Al n°12 di Via Porta Dipinta si apre il portale d’ingresso di Palazzo Moroni, che, con la sua facciata sobria e quasi severa, non lascia presagire le decorazioni degli ambienti interni, considerate una delle espressioni più significative dell’arte barocca in Bergamo.
Il palazzo è sorto intorno alla metà del Seicento per volontà di Francesco Moroni, nato nel 1606 nel cuore di Città Alta, dove mezzo secolo prima i Moroni si erano trasferiti da Albino, luogo d’origine di questa nobile famiglia, le cui memorie risalgono al XIV secolo.
I Moroni divennero una delle più prestigiose famiglie lombarde grazie alla vivace attività nel mondo dell’architettura civile e militare e dell’ingegneria, e si distinsero per le innate capacità tecniche ed intellettuali di alcuni loro illustri rappresentanti.
A partire dal 1600 il nome dei Moroni si legò soprattutto alla coltivazione del gelso – indispensabile per la formazione dei bozzoli dei bachi da seta – e al conseguente ruolo di primo piano assunto nella fornitura di materia prima per il ramo tessile.
Questa pianta appartiene alla storia della famiglia anche per un’altra curiosa ragione: il gelso infatti è chiamato in latino morus e in bergamasco murù, parole che ricordano per il loro suono il nome della famiglia. Per questo motivo la pianta di gelso compare sullo stemma Moroni già nel Quattrocento; ad essa si aggiunse nel 1783 l’aquila imperiale, che rappresenta il titolo di conte e cavaliere conferito ad Antonio Moroni dal Duca di Sassonia Weimar (1).
Le fortune di Francesco, il matrimonio con Lucrezia Roncalli da Chignolo nel 1631 e i numerosi figli che ne seguirono, lo indussero alla costruzione del Palazzo sul terreno di “Porta Penta”, l’attuale Porta Dipinta, vendutogli dalla famiglia dei conti Pesenti, poi estinta.
La Fabbrica di Porta Penta
I lavori della grandiosa “fabbrica di Porta Penta”, durati dal 1636 al 1666, furono eseguiti da Battista della Giovanna, un impresario bravo ma non particolarmente illustre, che probabilmente non si curò di stilare o conservare un vero e proprio progetto poiché la struttura del Palazzo non prevedeva particolari soluzioni architettoniche: di fatto l’edificio, disegnato non per essere guardato dall’esterno, si distingue soprattutto per la fantasia e la professionalità degli artisti che lo hanno internamente abbellito nel corso del tempo.
Al momento della sua costruzione infatti, la vista sulla città bassa era ostacolata dal dirimpettaio Palazzo Marenzi, acquistato dai Moroni nel 1878 per poi essere demolito, creando l’ampia panoramica sulla pianura.
Per questo motivo il portale d’ingresso è in posizione asimmetrica rispetto alla facciata, che unita alla dimensione non eccessiva del Palazzo – insolita per le abitudini del tempo – e alla sobrietà dell’impostazione, non anticipa la monumentalità e la ricchezza decorativa degli spazi interni.
L’ingresso a Palazzo rivela comunque splendidi scorci e innumerevoli suggestioni, culminanti nella prospettiva progettata da Lorenzo Redi, che trova il suo punto di fuga nella nicchia a grotta in cui troneggia una statua di Nettuno, posta al centro di una massiccia parete in bugnato.
La massicciata è coronata da una balaustra in pietra, ornata da anfore, che delimita il primo terrazzo dei giardini, di impianto seicentesco, aperto sul parco come un autentico polmone verde che si allunga sino ai piedi del Colle di Sant’Eufemia.
Sotto la volta dell’androne, fino alla prima meta dell’Ottocento vi era dipinta una bilancia con due piatti in perfetto equilibrio; su uno di essi v’era una costruzione e sull’altro un mucchio di denari ed accanto un’iscrizione : “Aequa lance librandum” (“si deve agire con i piatti della bilancia in equilibrio”), come a dire che non si deve costruire una casa se non si ha denaro a sufficienza per terminarla: una massima che sottolinea l’operosità e la saggezza della famiglia Moroni.
Il disegno può essere considerato anche la premessa a ciò che si trova nello Scalone d’Onore – cui si accede a destra dell’androne d’ingresso -, dove il meraviglioso mondo affrescato dal fecondo pittore cremasco Gian Giacomo Barbelli (1604-1656) appare con le sue imprevedibili soluzioni spaziali che formano sulle pareti e sui soffitti visioni lontane di ampio respiro.
Il programma iconografico di questo ambiente, reso spazioso dalle decorazioni, è un’evidente celebrazione delle virtù dei Moroni. Sulle pareti, nove figure allegoriche rappresentano le qualità di questa famiglia, degna di essere ricordata nei secoli: l’Antichità, la Nobiltà, la Santità, il Valore, la Fortuna, la Ricchezza, la Dignità, l’Onore e la Sapienza: tutte inserite in riquadri dipinti da Giovan Battista Azzola.
Disposte dalla prima alla seconda rampa di scale, fra fregi, pilastri e scorci di architettura dorica, le nove statue bronzate presentano sul basamento il motto che le contraddistingue.
Il meraviglioso soffitto e il fregio ospitano invece i principali episodi della Favola di Amore e Psiche, narrata da Apuleio nelle Metamorfosi. Un’affascinante storia d’amore, ma anche di riscatto: come Psiche riesce ad ottenere dopo una serie di prove l’immortalità, così i Moroni celebrano la propria ascesa sociale, raggiunta con fatica grazie alle numerose abilità e alla forte determinazione.
Il Mezzanino
Lo Scalone conduce al mezzanino, quindi al piano nobile.
Delicatamente affrescato alla fine del Settecento da Paolo Vincenzo Bonomini, il mezzanino è, nonostante la sua funzione di servizio, un ambiente di grande eleganza, testimonianza del gusto e dell’amore per il bello della famiglia Moroni. Particolarmente raffinato è un piccolo ambiente voltato a botte e interamente affrescato, sulle cui pareti è raffigurata un’illusionistica balconata, decorata da putti e vasi di fiori, affacciata su un verdeggiante paesaggio. Un vero capolavoro di finzione prospettica, che dona allo spazio luminosità e atmosfera.
Le grandi Sale del piano nobile
Il piano nobile del Palazzo può essere suddiviso in due settori, da un lato le maestose sale di rappresentanza e, dall’altro, quello più intimo e privato: un insieme luminoso e scevro da pesantezza, grazie alla levità dei delicati stucchi veneziani sulle pareti e al seminato veneziano per la pavimentazione, introdotti nel XIX secolo per adattare gli ambienti alla moda del tempo.
Insieme agli affreschi che decorano la splendida teoria delle sale del piano nobile, si ammirano gli arredi e le preziose collezioni d’arte acquisite nei secoli dalla famiglia Moroni, tuttora proprietaria del palazzo. Degna di nota è la quadreria costituita da un nucleo significativo di dipinti del Rinascimento lombardo, tra cui spiccano tre ritratti di Giovan Battista Moroni (1523-1578): il Cavaliere in rosa, celebre capolavoro dell’artista, il raffinato Ritratto di Isotta Brembati e il Ritratto di donna anziana seduta, opera più matura di grande intensità. A questo primo nucleo appartengono inoltre una Maddalena penitente del Giampietrino, allievo e seguace di Leonardo da Vinci, e un Ritratto di famiglia del bergamasco Andrea Previtali.
La presenza dei ritratti a figura intera eseguiti dal Moroni non confonda però il lettore: il pittore non è direttamente imparentato con la famiglia ma appartiene alla discendenza dei Sereni (detti “Mori”), di cui capostipite fu Moro Moroni.
Più consistente è la sezione ottocentesca, costituita principalmente da paesaggi, molti dei quali opera di Pietro Ronzoni, ma anche da bellissimi ritratti di Cesare Tallone e Giuseppe Sogni. Non mancano infine testimonianze della pittura barocca, come i paesaggi di Pietro Roncelli o le stravaganti bambocciate di Enrico Albricci.
Eccezionali sono le due console settecentesche della Sala da ballo, i cui piani sono costituiti da mosaici provenienti da Villa Adriana a Tivoli; particolarmente interessanti sono inoltre i mobili provenienti dalle botteghe illustri dei Caniana, dei Fantoni e del milanese Giuseppe Maggiolini.
Molto ricca è la collezione di ceramiche, che raccoglie oggetti realizzati da alcune tra le principali manifatture europee attive tra Sette e Ottocento, tra cui Meissen, Wedgwood, Sèvres e Capodimonte, e opere provenienti dal lontano Oriente, unico custode per secoli del segreto della porcellana.
Gli affreschi del Barbelli nelle grandi Sale del piano nobile
I suggestivi ambienti costituiti dalle grandi Sale di Palazzo Moroni conservano un meraviglioso ciclo di affreschi ispirato alle Metamorfosi di Ovidio, realizzato dal 1649 al 1654 da Gian Giacomo Barbelli, qui coadiuvato dai quadraturisti Giovan Battista Azzola e, nella Sala della Caduta dei Giganti, da Domenico Ghislandi, padre del celebre fra’ Galgario.
Dalla Sala dell’Età dell’Oro, custode dei capolavori della quadreria, si accede all’illusionistica Sala della Caduta dei Giganti e alla curiosa Sala dell’Apoteosi di Ercole, in un susseguirsi di meraviglie, ricche prospettive e squarci di cielo nel soffitto.
Gli antichi miti, tanto cari ai pittori del Seicento, lasciano il posto nella grande Sala da Ballo alle gesta degli eroi della Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso.
Suggeriti dal committente Francesco Moroni, i soggetti degli affreschi, sia nelle grandi Sale del piano nobile così come nell’ambiente dello Scalone, ebbero come ispiratore ed interprete il contemporaneo padre Donato Calvi, priore del vicino convento di Sant’Agostino. Preziosa testimonianza del programma iconografico della dimora è un libretto, scritto e pubblicato dall’erudito nel 1655, intitolato Le Misteriose Pitture di Palazzo Moroni, nel quale sono descritte e spiegate con precisione e dovizia di dettagli le decorazioni degli ambienti di rappresentanza (2).
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Nella Sala dell’Apoteosi di Ercole, l’eroe mitologico è su una quadriga dorata; con una mano impugna una clava e nell’altra le redini dei destrieri al galoppo. Gli fanno da contorno sulle nubi Giove, Giunone, Mercurio e Pan.
Nella Sala dell’Età dell’Oro (o Sala delle Stagioni), si nota subito l’imponenza di Saturno circondato da putti al centro del plafone, mentre nelle aperture della quadratura, sotto forma di personaggi femminili seduti su basamenti, quattro illustrazioni simboleggiano l’Allegrezza, la Semplicità, l’Abbondanza e la Pace, doti suggerite dai committenti. Sotto di essi vi sono le relative storie, mentre per le pareti, l’Azzola ha usato la medesima tecnica mostrata al Palazzo Terzi, con colori ricorrenti nelle varie rappresentazioni che abbiano un nesso logico.
Nella Sala della Caduta dei Giganti, decorata dal Barbelli con quadrature di Domenico Ghislandi, ciò che colpisce di più il visitatore è l’immagine dei Colossi che, fulminati da Giove, cadono verso il suolo con gli stessi macigni che si erano portati come armi. Il disegno plastico dei grandi corpi che cadono e l’insieme della composizione regalano un effetto suggestivo, tanto da accentuare l’azione di gravità terrestre e dare l’impressione di un autentico precipitare.
Il Salone, dedicato a Torquato Tasso e alla sua “Gerusalemme liberata” è il più ricco di decorazioni. Il soffitto, affrescato in modo da conferire all’ambiente l’illusione di una maggior altezza, raffigura l’atto in cui il Padre Eterno comanda all’Arcangelo Gabriele di informare Goffredo della missione che dovrà compiere in Terra Santa; e quello in cui l’Arcangelo informa Goffredo e un gruppo di angioletti che circonda l’Onnipotente, il quale appare fiducioso di quanto le truppe cristiane si apprestano a compiere.
Il plafone è solo l’inizio di un “racconto”, che continua sulle pareti secondo una stretta concatenazione di eventi-rappresentazioni.
Donato Calvi ha perfettamente eseguito il proprio progetto iconografico, esteso anche ad altre figure allegoriche che commentano la sequenza di disegni. Come le otto statue bronzate dipinte lungo i lati del salone. Quattro sono figure di donna e rappresentano la Fede, la Bravura, la Fatica e la Vittoria. Le altre hanno un aspetto virile e sono dedicate al Consiglio, allo Zelo, al Disprezzo ed al Giubilo.
Ai contemporanei può sembrare troppo “pieno” un simile ambiente, ma colmare le pareti equivaleva a mostrare tutta la propria ricchezza e nobiltà ed anche la simbologia delle immagini rappresentava un ottimo mezzo per raggiungere tale scopo.
Il settore privato del Palazzo: le sale ottocentesche
Nelle sale ottocentesche, che costituivano la residenza privata della famiglia, affreschi dai colori delicati riproducono sapientemente bassorilievi con la tecnica del trompe l’oeil, mentre colori sgargianti e soggetti fantasiosi ricostruiscono mondi classici o l’illusione di paesaggi esotici, come nella Sala Turca o nel Salottino Cinese.
Fatti decorare dal conte Antonio Moroni intorno al 1835, questi ambienti – la parte più abitata del palazzo – mantengono l’impronta del passato conservando gli accostamenti e le scelte originarie: negli arredi scelti con gusto, nei preziosi dipinti, nelle tappezzerie, nei soprammobili di autentico antiquariato, nelle specchiere antiche, nei lampadari, nei tappeti, negli ornamenti floreali. Ne risulta un susseguirsi di immagini suggestive e raffinate, sempre allineate ad un’efficace impostazione cromatica.
Di queste numerose stanze, restano più di altre impresse le Sale Gialla, Turca e Cinese, dove l’elemento determinante diviene l’arredo e lo stile particolare che le contraddistingue.
La Sala Gialla ha il soffitto a volta decorato con festoni dorati, medaglioni e riquadri con figure policrome di donna rappresentanti il teatro, la musica, la pittura e le arti in genere. Al centro del plafone, figure di fauni e di donne su fondo turchese, che richiama il colore dei riquadri posti all’altezza della cornice perimetrale. Vi è poi una fascia intermedia in chiaroscuro decorata con figure e scene di vario genere.
Nella piccola ma esemplare Sala Cinese, i medaglioni del plafone sono raccordati da riquadri irregolari che attenuano l’andamento curvo del soffitto; prevalgono i colori celeste e rosso cupo che supportano la decorazione di un paesaggio dipinto con un insolito effetto avvolgente nella parte alta delle pareti. Ai mobili francesi laccati si aggiunge un camino marmoreo su cui spicca una specchiera di rara eleganza. Una seconda saletta ha il plafone decorato sui toni dell’azzurro e del verde intenso con riquadri decorati con ornamenti di fantasia la cui leggerezza attribuisce slancio ed ariosità alle esigue dimensioni del locale. La tappezzeria rosa mette in risalto la preziosità degli arredi.
Più semplice, dal punto di vista cromatico, la camera da letto con plafone a volta affrescato da una serie di motivi a chiaroscuro ripetuti nella fascia perimetrale sottostante, che si alterna alla tappezzeria damascata grigio-perla. Il letto è sovrastato da un baldacchino drappeggiato.
La stanza da bagno, a stucco lucido, conserva invece una vasca in marmo costituita da un unico blocco, la cui realizzazione risale ai primi dell’Ottocento.
Ciliegina sulla torta è la balconata che scorre esternamente lungo il lato verso corte e conduce agli inattesi Giardini, che costituiscono il parco privato più grande di Bergamo alta, un autentico polmone verde nel cuore della città murata, dove i terrazzamenti arrivano a lambire i muraglioni della Rocca.
I Giardini all’Italiana
Sono composti da quattro generose terrazze di impianto seicentesco – impostate lungo la forte pendenza del colle di Sant’Eufemia -, e da un’area vasta, detta “ortaglia”, in parte terrazzata, frutto di annessioni ottocentesche e destinata a colture produttive.
Protetto sul lato verso la corte interna da una balaustra in pietra decorata con vasi scolpiti, il primo terrazzamento è caratterizzato da un parterre formale tipico dei Giardini all’Italiana.
Proseguendo oltre il parterre, un vano passante precede la scalinata racchiusa tra due mura di contenimento che conduce al secondo livello, con scorci sul paesaggio circostante. Qui si possono osservare un grande esemplare di biancospino, sulla destra, collezioni di iris e rose a destra e sinistra.
In asse con il primo terrazzamento, un’elegante scalinata adornata alla sommità da statue di putti e vasi scolpiti collega il secondo e il terzo terrazzamento. A destra e sinistra della scalinata si trovano due bordi misti di erbacee perenni.
Il terzo terrazzamento è dominato da un grande esemplare di olmo ed è caratterizzato dalla presenza di sei tassi, potati in forma, e da una collezione di piante acquatiche autoctone.
Sulla sinistra, dei gradini irregolari in pietra conducono all’ultimo livello dei giardini sino alla torretta di San Benedetto, eretta dai veneziani alla metà del Quattrocento e definita: “il pensatoio del Conte” confinante con le proprietà della Rocca.
Il Parco
A monte del sistema dei terrazzamenti si apre la vasta area del parco, che confina ad ovest con il complesso monumentale della Rocca e che è tuttora caratterizzato da esemplari arborei produttivi come i gelsi, simbolo della famiglia Moroni, i ciliegi e i fichi. Questo luogo è attualmente dedicato a progetti di nuove piantumazioni e ad eventi stagionali con grande affluenza di pubblico.
Ed infine una curiosità: al pianterreno di Palazzo Moroni sono conservati alcuni affreschi “strappati” dalle pareti del demolito Palazzo Olmo. Tra questi la bellissima Madonna con Bambino e Santi, opera quattrocentesca di artista ignoto.
Note
(1) La storia del casato Moroni risale al 1334 e al suo capostipite Sereno Moroni. Un primo ramo si distaccò nel 1390 con Peccino Moroni, un secondo ramo, nato nel 1419 con Marco, diede origine all’attuale dinastia. Dal 1500 al 1850, i Moroni si distinsero per le loro innate capacità tecniche ed intellettuali, espresse tra gli altri dall’architetto Francesco, dall’umanista e storico Antonio, dall’umanista e scienziato Pietro, nonché gli ingegneri Andrea e Bertolasio. Quest’ultimo completò il campanile di S. Maria Maggiore, fu l’autore di un ponte sull’Adda e, su incarico del Senato veneziano, di un ponte sull’Adige.
(2) Cfr. Il testo edito a Bergamo nel 1655: “Le Misteriose pitture di Palazzo Moroni spiegate dall’Ansioso Accademico Donato Calvi Vice Principe dell’Accademia degli Eccitati all’Illustrissimo Sig. Francesco Moroni”.