800, su cui sono evidenziati i castagneti di Medil, Foldoni, Prat della Nus, Candì e dove ancor’oggi troviamo le piccole  Ostàne a settembre, per proseguire con le Careane, le Balestrere -tipiche della bergamasca – e le Rossere, dalla buccia rossiccia.

Ed è proprio nell’area di Poscante che attorno al 1300 nacque l’arte di affumicare le castagne (poi trasmessa alla Valle Seriana), quando un contadino di “Post Cantum” (toponimo apparso in un atto del 1249) volle sperimentare un procedimento per poterne gustare la fragranza anche fuori stagione. Egli – si dice – fece cuocere le castagne per circa due ore e le lasciò essiccare all’aria aperta per sette giorni e sette notti, così da poterle riassaporare sino al periodo pasquale.

Quanto vi sia di vero in questo singolare racconto non è dato di sapere, ma è certa la prima citazione di Giovanni Bressani poeta vernacolo, che nel 1490 scrive: Gne con tal desideri Sant’Antoni/Per vèend biligòcc, pom e castegni pesti/Da Poltranga a Surisel specie i doni/Gne ai desidera ch’as faghi di festi.

Nelle contrade intorno a Poscante ma soprattutto a Castegnone (la più vicina alle selve alte) sorsero quindi i secadùr, particolari strutture che grazie a una gradazione costante di calore e fumo garantivano una perfetta preparazione dei biligòcc, definizione dialettale derivante da “bis-cotto”.

Castegnone, la “patria” dei biligòcc, è una contrada della frazione Poscante nel Comune di Zogno

Ancor’oggi a Castegnone gli abitanti effettuano questo tipo di lavorazione, nell’unico fra i secadùr recuperati della contrada.

Zoom su Castegnone, ai piedi del Canto Alto di cui è visibile la croce. Le selve di castagno si trovano intorno e soprattutto al di sopra della contrada

Sulla “Via delle Castagne” fra le contrade di Poscante

La “Via della castagne” ricalca un’antica mulattiera di circa tre chilometri recuperata dal Comune di Zogno per valorizzare sia il frutto che la tradizione locale della castanicoltura, retaggio dell’antica tradizione locale (1).

Il percorso, con i suoi scorci sui castagneti e le finestre panoramiche sulla valle, offre una passeggiata rilassante, immersa nella natura.

Si tratta in realtà di un’antica via di collegamento con la Mercatorum, già battuta in epoca medioevale per la posizione strategica di difesa e più avanti per il commercio con Monte di Nese e la Valle Seriana nonché la città.

Lungo la “La via delle castagne” sono collocati dieci cartelli esplicativi,  ognuno dei quali, nel caso di visita guidata corrisponde a una tappa didattica. Il pannello è collocato nel borgo di Piazza Martina, da cui si diparte il percorso

 

Il sentiero, di facile percorrenza,  si diparte dal borgo rurale di Piazza Martina per raggiungere Poscante e da lì la contrada di Castegnone.

Il versante nord-est del Canto Alto

I dieci cartelli esplicativi collocati lungo il sentiero permettono di conoscere le caratteristiche della pianta e dei suoi frutti ed anche l’ambiente naturale di questo nostro versante prealpino, con il suo particolare clima e la vita della selva e del sottobosco nel volgere delle stagioni.

E’ possibile quindi conoscere anche gli insetti che la abitano, comprese naturalmente le preziose api che nella stagione estiva producono un ottimo miele di castagno.

Alcuni pannelli illustrano la tradizione della raccolta, della conservazione e del consumo della castagna, permettendo di capire come, per necessità, l’istinto umano si sia adattato a sfruttare tale tesoro per il proprio sostentamento.

Percorribile in ogni periodo dell’anno e non solo in autunno ma consigliabile a terreno asciutto, il percorso è anche un’occasione per una piacevolissima passeggiata lungo un sentiero ricco di affascinanti spunti panoramici, alla riscoperta delle tradizioni del luogo e della storia che trasuda dalle incantevoli contrade: dal borgo rurale di Piazza Martina, ricco di testimonianze medievali, alla contrada di Castegnone, dov’è ancora in funzione il caratteristico essiccatoio in pietra per “fabbricare” i prelibati biligòcc: il secadùr appunto.

L’arrivo alla contrada di Castegnone, patria dei biligòcc, consente la sosta all’antico “secadùr” recuperato dai suoi abitanti ed oggi attrazione turistica

Una piacevole avventura, che in occasione dell’annuale festa dei biligòcc che quest’anno si terrà il 17 di Novembre, consente di assaporare il prezioso frutto insieme ad altre prelibatezze del nostro territorio.

Sulla Via delle Castagne diretti a Castegnone, la patria dei biligòcc

Mentre da Piazza Martina a Poscante l’itinerario è facile e per tutti, da Poscante a Castegnone il dislivello diventa un po’ più impegnativo, ma certamente fattibilissimo. Il tempo di percorrenza totale è di 1 ora e 45 minuti e l’abbigliamento consigliato è quello sportivo, o meglio ancora “da battaglia”, con scarponcini e bastoncini da trekking, indispensabili quando il terreno è bagnato e scivoloso. Per chi avesse qualche difficoltà, la strada principale è comunque interamente carrozzabile anche se qui bisogna “venire da ospiti e non da turisti”, nel rispetto dei ritmi del luogo e dei suoi abitanti.

La partenza avviene dal Ponte Vecchio presso il piazzale del mercato di Zogno, da cui si diparte la strada per Stabello (indicazioni) diretta a Piazza Martina,  che si raggiunge dopo un chilometro di tornanti.

Il Ponte Vecchio sul fiume Brembo, a Zogno, lungo la strada che porta a Grumello de’ Zanchi e a Poscante. Secondo alcune fonti, fu da questo ponte, e non da quello di Sedrina, che si tuffò il bandito Pacì Paciana per sfuggire ai gendarmi

 

Panorama su Zogno lungo i tornanti per Piazza Martina, tappa iniziale del percorso lungo “La Via delle castagne”. Al centro, l’appuntito Pizzo di Spino

Giunti alla Corna – bellissima casa fortificata medievale – si svolta a sinistra: un centinaio di metri ed ecco la contrada rurale di Piazza Martina (370 m.): una delle più piccole del comune Zogno.

A sinistra, l’imbocco per Piazza Martina, da cui si diparte la “Via delle castagne” (la rampa sulla destra porta invece all’Agriturismo Casa Martina)

 

Case rurali a Piazza Martina, una delle tante contrade di Zogno

 

Piazza Martina, con le sue belle case di origine medioevale, oggi rivisitate

Superata la piazza si svolta a destra, dove si imbocca un facile sentiero-mulattiera (SENT. CAI 504) che si inoltra nel bosco, delimitato per buona parte da muretti a secco e da un ruscelletto.

Il sentiero porterà in breve all’oratorio di Sant’Antonio abate, per poi proseguire con saliscendi non impegnativi fino a Poscante, in prossimità del cimitero.

Lungo “La Via delle Castagne”, verso la chiesa di Sant’Antonio abate. Oltre i murettti a secco si stendono prati da sfalcio dove si trovano alcune baite. Un tempo, il sentiero collegava Stabello con Poscante, sulla sponda sinistra della conca zognese

Dopo pochi metri si incontra il primo dei 10 cartelli didattico-informativi sulla castagna, disposti lungo il tragitto.

Dove gli alberi si diradano si aprono alcuni affascinanti scorci sul paesaggio, e in pochi minuti si raggiunge la cappella di Sant’Antonio abate, un edificio di origine romanica ma rimpicciolito nelle dimensioni e trasformato nel XVII secolo in stile neoclassico.  Sebbene le vere e proprie selve di castagno si trovino in quota, si incontrano numerosissimi esemplari di anche nel vicino bosco.

Dalla cappella di Sant’Antonio abate, circondata da prati ben curati, si può ammirare la Corna Rossa, una cornice naturale che racchiude milioni di anni di formazioni geologiche

Ogni 17 gennaio, in occasione della festività di Sant’Antonio abate si rivive l’antica tradizione della benedizione dei panini di Sant’Antonio, che vengono distribuiti insieme ai biligòcc, alle frittelle preparate dalle donne della contrada e all’immaginetta del Santo, che è raffigurato in abiti pastorali nell’abside della chiesa.

La statua lignea trecentesca di Sant’Antonio abate, nell’abside della cappella dedicata al santo

A due passi c’è una fonte d’acqua, un tempo considerata curativa.

La fonte lungo la mulattiera

Aggirata la bella cascina retrostante, un cartello ci indirizza verso Poscante raggiungendo una radura soleggiata con vista su Grumello dei Zanchi, preceduta dal secondo pannello didattico.

 

Il secondo cartello didattico-informativo, su “La Via delle Castagne”

Osservando la radura all’altezza del cartello si scorge la traccia di un sentiero, che si raggiunge attraversando il prato per una cinquantina di metri.

Veduta su Grumello de’ Zanchi, all’uscita del sentiero

Una volta rientrati nel fitto bosco ceduo, ricompare ben evidente il nostro sentiero: un largo tratturo che propone anche strappi su pezzi semi-cementati, richiedendo parecchia attenzione quando le condizioni del terreno lo rendono piuttosto scivoloso. Nel frattempo s’incontreranno altri cartelli.

Nel bosco, sulla Via delle castagne

 

Ciò che resta di un Castagno e, sullo sfondo, un fitto faggeto

Il sentiero fuoriesce in una grande radura con cascina…

…per poi rientrare nel bosco dove si attraversa una vallecola, con tracciato ben evidente.

Sulla Via delle Castagne

In breve si apre uno squarcio su Poscante, che per ora appare un po’ distante.

Poscante fra i colori dell’autunno

Il sentiero sbuca su una stradetta sterrata all’altezza di una santella, dove, svoltando a sinistra, aggancia un tratto selciato in discesa diretto a Poscante, dove sostiamo per una visita.

Il prosieguo sulla Via delle Castagne, dopo Poscante

Percorsa una curva ci si ritrova quindi su una strada asfaltata, affiancata dal cimitero del paese: ed ecco Poscante a portata di mano.

Poscante (408 metri s.l.m.)

Il piccolo villaggio agricolo di antica origine è da sempre costituito in comune e parrocchia: quella di San Giovanni Battista, affiancata dalla pregevole chiesetta della Madonna del Carmine.

Poscante: chiesa di San Giovanni Battista

 

Poscante: chiesetta della Madonna del Carmine

 

Interno della chiesa della Madonna del Carmine, a Poscante

La strada per Castegnone si può riprendere svoltando a destra imboccando la mulattiera gradinata a fianco della chiesa (che sbucherà nel piccolo parcheggio della contrada), oppure, se il terreno è bagnato e scivoloso, prendendo in salita la strada asfaltata.

La contrada Castegnone di Poscante

 

 

Lungo i viottoli di Castegnone, alle pendici del Canto Alto

Nel piccolo abitato di Castegnone, merita sicuramente una visita la chiesa secentesca di Santa Maria Bambina, con la facciata principale finemente decorata con finte modanature e finto bugnato.

La chiesa secentesca dedicata a S. Maria Nascente, festeggiata ogni  prima domenica di settembre

All’interno è conservato un dipinto del secolo  XVII raffigurante un’insolita  Madonna con Bambino, opera di Carlo Ceresa, artista brembano che ha lasciato nella valle innumerevoli segni della propria arte, insieme alle dinastie dei Baschenis e dei Guerinoni della Valle Averara, i Santa Croce, i Licini e i Gavazzi di Poscante, i due Palma di Serina, Gianpaolo Cavagna, Giovanni Busi Cariani e Mario Codussi, per citare i nomi più famosi.

Dettaglio della pala di Carlo Ceresa nella chiesa di Santa Maria Nascente a Castegnone

Ed è qui, nella contrada di Castegnone che sorgevano i secadùr, uno dei quali è stato ripristinato per riportare in auge l’antico metodo di preparazione dei biligòcc.

L’antica arte dell’essicazione

Nonostante l’apparenza le castagne sono frutti facilmente deperibili. Bene lo sanno i castanicoltori, che nel tempo hanno escogitato tutta una serie di attenzioni, metodi e tecniche per conservarle e poterle consumare o vendere anche molti mesi dopo la raccolta.

La conservazione contempla tradizionalmente due soluzioni: il mantenimento del frutto allo stato fresco o la sua essiccazione. Alla prima appartengono le tecniche della ricciaia e della novena, antichissime ed entrambe basate sull’innesco di fermentazioni naturali che agiscono da conservante. Alla seconda appartengono i vari modi per ridurre il quantitativo d’acqua presente nel frutto, principale agente del loro deperimento.

Un tipico essicatoio per la produzione dei biligòcc, le castagne essiccate e affumicate. Per la gente di Castegnone il legno impiegato per il fuoco è esclusivamente quello di Castagno

Un tempo, nelle zone castanicole la tecnica più diffusa per conservare più o meno grandi quantitativi di castagne avveniva tramite gli essicatoi rurali o “metati”, piccole strutture talvolta parzialmente interrate e molto diffuse in ambito montano, che a seconda dei luoghi e della tradizione si collocavano nelle abitazioni ed erano presenti in forma sparsa ed isolata anche tra le selve di castagni. 

Gli essicatoi di castagne a Castegnone di Poscante di Zogno

Non possedendo tutte le famiglie un proprio essicatoio, era frequente la sua condivisione tra gruppi parentali o abitanti di intere contrade.

A fianco della chiesa, un vecchio essicatoio parzialmente interrato, da tempo dismesso

Con il declino dell’agricoltura montana, e con esso della castanicoltura di sussistenza e di piccolo smercio, gli essicatoi sono in gran parte andati persi o convertiti ad altri usi: quelli rimasti, pur se spesso inattivi costituiscono preziose testimonianze.

Il secadùr di Castegnone

I “secadùr” di Castegnone sono piccole costruzioni isolate o annesse a un’abitazione, a un solo vano inframmezzato da un graticciato di legno, su cui vengono stese le castagne migliori da essiccare.

Nella bella contrada alle pendici del Canto Alto, l’unico secadùr oggi recuperato permette di seguire la messa in opera del metodo di conservazione delle castagne, adottato per generazioni. Queste vengono caricate, fresche di raccolta, su una fitta griglia in legno posta nella parte alta della struttura, alla quale si accede tramite una scala esterna.

L’antico  secadùr di Castegnone, l’unico ancora funzionante nella contrada,  a tutt’oggi utilizzato per la preparazione dei “biligòcc” 

Il lento essiccamento viene eseguito fornendo dal basso moderate quantità di aria calda mista a fumo, per una ventina di giorni circa.

Nella parte superiore del “secadùr”, il graticciato di legno d’ontano su cui vengono stese le castagne da essiccare e affumicare

L’accesso al piano terra (che in questo caso avviene dal cortile di un’abitazione privata) conduce alla “stanza del fumo”, da cui si espande ininterrottamente il calore di un fuoco alimentato con ceppi di Castagno, che produce la completa essiccazione dei frutti protetti dalla cura e dai costanti controlli.

L’accesso all’unico essiccatoio ancora attivo a Castegnone; nel locale, oggi ridotto, un tempo si essiccavano grandi quantitativi di castagne. La struttura è visitabile su prenotazione

 

In basso, la “stanza del fumo”, dove verranno tolte le fascine e collocati i ceppi per  l’essiccamento e l’affumicatura dei frutti

Il fumo denso e profumato ottenuto dalla combustione del legno di Castagno conferirà al frutto il caratteristico aroma dei biligòcc.

L’essicatoio in cui si ottengono i biligòcc, le tipiche castagne essiccate e affumicate ininterrottamente per una ventina di giorni

Le castagne così affumicate vengono infine poste in sacchi di iuta e qualche giorno prima della vendita sottoposte a bollitura e passate in acqua fredda per imprimere alla buccia le caratteristiche grinze.

Un essicatoio (“secadùr”), struttura necessaria all’asciugatura graduale e all’affumicatura delle castagne, collocate sopra il fuoco su un graticcio generalmente in legno

Il tocco finale può essere una spruzzata d’olio per la lucidatura del prodotto, quanto basta per far bella mostra nei mercati e nelle fiere bergamasche. Dopo l’asciugatura all’aria aperta le castagne sono pronte per essere consumate.

L’imbiancatura consiste invece nella  sgusciatura e sbucciatura manuale o meccanizzata.

1975: Contrada Castegnone, in via Castegnone. Il poscantino Silvio Luigi Donadoni – classe 1959 – mentre si appresta alla lavorazione dei biligòcc. Dopo la lessatura e la lucidatura mediante olio, le castagne affumicate vengono portate con una cesta in un locale per l’insaccatura. Nei giorni successivi saranno venduti alla sagra di San Mauro a Bruntino (Collezione Silvio Luigi Donadoni)

La meraviglia di questa tradizione vive nel cuore di tutti gli abitanti della contrada e nei visitatori: profumi, colori e tanta storia in un semplice frutto.

La sagra novembrina

Anche quest’anno a Castegnone il 17 Novembre la tradizionale “festa dei biligòcc” rivive nell’ambito della rassegna Sapori & Cultura, portando alla riscoperta dei sapori di una volta. Per l’occasione i residenti aprono le loro abitazioni, mostrando ai turisti alcuni ambienti allestiti con oggetti rurali per riscoprire le antiche consuetudini e gli antichi mestieri: la camera da letto, la cucina con il camino, le cantine di Siltèr, i lavori domestici, la quotidiana lotta per la sopravvivenza, per le quali i modesti attrezzi, frutto dell’ingegno e dell’esperienza, costituivano un prezioso aiuto.

E’ prevista anche una visita guidata gratuita al “secadùr”, con la presenza di “Maestro” della tradizione che mostrerà il laborioso procedimento di essiccazione delle castagne, svelando i segreti che si tramandano da generazioni. La festa offre anche l’occasione per assaggiare i prodotti tipici della Valle Brembana e della Bergamasca in generale.

L’accesso alla contrada avverrà solo tramite navetta bus gratuita  con partenza dal campo sportivo di Poscante e sarà possibile ristorarsi in loco durante la pausa pranzo.

Note

(1) “La via della castagne” rientra nell’ambito del progetto “Zogno a occhi aperti” promosso dall’Assessorato al Turismo di Zogno allo scopo di valorizzare sia il frutto che la castanicoltura, antica tradizione locale. Il progetto, rivolto alla popolazione zognese, ai turisti, alle famiglie e alle scolaresche, è corredato da una pubblicazione cartacea (32 pagine) ed integrato da totem multimediali nonché da App della rete museale, includendo anche visite guidate estive gratuite alla scoperta de “La via della castagne”. Per ulteriori informazioni è possibile visitare il sito web www.zognoturismo.it., mentre per le prenotazioni alle visite guidate (obbligatorie con posti limitati) è possibile contattare tramite email: elena@emozioniorobie.it ; sms o WhatsApp: 348.5423481.

Bibliografia consigliata

  • Tarcisio Bottani, Poscante Storia e Memoria. Fotografie di Ettore Ruggeri. Edizioni Corponove. Data di pubblicazione: 2019.
Il libro riprende e amplia il precedente “Poscante e dintorni ieri e oggi” del 1996, estendendo l’attenzione ad aspetti nuovi della storia di questo incantevole paese della Valle Brembana, con un apparato iconografico inedito, arricchito da artistiche fotografie di Ettore Ruggeri che valorizzano gli aspetti caratteristici di Poscante e della sua gente, in un felice accostamento fra modernità e tradizione. Un libro ben più corposo del precedente, per dar spazio a nuove ricerche condotte dall’autore in vari archivi che hanno consentito di delineare le vicende relative a Poscante, partendo dal Medioevo. In particolare, dalla consultazione di atti notarili, emerge un quadro abbastanza dettagliato, per quanto non esaustivo, dei rapporti economici e sociali tra le istituzioni locali e i cittadini, sia per l’aspetto civile, sia per quello religioso. E stata inoltre mantenuta ed aggiornata la parte dedicata ai personaggi illustri, così come quella relativa alle leggende, alle tradizioni e alla vita associativa attuale
  • Maurizio Buscarino, POST CANTUM, un Paese. Centro Culturale Poscante, Poscante 2001. Oltre ai testi di Maurizio Buscarino vi sono quelli di  Vittorio Polli, Valter Gherardi, Viviana Donadoni, Ettore Ruggeri e Robea Valtorta nonché 180 fotografie storiche raccolte grazie alla collaborazione della maggior parte delle famiglie di Poscante.

L’osso del Santuario di Sombreno: una nuova, affascinante ipotesi emersa alla luce delle recenti scoperte

Reportage fotografico di Maurizio Scalvini

A un anno esatto dalla rimozione dal soffitto del Santuario della Natività della Beata Vergine, l’ormai celebre osso di Sombreno ha potuto far finalmente ritorno alla sede che a lungo lo ha ospitato sul panoramico avamposto affacciato sulla piana del Brembo.

L’evento ha riguardato la serata dello scorso 7 settembre, durante la quale Marco Valle – direttore in carica del nostro Museo di Scienze Naturali – ha reso noti i risultati delle analisi svolte sul misterioso reperto, al fine di accertarne la reale natura.

La locandina posta all’esterno del santuario

Un’indagine totalmente documentata, svolta a partire dalla fatidica data del 13 settembre del 2018, quando, approfittando dell’impalcatura montata per il restauro del santuario, il personale del Museo, dietro incoraggiamento del parroco don Sergio Paganelli e con il benestare della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio, prelevava  dalla storica sede il reperto paleontologico, insieme alla catena di fattura settecentesca che lo assicurava saldamente al soffitto.

Tutto comincia il 13 Settembre 2018: il lungo riposo dell’osso del santuario sta per terminare

 

13 Settembre 2018: tra mille cautele l’osso viene rimosso dal soffitto per essere portato al Museo di Scienze Naturali  in piazza Cittadella, dove verrà trattato ed esaminato

Nel corso della storica serata che ha svelato i misteri legati al prezioso cimelio, il pubblico presente ha colto l’occasione per ammirare il santuario nella sua nuova veste, abbellito da una sapiente opera di conservazione e consolidamento che ha valorizzato la luminosità degli stucchi secenteschi e portato alla luce gli ormai noti affreschi, rinvenuti per larga parte nel corso dei lavori e legati per lo più – come del resto gran parte dell’apparato iconografico dell’edificio – al sacro tema ispiratore del sito: quello della Natività di Maria.

Don Sergio Paganelli, parroco di Sombreno, nel corso della presentazione della conferenza dedicata al ritorno dell’osso nel Santuario nel quale si trova da tempo immemorabile. Al centro dell’altare maggiore fa capolino la pala dello Zanchi intitolata alla Natività di Maria, tema che ha dato il nome al Santuario

Per oltre cinquant’anni, confidando nell’ipotesi del prof. Enrico Caffi (1866-1950), ci siamo cullati nella convinzione che l’osso appartenesse a un mammuth (elephas primigenius ossia progenitore degli odierni elefanti), vissuto nei pressi in età preistorica.

L’osso appeso a una trave del soffitto del Santuario di Sombreno, identificato nel 1934 da don Enrico Caffi come la costola sinistra di un mammuth (Archivio Wells)

Durante alcuni scavi effettuati tra il 1905 e il 1914, dai depositi argillosi della piana di Petosino di Sorisole (un’antica palude lacustre), poco distante dal Santuario, erano emersi denti, zanne e numerose ossa di mammuth, ed altre testimonianze fossili di vertebrati (poi donati dalla Società del Gres al Museo di Scienze Naturali), oggetto di un successivo articolo vergato dal Caffi  (1).

La piana di Petosino, a ridosso dello sperone collinare di Sombreno. L’ipotesi del Caffi era avvalorata dai ritrovamenti venuti alla luce nel corso degli scavi effettuati ai primi del Novecento nei depositi argillosi della piana del Gres – gli stessi sfruttati per oltre un secolo dall’attiguo stabilimento per la produzione di manufatti -, quando erano emersi alcuni resti di Mammuth ed altre testimonianze fossili di vertebrati e vegetali

Incuriosito dall’osso di Sombreno, e tenendo conto dei ritrovamenti d’inizio Novecento, l’esimio professore – primo direttore del Museo -, forte del suo indiscusso prestigio di scienziato aveva identificato l’osso nella costola sinistra del primigenio elefante, che doveva provenire dalla piana di Petosino, sebbene risalente ad un periodo anteriore rispetto ai resti di mammuth citati poc’anzi.

Elucubrando sull’osso del santuario Caffi si spinse un po’ troppo in là con la fantasia, asserendo che questi era stato ritrovato al di sotto degli strati argillosi della piana, sfruttati da tempi immemori per la produzione di ottime stoviglie. Egli immaginava che quando in qualche punto gli scavi dovettero raggiungere la zona fossilifera – non adatta per stoviglie – l’area fosse stata abbandonata e risepolta sino al’arrivo degli escavatori, che rinvenuto il fossile   e ritenendolo “un avanzo del diluvio, lo considerarono come sacro e degno di essere conservato nella Chiesa”.

Il laghetto del Gres nella piana di Petosino (Sorisole), noto deposito di argille esteso tra il torrente Quisa e la collina di Bergamo, sfruttato da tempi immemori per la fabbrica di “proverbiali” stoviglie nonché dalla nota fabbrica del gres, da tempo dismessa

La perentorietà della sua affermazione suonava come una sentenza inappellabile, scagliata contro le leggende locali e contro l’interpretazione avanzata dall’ “enclave” del santuario sulla collina, dove, per diversi motivi, l’osso in questione veniva attribuito ad un cetaceo anziché a un mammuth.

Ma la sentenza del Caffi, se poteva aver rassicurato gli uomini di scienza, non convinceva né gli animi semplici dei popolani né i voli pindarici di coloro che sicuramente egli considerava dei visionari.

Veduta verso nord-ovest dal Santuario di Sombreno

Vi era una leggenda infatti – riferiva il Caffi nel 1942 – che attribuiva la costola di Sombreno “a un mostruoso animale che insidiava la vita degli uomini saggi”: leggenda che insieme ad altre pare essere archiviata nel Santuario e che in quanto tale non deve stupire, dal momento che in Italia sono molti gli edifici sacri a conservare ossa od altri resti animali, trovando riscontro o dando vita ad antiche leggende popolari che li attribuiscono a draghi o a mostruosi serpenti.

“Le nostre chiese, monumenti di fede, furono anche i primi musei d’arte e di storia naturale”, scriveva a tal proposito il curato del santuario di Sombreno, Don Angelo Rota, nel 1963.

L’osso appeso a una trave del soffitto del Santuario di Sombreno (Ph Maurizio Scalvini)

I reperti zoologici potevano giungere da lontano attraverso chissà quali peripezie, od essere rinvenuti nei territori circostanti, come la grande costola di Balena appesa nella chiesa di San Giorgio in Lemine, ad Almenno San Salvatore e a un tiro di schioppo da Sombreno: osso che gli antichi abitanti almennesi ritenevano appartenere al drago ucciso da San Giorgio e che secondo Caffi fu ritrovato in loco durante gli scavi per la fabbrica della Chiesa e dello scomparso Castello: trovata cioè nelle argille marine depositate dall’antico mare pliocenico, insinuatosi sin verso il territorio di Almenno, Villa d’Almè e Clanezzo in Val Brembana.

La stupenda chiesa romanica di San Giorgio in Lemine ad Almenno San Salvatore, in provincia di Bergamo. Appesa a una trave dell’abside, al centro dell’immagine, una grossa costola, che secondo la leggenda apparterrebbe al drago sconfitto dal San Giorgio, la cui gesta sono raccontate nei numerosi affreschi di cui è ricca la chiesa: secondo la tradizione, il Santo sconfisse un drago – simbolo del maligno – per proteggere la principessa

 

La costola di Balena nella chiesa di San Giorgio in Lemine ad Almenno San Salvatore, in provincia di Bergamo

Reliquie che, di volta in volta, oggi attribuiamo – facendo non poca confusione – alla vicinanza del fiume Brembo piuttosto che allo scomparso e mefitico lago Gerundo (il grande acquitrino che fino al medioevo si allargava tra l’Adda e il Serio e secondo alcuni fino al Brembo e all’Oglio), dai cui fumi emergeva il drago Tarantasio (le misteriose esalazioni erano dovute in realtà alla presenza nel sottosuolo di metano e acido solfidrico). Oppure, appunto, all’antico mare Adriatico del Pliocene, che ad Almenno era un golfo nel quale la Balena di San Giorgio avrebbe lasciato i suoi resti.

E se nel nostro pliocene la costola di San Giorgio in Lemine era il primo resto di balena – scriveva il Caffi – “altrove nelle stesse argille furono raccolti numerosi avanzi”.

D’altro canto però, i religiosi arroccati sulla collina di Sombreno attribuivano il singolare osso a “un’enorme costa da cetaceo”, aggiungendo che secondo il parere di un “distinto professore di storia naturale” il reperto doveva corrispondere in lunghezza alla sesta parte dell’animale: una notizia, questa, racchiusa in un opuscolo riguardante il santuario, pubblicato nel 1923 dal sacerdote Daniele Secondi (2).

Il pannello illustra a sinistra, l’appendice dell’opuscolo pubblicato dal sacerdote Daniele Secondi nel 1923, ovvero il primo documento che riporta dati sulla costola conservata a Sombreno. L’articolo fa riferimento a “L’OSSO FAMOSO” termine che anche nei decenni successivi verrà utilizzato per indicarlo. L’autore lo definisce “un’enorme costa da cetaceo” fa inoltre riferimento alla “distinta famiglia Moroni… che aveva pur casa a Venezia” ed alla scritta AIM (A Imperitura Memoria). A destra, l’articolo apparsi su L’Eco di Bergamo del 2 aprile del 1947 del prof, E. Caffi

Nel chiedersi il perché della presenza dell’osso di Sombreno, come e quando fosse arrivato nel santuario e per mano di chi, il sacerdote riteneva che, come ipotizzato dal  parroco locale, il reperto fosse giunto in loco mediante la “distinta famiglia Moroni”, famiglia sombrenese che si era elevata al rango patrizio grazie al commercio marittimo in quel di Venezia, e che aveva concorso all’arricchimento del santuario attraverso la donazione di numerosi arredi.

Non era quindi strampalato supporre – scriveva il sacerdote – che imbattutosi in mare in un terribile scontro col cetaceo, dopo aver scampato una sciagura qualcuno di tale famiglia avesse “trasportato nella amata chiesa tale avanzo” – l’osso famoso – “a trofeo di vittoria, ed a monumento di gratitudine”.

Nell’opuscolo pubblicato dal sacerdote Daniele Secondi nel 1923, è formulata  la teoria di un mostro marino nel quale si sarebbe imbattuto un membro della famiglia Moroni, e si allude allo scampato pericolo di questi, che “a trofeo di vittoria, ed a monumento di gratitudine” avrebbe portato l’osso famoso “nella amata chiesa”

A suffragio di tale interpretazione, il Secondi poneva l’accento sulla scritta AIM che appariva sull’osso, e che non poteva che significare A Imperitura Memoria.

Particolare dell’osso di Sombreno, con la misteriosa scritta “AIM” disegnata sulla sua superficie

In merito a tale questione, dopo quasi cinque lustri e precisamente nel 1947, in un articolo de L’Eco il Caffi parlava espressamente della costola con la scritta AIM ed esternava la sua contrarietà, scrivendo che per essere la costola di una balena era tutt’altro che enorme se confrontata con quella della Basilica di San Giorgio, che aveva una lunghezza doppia.

Non v’erano dubbi: la costola (che aveva asserito essere quella di sinistra, “piatta e curva”) apparteneva a un grosso elefante, aggiungendo che “non abbiamo bisogno di ricorrere alla storiella che essa sia stata portata da uno della famiglia Moroni, che aveva casa anche a Venezia, quando ne troviamo un deposito ai piedi del Colle di Sombreno”.

E in quanto alle leggende locali, come abbiamo capito le rigettava sdegnosamente e in toto.

Dettaglio dell’articolo apparso su L’Eco di Bergamo del 2 aprile del 1947, dove E. Caffi parla espressamente della costola con la scritta AIM e riferisce della presenza della firma al Prof. Venanzio Egidio con la data 14.1.1899 allora direttore del Museo di Bergamo

Oggi, considerati i dubbi che da tempo gravano attorno all’osso del santuario, si è voluto riconsiderare la questione alla luce dell’esattezza offerta dai nuovi ritrovati tecnologici, che hanno permesso di datare lo scheletrico esemplare ed esaminare molto da vicino i particolari della sua superficie.

Il santuario illuminato per una a serata speciale dedicata all’ “Osso famoso”

 

Dopo un tramonto spettacolare, il panorama notturno sul Monte Linzone

I risultati delle ricerche e delle analisi svolte sull’osso di Sombreno sono stati resi noti in occasione dei festeggiamenti per la Natività di Maria, alla presenza di un attento pubblico composto per lo più dagli abitanti del luogo – da sempre partecipi alle vicende del “loro” santuario – e da alcuni giornalisti.

Il pubblico presente alla conferenza dedicata al ritorno dell’osso nel santuario, tenutasi in occasione della festa della Natività di Maria

 

La postazione dedicata al reperto, accanto alla porta della sagrestia

Con l’ausilio di alcuni pannelli esplicativi, Marco Valle ha illustrato passo dopo passo le procedure preliminari di pulizia e consolidamento dell’osso, da cui sono emerse le prime, interessanti notizie.

IL PRELIEVO E IL RESTAURO DELLA COSTOLA

Il 13 settembre 2018, nel corso dei lavori di restauro del santuario il personale del museo preleva il reperto e la catena che lo sospende al soffitto. Nonostante la costola presenti, soprattutto  superiormente, una superficie molto scura costituita da grasso ed alcune macchie di ruggine, la sua struttura è solida e con la dovuta cautela viene trasportata nei laboratori del museo, dove vengono valutate le modalità di intervento, a partire dalla pulizia effettuata mediante prodotti non aggressivi (che non alterano la superficie del reperto) o reversibili.

Pannello esplicativo riguardante le procedure di pulizia e consolidamento svolte nel Museo di Scienze Naturali di Bergamo

 

L’usura e la forma allungata della catena raccontano che prima dell’osso il manufatto deve aver sorretto, se sommate, tonnellate di polenta messa a cuocere nel camino

 

La vecchia catena che assicura la costola al soffitto, dopo la ripulitura

Le zone annerite e la ruggine dovuta al prolungato contatto con la catena di ferro, vengono delicatamente asportate mediante sostanze specifiche, mentre la superficie dell’osso viene consolidata grazie ad un’apposita soluzione.

Per l’asportazione della patina scura costituita da grasso sono stati effettuati impacchi con Carbogel: un gel neutro che mantiene alto tenore di umidità ed assorbe lo sporco presente in superficie senza alterare il substrato. Le macchie di ruggine sono state trattate con uno specifico prodotto anche se i risultati non sono stati completamente raggiunti. La superficie dell’osso è stata consolidata con una soluzione di Acetone e Paralold B72 al 4%

Per riportare l’osso alla condizione originale, vengono asportate le scritte dei nomi che appaiono sulla superficie liscia della costola, e che erano state eseguite nella prima metà del Novecento dalle maestranze allora impegnate in lavori di tinteggiatura del santuario.

La scritta autografa sull’osso, fotografata e poi eliminata, riportava: Bonacina Giuseppe – Ponte San Pietro 8-5-1947

Dall’osservazione del reperto emerge che l’osso non è un fossile (in ciò contraddicendo Caffi), in quanto i tubercoli che ne caratterizzano la superficie si presentano puliti e non  ingombri di materiale come argilla, terriccio o simili, come avviene solitamente nei fossili.

Dettaglio dei tubercoli che rivestono la superficie della costola

Alla domanda di una signora che chiede lumi riguardo il peso dell’osso, il relatore si accorge di non aver rilevato il dato. In ogni caso la lunghezza della costola è di 169 centimetri, ossia 11 cm in meno rispetto a quelli calcolati da Enrico Caffi.

Le reali misure dell’osso del santuario

La ripulitura dell’osso ha messo in evidenza anche il vistoso rigonfiamento nella parte distale, dovuto a una fattura malamente ricomposta.

AIM: QUALE IL SIGNIFICATO?

Ma il momento topico della serata inizia con l’osservazione delle scritte storiche che erano state  segnalate dal sac. Secondi e citate dal Caffi, e che sottoposte a illuminazione ultravioletta da Franco Valoti hanno rivelato un esito del tutto inaspettato.

E qui occorre fare un passo indietro: il sacerdote Secondi nella “guida” del 1923 asseriva che la scritta presente sulla superficie dell’osso, che interpretava come AIM, poteva essere stata eseguita da un membro della famiglia Moroni a significare “A Imperitura Memoria”, in riferimento allo scampato pericolo occorso in mare dopo l’incontro con una balena.

Particolare della scritta sull’osso di Sombreno

La luce ultravioletta ha invece evidenziato che le lettere A e M non sono inframmezzate da una “I” maiuscola – come si credeva – bensì da una croce: pertanto, alla luce della nuova scoperta l’interpretazione di quello che si credeva essere l’acronimo di “A Imperitura Memoria” non è corretta.

Quale significato cela dunque la croce interposta tra le lettere A e M? Riusciremo a dare una risposta?

La fotografia eseguita con luce ultravioletta da rivela a sorpresa che in realtà le lettere A e M sono intercalate da una croce e non da una “I” maiuscola, infittendo il mistero che avvolge l’osso famoso di Sombreno

LA DATAZIONE DELL’OSSO TRAMITE L’ANALISI AL RADIOCARBONIO

Passiamo ora alla datazione dell’osso, per la quale si è estratto un frammento di tessuto dal peso di circa 5 grammi inviato all’Università del Salento, dove è stato sottoposto all’esame del Carbonio 14.

Per inciso, il campione è stato rimosso una porzione già micrifratturata del callo osseo presente nella parte distale della costola.

Il campione osseo (poi ricollocato) inviato all’Università del Salento per datazione al Carbonio 14. L’analisi al radiocarbonio valuta la presenza del radioisotropo del Carbonio ed è in grado di dare indicazioni sulla data nella quale la sostanza organica è stata sintetizzata (fornendo in parole povere indicazioni sulla datazione dell’osso)

Gli esiti dell’analisi al radiocarbonio fanno risalire con tutta probabilità la costola ad un periodo compreso tra il 1432 ed il 1591: ciò significa che essa non può essere quella di un Mammouth, smentendo decisamente la sentenza del Caffi.

Il risultato dell’analisi al Carbonio, con la datazione dell’osso

ELEFANTE E CETACEO A CONFRONTO

Una successiva immagine mette a confronto le costole di un elefante con quelle di un capodoglio, ossia un grosso cetaceo:  le prime appaiono come delle “strisce” sottili ed uniformi, mentre le costole di capodoglio sono a sezione rotondeggiante proprio come la costola del santuario, che è da ricondurre con sicurezza ad un  cetaceo – forse una piccola balena -, vissuto all’incirca 500 anni fa, in pieno Rinascimento.   

L’immagine comparativa tra le costole di un elefante (a sinistra) e le costole di un capodoglio (a destra)

LA SORPRESA…

A questo punto la testolina del reporter Maurizio Scalvini comincia a macinare: “quali dati abbiamo a disposizione?”.

  • Le lettere A e M disegnate sull’osso sono inframezzate da una croce;
  • la costola appartiene ad un cetaceo vissuto tra il 1432 ed il 1591.

L’intuito lo porta a dare un’occhiata all’affresco Moroni, che si trova verso l’ingresso del santuario.

Lo splendido affresco Moroni, meraviglia cinquecentesca riemersa pressoché intatta col recente restauro del Santuario; raffigura la Madonna con Bimbo, San Rocco e San Fermo o San Rustico (che appaiono solitamente accoppiati e senza tratti distinguibili)

Lo sguardo cade ai piedi delle figure, dove un cartiglio indica che l’affresco è un ex voto, recando anche il nome di Antonio Moroni da Breno, con la data di esecuzione: il 15 Maggio 1580.

Intorno a quella data dev’essere dunque accaduto un un fatto talmente importante, da indurre Antonio Moroni a compiere un voto.

Il cartiglio dell’affresco Moroni indica che l’affresco è un ex voto,  commissionato da Antoni Moroni da Breno ed eseguito il 15 maggio 1580

Riassumendo i dati disponibili:

  • Le lettere A e M disegnate sull’osso sono inframezzate da una croce;
  • l’affresco è un ex voto commissionato da Antoni Moroni da Breno nell’anno 1580 (o al massimo poco prima);
  • il cetaceo è vissuto tra il 1432 e il 1591, quindi nel 1580 era vivo e vegeto.

Le lettere A e M potrebbero corrispondere ad Antoni Moroni da Breno, la cui famiglia intratteneva affari commerciali marittimi in quel di Venezia. Accade dunque che nell’anno 1580 (o intorno ad esso), mentre è per mare Antonio s’imbatte in un mostro marino, e invocati i suoi santi scampa alla sciagura per grazia ricevuta; grazia alla quale ottempera commissionando l’affresco per il santuario, al quale dona un osso di balena su cui fa incidere la sue iniziali.

Queste le congetture di Maurizio.

Le lettere maiuscole presenti sull’osso, fotografate agli infrarossi

Tutte coincidenze? I pezzi del puzzle sembrano incastrarsi, tanto più che si sa con certezza che per le genti di mare era consuetudine regalare alle chiese una costola di balena in segno di grazia ricevuta per scampato pericolo corso in mare.

Un’ulteriore verifica attesta che a Sombreno nel Cinquecento esistevano ben due Antoni Moroni, fratelli di quel Beltrami citato nel cartiglio: tutti membri della famiglia più antica di Sombreno oltre che la più misteriosa fra tutte le famiglie Moroni sparse in Lombardia (3).

Cartiglio dell’affresco Moroni, nel Santuario di Sombreno

Resterebbe da verificare quantomeno un effettivo legame tra costoro e i viaggi in mare, per completare il cerchio di quella che don Angelo Rota, curato di Sombreno, definì “una storia avvolta nel mistero”: un mistero che, in fondo,  non fa che accrescere il fascino che da secoli avvolge il piccolo santuario arroccato sulla collina.

 

Note

(1) ENRICO CAFFI, Sul deposito di argille del Petosino (Sorisole, provincia di Bergamo), Rivista di Bergamo, vol. 6 (1934).

(2) Sac. Daniele Secondi, da: Il “santuario e l’antica parrocchiale – Umile guida – 1923 tipografia G. Carrara, Bergamo.

(3) A Sombreno i loro successori edificarono la prestigiosa villa che ora è Maccari (meglio nota come villa Moroni-Maccari) e possedevano altre case e una filanda che era annessa ad una villa sei-settecentesca: edifici che vennero acquistati dal conte Pietro Pesenti che ne fece la fattoria.

Ringraziamenti

A Maurizio Scalvini per le notizie, le fotografie e, ultima ma non ultima, la geniale intuizione.

Un viaggio di scoperta tra Valverde e Piazza Mascheroni, lungo l’antico borgo di San Lorenzo

Forografie di Maurizio Scalvini

Il bucolico scenario della valletta di Valverde, la conca adagiata sotto Colle Aperto, tra i baluardi di San Lorenzo e di Valverde

Avete la mattinata tutta per voi e volete spenderla passeggiando tra natura, monumenti e chiese, soli o con la vostra dolce metà, proprio come nella canzone di Battisti?

La giornata non è un granché ma non rinunciate all’idea di respirare l’aria di primavera, sgranchirvi e smaltire quel chiletto accumulato, ritemprando la mente, spesso affaticata da mille incombenze quotidiane.

Inerpichiamoci allora, lasciandoci stupire dalle bellezze racchiuse nella bucolica valletta di Valverde, volgendo lo sguardo alla ricerca dei particolari anche più nascosti che arricchiscono un paesaggio così bello da sembrar dipinto dalla mano di un pittore

In primavera, quando gli alberi da frutto sono in fiore e il canto degli uccellini regna sovrano, Valverde si veste di magia, presentandosi in tutta la sua unicità (dipinto di Claudio Facheris)

A Valverde si arriva da oriente attraverso la valle del Morla, il torrente  ammesso per centinaia d’anni nella nomenclatura dei fiumi, un tempo così limpido da sembrare acqua sorgiva: le massaie la utilizzavano per lavare la biancheria, che stendevano sulle rive in attesa che la luce e il calore del sole la rendessero candida come la neve. Con l’argilla estratta dal suo alveo venivano  fabbricate eccellenti  stoviglie, fra le migliori della Bergamasca.

Ai piedi del versante settentrionale, ricco di acque, scorrono alcuni rioli, come il riolo Valtesse, tra via Pietro Ruggeri da Stabello e il Torrente Morla, e il riolo Lazzaretto, che scorre ad ovest del complesso omonimo

Lo incontriamo nuovamente lungo via Maironi da Ponte, dove svolta fiancheggiando pigramente la pista ciclopedonale della Green Way, che in Valmarina si raccorda a via Ramera (da dove si impenna verso il Sentiero dei Vasi o S. Vigilio), oppure passa il testimone al Sentiero d’Ilaria, la pista che attraversa il versante settentrionale fino a Sombreno in compagnia del torrente Quisa: un percorso totalmente immerso nel bosco, dove il tamburellare del picchio la fa da padrone. L’avete mai provato? Da fare, magari alla prossima occasione.

L’ex monastero benedettino di Valmarina nell’omonima valletta, punto di raccordo tra la Green Way proveniente da Valverde, il sentiero d’Ilaria, via Ramera e Valtesse

Ma noi proseguiamo, diretti alla conquista della minore tra le aperture delle Mura, inerpicandoci decisi verso l’anfiteatro di Valverde, con le sue “ville di delizia” e alcune cascine ancora intatte, circondate da prati in declivio, alberi secolari e terrazze coltivate a vite e ulivo.

La vendemmia a Valverde, nel terreno appartenente alla famiglia Cerea, proprietaria dell’antica “Ca’ del sòi”

Superato l’imbocco della Green Way incontriamo l’ottocentesca chiesa di Santa Maria Assunta (edificata  su una chiesetta di cui si ha notizia dal 1494), preceduta dalla serie dei teschi esposti nella piccola sagrestia, a  ricordo della pestilenza del Seicento. Nella chiesa vi sono alcuni stendardi, dipinti da Giuseppe Carnelli ed esposti in particolari ricorrenze, che hanno per soggetto il prete, il re, il soldato, l’artista e il contadino, raffigurati sotto le sembianze di scheletri, sulla scia di una tradizione pittorica conforme a quelle tendenze macabre che si trovano di frequente nella Bergamasca

Lasciamo quindi alla nostra destra la suggestiva stradetta ciottolata di via del Roccolino, dove si sviluppa il baluardo di Valverde, “il lato oscuro delle mura”) sommerso dalla vegetazione.

Via del Roccolino si innesta da Valverde sbucando in breve tempo in via Beltrami all’altezza della polveriera superiore. La via si sviluppa lungo la parte nord delle Mura, tra le porte di San Lorenzo e Sant’Alessandro, celando al suo interno un giardino segreto

Superata la strettoia, abbracciamo finalmente con lo sguardo tutta la conca adagiata ai piedi degli edifici, il cui profilo si fa ora nitido, grande e incombente, lasciandoci pregustare i suoi innumerevoli tesori.

Da sopra fa capolino il Castello di Valverde, un raffinato relais adagiato sul cucuzzolo del colle di Fabriciano, originatosi da un fortilizio medioevale che comunicava con le torri di avvistamento di Sorisole e della Maresana.  Divenuto nel Cinquecento residenza di campagna del capitano veneziano, è chiamato Casa Quarenghi dal nome dell’architetto bergamasco ritenuto il progettista dell’attuale edificio: da lì si gode di una vista strepitosa, alla quale la prossima volta non potremo rinunciare.

La vista su Città Alta dal Castello di Valverde (o di Medolago)

Quel brividino che di tanto in tanto avvertiamo non è casuale: siamo nel versante più fresco dei colli punteggiato qua e là da limpide acque sorgive, la cui presenza disegna sul fondo della valletta un reticolo di seriole che in passato hanno fatto di questa conca il regno delle lavandaie: un regno ancora testimoniato dalla presenza della “Ca’ del sòi”, la cascina appartenente da cinque generazioni alla famiglia Cerea.

In tempi a noi lontani, la ricchezza di queste meravigliose sorgenti assicurava,  ancor prima della realizzazione di acquedotti in quota, una riserva sicura anche in caso di periodi particolarmente siccitosi, consentendo uno svolgimento redditizio delle attività agricole.

La cinquecentesca Cascina di proprietà della famiglia Cerea da cinque generazioni. Grazie alla presenza di un rio che attraversa il prato, la cascina è nota nell’area come “Ca’ del sòi” o “rio delle lavandaie”. L’esistenza di buone sorgenti nella fascia pedecollinare era ed è garantita dalla presenza, lungo il versante settentrionale dei Colli, dell’Arenaria di Sarnico, che consente la formazione di modeste riserve idriche sotterranee dal regime assai variabile, dipendente dall’afflusso delle piogge. Inoltre, la giacitura molto inclinata degli strati che sorreggono questo lato del Colle, determina la scomparsa delle sorgenti in quota e una loro ricomparsa a quote più basse

Sul crinale il rifornimento d’acqua era poi assicurato, probabilmente sin dall’epoca romana, dalle sorgenti che conosciamo per l’essere state raccolte nella fontana del Vagine (descritta in versi da Mosè del Brolo), nella Boccola, nel Lantro e nel Corno, anche se ciò è documentato solo a partire dall’età comunale.

La sorgente della Boccola, la cui presa è ancora visibile nell’arco incassato nel paramento murario, sgorgava da sotto la cinquecentesca chiesa di S. Matteo (sorta su preesistenze del XII secolo e unita nel Settecento al Seminarino, attivo dalla seconda metà del Cinquecento), proprio sotto le mura medioevali; doveva ricevere acqua anche dalle sorgenti che nel Cinquecento vennero incanalate nell’acquedotto di Prato Baglioni, così come dal sopravanzo della Fontana del Vàgine, che si trova appena sopra. Venne probabilmente sfruttata già dall’epoca romana (Ph Mario Colombo)

A queste sorgenti possiamo aggiungere quella delle Noche, nella valletta di  Colle Aperto (che alimentava dal Cinquecento l’acquedotto di Prato Baglioni), nonché la fontana delle Pirole in via Solata. E se pensiamo che ben cinque fra quelle citate – e purtroppo in buona parte esaurite – sgorgavano da sopra le nostre teste, il gioco è fatto!

L’acquedotto di Prato Baglioni (dal nome dei proprietari dell’area) iniziava appena sotto Colle Aperto e scendendo lungo la Boccola scorreva tra la Fara e il colle della Rocca, alimentando le fontane del Corno, di via Osmano, di S. Agostino e quella di Pignolo (Racc. Gaffuri)

La porta della Boccola, oltre a consentire al borgo di aprirsi verso Valverde, permetteva anche l’accesso all’omonima fonte, che sgorgava proprio sotto le mura medioevali. La sua protezione era garantita dalla tonda “turrisella”, ancora in gran parte esistente, che controllava l’accesso da Valverde.

Acqua come fonte di vita quindi ma anche acqua come elemento capace di forgiare il territorio, se immaginiamo che nel corso di milioni di anni la sua azione incessante ha modellato i profili di questa valle, dove, in corrispondenza delle attuali Mura, si elevava una rupe massiccia che conferiva al luogo un aspetto molto diverso rispetto all’attuale.

Scorcio sul declivio di Valverde

Possiamo osservare ciò che ne rimane nel paramento del baluardo di San Lorenzo, costruito inglobando la roccia, che è stata scalpellata ad arte per evitare onerosissimi costi di sbancamento. Dov’è stato possibile, su questa roccia i costruttori hanno “appoggiato” le Mura settentrionali, da S. Agostino fino a S. Vigilio!

La parete di Conglomerato di Sirone inclusa per oltre una decina di metri nel paramento murario del baluardo di S. Lorenzo (completato nel 1584). Affiora anche nelle vicinanze del Roccolino e ad ovest di Porta Garibaldi

Sotto questa roccia, così resistente da essere impiegata per realizzare grosse macine, corre un potente banco di Arenaria di Sarnico che ha formato lo zoccolo del ripido pendio settentrionale e che, ricercata per la sua compattezza e resistenza, ha fornito per secoli materiale da costruzione soprattutto per grandi monumenti come Porta S. Agostino e S. Maria Maggiore.

Si tratta di una pietra grigio-azzurra chiamata anche Arenaria di Castagneta dalla località in cui veniva estratta, tanto che nei pressi delle sorgenti (ben sei) che alimentano il primo tratto dell’acquedotto dei Vasi, esiste tuttora una località chiamata “Cavato”, con evidente riferimento all’attività di estrazione. La si estraeva anche all’esterno del baluardo di Valverde, dove si rintracciano i segni di ben due cave, e la vediamo affiorare percorrendo i boschi del versante settentrionale, fino a Sombreno.

Tornando invece al nostro baluardo e alla sua vecchia rupe (la “rupe di S. Lorenzo”), basterà aggiungere che questa durissima formazione prosegue sullo spalto con la piccola elevazione della “Montagnetta”, un vero e proprio sito geologico che rimanda a tempi lontanissimi.

All’epoca della costruzione delle Mura, nonostante le intenzioni iniziali e pur causando difficoltà nella manovra dei pezzi, la Montagnetta non fu demolita perché costituiva una buona difesa nel caso di tiro nemico da S. Vigilio.

Il baluardo di S. Lorenzo è anche detto “della Montagnetta” per la presenza, decentrata sul lato nord, di un corno di Conglomerato di Sirone (Ph Gianni Gelmini)

Su quella stessa roccia, alla quale siamo ormai affezionati, sorgeva la primitiva chiesa di S. Lorenzo, risalente all’VIII secolo e atterrata bruscamente nel 1561 – insieme a 59 case del borgo – a causa della costruzione della cinta fortificata veneziana (1561-1595).

Questa comportò lungo tutto il circuito la demolizione di numerose case, cascinali, scalette, viottoli, chiese e conventi, fra i quali ricordiamo con rimpianto l’antica Basilica di S. Alessandro e l’attigua chiesa di S. Pietro, il Convento di S. Stefano dei Domenicani, la chiesa di S. Giacomo e quella dei santi Barnaba e Lorenzino nelle vicinanze della porta di S. Giacomo nonché la fognatura d’epoca romana. Si salvò invece la chiesa di Sant’Agostino, grazie al versamento di un congruo contributo che modificò i piani iniziali di costruzione.

Fortunatamente, possiamo ancora ammirarla, benché sfregiata dal segno nerastro che ne decreta la fine, nella veduta di Alvise Cima realizzata perché rimanesse memoria visiva della forma urbis di Bergamo, prima che la Città venisse profondamente sconvolta con la costruzione delle nuove mura.

Descritta dalle fonti come ragguardevole, la chiesa (secondo il Mazzi la più antica della città) si trovava entro la muraglia medioevale all’imbocco del borgo, dove segnava il confine tra le vicinie di Canale e S. Lorenzo. Era affiancata da un ospedaletto (non indicato nella veduta), che nel 1458 confluì nell’Ospedale Grande di S. Marco.

Non molto distante dalla porta medioevale, la primitiva chiesa di S. Lorenzo, distrutta nel 1561 per l’erezione del cavaliere del contrafforte di S. Lorenzo (che sovrasta il baluardo omonimo)

La veduta ci restituisce la città medioevale con i suoi cinque borghi che allungati dolcemente verso il piano (“come le dita di una mano aperta”) lungo le antiche strade di accesso alle porte medievali, presero il nome delle rispettive chiese. Nel dipinto, il distrutto borgo di San Lorenzo, sviluppatosi fuori dalle mura medioevali, è cinto da una propria muraglia (un ampliamento), allungandosi verso il declivio fin verso la porta di Valverde; un borgo, ormai perduto, che le cronache descrivono “copioso d’honorate, e vaghe abitationi”,  quasi “da sembrare un’altra città”.

Alvise Cima (1693), Veduta prospettica della città di Bergamo e dei suoi borghi, prima della costruzione delle fortificazioni veneziane, particolare. Ben separato dagli altri, Borgo S. Lorenzo si sviluppa fuori il perimetro delle mura medioevali, cinto da una propria muraglia, caratterizzata da un andamento assai irregolare (oggi difficilmente intuibile dopo i sommovimenti realizzati per la costruzione della cinta bastionata), dovuto sia alla valletta del Lantro e sia al corrugamento roccioso che costituiva la dorsale sulla quale era sito il grosso del borgo e che in prossimità del muro accoglieva l’antica chiesa di San Lorenzo e i cui resti si possono ancora notare sul baluardo di San Lorenzo nella cosiddetta “Montagnetta”

Tramite l’imponente opera di “svuotamento” di ingenti quantità di terreno, operata per ragioni di sicurezza ai piedi del circuito bastionato, si è spezzata bruscamente la linea naturale dei declivi lungo i quali erano radicati secolari e rigogliosi giardini, alberature,  vigneti, frutteti, ortaglie e broli, che foraggiavano la città al piano.

Veduta su Valverde e Valtesse dalla Fara

Tra un baluardo e l’altro si sono così formate una serie di vallette, che hanno acquisito la loro denominazione in base agli elementi salienti che vi si sono trovati inclusi, e che hanno con il tempo riacquistato una nuova e straordinaria bellezza paesaggistica. Per comprendere il loro susseguirsi conviene ricorrere al disegno datato 1693 e firmato Alvise Cima, dove compaiono nell’ordine la Valle Verde, la Valle delle Noche, la Valle Avogadri e la Valle S. Agostino.

Gli scavi effettuati alla base del circuito murario veneziano (sovrimpresso in nero) hanno creato una serie di avvallamenti originando tra un baluardo e l’altro una serie di vallette che solcano il versante settentrionale del Colle: la Valle Verde (sotto Colle Aperto, tra il baluardo di S. Lorenzo e l’omonima porta, che con la relativa cortina taglia la parte alta della valletta, che entrerà a far parte del Forte di S. Marco); la Valle delle Noche (sotto il baluardo di San Lorenzo, tra la Valverde e la Valle Avogadri, separata da Valtesse dal torrente Morla); la Valle Avogadri (sotto il baluardo della Fara, tra la Valle delle Noche e la Valle di S. Agostino);  la Valle Sant’Agostino (particolare della tela firmata Alvise cima, 1693)

Nelle pareti delle Mura si nascondono tante storie, molte delle quali “narrate” dal materiale di risulta proveniente dalle demolizioni degli edifici: perchè tutto serviva, purchè si potesse portare avanti l’imponente monumento che oggi cinge gelosamente i nostri tesori.

Nella scarpa della faccia est del baluardo di Valverde, mimetizzati nella muraglia e soffocati dalla vegetazione, sono incastonati alcuni frammenti marmorei – del più candido  Zandobbio ma anche di un tenue color rosa -, attribuiti alla classicità romana e – forse – facenti parte di un grandioso portale. Generalmente i pezzi di risulta venivano inseriti “voltati” così da esporre le superfici levigate e prive di appigli alle palle di cannone del nemico; ma forse anche il “proto” – l’architetto di allora – fu colpito dalla bellezza delle decorazioni raccomandando ai manovali di metterle in bella vista, anche se in  quel settore delle mura pochi avrebbero potuto ammirarle: forse pensava a noi, cittadini di oltre quattro secoli dopo?

Frammenti marmorei di epoca romana, lavorati e scolpiti ad arte, inseriti nel paramento della scarpa della faccia est del baluardo di Valverde

 

Frammenti marmorei di epoca romana inseriti nel paramento della scarpa della faccia est del baluardo di Valverde

Il baluardo di Valverde si staglia all’estremità opposta della valle sottostante Colle Aperto e rappresenta una porzione inferiore del Forte di S. Marco, una “fortezza nella fortezza” realizzata per reggere un potenziale assalto nemico alla Città dalla parte del colle di San Vigilio, permettendo una sicura via di fuga  tramite il varco aperto nella Porta del Soccorso: la quinta e più sconosciuta del circuito murario veneziano, camuffata da comune portone!

Il Forte di S. Marco costituisce un’alta recinzione, estesa dalla porta di S. Lorenzo a quella di Sant’Alessandro. In questo settore, la Porta e la cortina di S. Lorenzo tagliano la parte alta della Valverde, entrata così a far parte del Forte di S. Marco Inferiore

E’ possibile visitarla attraversando le vie Roccolino e Beltrami, da dove si diparte la via Sotto le Mura di S. Alessandro: una suggestiva stradetta che si inerpica a fianco di via Cavagnis (strada panoramica per S. Vigilio), dove la Porta compare “nascosta” in un cortile privato. Proseguendo lungo il tratto movimentato da morbide contropendenze, si ricalca il perimetro esterno del forte di S. Marco superiore.

La Porta del Soccorso è “nascosta” tra la vegetazione lungo l’attuale via Sotto le Mura di S. Alessandro (laterale di via Beltrami), parallela alla strada panoramica che conduce a S. Vigilio. Il varco, ad uso esclusivo dei soldati, racchiudeva un passaggio sotterraneo segreto che collegava il versante nord dei colli al Castello di San Vigilio, da utilizzarsi in caso di caduta o di assedio

Ciliegina sulla torta è la Porta di S. Lorenzo, la più “campestre” di tutte, eretta in sostituzione della porta originaria ch’era collocata sotto il viadotto in corrispondenza dell’attuale.

Porta Garibaldi, già San Lorenzo. L’accesso nemico dalle valli poteva essere controllato dalle fortezze di Ca’ San Marco e da quella sul monte Ubione, in Valle Brembana

La vecchia porta (la prima ad essere costruita) era stata chiusa dai veneziani già nel 1605 perché ritenuta troppo isolata e di difficile sorveglianza, ma soprattutto perché spesso allagata dalle abbondanti acque che vi affluivano dalle sorgenti poste più a monte: un problema che richiese la realizzazione di un sistema di canalizzazione per lo scarico delle acque, visibile alla base della cortina, sul lato ovest.

Dopo la sua chiusura, i cittadini della Val Tegeta (Valtesse) e dei paesi limitrofi, costretti a lunghi giri per entrare in città, raccolsero e versarono alla Serenissima la cifra di 4.000 ducati d’oro allo scopo di far costruire il viadotto rialzato e la nuova porta (risalente al 1627), che, più modesta delle altre, venne collocata proprio “sopra” la vecchia consentendo nuovamente il transito. Alle sue spalle, la casermetta per il presidio (su cui apparivano lacerti di antichi affreschi) e, all’esterno, una fontana dove venivano convogliate le acque.

Porta Garibaldi (già S. Lorenzo), nel 1899 (Racc. Gaffuri)

Il passaggio fu dunque riaperto ma, rispetto alle altre, la nuova porta era di dimensioni più ridotte, cosicchè tutte le operazioni di dazio dovevano avvenire all’aperto con gran lagnanza delle guardie esposte alla pioggia e al gelo.

Da qui fecero il loro ingresso l’8 giugno del 1859 Giuseppe Garibaldi e i Cacciatori delle Alpi. Sereno Locatelli Milesi racconta che il generale vi arrivò verso le sette del mattino; l’impiegato del dazio aprì la porta e lo accolse come glorioso liberatore, mentre le guardie presentavano le armi. Una lapide sotto il fornice ricorda la fine della pestilenza nel 1630, periodo in cui il capitano Giovanni Antonio Zen rappresentò l’autorità pubblica.  La porta mostra ancora sulla trabeazione le fenditure per le catene del ponte levatoio

La porte venne intitolata a S. Lorenzo nel 1627 (anno in cui venne eretta l’omonima colonna più a monte) e dal 1907 è detta“Porta Garibaldi”

Sotto il viadotto è ancora visibile l’imbocco della vecchia porta, il cui nome, poi trasmesso a quella attuale, ricorda la demolita chiesa di S. Lorenzo, che è stata riedificata poco più a monte inglobando la fonte del Lantro.

L’imbocco della vecchia porta è sotto del viadotto. la nuova porta di San Lorenzo costruita alla fine del Cinquecento in sostituzione della porta originaria, il tutto immerso in un suggestivo paesaggio agreste

Da sempre la più bistrattata e dimenticata delle Porte delle nostre Mura, quella di San Lorenzo non si fregia da alcuna scultura ed è ormai completamente cancellato è il leone un tempo affrescato sopra l’arco d’ingresso.

Porta Garibaldi, già S. Lorenzo, nel 1935, con il leone alato  dipinto nel riquadro centrale. L’affresco era ancora visibile negli anni Cinquanta. Sotto il leone di S. Marco i Bergamaschi godettero di oltre 350 di pace, di crescita e di prosperità: un periodo così lungo senza invasioni e spargimenti di sangue non era mai avvenuto nella sua millenaria Storia

Eppure la Porta di San Lorenzo, imbocco diretto per le valli bergamasche, era il punto di partenza della Strada Priula tracciata dai Veneziani nel 1593 per ottimizzare i traffici verso la Valtellina e il Nord Europa attraverso il passo di S. Marco. La nuova strada consentiva di evitare l’attraversamento dei territori appartenenti allo Stato di Milano, in mano agli Spagnoli stanziati di vedetta a nord del lago di Como nel Forte di Fuentes, nel  Pian di Spagna.

Prima di varcare la porta è difficile resistere alla tentazione di volgersi all’indietro e gustare la luminosa bellezza di questa conca che – miracolosamente – conserva uno degli angoli di bellissimo verde che impreziosisce ancor di più le pendici di Città Alta.

Veduta d’altri tempi dalla Montagnetta, un bel balcone sulla conca di Valverde con il suo “castello”, sulla piana di Valtesse, sulla Maresana e il Canto Alto

Ora, riposati dalla lunga sosta prepariamoci ad affrontare l’erta ma panoramica salita che in breve ci proietta sugli spalti; bypassiamo la scaletta alla nostra destra svoltando in via S. Lorenzo 21 presso Casa Palma Camozzi Vertova (già Tini Guerinoni).

Casa Palma Camozzi Vertova, All’elegante fronte marmoreo su via San Lorenzo si contrappongono le piccole e rare  aperture del fronte verso via Fara, che ricordano l’aspetto severo di una struttura castellana. L’interno è ricco di preziosi affreschi

Si tratta di un bellissimo esempio, unico nel suo genere, di complesso fortificato medioevale a disegno triangolare, su cui si è innestato il palazzo nel Cinquecento, emergendo dal terrapieno occorso per l’erezione delle Mura e del bastione di S. Lorenzo: il piano terra della vecchia abitazione, allora posta a livello della strada medioevale ed oggi corrisponde alle cantine, racchiude un pozzo ancora funzionante.

Casa Palma Camozzi Vertova, con alle spalle la Rocca

A lato, dove la via si biforca con il viale delle Mura sorge l’umile chiesetta affrescata dedicata alla Beata Vergine Addolorata, meglio conosciuta come chiesetta dell’ultimo respiro. Qui erano condotti, mani e piedi incatenati, i condannati a morte: Venezia condannava all’estremo supplizio ladri ed assassini; l’Austria condannava alla pena capitale i cospiratori favorevoli all’unità d’Italia e la forca era eretta poco distante sul piazzale della Fara.

Chiesetta della Beata Vergine Addolorata, anche detta dello Spasimo e dei Condannati. La deposizione affrescata sopra la porta presenta un Cristo ritratto nell’abbandono della morte col capo appoggiato alla spalla della divina Madre e in un secondo piano una porzione di croce su cui risulta visibile il chiodo che trafisse i piedi del Salvatore. In alto, lo stemma gentilizio della famiglia Giupponi sormontato da una corona con nove punte, sorretta da due angioletti. La chiesa, un episodio architettonico unico in Bergamo presenta all’interno una bellissima pala con molti reliquari annessi

Proseguendo verso la Boccola, ci ritroviamo faccia a faccia con la colonna di San Lorenzo, eretta nel 1627 in memoria della primitiva chiesa di S. Lorenzo, distrutta per la costruzione delle Mura e ricostruita entro la fine del 1600 a pochi passi dalla colonna. Sopra il cartiglio, ormai abraso,  è scolpito uno scudo con giglio, emblema del santo protettore della città.

La colonna di S, Lorenzo, con il cartiglio che conteneva l’antica iscrizione, distrutta a fine sette/inizi Ottocento, nel periodo della Rivoluzione Bergamasca. Il testo, conservato nella Biblioteca Civica di Piazza Vecchia, recitava: EX RECLUSA TANDEM HACE JANUA/QUAE JANI NON EST CLAUSAE JANI/PORTAE IMPORTAT COMMODA PACEM/SEILICET AC UBERTATEM IN OPERA/ATQUE PROVIDENTIA FRANCISCI DUODI/ANNO MDCXXVII (Racc. Gaffuri)

La colonna, benedetta dal vescovo Priuli, fungeva da riferimento per il calcolo delle distanze lungo la Strada Priula tra la fortezza e la Valtellina, misurate in 44 miglia fino a Morbegno (circa 71 km).

La colonna di San Lorenzo, di ordine toscano su piedistallo, reca un cartiglio sovrastato da uno stemma in marmo di Zandobbio e termina con un capitello liscio e un ferro porta stendardo

Mentre le nuvole corrono nel cielo creando strani giochi di luce, continuiamo il nostro tour ricalcando il percorso della cinta medioevale imbattendoci, poco dopo la colonna, nella fontana del Lantro affiancata dalla cinquecentesca chiesa di S. Lorenzo e dall’oratorio dei Morti della Peste del 1630.

Via Boccola: la fontana del Lantro e la chiesa di S. Lorenzo, costruita entro il 1600 dal suo consorzio sulla piazza dell’Olmo, in sostituzione di quella demolita nel 1561 per la cinta bastionata veneziana

La chiesa è stata riedificata sopra la cisterna della Fontana del Lantro, che, originariamente posta all’aperto, si è trovata ad essere inglobata in un atrio interrato, al di sotto della chiesa stessa.

La vasca/fontana del Lantro è alimentata da due sorgenti, quella che  fornisce il nome alla fontana stessa – la più antica e dotata di maggior portata – che scaturisce da una cavità posta sotto la chiesa; l’altra è la sorgente di S. Francesco, che, intercettata durante i lavori di costruzione delle Mura veneziane, scaturisce sotto l’omonimo convento. Nel medioevo l’acqua sgorgava abbondante e soddisfaceva il fabbisogno idrico dell’intera vicinia di San Lorenzo

Alla fine dell’Ottocento la fontana venne sostituita dal nuovo acquedotto civico, rimanendo utilizzata soltanto come lavatoio fino agli anni Cinquanta, quando venne progressivamente abbandonata per un lungo periodo per poi essere recuperata dal gruppo speleologico “Le Nottole” di Bergamo.

Accanto alla chiesa di S. Lorenzo, l’ingresso al lavatoio della Boccola

 

La chiesa di S. Lorenzo, ad una navata e volta a botte, resse le veci di nuova Parrocchiale fino al 1860, quando venne aggregata alla Parrocchia di S. Agata nel Carmine. Grazie al sostegno di mercanti e artisti della vicinia, facenti capo alla Confraternita del SS. Corpo di Cristo, venivano celebrate le messe, distribuito pane tre volte l’anno e curati gli infermi, prima di destinarli all’Ospedale. Conserva all’interno un’Annunciazione di Enea Salmeggia e un Crocefisso con santi e donatori attribuito a Francesco Zucco

La chiesa è affiancata da una cappelletta dedicata ai morti della peste del 1630, preceduta da un portico. Nel lunettone che sovrasta la porta d’ingresso, una composizione macabra e una lastra tombale dipinta al centro, reca la scritta: RIPOSANDO QUI DALLA CHIESA TRASLOCATE LE OSA DEI NOSTRI FRATELLI PREGATE ALLE LORO ANIME REFRIGERIO LUCE E PACE

Inizi Novecento: la chiesa di S. Lorenzo e l’attigua cappelletta dei morti della peste del 1630, precedute dalla colonna di S. Lorenzo (Racc. Gaffuri)

Sul lato destro la morte con la falce accanto e a sinistra un dolente, entrambi appoggiati alla lastra stessa. Teschi, corone di fiori, faci spente e fogliame completano la composizione monocroma eseguita da un giovanissimo Emilio Nembrini nel 1936,  in sostituzione di un’altra precedente ridotta a pallida ombra.

L’oratorio dei Morti della Peste del 1630. I macabri dipinti nel 1936 da Emilio Nembrini, in sostituzione di un affresco scomparso popolarmente attribuito a Vincenzo Bonomini. Nembrini, nativo di Pradalunga ed appartenente a una famiglia di decoratori, venne iscritto giovanissimo alla scuola d’arte Fantoni, allora diretta da Francesco Domenghini, inaugurando una lunga carriera di affreschista

Secondo una tradizione tramandata oralmente dagli abitanti del borgo, il macabro scomparso apparteneva al pennello di Vincenzo Bonomini, pittore molto versato nell’esecuzione di scheletri.

L’oratorio dei morti presso la chiesa di S. Lorenzo intorno al 1965 (Ph Gianni Gelmini)

A metà salita ci imbattiamo nel fronte di nuda pietra del secentesco monastero di S. Agata, convertito a carcere nel 1798 e come tale perdurato fino al 1977. Il corpo di fabbrica a nord, lungo via del Vagine (nell’immagine sottostante), ospitava la sezione maschile, mentre buona parte dell’ala sud del convento, compresa la chiesa, costituiva la sezione femminile, oggi occupata dal bar/ristorante “Circolino”. Il complesso, purtroppo molto degradato e con gravi problemi di natura statica,  attende da tempo una nuova destinazione d’uso.

Le carceri nell’ex-monastero di S. Agata (Michi Cascio)

Più avanti, poco prima che la salita s’impenni sostiamo al cospetto delle grandi arcate sovrastate dalla mole dell”ex complesso del Carmine: un tratto residuo del perimetro difensivo altomedioevale, poggiante su resti d’epoca romana. Sappiamo che gli inizi del Seicento alle arcate erano state addossate, oltre alle case, la “barberia” e la “foresteria” del monastero, una fila di botteghe, tamponate in età moderna.

L’arco temporale di edificazione del monastero del Carmine, vede il periodo di massima attività tra la fine del 1400 e l’inizio del 1500 (con la costruzione di gran parte dell’elegante chiostro, del refettorio e dei locali per i monaci) per concludersi nella seconda metà del 1600 con la realizzazione delle stalle, della sala capitolare e della nuova, ricca libreria. Tra il 1605 e il 1620 addossate agli arconi e orientate verso via del Vagine vengono fabbricate le botteghe e le case, la “barberia”, la “foresteria” e finalmente in spatio di tempo tutta l’altezza con le camere et granaio di sopra (Storia del Convento, Manoscritto compilato dal padre G. B. Guarguanti). Con l’avvento del XVIII secolo si apre per il monastero un periodo di decadimento e, dopo la sua soppressione in epoca napoleonica, di abbandono

Luigi Angelini  descrisse il Carmine come un’opera edilizia il cui chiostro è tra i più tipici e forse il più caratteristico per eleganza di forme architettoniche ed armonia di misure nei vani dei portici e nella linea delle arcate.

Ex monastero del Carmine, l’ingresso da via Colleoni. Alcuni caratteri architettonici originali sono andati perduti nel corso dei lavori di consolidamento statico del complesso. Dal 1996 ospita il Teatro Tascabile di Bergamo

Poco oltre, incontriamo la Fontana del Vàgine, alimentata da una sorgente che sgorgava sotto via Salvecchio e che anticamente aveva scavato una valletta fino all’altezza delle grandi arcate, poi colmata mediante apporti di terreno, calibrati nel tempo in base alle necessità che man mano si presentavano: sia quelle legate alla disponibilità dell’acqua della fonte dentro o fuori la città e sia quelle legate alla necessità di fortificare il nucleo urbano sulla scorta delle esperienze di assedio subite.

Proprio questa incertezza riguardo l’altimetria del pendio impedisce di tracciare con certezza i percorsi seguiti dalle antiche mura in questa porzione di città, dove peraltro sono state costruite almeno due cortine difensive: una in epoca romana ed in seguito una cinta medievale il cui andamento è stato ipotizzato dal Fornoni: la più antica doveva partire leggermente più a sud dell’attuale porta del Pantano e raccordarsi con le arcate del Vagine per poi proseguire passando circa a metà di quel che oggi è il chiostro del monastero di S.Agata.

La porta medioevale del Pantano inferiore da Piazza Mascheroni, in direzione Colle Aperto (la porta superiore è stata demolita nell’Ottocento)

 

In epoca romana quest’area era interna alla citta’ murata, anche se ne era certamente al margine, come confermato dai reperti ritrovati nel corso degli scavi effettuati prima della costruzione del Relais S. Lorenzo, in Piazza Mascheroni. Qui in corrispondenza delle grandi arcate poste alla base dell’ex monastero del Carmine (testimonianti un tratto residuo del perimetro difensivo altomedioevale) si è rinvenuta una teoria di 16 ambienti terminanti ad emiciclo, identificati come strutture terrazzate di contenimento realizzate per limitare i cedimenti naturali del declivio collinare, in questo tratto particolarmente accentuato. Con il passare dei secoli, in questo contesto urbano intensamente frequentato fin dall’antichità, si sono realizzate opere costruttive sempre più articolate e particolarmente complesse

 

Cunicoli delle mura del Vagine (Racc. Gaffuri)

La seconda cortina si può ancora seguire con esattezza: partiva dalla porta del Pantano e passava di fronte alla fontana del Vàgine, poi pigliando per l’attuale via della Boccola rasentava il giardino di casa Tassis, passava sotto il Seminarino e sotto le case della parte inferiore della via Tassis, toccava il Lantro e raggiungeva la porta S. Lorenzo.

Alvise Cima (1693), Veduta prospettica della città di Bergamo e dei suoi borghi, prima della costruzione delle fortificazioni veneziane, particolare.

Incassata nel primo degli archi a tutto sesto che si susseguono verso le ex carceri di S. Agata è la fontana del Vagine, tra le prime documentate nella storia della città.

Fontana del Vàgine, conosciuta già in epoca romana come fons opacinus, fonte di tramontana, per la sua posizione che volgeva a nord. Ora la falda si è persa e dell’acqua non vi è più traccia. Alla fontana potevano attingere sia gli abitanti che i cavalli e disponeva di un lavatoio e di una cisterna molto grande

Pare che la sorgente godesse di grande fama e che i forestieri si recassero ad ammirarla per le sue qualità curative. Secondo le descrizioni di Mosè del Brolo in Liber Pergaminus (1120-1130), le sue volte, il pavimento e le pareti erano ricoperte di marmo.

La fonte del Vàgine nella Racc. Gaffuri

Al termine della breve ma scoscesa salita sbuchiamo in Piazza Mascheroni, in un’area intensamente frequentata sin dalle epoche più antiche e modificatasi nei millenni per necessita’ urbane, economiche e di potere.

La piazza assume il nome di piazza Mascheroni all’inizio del Novecento

In angolo tra la Boccola e la piazza, il Relais S. Lorenzo cela al suo interno importanti testimonianze di una parte della ricca storia di Bergamo, visibili e fruibili in giorni ed orari prestabiliti.

Piazza Mascheroni con il Relais S. Lorenzo a sinistra, in angolo con via Boccola

 

Interno del Relais S. Lorenzo, con i reperti archeologici risalenti al VI/V sec. a.C., una domus, strutture absidate ed intonaci dipinti d’età Romana, insieme ad ambienti porticati, cantinati e cortili ascrivibili tra il bassomedioevo e il Settecento

Proprio qui vi era un tempo la piu’ antica Hostaria della città, detta della Croce Bianca, citata nel 1596 da Giovanni Da Lezze e descritta da Tommaso Bottelli nel 1758, alle cui mura verranno accostate quelle ad uso militare della “Munizione della Paglia”: una trattoria con vasti locali di deposito paglia, che forse serviva per le stalle destinate ai cavalli, poste dirimpetto proprio sotto l’alloggio dei soldati presso la Cittadella.

L’angolo tra via Boccola e piazza Mascheroni con il ristorante Giardinetto (Racc. Gaffuri). La creazione di questo lato della piazza è il frutto di una lunga serie di demolizioni attuate fra l’Ottocento e gli anni Trenta del Novecento (Piano di Risanamento), che avevano lasciato un vuoto privando l’area di una funzione precisa

 

Il Ristorante Giardinetto con pergolato e gioco delle bocce, nel 1975

La piazza si trova al livello del pianoro ondulato sul quale è stato edificato  l'”hospitium magnum” della trecentesca Cittadella viscontea (alloggiamenti per la guarnigione e il comando), il grande recinto murato costruito su terreno vergine che includeva l’intero colle di San Giovanni dividendo in due parti la città.

L’arcigna fortificazione era protetta esternamente da un fossato che nell’area dell’attuale piazza Mascheroni creava una larga fascia inaccessibile, colmata nel Cinquecento con la realizzazione della piazza Nuova.

Piazza Mascheroni con il settecentesco Palazzo Roncalli a chiusura del lato sud, che ingloba il fronte della Loggia dei mercanti, realizzata su progetto di Andrea Ziliolo nel 1520 e tornata alla luce  nel corso di lavori eseguiti nel 1981. Il lato nord è aperto sulle quinte della Maresana e delle Prealpi mentre sui lati lunghi la piazza è chiusa ad ovest dalla Cittadella viscontea (già Hospitium Magnum) e ad est dalle abitazioni poste all’imbocco di via Colleoni e dal Reais S. Lorenzo. E’ completata da olmi siberiani e da una vera da pozzo settecentesca

E’ appunto nel 1520 che la piazza assume la rigorosa forma attuale, quando cioè Venezia decide di trasferirvi una parte del mercato pubblico che si teneva in Piazza Vecchia (granaglie e biade per foraggiare il bestiame), designandola come “Piazza Nuova” per distinguerla dalla precedente, divenuta centro politico-amministrativo della municipalità veneziana.

A tale scopo fa edificare la Loggia mercantile (inglobata nel Settecento  nella facciata dell’attuale Palazzo Roncalli e tornata alla luce nei restauri del 1981), utilizzata per le contrattazioni e per appendervi i bandi e le sentenze criminali, nonchè un’ininterrotta fila di botteghe commerciali addossate al lato orientale della Cittadella viscontea. Nello stesso anno la piazza viene selciata.

La nuova piazza affiancata all’hospitium magnum (divenuto residenza del capitano veneziano), diviene così un nuovo polo economico-commerciale per la città e resterà luogo di mercato fino alla metà dell’Ottocento, quando le botteghe sul lato della Cittadella verranno demolite in attesa che la piazza assuma una nuova configurazione.

In un dipinto del 1830, Piazza Nuova (ora piazza L. Mascheroni) realizzata nel 1520 come nuova piazza di mercato e centro dell’economia cittadina, con la loggia mercantile (non visibile nel dipinto) e il basso fabbricato addossato alle mura medioevali Viscontee, con la  lunga fila di botteghe e le osterie

La loggia e tutti i fronti degli edifici attigui vennero decorati con affreschi di cui restano brani sul palazzo porticato e a destra della Torre della Cittadella.

Il pittore brembano Giovanni Busi detto Cariani (allievo del Giorgione) affrescò  le due teste di leone dalla folta criniera poste accanto ai peducci delle arcate isabelliane nonchè il busto di uomo con scettro, realizzati in uno splendido monocromo.

La facciata del settecentesco Palazzo Roncalli, nella testata meridionale di piazza Mascheroni, con il fronte della loggia mercantile rinascimentale costruita per le contrattazioni, del cui progetto fu incaricato Andea Ziliol (i lavori per la sua esecuzione e per le varie costruzioni adiacenti vennero assegnati a Francesco Pietro Cleri). Nel Settecento la loggia venne inglobata nella facciata dell’attuale Palazzo Roncalli, tornando alla luce nei restauri del 1981 eseguiti sotto la direzione dell’architetto Francesco Giraldi

Del Cariani anche le decorazioni alla destra dei peducci, con la scena di una Venere distesa insidiata da un satiro e il giovinetto intento a suonare il flauto, posto all’estremità della facciata.  Di particolare interesse, sul fronte laterale del palazzo, altri affreschi attribuiti al Cariani eseguiti probabilmente dopo il 1528 durante il suo secondo soggiorno bergamasco. In una delle due lunette, due uomini accanto a due sacchi tengono fra le mani dei chicchi di grano, che stanno guardando e valutando: una normale operazione che si svolgeva dove il grano era commercializzato e generalmente posto nelle parti alte delle case, dove poteva essere più arieggiato e conservato.

Palazzo Benaglio, una scena di contrattazione di granaglie, collegata alla funzione della loggia mercantile (restauro eseguito da Andrea Mandelli nel 1983)

Per la sua conformazione piana, la piazza ospitava anche giochi, gare, giostre e tornei, fra i quali il Calvi ricorda, nel 1567, la festa per “caccia dei tori e dei cani” durante la quale due tori inferociti, fuggiti al di sopra dello steccato per la Corsarola, ferirono gravemente parecchie persone: una tradizione che raccoglieva l’antica eredità dell’area, occupata dagli edifici da spettacolo sin dall’epoca romana (teatro e anfiteatro), che si è protratta fino all’Ottocento interrompendosi quando la Cittadella, divenuta sede dell’I.R. Deputazione Provinciale, cambiò nome e assunse quello di Piazza del Lino.

Nell’area antistante Palazzo Roncalli, nel settore sud di piazza Mascheroni, il rinvenimento nel 1989 e nel 2001 di frammenti di capitelli, di cornici, di un timpano, di colonne scanalate, consentono di ipotizzare l’ubicazione di orchestra, proscenio e scena del   teatro romano, la cui cavea (molto estesa) doveva sfruttare l’andamento del versante settentrionale del colle di San Giovanni. L’anfiteatro era invece spostato più a occidente, come attestato dall’andamento curvo dell’ala ovest della cittadella viscontea, con strutture murarie spesse oltre due metri fondate su elementi murari più antichi

In asse con la Corsarola, la via che attraversa la città, s’erge la porta-torre viscontea d’ingresso alla Cittadella (l’unica conservatasi nella parte piana), con una terminazione settecentesca ad arco e con cinque singolari cuspidi di gusto sloveno ed una campanella, aggiunte probabilmente nel ‘800 durante l’occupazione austriaca. La torre viene chiamata oggi torre della campanella e presenta sopra il poggiolo uno stemma con al centro un’aquila bicipite (simbolo in stretta connessione con lo stemma del Sacro Romano Impero), adottata come proprio emblema dal casato degli Asburgo, Al centro dell’aquila uno scudo inquartato con i simboli alternati della Serenissima e dei Visconti ossia il leone alato ed il biscione.

La torre d’accesso alla Cittadella viscontea, in piazza Mascheroni. L’affresco dell’aquila posto al centro della torre è ricomparso dopo i lavori di restauro eseguiti nella Cittadella negli anni 1958/60 sotto la direzione dell’arch. Sandro Angelini. Fu dipinto da Luigi Bettinelli (1824 al 1892) per conto del’amministrazione austriaca che occupava la Cittadella

 

La torre d’accesso alla Cittadella viscontea, in Piazza Nova, oggi Mascheroni, già Mercato del Lino (Racc. Gaffuri). Dopo il restauro della torre della campanella sono scomparsi alcuni elementi presenti nel disegno: l’uomo e la donna a lato dell’orologio, in piedi su un piedistallo e le quattro lunette nella sommità della facciata, due per parte della torre, citate dal Pasta ed attribuite al Cariani. Le botteghe addossate alla Cittadella sono ancora presenti

Al centro della piazza campeggia una vera da pozzo ottagonale in marmo di Zandobbio; l’opera risale al periodo della dominazione veneta, quando alle fontane vicinali si aggiunsero alcune importanti opere di ampliamento e di abbellimento, fra le quali si annoverano anche la cisterna di Piazza Mercato delle Scarpe, la sostituzione della fontana della vicinia di S. Pancrazio con quella più elegante fontana davanti all’omonima chiesa ed infine la costruzione della fontana Contarini in Piazza Vecchia, la più famosa tra le fontane della città.

Piazza Mascheroni prima dell’abbattimento delle casette che si addossavano alla Cittadella. Al centro, la settecentesca vera da pozzo portante il nome del Capitano Marino Cavalli, con la quale si attingeva alla cisterna costruita agli inizi del 1600 sotto la piazza

Chiudiamo la nostra visita alla piazza con la medioevale porta del Pantano inferiore, che sottopassa il breve andito diretto in Colle Aperto e che insieme alla distrutta porta del Pantano superiore – le due antiche porte disposte sul lato di via Boccola – costituiva l’unico possibile passaggio (sorvegliato da una piccola guarnigione che richiedeva anche il dazio), stretto fra il fianco nord dell”‘hospitium magnum” e le mura settentrionali.

La Porta del Pantano inferiore, osservata da Colle Aperto (Racc. Gaffuri)

Ma perchè Pantano? Perchè fin dall’antichità la zona posta alle sue pendici era pressochè paludosa ed insalubre, e certamente il fossato difensivo che proteggeva la Cittadella non ne aveva migliorate le condizioni.

Particolare di uno degli affreschi cinque/seicenteschi posti sulla facciata dell’edificio che sovrasta la porta del Pantano, dove accanto a brani mitologici compare anche uno stemma gentilizio

Giunti al culmine della nostra passeggiata  e rinvigoriti da tanta bellezza, torniamo sui nostri passi ripercorrendo la Boccola fino alla Fontana del Lantro, dove notiamo sulla destra un andito curioso: è il Passaggio dedicato dalla municipalità a Beccarino da Pratta, un modestissimo caporale della Serenissima che esattamente in questo punto sventò il tradimento del conestabile a guardia della porta, impedendo alle truppe dei Visconti di penetrare nottetempo in città da porta San Lorenzo.

Passaggio Beccarino da Pratta dalla Boccola

 

L’imbocco del passaggio Beccarino da Pratta da via S. Lorenzo

 

Via S. Lorenzo

In un amen l’esigua scorciatoia ci catapulta lungo la salita di S. Lorenzo dove, proprio al di sopra dell’imbocco del passaggio rendiamo omaggio a Santo  patrono della vicinia (uno dei più venerati in tutto il mondo), affrescato sulla facciata del civico 32. La passione di San Lorenzo, martirizzato a Roma nel III secolo, è una delle più note nell’agiografia cristiana.

Al civico 32 di via S. Lorenzo, il patrono della vicinia con indosso la dalmatica, l’ampia tunica rossa, lunga fin sotto il ginocchio. Il santo impugna la graticola, simbolo del suo martirio, la cui corona viene posta sul suo capo da due angeli paffuti. Festeggiato il 10 agosto, è il patrone dei rosticceri, degli osti, dei cuochi, dei bibliotecari, dei librai ed è invocato contro gli incendi, la lombaggine e le malattie della vite

La via S. Lorenzo, da mettere in stretto collegamento con la costruzione del trecentesco convento di S. Francesco, collegava anticamente il centro della città al borgo Fabriciano (Valverde) e alle valli Imagna e Brembana attraverso la porta medievale di S. Lorenzo, demolita nel 1829 ma di cui possiamo vedere l’imposta del pilastro appena superato l’imbocco di via Tassis, quasi in fronte al civico 24a.

L’imposta del pilastro della porta medievale di S. Lorenzo, nella via omonima, demolita nel 1829

La porta medievale di San Lorenzo osservata da sud, in un disegno di Pietro Ronzoni

Poco più avanti incrociamo la curiosa casa dai mille caminetti (un tempo casa di piacere): la leggenda narra che ogni comignolo ricordava il campanile di una chiesa abbattuta per far posto alla costruzione delle mura veneziane.

Ma soprattutto, sulla via S. Lorenzo c’erano un tempo numerose osterie e botteghe, cadute in disgrazia in seguito all’erezione delle Mura veneziane e al crollo del ponte romano  della Regina, che attraversava il Brembo nei pressi di  Almenno S. Salvatore. Delle insegne che segnalavano la presenza di osterie è rimasta quella dell’antico ristorante dell’Angelo, parzialmente riadattata.

Antica insegna del caffè dell’Angelo in via S. Lorenzo. L’angelo, con le ali azzurre, indossa una tunica nocciola e tiene tra le mani una verga; nella doppia cornice di ferro battuto sono evidenziati i tralci della vite; l’insegna è sormontata da una corona di ferro

A fine corsa sfioriamo con lo sguardo la vertiginosa torre del Gombito – dal latino compitum, ossia incrocio o crocicchio -, punto d’incrocio del cardo e del decumano di romana memoria e torre più alta della città.

Torre del Gombito

Torniamo infine sui nostri passi per una sosta all’area archeologica di vicolo Aquila nera (dal nome curioso di una vecchia locanda), spiando da dietro le vetrate un incredibile spaccato della storia della città antica, dell’insediamento protourbano del V secolo a.C. ad oggi.

sfiorando l’area archeologica di vicolo Aquila Nera e lanciando un occhio alla torre del Gombito, edificata nel XII secolo; non prenderà mai il nome delle famiglie che nei diversi secoli ne diventarono proprietarie

Noteremo i resti della domus romana (di cui rimangono parte dei muri e dei pavimenti), il pozzo e reperti risalenti a un periodo compreso tra il I secolo avanti Cristo e il II dopo Cristo, sui quali, in epoca medievale, è stata edificata un’altra abitazione, in parte ancora visibile.

Area archeologica di vicolo Aquila Nera nella Città Alta di Bergamo

La visita è gratuita ma è necessaria la prenotazione: magari la prossima volta?

In viaggio a Cornello dei Tasso, sospesi tra notte e giorno: per una visita completa

Fotografie di Maurizio Scalvini

Cornello dei Tasso è noto per aver legato il suo nome a quello dell’antica famiglia dei Tasso, conosciuta non solo per aver dato i natali ai due grandi letterati Bernardo e suo figlio Torquato ma anche per aver fondato il sistema postale, instaurando una fitta rete di collegamenti tra centinaia di città europee e dando al borgo un ruolo di rilievo rafforzato dalla fama del casato locale.

Ritratto di Francesco Tasso. Le origini di Cornello dei Tasso sono medioevali: forse costituiva inizialmente un’appendice del vicino centro abitato di Camerata (citata per la prima volta nel 1181 (1)), mentre la presenza della famiglia Tasso (2) risale al XIII secolo, con la presenza di Omodeo Tasso (morto nel 1290), il primo esponente della famiglia, che alla metà del XIII secolo getta le basi per quella che diventerà la Compagnia dei Corrieri della Serenissima. Dopo di lui è possibile ricostruire la discendenza del folto e complesso casato dei Tasso, i cui componenti, precursori del moderno servizio postale, rimasero sempre piuttosto uniti nel difendere gli interessi economici e i privilegi della famiglia (Ph Tarcisio Bottani)

Ma la fama del borgo è dovuta anche all’importante ruolo di mercato rivestito lungo il percorso della Via Mercatorum, la sola che fino alla fine del Cinquecento permise di raggiungere le terre d’Oltralpe, facendo di Cornello la sede di floridi commerci.

Prima della costruzione della Strada Priula, che correva diritta sul fondovalle, Cornello era un luogo di passaggio obbligato, fungendo da cerniera fra la media e l’alta Valle Brembana situata ‘Oltre la Goggia’: la rupe su cui si trovava formava una stretta gola sul fiume Brembo impedendo il transito di uomini e merci ed obbligando a salire sui suoi ripidi dirupi discendendo dalla parte opposta.

Cornello dei Tasso in un acquerello di don Giuseppe Cavagnis (1828). Il borgo si è sviluppato sul crinale (482 metri slm) di uno sperone roccioso a picco sul Brembo, che costituiva un ostacolo lungo la strada di fondovalle. Il suo nome deriva probabilmente da corna, ossia “roccia, pietra”

Superato l’erta rupe del Cornello, i mercanti potevano scendere ripidamente alla contrada di Orbrembo, proseguire fino al passo San Marco e raggiungere la Valtellina – un tempo terra svizzera del Canton dei Grigioni – ed i valichi diretti verso l’Europa centrale.

Questa necessaria deviazione fece del borgo il crocevia di mercanti provenienti da tutta Europa.

La Via Mercatorum all’ingresso settentrionale di Cornello, la mulattiera di origine medioevale che univa il capoluogo alla Valtellina e ai Cantoni Svizzeri. Superato Cornello, si scendeva fino alla contrada di Orbrembo e si risaliva la Val Secca puntando verso Olmo, Averara e la Valmora; da qui ci si inerpicava per passo San Marco per discendere verso Morbegno e la Valtellina ed i valichi diretti verso l’Europa centrale

La realizzazione a fondovalle di un tratto della Priula,  garantì un percorso lineare ed agevole, permettendo di evitare la salita fino all’abitato.

Il nuovo tratto di Priula (1593) a fondovalle, sotto i dirupi di Cornello dei Tasso, era sostenuto da un muro con archi che poggiava nel greto del fiume. Col tempo gli archi di sostegno vennero ampliati: i due archi inferiori sono veneti, quello mediano è austriaco, il superiore è degli inizi del Novecento

 

Nel disegno ottocentesco di Giuseppe Cavagnis, è visibile il nuovo tratto della Priula, sostenuto da un muro con archi che poggiava nel greto del fiume. La nuova strada fu voluta dal governo veneto per collegare in modo diretto Bergamo alla Valtellina senza passare per i territori spagnoli

Fino a quando la costruzione della Priula non lo escluse dai grandi traffici, il borgo di Cornello continuò ad essere sede di un importante mercato (secoli XV e XVI) (3), oltre che fulcro nel sistema viario postale che coinvolgeva l’intera Val Brembana, essendo stazione postale e di transito posta su lunghi percorsi: ed  è proprio nel Quattro-Cinquecento, in piena dominazione Veneta, che si riscontra il momento di maggior sviluppo del borgo (come si evince del resto dalla ceramica rinvenuta sotto le rovine della più antica dimora dei Tasso e dagli affreschi quattro e cinquecenteschi conservati nella chiesa).

In seguito alla realizzazione della Priula, dopo tre secoli di fiorente attività, escluso dai grandi traffici che si svolgevano lungo la viabilità maggiore della valle il borgo perse le funzioni di luogo di sosta. Insieme a Cornello venne trascinato nell’oblio anche il borgo di Oneta, ad esso collegato lungo la Mercatorum, e i paesi in quota vennero lasciati in mano ai mercanti locali.

Divenuto marginale nel nuovo assetto viario, il centro perse attrattiva e vitalità e si innestò un processo di decadimento e parziale abbandono, che tuttavia  permise la conservazione dell’originario tessuto urbanistico, restaurato nella seconda metà del Novecento.

Scorcio del borgo prima dei restauri (Archivio Wells)

E’ appunto grazie a tale requisito che Cornello ha potuto essere inserito nella lista dei “Borghi più belli d’Italia” (4).

IL BORGO DI CORNELLO 

Stretto nell’esiguo spazio tra lo strapiombo sul fiume e la cima del monte, il borgo crebbe compatto ed estremamente raccolto, anche grazie alla disposizione a ferro di cavallo delle case, costruite assecondando le ondulazioni del terreno e formando un tutt’uno con il sistema viario.

Cornello ripreso da Portiera

Oltre ai condizionamenti naturali la struttura dell’abitato di Cornello è stata plasmata dalle attività che ne hanno caratterizzato la storia, data la duplice funzione di stazione postale e di mercato: la  necessità di controllare e difendere le attività locali ha impresso al luogo il carattere di abitato fortificato. Una difesa rafforzata anche dalla presenza di un certo numero di armati, elencati a fine Cinquecento in 6 soldati archibugieri, 4 picchieri, 1 moschettiere insieme a 5 galeotti.

UNA “VISITA GUIDATA” A CORNELLO DEI TASSO

Il borgo è raggiungibile dopo aver percorso i pochi tornanti che lo separano dal fondovalle, seguendo le indicazioni attigue al piccolo parcheggio da cui si diparte la mulattiera lastricata che dolcemente introduce all’ingresso settentrionale.

Ma ancor più bucolico è imboccare la via Mercatorum all’uscita di Oneta, raggiungendo Cornello attraverso suggestive contrade immerse in ampie e quiete distese prative.

Cornello dalla Valle dei Mulini provenendo da Oneta, posta a 30′ di cammino

Il percorso ricalca le orme degli antichi viandanti,  accompagnato dal fragore del Brembo che serpeggia gonfio e spumeggiante ai piedi della rupe del Cornello.

La solida via acciottolata dalle pietre levigate dall’uso, ben radicate, ben connesse l’una all’altra, è collaudata da innumerevoli inverni di neve: larga quanto basta per una cavalcatura con la sua soma, ripida quanto occorre per procedere senza affanno a passo sicuro, la breve mulattiera ha salvato Cornello dalla penetrazione dell’automobile: ed è incredibile come da subito s’intuisca l’armonia del luogo e la cura che gli abitanti dedicano al loro piccolo, prezioso sito.

La via gradinata diretta al borgo di Cornello dei Tasso, venendo da Oneta

Finalmente, in vista del suggestivo porticato meridionale, preceduto dai ruderi della più antica dimora dei Tasso, è possibile saggiare l’emozione di ripercorrere l’antica “Via dei Trafficanti”, lungo la quale trovavano riparo le carovane dei mercanti e dei corrieri postali.

L’ampia volta d’accesso al porticato meridionale lungo il quale transitava la Via Mercatorum, con l’antico ciottolato posato con perizia e le solide arcate tagliate in grossi blocchi sbozzati in pietra locale

Osservandolo a distanza, è evidente quanto Cornello sia rimasto quale appare nelle antiche stampe: un borgo alpestre dalla struttura compatta e dal carattere fortificato, abbarbicato su un declivio affacciato sul Brembo, lungo il quale si sviluppano tre file parallele di case in pietra grigia, ben adattate l’una all’altra come i sassi della mulattiera e disposte dal basso verso l’alto assecondando le pieghe del terreno: una sequenza che culmina nella bella e caratteristica chiesa romanica col suo campanile pendente, al centro di una magnifica e silenziosa radura.

Cornello dei Tasso in un acquerello del XVIII secolo. Il borgo si struttura concentricamente, dal basso verso l’altro, su tre livelli distinti, fino alla chiesa, posta sul piano culminante (Museo dei Tasso e della Storia Postale)

Nella parte più bassa, rivolta verso valle e a strapiombo sul Brembo, corre ininterrotta una schiera compatta di abitazioni che evidenziano l’originaria caratteristica di fortificazione del borgo.

Immerso nella quiete della sera, l’ingresso della via porticata a meridione, affiancata dalle abitazioni a picco sul Brembo

Parallela all’ardita schiera delle abitazioni corre la strada porticata, lunga un centinaio di metri e splendidamente mantenuta dai pochi abitanti rimasti.

Il portico sotto cui corre la Via Mercatorum con le antiche botteghe, gli alloggi, la stazione di posta e le scuderie; il tutto sormontato da caratteristiche travi a vista

 

Dal porticato, dove il tempo sembra essersi fermato

Il portico riceve luce grazie alle arcate a tutto sesto dei cortili, contornate da possenti pietre di macigno scuro, tufo e puddinga.

Fioriture invernali accompagnano la via porticata, affiancata dalle corti delle solide abitazioni affacciate sul Brembo, a guardia della vallata: siamo al primo livello dell’abitato

 

Un’abitazione osservata dal portico: il pian terreno è generalmente a volta mentre quello superiore è addolcita da una calda copertura lignea, mentre i tetti sono generalmente in ardesia

 

Scorcio su una corte, stretta tra il lungo portico della Mercatorum e le antiche abitazioni

Questa “galleria” dove il tempo sembra essersi fermato, è delimitata alle sue estremità dai due archi monumentali di accesso, originariamente affiancati da due possenti torri di guardia, di cui si è mantenuta solo quella posta a nord del borgo.

Le arcate sul lato settentrionale del borgo

 

Le arcate sul lato settentrionale del borgo

 

Procedendo verso l’imbocco della strada porticata

Nelle incisioni ottocentesche, la torre meridionale è raffigurata accanto alla primitiva dimora dei Tasso, di cui oggi restano i ruderi: un alto edificio fortificato distribuito su più terrazzamenti a strapiombo sul fiume, protetto da uno spesso muro di cinta e con poche aperture verso la valle.

Cornello dei Tasso in un’incisione ottocentesca con in basso la Strada Priula. Sulla destra, un alto edificio fortificato affiancava, su un diverso piano di calpestio, la torre meridionale della via porticata; la posizione, naturalmente difesa permetteva un’ampia panoramica delle principali vie delle vicine valli

La primitiva dimora dei Tasso, leggermente discosta dal nucleo compatto del borgo, risale all’epoca feudale e potrebbe aver ospitato i primi esponenti della famiglia Tasso, mandati in Valle Brembana in qualità di vassalli di feudatari di Almenno.

Dell’antica dimora fortificata dei Tasso rimangono solo le fondamenta, parte delle mura di sostegno ed un arco. In origine il palazzo doveva essere piuttosto imponente, come appare in un disegno seicentesco che lo mostra senza copertura, ma eretto ancora su diversi piani. Altri disegni, di inizio Ottocento, mostrano l’edificio piuttosto elevato, con cinque livelli di finestre, con le adiacenti strutture di terrazzamenti e le coperture ancora presenti: questo fa supporre che il crollo del Palazzo sia avvenuto in tempi piuttosto recenti. Tra il 1986 e il 1989 la Provincia di Bergamo attuò un’opera di recupero del sito e, durante i lavori, emerse un’abbondante quantità di frammenti ceramici del Quattrocento e dei secoli successivi

La posizione decentrata e rivolta a valle dell’antica dimora dei Tasso, permetteva di controllare le più importanti strade di accesso al paese: quella di fondovalle proveniente da S. Giovanni Bianco e quella da Dossena (da cui si raggiungeva la città) nonchè la strada a mezzacosta che attraversando Oneta portava in Valsassina, dall’altra parte della giogaia.

L’ingresso alla via porticata meridionale, non molto distante dai ruderi della più antica dimora dei Tasso, distribuita sui vicini terrazzamenti a picco sul Brembo e sulla vallata. L’area si collega inoltre con due percorsi che costituivano la prosecuzione delle due strade principali di epoca medievale: la Strada del Torchio e la Strada del Mulino, di cui restano pochi ruderi (compaiono nel Catasto Napoleonico)

Nel contempo, la vicinanza con le aree commerciali connesse al servizio postale e di mercato, assicurava il controllo su tutte le attività economiche che si svolgevano nel borgo; un borgo che negli anni delle lotte tra Guelfi e Ghibellini, forse costituiva il centro di potere e di controllo territoriale della  famiglia Tasso, che ne avrebbe fatto un centro difensivo: numerosi avanzi di antichi fortilizi in Val Brembana testimoniano le lotte intestine condotte con saccheggi e rapine, ai tempi in cui Cornello era spiccatamente Guelfo (5).

Al riparo del porticato si allineano le aperture delle antiche botteghe che costituivano il cuore commerciale del paese, con alloggi, osterie, depositi di mercanzie e di posta, e con stalle e scuderie in cui si provvedeva al cambio dei cavalli. In ogni ambiente, dietro ogni ruvido portone segnato dal tempo, si intrecciano le mille vicende accadute nel borgo, di cui pare di sentire ancora l’eco.

La via lastricata della Mercatorum attraversa il lungo porticato dove transitavano le carovane dei mercanti e le cavalcature degli addetti postali

 

Dalla via porticata

 

Dalla via porticata

 

Giardino invernale nel cortile antistante la via porticata

Lasciamo il livello inferiore dell’abitato per dirigerci nel cuore del borgo, approfittando dei suggestivi camminamenti interni: uno degli artifici adottati per permettere agli abitanti di comunicare tra loro senza avere contatti con l’esterno: i vani interrati o posti lungo la via porticata comunicavano con le sovrastanti parti abitative tramite botole ed esistevano camminamenti sotterranei e trasversali che mettevano in comunicazione abitazioni anche poste su diversi livelli.

Il borgo è dotato di numerosi camminamenti interni, uno dei quali, molto ampio, è visibile sulla destra

Il secondo livello dell’abitato è posto a metà tra la via porticata e la chiesa; è formato da una caratteristica schiera di case, strette l’una all’altra ed affacciate su una contrada vivace ed animata, dove trova posto l’ufficio turistico e filatelico nonché l’antica Trattoria Camozzi.

Sulla via sterrata, si affacciano pittoresche logge in legno, che insieme agli attrezzi agricoli appesi ai muri riportano ad un mondo semplice e intimamente legato ai cicli naturali, quando sui travetti si essiccavano i prodotti agricoli e boschivi, e le arcatelle erano stipate di fieno o di derrate alimentari.

La pittoresca contrada nel cuore del borgo. Oltre ai servizi postali e di mercato, all’allevamento e all’agricoltura, gli abitanti vivevano degli introiti ricavati dall’affitto delle osterie, che vennero a cessare quando i traffici commerciali furono assorbiti dalla Strada Priula. Inoltre si lavoravano i cosiddetti panni bassi, che venivano venduti al mercato di Bergamo e soprattutto “fuori della patria”

Molto suggestiva la visita serale al borgo, comprensiva di pernottamento presso la Trattoria Camozzi, dove assaggiare prelibati piatti tipici della tradizione locale, ed in primis eccellenti salumi e casoncelli, seguiti da succulenti brasati annaffiati da buon vino.

La suggestiva contrada in “notturna”

 

Una calda sosta alla storica Trattoria Camozzi

La contrada si collega al sagrato della chiesa, che un tempo doveva ospitare il piccolo cimitero del paese.

La chiesa dedicata ai Santi Cornelio e Cipriano, al limitar del bosco

 

Il piazzale antistante la chiesa

Dall’altro lato, la bella contrada si collega al gruppo delle case “signorili” che racchiudono il borgo a meridione, tra cui spicca quella della famiglia Bordogna, con i due stemmi di affrescati sulla facciata. Le linee architettoniche  indicano il prestigio dei Bordogna, una delle famiglie più importanti del paese.

Palazzo Bordogna, posto lungo il “piano nobile” di Cornello. All’inizio del Cinquecento i Bordogna instaurarono un rapporto di parentela con i Tasso, grazie al matrimonio tra Bono Bordogna ed Elisabetta Tasso, sorella dei mastri generali delle poste imperiali. Questo matrimonio diede inizio alla dinastia dei Taxis-Bordogna alla quale fu affidata le gestione delle poste di Trento e Bolzano, incarico che detenne fino alla fine del Settecento. Oltre ai Bordogna, un posto di rilievo tra le famiglie di Cornello va riservato ai Giupponi, che fecero parte della Compagnia dei Corrieri Veneti

Vi sono poi naturalmente gli edifici appartenuti al casato dei Tasso: proprio alla testata del borgo vi è il palazzo di famiglia, mentre i due edifici attigui sono allestiti a Museo dal 1991.

Il palazzo dei “Tasso del Cornello” è riconoscibile dal grande stemma dipinto. Al suo interno conserva i fregi dipinti, gli affreschi e un soffitto a cassettoni. In alcune stanze stanze è presente una raccolta di strumenti e oggetti di vita contadina oltre al caminetto con lo stemma di famiglia.  Nel palazzo tornò a vivere i suoi ultimi anni Davide Tasso (uno dei quattro fratelli che subentrarono agli zii nella gestione delle linee postali imperiali), dopo aver avviato la posta imperiale a Venezia (6).

Il Museo dei Tasso e della Storia postale e il palazzo quattrocentesco della famiglia Tasso,  con il grande stemma nel quale si distinguono i simboli originari della famiglia: il tasso, il corno postale e l’aquila imperiale, Il tasso, oltre a raffigurare un animale diffuso nella zona richiama anche la denominazione della vicina montagna Tasso e della casata dominante del borgo. L’aquila imperiale, simbolo degli Asburgo, fu introdotta su concessione degli imperatori quando designarono i Tasso come gestori ufficiali delle poste nei territori del Sacro Romano Impero e in collegamento con gli altri stati europei (Ph. Tarcisio Bottani)

Accanto, il Museo dei Tasso e della Storia postale è distribuito in due diversi edifici: uno raccoglie documenti relativi ai Tasso del Cornello e delle contrade vicine e più in generale alla storia del borgo; l’altro offre alla visione del pubblico il vasto repertorio documentario sul casato dei Tasso nella specifica attività postale con le vicende che si svolsero a dimensione europea dalla fine del secolo XIII alla metà del secolo XIX: in tutto circa 300 documenti, tra lettere, mappe dei percorsi postali, manifesti e libri antichi. Ad ingresso gratuito, il Museo è aperto tutto l’anno dal mercoledì alla domenica.

Museo dei Tasso e della Storia postale: il corno di posta fu aggiunto allo stemma quando i Tasso iniziarono l’attività di corrieri, adottarono questo mezzo per comunicare il loro arrivo alle stazioni di posta (tuttora è simbolo dei servizi postali di mezza Europa). La collaborazione culturale tra il ramo principesco dei Tasso (i Thurn und Taxis) e il loro paese d’origine ha consentito di disporre di parte del materiale che si trova a Regensburg

 

Nel Museo si trovano pertanto carte geografiche, una lettera postale affrancata con il celebre Penny Black (in fotografia), telefoni e telegrafi inerenti l’evoluzione delle tecniche di comunicazione. Vi sono anche manoscritti della Gerusalemme Liberata

Saliamo ora al terzo ed ultimo livello, caratterizzato dalla presenza della chiesa dei Santi Cornelio e Cipriano, protetta ad ovest dal monte. La divisione a livelli dell’abitato permise anche la caratterizzazione dei tre aspetti principali della vita sociale di Cornello: quello commerciale, quello civile e quello religioso.

Dal livello intermedio dell’abitato verso la chiesa

La chiesa (XII-XIII secolo), con il suo campanile pendente rappresenta uno degli elementi di maggiore interesse romanico in Valle Brembana. Fu creata, sostenuta e gestita dalla famiglia Tasso di Camerata, la cui presenza è attestata dal loro altare privato, dai due affreschi dedicati a Santa Caterina D’Alessandria (patrona dei corrieri postali), dalle dedicazioni degli affreschi e dal loro stemma primitivo, con il corno postale e il tasso, che compare sulla cornice della pala con la Crocifissione, nella prima campata a sinistra.

Il caratteristico campanile pendente della chiesa dedicata ai Santi Cornelio e Cipriano

La chiesa era inoltre collegata alla via meridionale di accesso al paese mediante un un sottopasso a gradoni (ora chiuso), intuibile dalle tracce di un arco leggibile nella sezione inferiore della casa che la fronteggia (oltre la piazza).

Cornello in un disegno del XVII secolo – Archivio Centrale dei Principi Thurn und Taxis di Regensburg

 

LA CHIESA ROMANICA DEDICATA AI SANTI CORNELIO E CIPRIANO 

Giunti alla sommità del borgo, si raggiunge la piazzetta principale con la chiesetta romanica a navata unica, anticipata dal sagrato che un tempo fungeva probabilmente da cimitero e completata dal suggestivo campanile pendente, alleggerito da quattro aperture a bifora, ognuna con colonnina centrale. La copertura a piode è tipicamente montana.

Una gradita sorpresa sul sagrato della chiesa

La facciata, rivolta a mezzogiorno, è semplice ed ha un impianto in pietra squadrata. Il bel portale venne aperto in sostituzione di quello laterale tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento, epoca a cui risalgono anche le finestrelle dalle cornici trilobate in facciata e sul lato nord.

Nelle adiacenze dell’edificio di culto doveva estendersi il cimitero locale, forse distrutto o trasferito altrove, di cui si fa menzione in documenti cinque e secenteschi. Altri interventi, come la porta laterale architravata, vennero eseguiti tra Sei e Settecento, quando venne aggiunta la cappella semicircolare dedicata a S. Antonio da Padova e abbattuto il malconcio altare della Maddalena, probabilmente per questione igieniche e in connessione alla diffusione della peste. Anche la sagrestia accostata all’abside sul lato a valle, è un’aggiunta posteriore

Così come oggi appare, la chiesa è quasi certamente il risultato della radicale trasformazione di un precedente edificio che doveva esistere già intorno ai secoli XII-XIII, e di cui sono rimaste poche tracce. Venne notevolmente trasformata, probabilmente anche nell’impianto, tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, grazie all’importanza che Cornello aveva assunto dal punto di vista economico come via di passaggio per l’Oltralpe. E’ a questo periodo infatti che risalgono gli affreschi, alcuni dei quali databili al 1475.

All’interno, la navata è divisa in tre campate da alti archi a sesto acuto, coperta da travature lignee; le pareti interne sono pressoché interamente affrescate.

Cornello dei Tasso, chiesa dei SS. Cornelio e Cipriano

Ritroviamo i Santi Cornelio e Cipriano, patroni della chiesa, nell’affresco dell’abside, concepito come un grande polittico: una Madonna in trono e santi, dipinti in eleganti proporzioni di linee, forme e colori.

Affresco con Madonna in trono e santi. Il riquadro centrale raffigura la Vergine in trono col Bambino e angeli, ai due lati i Santi Cornelio e Cipriano, patroni della chiesa, e all’estrema sinistra Santa Caterina d’Alessandria, alla quale doveva corrispondere, sulla destra, una Maddalena penitente, fatta cancellare nel corso della visita apostolica del Borromeo. In alto si notano i Santi Pietro e Paolo e, all’apice, Cristo che emerge dal sepolcro

Sulle pareti laterali, un variopinto ciclo di affreschi realizzato tra la fine del Quattrocento e i primi anni del Cinquecento, presenta scene della vita di Cristo e numerosi santi dalla spiritualità semplice ed umile, accanto a soggetti che riproducono esempi tipici di vita popolare, accostati a personaggi in abbigliamento sfarzoso.

Vengono così riproposte le figure legate al borgo, animato da una maggioranza di contadini e di piccoli artigiani, così come da alcune famiglie di rango elevato: un piccolo spaccato della vita sociale ed artistica della Valle Brembana.

Questo ciclo, per la complessità dei temi e il notevole gusto stilistico, è considerato uno dei più pregevoli tra quanti adornano le chiese della Valle, ed avvalora l’ipotesi che tra gli esecutori vi siano i Baschenis di Averara.

Fra i soggetti religiosi, risultano di particolare interesse le figure di S. Agata, S. Stefano, S. Giorgio, che rimandano ad età paleocristiana e longobarda: un dato curioso ma del tutto insufficiente a ricondurre l’origine del borgo fortificato all’altomedioevo.

Affresco di Sant’Agata nella chiesa dei Santi Cornelio e Cipriano –(Ph. Tarcisio Bottani)

Strettamente connessa alla vita locale e di notevole valore storico è la figura di S. Eligio (590-660), orafo e cesellatore vissuto presso la corte merovingia. Il Santo, protettore dei maniscalchi, è rappresentato nell’atto di ferrare un cavallo sull’uscio di una bottega nella quale fanno bella mostra tutti gli strumenti del mestiere (incudine, chiodi, tenaglie): un chiaro riferimento ad ambienti, costumi ed attrezzi da lavoro dell’epoca.

Affresco di Sant’Eligio (590-660) nella chiesa dei Santi Cornelio e Cipriano (Ph. Tarcisio Bottani)

Vi è inoltre una pregevole Adorazione dei magi ed una Crocifissione conservatasi solo in parte, mentre sono ormai scomparsi i lacerti degli affreschi che affiancavano il portone, raffiguranti San Cristoforo (diffuso e venerato nelle vallate alpine) e Sant’Antonio: figure che ricorrono anche nel vicino borgo di Oneta, dove un forzuto San Cristoforo che guada i fiumi con Gesù Bambino sulle spalle, è raffigurato sul porticato della chiesa del Carmine, fatta costruire intorno al 1473 dalla famiglia Grataroli, anch’essa in rapporti con Venezia.

San Cristoforo affrescato sulla parete della chiesa di Oneta, lungo la Via Mercatorum

S. Cristoforo è infatti generalmente dipinto sulle facciate delle chiese, messo lì a protezione dei viandanti della Via Mercatorum. Ed anche noi, come gli antichi viandanti proseguiamo il nostro viaggio incamminandoci  lungo un sentiero che conduce alla borgata di Bretto.

 

DAL CORNELLO ALLA CONTRADA DI  BRETTO

Cornello dei Tasso ammirata dai pascoli sovrastanti, in direzione Bretto

Perchè salire a Bretto? Perchè da lassù si può godere di un’ampia vista panoramica e perché la borgata è legata a quella di un ramo della famiglia Tasso: i Tasso di Bretto.

Da Cornello a Bretto, uscendo dal bosco adagiato ai piedi del Monte Concervo

Questo ramo dei Tasso vi si stabilì nella prima metà del Trecento, staccandosi dal ceppo originario dei Tasso del Cornello e dando origine a una dinastia che fu coinvolta nella gestione dei collegamenti postali per conto di Venezia, protrattasi fino alla prima metà dell’Ottocento. Fra costoro, Giovanni Battista acquistò il Palazzo di Comonte, nei pressi di Seriate, che fu adottato come residenza principale della femiglia.

Contrada di Bretto in un disegno del 1715 – Archivio Istituto Sacra Famiglia di Comonte 

Il minuscolo borgo, suddiviso in due contrade, è circondato da prati e boschi al cui centro si trova la chiesa di San Ludovico di Tolosa, concessa in juspatronato alla famiglia Tasso.

La chiesetta di San Ludovico e il suo Concervo

 

La chiesa di San Ludovico di Tolosa, fatta ampliare e decorare dal canonico Luigi Tasso, uno dei personaggi più in vista degli ambienti religiosi bergamaschi nella metà del Seicento

 

Lo splendido interno affrescato della chiesa di San Ludovico, a Bretto

Segni tangibili della presenza dei Tasso in questo luogo, sono anche il palazzo signorile all’ingresso di Bretto alto, arricchito da alcuni affreschi tra i quali compare lo stemma dei Tasso…

Il palazzo signorile dei Tasso a Bretto alto

…nonchè l’antico palazzo Tasso nella contrada di Bretto basso, in cui è ancora visibile lo stemma del casato al centro della facciata principale.

L’antico palazzo della famiglia Tasso a Bretto basso, fatto a suo tempo restaurare dal canonico Luigi Tasso. L’edificio presenta al centro della facciata alcuni dipinti: lo stemma di famiglia, un leone di San Marco (parzialmente cancellato) e, sul retro, una Madonna col Bambino tra i Santi Rocco e Caterina d’Alessandria, protettrice dei corrieri postali

 

Lo stemma dipinto sulla facciata di palazzo Tasso, a Bretto basso 

Gli edifici in precarie condizioni che si affacciano sulla piazzetta antistante il palazzo,  erano un tempo pertinenze dell’abitazione padronale.

Antico edificio a Bretto basso, un tempo pertinenza della casa padronale dei Tasso

Nel Settecento i Tasso del Bretto acquisirono anche il titolo nobiliare di conti del Monte Tasso, attraverso l’infeudazione dei loro beni in questa località. La fine del secolo pose fine alla presenza della famiglia a Bretto, in quanto le ultime discendenti del ramo – Maria Teresa Tasso e Livia Maria Tasso – vendettero tutte le proprietà che possedevano nel borgo e si stabilirono definitivamente a Bergamo.

La contrada di Bretto basso

Volendo proseguire, per gli amanti del trekking è possibile imboccare un sentiero, che da Bretto conduce alla minuscola contrada di Pianca, abbarbicata sotto le nude rocce del Concervo, oppure piegare per Oneta concludendo il verdeggiante giro ad anello.

Al bivio boschivo tra Pianca ed Oneta, poco oltre il borgo di Bretto

In entrambi i casi, sarà un’ottima occasione per godere degli albori di primavera.

 

DUE PAROLE SUL TASSO DEL CORNELLO E LE POSTE 

Il Cinquecento è il secolo dello sviluppo dei commerci a largo raggio, che intensificano gli scambi e le comunicazioni fra le grandi città, le corti europee e il Levante.

Il commercio dei mercanti veneziani avveniva nei grandi mercati e nelle fiere d’Europa, dove essi portavano le merci che acquistavano in Oriente, molto ricercate da tutti i popoli europei. In questi luoghi non poteva mancare la presenza dei corrieri, che veicolavano velocemente le notizie di carattere economico, riguardanti i prezzi, le merci, la presenza dei mercanti, essenziali per il buon risultato degli scambi.

Tra i corrieri che esercitavano questa attività, si distinsero alcuni che provenivano dal bergamasco, in particolare dalla Val Brembana e tra questi alcuni della famiglia Tasso del Cornello, che portarono a Venezia la loro esperienza già acquisita in passato e dove i vari rami del casato svolsero dapprima un ruolo importante nella fondazione e nella gestione della Compagnia dei Corrieri veneti (nata nel 1306), la società commerciale composta da 32 soci, quasi tutti bergamaschi, che gestì i collegamenti postali per conto della Serenissima fino alla fine della Repubblica.

Diligenza postale del XIX secolo (Ph. Museo dei Tasso e della Storia Postale). Gli spostamenti dei corrieri richiedevano l’utilizzo di carrozze nelle quali, a volte, venivano accompagnati anche passeggeri. Questo servizio successivamente prese il loro nome, dall’iniziale tassì all’attuale e modernizzato taxi

In breve tempo, la loro abilità nel trasportare corrispondenza non fece che accrescere la loro fama, tanto che dopo il 1460 alcuni esponenti della famiglia furono chiamati a organizzare le Poste pontificie, incarico che ricoprirono fino al 1539.

Nel frattempo altri Tasso, e in particolare i fratelli Francesco e Janetto, ottenevano i primi appalti per comunicazioni postali nel Tirolo, ad opera di Massimiliano I d’Asburgo, incarichi poi confermati e ufficializzati nei primi anni del Cinquecento dal figlio Filippo il Bello e dal nipote, il futuro imperatore Carlo V, con una serie di trattati postali.

Biglietto di prenotazione del 1850 (Ph. Museo dei Tasso e della Storia Postale)

Fu l’inizio della grande epopea che vide questi intraprendenti personaggi, originari della montagna bergamasca, ricoprire per secoli l’incarico di mastri generali delle Poste imperiali, rappresentando una delle prime imprese multinazionali europee.

Con tale ruolo i Tasso crearono una fitta rete di collegamenti tra centinaia di città europee, dando vita ad un’impresa – un vero e proprio monopolio del servizio postale – che in breve raggiunse i vertici del potere finanziario, garantendo ai suoi esponenti onori, privilegi e blasoni.

Nel 1512 l’imperatore Massimiliano d’Asburgo concesse alla famiglia il titolo nobiliare, permettendo che lo stemma del casato, un piccolo tasso e il corno distintivo del servizio postale, fosse arricchito dall’aquila imperiale

Nel Seicento il ramo tedesco della famiglia, noto con il nome di Thurn und Taxis, ottenne dagli imperatori il titolo principesco.

Porta S. Giacomo – Ex voto – Anonimo, 1727. Oltre le garitte sullo spalto, lo stemma dei Tasso, i dati di costume della carrozza della contessa M. Tasso, il vigneto sotto la porta, è notevole la struttura in legno con il ponte levatoio sostituito con archi in pietra dal Podestà veneto Alvise Contarini nel 1780 (Bergamo, proprietà S. Angelini)

Il tutto partendo da questo piccolo borgo montano, splendidamente sospeso tra natura e storia.

 

COME ARRIVARE

PER CORNELLO DEI TASSO Per chi arriva con l’autostrada A4, si esce a Dalmine proseguendo poi sulla Statale in direzione di Villa d’Alme’ – Valle Brembana, si attraversano Zogno, San Pellegrino Terme, San Giovanni Bianco. Dopo circa 35 Km a Camerata Tasso si lascia la statale per deviare a sinistra verso Cornello dei Tasso e dopo un paio di tornanti si arriva al parcheggio: il paese di Camerata Cornello e’ raggiungibile a piedi dopo 5 minuti di comoda passeggiata.

PER  BRETTO Vi si accede dalla comoda strada asfaltata che da Camerata Cornello conduce alla Brembella, dopo circa 3 km bivio a sx per il Borgo del Bretto, a pochi metri da questo bivio la strada si dirama sulle due contrade, Bretto alto e Bretto Basso, distanziati fra loro da poche centinaia di metri.

Note

(1) Camerata è citata per la prima volta come Camarata in una pergamena conservata all’Archivio vescovile della Curia di Bergamo datata al 9 gennaio 1181, benchè di Camarata non vi sia menzione negli Statuti di Bergamo del 1331. Solo negli statuti del 1353 si ricorda un comune “de S.ta Maria de Camerata”, cui spettava insieme ad altri centri la manutenzione della strada che dal ponte della Morla conduceva in Val Brembana. Queste denominazioni sicuramente identificano l’attuale comune di Camerata Cornello (P. Marina De Marchi, Antonio Zavaglia, Il caso di Cornello del Tasso in Val Brembana (Bergamo).

(2) Documenti conservati presso l’Archivio di Stato di Bergamo e la Parrocchia di Camerata Cornello comprovano che la famiglia Tasso era originaria del Cornello: il primo esponente, Omodeo (Homodeus de Taxis de Cornello, morto nel 1290), è citato già nel 1251. Secondo un’altra fonte, il primo documento che menzioni la famiglia de Tassi di Camerata risale al 1233; un de’ Taxis è ricordato con il titolo di consul di Cornello e in questa veste pubblica partecipa ad una riunione che stabiliva le modalità di verifica di misure e pesi ogni tre anni. Altre fonti riportano che nel 1313 un membro della famiglia Torriani di Milano si rifugiò a Cornello prendendo il cognome de’ Tassi (P. Marina De Marchi, Antonio Zavaglia, Il caso di Cornello del Tasso in Val Brembana (Bergamo).

(3) La presenza del mercato a Cornello è fatta risalire a un’età precedente al 1430 (attribuita a Cornello da Pandolfo Malatesta, signore di Bergamo, e ribadita dai Veneziani nel 1451, allo scopo di riattivare l’attività economica dopo gli scontri tra la repubblica di Venezia e i Visconti di Milano (B. Belotti, Storia di Bergamo e dei bergamaschi, Bergamo 1960, vol. 3, pp. 17, 49, 89). Nello Statuto della Val Brembana si legge che la funzione di mercato viene attribuita a Cornello da Pandolfo Malatesta (signore di Bergamo tra il 1409 e il 1418), come atto di ostilità contro altri comuni della valle, oltre la Goggia, protetta dai Visconti. Tale funzione viene ribadita dai Veneziani a favore di Cornello nel 1451, allo scopo di riattivare l’attività economica: nel 1439, a seguito degli scontri tra la repubblica di Venezia e i Visconti di Milano il paese avversario di S.Giovanni Bianco aveva infatti avanzato la richiesta di svolgere questa attività.

(4) Il borgo è formalmente vincolato con D.M. 2 aprile 1965, ai sensi della legge 29 giugno 1939, n. 1497, che dichiara il “notevole interesse pubblico” del vecchio nucleo abitato di Cornello del Tasso.

(5) In Val Brembana centro di simpatie spiccatamente guelfe erano Giovanni Bianco e i paesi limitrofi, come la parte alta di Zogno, Poscante, Endenna, Camerata, Ponteranica e Sorisole; erano invece ghibelline la parte bassa di Zogno, Stabello, Sedrina, Villa d’Almè e Brembilla, la cui giurisdizione comprendeva un’area molto vasta che includeva gli attuali comuni di Brembilla, Gerosa, Blello, ed anche Ubiale Clanezzo Berbenno, Strozza e Capizzone).

(6) Tarcisio Bottani, responsabile dei servizi educativi del Museo dei Tasso e della Storia Postale).

Alcuni riferimenti

P. Marina De Marchi, Antonio Zavaglia, Il caso di Cornello del Tasso in Val Brembana (Bergamo).

Sergio Stocchi, Sulle vie dei Trafficanti – Un itinerario inedito in Val Brembana. In: L’Umana Avventura, Jaka Book.

Museo dei Tasso e della storia postale