Lo splendore barocco di Palazzo Moroni

Al n°12 di Via Porta Dipinta si apre il portale d’ingresso di Palazzo Moroni, che, con la sua facciata sobria e quasi severa, non lascia presagire le decorazioni degli ambienti interni, considerate una delle espressioni più significative dell’arte barocca in Bergamo.

Atrio di Palazzo Moroni stampa di dipinto, opera di Giovanni Migliara

Il palazzo è sorto intorno alla metà del Seicento per volontà di Francesco Moroni, nato nel 1606 nel cuore di Città Alta, dove mezzo secolo prima i Moroni si erano trasferiti da Albino, luogo d’origine di questa nobile famiglia, le cui memorie risalgono al XIV secolo.

I Moroni divennero una delle più prestigiose famiglie lombarde grazie alla vivace attività nel mondo dell’architettura civile e militare e dell’ingegneria, e si distinsero per le innate capacità tecniche ed intellettuali di alcuni loro illustri rappresentanti.

A partire dal 1600 il nome dei Moroni si legò soprattutto alla coltivazione del gelso – indispensabile per la formazione dei bozzoli dei bachi da seta – e al conseguente ruolo di primo piano assunto nella fornitura di materia prima per il ramo tessile.

Questa pianta appartiene alla storia della famiglia anche per un’altra curiosa ragione: il gelso infatti è chiamato in latino morus e in bergamasco murù, parole che ricordano per il loro suono il nome della famiglia. Per questo motivo la pianta di gelso compare sullo stemma Moroni già nel Quattrocento; ad essa si aggiunse nel 1783 l’aquila imperiale, che rappresenta il titolo di conte e cavaliere conferito ad Antonio Moroni dal Duca di Sassonia Weimar (1).

Lo stemma dei Moroni

Le fortune di Francesco, il matrimonio con Lucrezia Roncalli da Chignolo nel 1631 e i numerosi figli che ne seguirono, lo indussero alla costruzione del Palazzo sul terreno di “Porta Penta”, l’attuale Porta Dipinta, vendutogli dalla famiglia dei conti Pesenti, poi estinta.

Nelle sale del Palazzo ritroviamo il ritratto di Antonio Moroni (1764-1802), ciambellano, conte e cavaliere del Duca Carlo Augusto di Sassonia-Weimer. Si deve  alla volontà di quest’ultimo il conferimento del titolo nobiliare alla famiglia Moroni

La Fabbrica di Porta Penta

I lavori della grandiosa “fabbrica di Porta Penta”, durati dal 1636 al 1666, furono eseguiti da Battista della Giovanna, un impresario bravo ma non particolarmente illustre, che probabilmente non si curò di stilare o conservare un vero e proprio progetto poiché la struttura del Palazzo non prevedeva particolari soluzioni architettoniche: di fatto l’edificio, disegnato non per essere guardato dall’esterno, si distingue soprattutto per la fantasia e la professionalità degli artisti che lo hanno internamente abbellito nel corso del tempo.

Al momento della sua costruzione infatti, la vista sulla città bassa era ostacolata dal dirimpettaio Palazzo Marenzi, acquistato dai Moroni nel 1878 per poi essere demolito, creando l’ampia panoramica sulla pianura.

La vista dal Palazzo

Per questo motivo il portale d’ingresso è in posizione asimmetrica rispetto alla facciata, che unita alla dimensione non eccessiva del Palazzo – insolita per le abitudini del tempo – e alla sobrietà dell’impostazione, non anticipa la monumentalità e la ricchezza decorativa degli spazi interni.

Palazzo Moroni, via Porta Dipinta

L’ingresso a Palazzo rivela comunque splendidi scorci e innumerevoli suggestioni, culminanti nella prospettiva progettata da Lorenzo Redi, che trova il suo punto di fuga nella nicchia a grotta in cui troneggia una statua di Nettuno, posta al centro di una massiccia parete in bugnato.

La prospettiva progettata da Lorenzo Redi con la statua di Nettuno sullo sfondo

 

La statua di Nettuno nel cortile di Palazzo Moroni

La massicciata è coronata da una balaustra in pietra, ornata da anfore, che delimita il primo terrazzo dei giardini, di impianto seicentesco, aperto sul parco come un autentico polmone verde che si allunga sino ai piedi del Colle di Sant’Eufemia.

La balconata sormontata da suggestive anfore in pietra

Sotto la volta dell’androne, fino alla prima meta dell’Ottocento vi era dipinta una bilancia con due piatti in perfetto equilibrio; su uno di essi v’era una costruzione e sull’altro un mucchio di denari ed  accanto un’iscrizione : “Aequa lance librandum” (“si deve agire con i piatti della bilancia in equilibrio”), come a dire che non si deve costruire una casa se non si ha denaro a sufficienza per terminarla: una massima che sottolinea l’operosità e la saggezza della famiglia Moroni.

L’ingresso a Palazzo

Il disegno può essere considerato anche la premessa a ciò che si trova nello Scalone d’Onore – cui si accede a destra dell’androne d’ingresso -, dove il meraviglioso mondo affrescato dal fecondo pittore cremasco Gian Giacomo Barbelli (1604-1656) appare con le sue imprevedibili soluzioni spaziali che formano sulle pareti e sui soffitti visioni lontane di ampio respiro. 

Lo scenografico scalone a due rampe introduce a un mondo sorprendente, densamente decorato, fitto di prospettive e balaustre, squarci di cielo aperti nei soffitti, statue ed ornamenti che ne dilatano gli spazi in ogni direzione. Pareti e plafoni sono popolati di figure esuberanti di vita con scene di richiamo letterario, simboli retorici e statue

Il programma iconografico di questo ambiente, reso spazioso dalle decorazioni, è un’evidente celebrazione delle virtù dei Moroni. Sulle pareti, nove figure allegoriche rappresentano le qualità di questa famiglia, degna di essere ricordata nei secoli: l’Antichità, la Nobiltà, la Santità, il Valore, la Fortuna, la Ricchezza, la Dignità, l’Onore e la Sapienza: tutte inserite in riquadri dipinti da Giovan Battista Azzola.

Scalone d’Onore

Disposte dalla prima alla seconda rampa di scale, fra fregi, pilastri e scorci di architettura dorica, le nove statue bronzate presentano sul basamento il motto che le contraddistingue.

Il meraviglioso soffitto e il fregio ospitano invece i principali episodi della Favola di Amore e Psiche, narrata da Apuleio nelle Metamorfosi. Un’affascinante storia d’amore, ma anche di riscatto: come Psiche riesce ad ottenere dopo una serie di prove l’immortalità, così i Moroni celebrano la propria ascesa sociale, raggiunta con fatica grazie alle numerose abilità e alla forte determinazione.

L’affresco del soffitto dello Scalone d’Onore, affrescato dal Barbelli, è diviso in tre parti: in una viene illustrato l’innamoramento di Venere e Cupido; in un’altra Venere ordina la morte di Psiche e nell’ultima Cupido lancia a Psiche gli strali dell’Amore

 

Veduta sullo Scalone d’Onore

 

Tra lo Scalone d’Onore e le Sale della Gerusalemme Liberata merita una sosta il piano di mezzo, con alle pareti e al soffitto i capolavori affrescati da Gian Giacomo Barbelli

Il Mezzanino

Lo Scalone conduce al mezzanino, quindi al piano nobile.
Delicatamente affrescato alla fine del Settecento da Paolo Vincenzo Bonomini, il mezzanino è, nonostante la sua funzione di servizio, un ambiente di grande eleganza, testimonianza del gusto e dell’amore per il bello della famiglia Moroni. Particolarmente raffinato è un piccolo ambiente voltato a botte e interamente affrescato, sulle cui pareti è raffigurata un’illusionistica balconata, decorata da putti e vasi di fiori, affacciata su un verdeggiante paesaggio. Un vero capolavoro di finzione prospettica, che dona allo spazio luminosità e atmosfera.

La sala da pranzo affrescata da Vincenzo Bonomini al piano ammezzato; il locale si collega tramite un corridoio alle cucine

 

Affresco di Vincenzo Bonomini nel piano ammezzato di Palazzo Moroni

 

Dettaglio

Le grandi Sale del piano nobile

Il piano nobile del Palazzo può essere suddiviso in due settori, da un lato le maestose sale di rappresentanza e, dall’altro, quello più intimo e privato: un insieme luminoso e scevro da pesantezza, grazie alla levità dei delicati stucchi veneziani sulle pareti e al seminato veneziano per la pavimentazione, introdotti nel XIX secolo per adattare gli ambienti alla moda del tempo.

Insieme agli affreschi che decorano la splendida teoria delle sale del piano nobile, si ammirano gli arredi e le preziose collezioni d’arte acquisite nei secoli dalla famiglia Moroni, tuttora proprietaria del palazzo. Degna di nota è la quadreria costituita da un nucleo significativo di dipinti del Rinascimento lombardo, tra cui spiccano tre ritratti di Giovan Battista Moroni (1523-1578): il Cavaliere in rosa, celebre capolavoro dell’artista, il raffinato Ritratto di Isotta Brembati e il Ritratto di donna anziana seduta, opera più matura di grande intensità. A questo primo nucleo appartengono inoltre una Maddalena penitente del Giampietrino, allievo e seguace di Leonardo da Vinci, e un Ritratto di famiglia del bergamasco Andrea Previtali.

Dettaglio dell’opera di Andrea Previtali conservata presso la collezione Moroni, Si evincono le influenze della pittura di Lorenzo Lotto, la cui fiducia e stima nei confronti di Previtali sono testimoniate anche dall’incarico che gli conferì, vista la sua assenza da Bergamo a partire dal 1525, di soprintendere alla profilatura dei suoi disegni per le tarsie del coro di S. Maria Maggiore nella Città Alta

La presenza dei ritratti a figura intera eseguiti dal Moroni non confonda però il lettore: il pittore non è direttamente imparentato con la famiglia ma appartiene alla discendenza dei Sereni (detti “Mori”), di cui capostipite fu Moro Moroni.

G. B. Moroni, “Il Cavaliere in rosa” e il  “Ritratto di Isotta Brembati” (1552-53 c.), nella Sala d’Ercole. Il celeberrimo Cavaliere in rosa è il ritratto in piedi di Gian Gerolamo Grumelli, esponente della potente famiglia schierata con la Spagna, allora ventiquattrenne, cavaliere dello Speron d’Oro e laureato in legge a Padova. Un sontuoso dipinto, dalla finissima fattura del prezioso costume spagnolesco tutto in rosso lacca vibrante di lumeggiature. Qualità pittoriche che esaltano seta e dettagli tattili, dalle scarpette alle calze alte fino al ginocchio, alle pieghe delle brache imbottite su cui Moroni ha saputo “ricamare” decorazioni quasi in filigrana, al farsetto, al leggero colletto bianco. L’impostazione della figura, con la mano sull’elsa della spada, riprende schemi del Tiziano in ritratti della corte di Spagna. Per alcuni è un anticipo del Velázquez” (Goffredo Silvestri, La RepubblicaArte.it)

Più consistente è la sezione ottocentesca, costituita principalmente da paesaggi, molti dei quali opera di Pietro Ronzoni, ma anche da bellissimi ritratti di Cesare Tallone e Giuseppe Sogni. Non mancano infine testimonianze della pittura barocca, come i paesaggi di Pietro Roncelli o le stravaganti bambocciate di Enrico Albricci.

Dipinto di Cesare Tallone nella Sala Gialla

Eccezionali sono le due console settecentesche della Sala da ballo, i cui piani sono costituiti da mosaici provenienti da Villa Adriana a Tivoli; particolarmente interessanti sono inoltre i mobili provenienti dalle botteghe illustri dei Caniana, dei Fantoni e del milanese Giuseppe Maggiolini.

Molto ricca è la collezione di ceramiche, che raccoglie oggetti realizzati da alcune tra le principali manifatture europee attive tra Sette e Ottocento, tra cui Meissen, Wedgwood, Sèvres e Capodimonte, e opere provenienti dal lontano Oriente, unico custode per secoli del segreto della porcellana.

Scultura di bambina che legge, della Scuola del Canova, nella Sala Gialla (Ph Lucia Rota Nodari)

Gli affreschi del Barbelli nelle grandi Sale del piano nobile

I suggestivi ambienti costituiti dalle grandi Sale di Palazzo Moroni conservano un meraviglioso ciclo di affreschi ispirato alle Metamorfosi di Ovidio, realizzato dal 1649 al 1654 da Gian Giacomo Barbelli, qui coadiuvato dai quadraturisti Giovan Battista Azzola e, nella Sala della Caduta dei Giganti, da Domenico Ghislandi, padre del celebre fra’ Galgario.

Dalla Sala dell’Età dell’Oro, custode dei capolavori della quadreria, si accede all’illusionistica Sala della Caduta dei Giganti e alla curiosa Sala dell’Apoteosi di Ercole, in un susseguirsi di meraviglie, ricche prospettive e squarci di cielo nel soffitto.

Gli antichi miti, tanto cari ai pittori del Seicento, lasciano il posto nella grande Sala da Ballo alle gesta degli eroi della Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso.

Suggeriti dal committente Francesco Moroni, i soggetti degli affreschi, sia nelle grandi Sale del piano nobile così come nell’ambiente dello Scalone, ebbero come ispiratore ed interprete il contemporaneo padre Donato Calvi, priore del vicino convento di Sant’Agostino. Preziosa testimonianza del programma iconografico della dimora è un libretto, scritto e pubblicato dall’erudito nel 1655, intitolato Le Misteriose Pitture di Palazzo Moroni, nel quale sono descritte e spiegate con precisione e dovizia di dettagli le decorazioni degli ambienti di rappresentanza (2).

§§§

Nella Sala dell’Apoteosi di Ercole, l’eroe mitologico è su una quadriga dorata; con una mano impugna una clava e nell’altra le redini dei destrieri al galoppo. Gli fanno da contorno sulle nubi Giove, Giunone, Mercurio e Pan.

L’Apoteosi di Ercole, nella sala omonima

 

Sala dell’Apoteosi di Ercole

 

Sala dell’Apoteosi di Ercole

Nella Sala dell’Età dell’Oro (o Sala delle Stagioni), si nota subito l’imponenza di Saturno circondato da putti al centro del plafone, mentre nelle aperture della quadratura, sotto forma di personaggi femminili seduti su basamenti, quattro illustrazioni simboleggiano l’Allegrezza, la Semplicità, l’Abbondanza e la Pace, doti suggerite dai committenti. Sotto di essi vi sono le relative storie, mentre per le pareti, l’Azzola ha usato la medesima tecnica mostrata al Palazzo Terzi, con colori ricorrenti nelle varie rappresentazioni che abbiano un nesso logico.

Nella Sala dell’Età dell’Oro (o delle Stagioni), Il Trionfo dell’Età dell’Oro, fantastica opera di Gian Giacomo Barbelli e dal quadraturista Giovan Battista Azzola. Saturno il dio del tempo e dell’agricoltura si ritrova circondato dalle rappresentazioni della pace, allegrezza e semplicità

Nella Sala della Caduta dei Giganti, decorata dal Barbelli con quadrature di Domenico Ghislandi, ciò che colpisce di più il visitatore è l’immagine dei Colossi che, fulminati da Giove, cadono verso il suolo con gli stessi macigni che si erano portati come armi. Il disegno plastico dei grandi corpi che cadono e l’insieme della composizione regalano un effetto suggestivo, tanto da accentuare l’azione di gravità terrestre e dare l’impressione di un autentico precipitare.

“Il Trionfo di Giove sui Ciclopi” si trova nel soffitto della Sala dei Giganti del Palazzo. Capolavoro seicentesco del pittore cremasco Gian Giacomo Barbelli

Il Salone, dedicato a Torquato Tasso e alla sua “Gerusalemme liberata” è il più ricco di decorazioni. Il soffitto, affrescato in modo da conferire all’ambiente l’illusione di una maggior altezza, raffigura l’atto in cui il Padre Eterno comanda all’Arcangelo Gabriele di informare Goffredo della missione che dovrà compiere in Terra Santa; e quello in cui l’Arcangelo informa Goffredo e un gruppo di angioletti che circonda l’Onnipotente, il quale appare fiducioso di quanto le truppe cristiane si apprestano a compiere.

Il Salone dedicato alla “Gerusalemme liberata” di Torquato Tasso

Il plafone è solo l’inizio di un “racconto”, che continua sulle pareti secondo una stretta concatenazione di eventi-rappresentazioni.

Il Salone dedicato alla “Gerusalemme liberata” di Torquato Tasso

 

Il Salone dedicato alla “Gerusalemme liberata” di Torquato Tasso

 

Il Salone dedicato alla “Gerusalemme liberata” di Torquato Tasso

 

Il Salone dedicato alla “Gerusalemme liberata” di Torquato Tasso. Completano questa magnifica stanza quattro stemmi celebrativi posti agli angoli, dove è raffigurata la pianta del gelso nelle varie fasi dalla crescita: la più importante fonte di ricchezza per la famiglia Moroni

Donato Calvi ha perfettamente eseguito il proprio progetto iconografico, esteso anche ad altre figure allegoriche che commentano la sequenza di disegni. Come le otto statue bronzate dipinte lungo i lati del salone. Quattro sono figure di donna e rappresentano la Fede, la Bravura, la Fatica e la Vittoria. Le altre hanno un aspetto virile e sono dedicate al Consiglio, allo Zelo, al Disprezzo ed al Giubilo.

“Magnanima menzogna, or quando è il vero sì bello, che si possa a te preporre?” (T. Tasso, ‘Gerusalemme Liberata’). Dettaglio di affresco seicentesco del pittore Gian Giacomo Barbelli nella Sala della Gerusalemme Liberata del piano nobile di Palazzo Moroni di  Bergamo

 

Dettaglio di affresco seicentesco del pittore Gian Giacomo Barbelli nella Sala della Gerusalemme Liberata del piano nobile di Palazzo Moroni di  Bergamo

 

Dettaglio di affresco seicentesco del pittore Gian Giacomo Barbelli nella Sala della Gerusalemme Liberata del piano nobile di Palazzo Moroni di  Bergamo

Ai contemporanei può sembrare troppo “pieno” un simile ambiente, ma  colmare le pareti equivaleva a mostrare tutta la propria ricchezza e nobiltà ed anche la simbologia delle immagini rappresentava un ottimo mezzo per raggiungere tale scopo.

Il settore privato del Palazzo: le sale ottocentesche

Nelle sale ottocentesche, che costituivano la residenza privata della famiglia, affreschi dai colori delicati riproducono sapientemente bassorilievi con la tecnica del trompe l’oeil, mentre colori sgargianti e soggetti fantasiosi ricostruiscono mondi classici o l’illusione di paesaggi esotici, come nella Sala Turca o nel Salottino Cinese.

Sala Rosa

Fatti decorare dal conte Antonio Moroni intorno al 1835, questi ambienti – la parte più abitata del palazzo – mantengono l’impronta del passato conservando gli accostamenti e le scelte originarie: negli arredi scelti con gusto, nei preziosi dipinti, nelle tappezzerie, nei soprammobili di autentico antiquariato, nelle specchiere antiche, nei lampadari, nei tappeti, negli ornamenti floreali. Ne risulta un susseguirsi di immagini suggestive e raffinate, sempre allineate ad un’efficace impostazione cromatica.

Sala Rosa

Di queste numerose stanze, restano più di altre impresse le Sale Gialla, Turca e Cinese, dove l’elemento determinante diviene l’arredo e lo stile particolare che le contraddistingue.

La Sala Gialla ha il soffitto a volta decorato con festoni dorati, medaglioni e riquadri con figure policrome di donna rappresentanti il teatro, la musica, la pittura e le arti in genere. Al centro del plafone, figure di fauni e di donne su fondo turchese, che richiama il colore dei riquadri posti all’altezza della cornice perimetrale. Vi è poi una fascia intermedia in chiaroscuro decorata con figure e scene di vario genere.

Sala Gialla, nel piano nobile di Palazzo Moroni

 

Nella Sala Gialla del piano nobile di Palazzo Moroni, posto tra due preziosi vasi Cinesi del ‘700 si ammiria un interessante dipinto ottocentesco del pittore paesaggista tedesco Julius Lange, espressione del naturalismo romantico. Il dipinto fu acquistato dalla famiglia Moroni presso l’Accademia di Brera

 

Sala Gialla

 

Scorcio della Sala Gialla, uno dei luoghi più suggestivi e ricchi di opere d’arte di Palazzo Moroni

Nella piccola ma esemplare Sala Cinese, i medaglioni del plafone sono raccordati da riquadri irregolari che attenuano l’andamento curvo del soffitto; prevalgono i colori celeste e rosso cupo che supportano la decorazione di un paesaggio dipinto con un insolito effetto avvolgente nella parte alta delle pareti. Ai mobili francesi laccati si aggiunge un camino marmoreo su cui spicca una specchiera di rara eleganza. Una seconda saletta ha il plafone decorato sui toni dell’azzurro e del verde intenso con riquadri decorati con ornamenti di fantasia la cui leggerezza attribuisce slancio ed ariosità alle esigue dimensioni del locale. La tappezzeria rosa mette in risalto la preziosità degli arredi.

Sala Cinese

 

Sala Cinese

 

Sala Cinese

Più semplice, dal punto di vista cromatico, la camera da letto con plafone a volta affrescato da una serie di motivi a chiaroscuro ripetuti nella fascia perimetrale sottostante, che si alterna alla tappezzeria damascata grigio-perla. Il letto è sovrastato da un baldacchino drappeggiato.

Palazzo Moroni, le stanze private: la camera da letto

La stanza da bagno, a stucco lucido, conserva invece una vasca in marmo costituita da un unico blocco, la cui realizzazione risale ai primi dell’Ottocento.

Ciliegina sulla torta è la balconata che scorre esternamente lungo il lato verso corte e conduce agli inattesi Giardini, che costituiscono il parco privato più grande di Bergamo alta, un autentico polmone verde nel cuore della città murata, dove i terrazzamenti arrivano a lambire i muraglioni della Rocca.

I Giardini all’Italiana

Sono composti da quattro generose terrazze di impianto seicentesco – impostate lungo la forte pendenza del colle di Sant’Eufemia -, e da un’area vasta, detta “ortaglia”, in parte terrazzata, frutto di annessioni ottocentesche e destinata a colture produttive.

Protetto sul lato verso la corte interna da una balaustra in pietra decorata con vasi scolpiti, il primo terrazzamento è caratterizzato da un parterre formale tipico dei Giardini all’Italiana.

Proseguendo oltre il parterre, un vano passante precede la scalinata racchiusa tra due mura di contenimento che conduce al secondo livello, con scorci sul paesaggio circostante. Qui si possono osservare un grande esemplare di biancospino, sulla destra, collezioni di iris e rose a destra e sinistra.

 

In asse con il primo terrazzamento, un’elegante scalinata adornata alla sommità da statue di putti e vasi scolpiti collega il secondo e il terzo terrazzamento. A destra e sinistra della scalinata si trovano due bordi misti di erbacee perenni.

Il terzo terrazzamento è dominato da un grande esemplare di olmo ed è caratterizzato dalla presenza di sei tassi, potati in forma, e da una collezione di piante acquatiche autoctone.

Sulla sinistra, dei gradini irregolari in pietra conducono all’ultimo livello dei giardini sino alla torretta di San Benedetto, eretta dai veneziani alla metà del Quattrocento e definita: “il pensatoio del Conte” confinante con le proprietà della Rocca.

La torretta di San Benedetto, un tempo utilizzata dai conti Moroni come sala di lettura

Il Parco

A monte del sistema dei terrazzamenti si apre la vasta area del parco, che confina ad ovest con il complesso monumentale della Rocca e che è tuttora caratterizzato da esemplari arborei produttivi come i gelsi, simbolo della famiglia Moroni, i ciliegi e i fichi. Questo luogo è attualmente dedicato a progetti di nuove piantumazioni e ad eventi stagionali con grande affluenza di pubblico.

Veduta del parco, sullo sfondo la Rocca di Bergamo Alta. Negli ultimi anni sono state sviluppate, con progetti localizzati, iniziative volte ad incrementare le collezioni botaniche e a offrire maggiore visibilità ai giardini formali e all’”ortaglia” di Palazzo Moroni: in particolare dal 2015 l’adesione al Chelsea Fringe Festival, nel 2016 con “Sopra e sotto Nettuno”, nel 2017 con “Tracciamento” in collaborazione con L’Orto botanico di Bergamo e la rete degli Orti botanici della Lombardia

Ed infine una curiosità: al pianterreno di Palazzo Moroni sono conservati alcuni affreschi “strappati” dalle pareti del demolito Palazzo Olmo. Tra questi la bellissima Madonna con Bambino e Santi, opera quattrocentesca di artista ignoto.

 

Note

(1) La storia del casato Moroni risale al 1334 e al suo capostipite Sereno Moroni. Un primo ramo si distaccò nel 1390 con Peccino Moroni, un secondo ramo, nato nel 1419 con Marco, diede origine all’attuale dinastia. Dal 1500 al 1850, i Moroni si distinsero per le loro innate capacità tecniche ed intellettuali, espresse tra gli altri dall’architetto Francesco, dall’umanista e storico Antonio, dall’umanista e scienziato Pietro, nonché gli ingegneri Andrea e Bertolasio. Quest’ultimo completò il campanile di S. Maria Maggiore, fu l’autore di un ponte sull’Adda e, su incarico del Senato veneziano, di un ponte sull’Adige.

(2) Cfr. Il testo edito a Bergamo nel 1655: “Le Misteriose pitture di Palazzo Moroni spiegate dall’Ansioso Accademico Donato Calvi Vice Principe dell’Accademia degli Eccitati all’Illustrissimo Sig. Francesco Moroni”.

Le bocche delle denunce a Bergamo e qualche luogo comune da sfatare

Forse a qualcuno è sfuggita la rocambolesca vicenda che qualche anno fa si è svolta nel Consiglio comunale di Bergamo: un’interrogazione presentata dalla Lega Nord, che ha avuto per protagonisti Palazzo Calepio, edificio storico ubicato in via Osmano angolo via Porta Dipinta (nonchè abitazione del sindaco Gori) e una lapide risalente all’epoca veneta, che sembrava svanita nel nulla.

La lapide cui si alludeva, non era altro che un resto della “Bocca delle denunce segrete”, una sorta di buca delle lettere in pietra, con una feritoia orizzontale, nella quale ai tempi della Serenissima i delatori introducevano messaggi anche anonimi. Si tratta di una versione semplificata delle più elaborate “Bocca delle denunzie segrete” presenti in discreto numero a Venezia. Nella foto, la lapide com’era prima della ristrutturazione di Palazzo Calepio, avvenuta qualche anno fa (Credits Photo Bergamosera)

Nell’interrogazione Ribolla, consigliere della Lega, sottolineava l’importanza storica della lapide che rappresenta una “Bocca delle denunce segrete”, un manufatto “citato in particolare nell’estratto della carta tecnica comunale Pr8-Vincoli e tutele, vincolo 89, del piano delle regole del Pgt. E nei libri di Bortolo Belotti ‘Storia di Bergamo e dei bergamaschi’ e di Vanni Zanella ‘Bergamo città’ del 1977”, come si legge nell’articolo dell’Eco di Bergamo.

Ribolla chiedeva a sindaco e assessori se non ritenessero “opportuno accertare quanto prima gli eventi che hanno portato alla presunta eliminazione della storica lapide da Palazzo Calepio, sottoposto a vincolo culturale, auspicando che tale lapide non sia andata perduta e che, al contrario, sia al più presto ripristinata”.

La querelle fu prontamente risolta dal sindaco Gori, che in serata replicò rassicurando il consigliere leghista con una fotografia della storica lapide, scattata di persona, e dichiarando che in realtà la lapide “È sempre lì”, sulla facciata nord del palazzo in cui si trova il mio appartamento” (1).

La lapide delle denunce segrete di Palazzo Calepio, immortalata dal sindaco G. Gori. Le buche delle delazioni erano destinate a ricevere le denunce più svariate: contro “bestemmiatori e irriverenti contro la Chiesa”; contro usurai e “contrati usuratici”; contro “danneggiamenti dei boschi de la provincia”; contro “contrabandieri e trasgressori di pane e farine” (E. Roncalli per www.ecodibergamo.it). Bortolo Belotti nella sua “Storia di Bergamo e dei bergamaschi” scrisse che le pene previste passavano dalla bastonatura ai tratti di corda, dalla bollatura allo strangolamento, fino allo squartamento

Com’era dunque possibile che un manufatto di tale portata, che si trova sotto il davanzale di una delle finestre della facciata, potesse sfuggire allo sguardo indagatore del consigliere Ribolla (e non solo)?

La risposta è alquanto semplice e dipende dal fatto che un tempo la bocca era raggiungibile a livello della strada in quanto il terreno circostante era maggiormente elevato, mentre le trasformazioni avvenute la rendono oggi in posizione elevata e poco visibile.

Cassela o bocca di pietra, con maschera ed epigrafe (Treviso, Casa da Noal, Via Canova)

L’antica pratica della Denuncia Segreta (2), che garantiva l’accusatore da un’eventuale vendetta da parte del denunciato, era una consuetudine molto diffusa nella Repubblica di Venezia, ma nonostante tale sistema incentivasse la delazione (“per la gioia di corvi e spioni, traditori e sicofanti, informatori e confidenti”), bisogna tenere presente che esso era soggetto ad un rigoroso – almeno sulla carta – sistema di “autoregolamentazione” in quanto le denunce, pur garantite dal segreto, non potevano rigorosamente essere anonime, pena la loro distruzione (“rigettate e subito bruciate”).

Al di là della correttezza o meno dell’applicazione delle leggi, va comunque considerato che la segretezza della denuncia restava una condizione necessaria alla sicurezza dello Stato (uno Stato comunque più evoluto rispetto a molti altri stati dell’epoca), e quando le denunce anonime riguardavano il suo interesse, esse venivano sottoposte all’attento vaglio del Consiglio dei Dieci(massimo tribunale preposto alla sicurezza dello Stato che a Venezia amministrava l’attività penale della giustizia), che in caso positivo procedeva seguendo la medesima prassi delle denunce firmate o presentate personalmente (3).

“Cassela” o bocca di pietra senza maschera, con epigrafe, Venezia, Palazzo Ducale (già loggia ovest, piano terra, ora deposito museale). I Savi dei Dieci e i Consiglieri dei Dieci accettavano le denunce anonime solo se si trattava di affari di Stato, con l’approvazione dei cinque sesti dei votanti. Era necessario indagare scrupolosamente per stabilire la verità, con giustizia e chiarezza, non giudicare nessuno in base ai sospetti, ma ricercare le prove concretamente, ed alla fine pronunciare una sentenza pietosa

In questo caso il povero imputato era costretto a difendersi da solo, non avendo diritto alla difesa (4).

Bocca di Leone per le Denontie secrete contro chi occulterà gratie et officii o colluderà per nasconder la vera rendita d’essi (denunce segrete contro l’occultamento di rendite provenienti da grazie e doveri concessi o esigiti dallo Stato). L’immagine ritratta in fotografia si trova lungo Riva degli Schiavoni all’interno dei portici di palazzo Ducale a Venezia (dove l’attività penale della giustizia era amministrata dal Consiglio dei Dieci), il luogo che presumibilmente i dogi di Venezia avevano adibito a raccolta di denunce per segnalare antichi evasori fiscali. Accanto al Consiglio dei Dieci esercitavano anche gli Inquisitori di Stato, la cui costituzione avvenne nel 1539 col nome di “tre inquisitori sopra qualunque si potrà presentir di haver contrafatto alle leggi, et ordini nostri circa il propalar delli segreti”. Il rito inquisitorio instaurato dal Consiglio dei Dieci era fondato sulla segretezza in ogni fase del procedimento. Con le formalità procedurali ridotte al minimo e senza poter contare sulla difesa di alcun avvocato, in completa balia degli Inquisitori, l’imputato aveva l’onere della prova. In tutto ciò gli accusatori e i testimoni restavano segreti (Tarocchi e inquisitori)

La denuncia segreta si attuava mediante particolari contenitori (chiamati “cassele”), simili alle odierne cassette postali, disseminati per la città di Venezia e in particolare nei pressi e all’interno del Palazzo Ducale, destinati a raccogliere le denunce segrete destinate ai Magistrati.

Cassetta postale a “bocca di leone” per le denunce segrete nel Sestiere di Dorsoduro a Venezia. Dal 1310, dopo la congiura di Baiamonte Tiepolo furono costruite a Venezia diverse Bocche di Leone o Bocche per le denunce segrete, distribuite almeno una in ogni sestiere, vicino a collocazioni della Magistratura, a Palazzo Ducale o alle chiese, e servivano a raccogliere notizie, delazioni o segnalazioni contro coloro che si macchiavano dei crimini più vari. Solo i Capi del Sestiere potevano accedere al retro del muro dove erano poste le varie cassette, le cui chiavi venivano tenute dai Magistrati, ed ognuna di esse raccoglieva le delazioni per un tipo diverso di reato: dalle accuse di evasione delle tasse, a quelle che riguardavano i bestemmiatori, e varie altre (Venezia Nascosta)

Nelle “cassele” i delatori introducevano segnalazioni dei reati più svariati, dalle bestemmie agli illeciti contro il patrimonio, alla corruzione, ai brogli elettorali, contro i fabbricanti di gazzette – monete dal valore di due soldi –  false, ecc., e sebbene molto spesso si trattasse di delazioni prive di ogni fondamento, dovute all’invidia o all’odio di una persona verso l’altra, altre volte queste segnalazioni salvarono anche la stessa sicurezza della Serenissima.

Un esempio di Bocca delle denunce segrete in materia di religione

Il nome di bocche deriva dal fatto che tali contenitori recavano spesso, esteriormente scolpito, l’aspetto di fauci spalancate, al disopra della dicitura del tipo di denunce che erano destinate a raccogliere.

Il fatto, poi, che spesso tali bocche fossero rappresentate in forma di muso leonino, a ricordare il leone di san Marco, simbolo dello Stato veneziano, è all’origine del comune nome di Bocche di Leone (in veneziano: Boche de Leon), o Bocche per le Denunce Segrete (Boche per le Denunzie Segrete), entro cui l’accusatore introduceva il suo messaggio.

Cassetta postale a “bocca di leone” per le denunce segrete, nella Chiesa di San Martino a Venezia, dove le bocche per le denunce segrete si possono tutt’ora ammirare, per la loro spettacolarità, anche sul muro della chiesa di S. Maria della Visitazione alle Zattere e quella di S. Moisè a San Marco

Si vocifera che a Bergamo vi fossero almeno altri due esemplari di Bocche delle denunce segrete: uno nel rione di Boccaleone in via Gabriele Rosa (da cui per qualcuno deriverebbe il toponimo della località), mentre l’altro pare fosse collocato sul muro dell’antico ospedale San Marco (poi ospedale Maggiore), che probabilmente in virtù della sua vicinanza all’edificio della Fiera, recava incise le seguenti parole: “Denonzie segrete in materia di biave e castagne”.

Ma il toponimo “Boccaleone” era già in uso nel 1200, quando si chiamava “Oris Leonis” e poi “Bouchalionum”, molto prima quindi dell’avvento a Bergamo della Repubblica di Venezia.

Un esemplare in bergamasca di “Bocca delle denunce” perfettamente conservato, si trova invece a lato di un portone di ingresso del palazzo di Clusone, dove si può notare ancora la lapide delle “Denonzie secrete in materia di sanità anno 1795”.

Piazza dell’Orologio e facciata meridionale del Palazzo Comunale, Clusone. “Accanto al portone principale d’ingresso possiamo trovare l’urna per le “denonce secrete”: Clusone è stata soggetta al dominio della Serenissima (all’interno del cortile troviamo una lastra marmorea che ricorda la dominazione veneta) e qui, come in gran parte dei territori, c’erano delle buche per le denunce anonime alle Autorità. Quella nei pressi del portone principale del palazzo comunale di Clusone riguarda la violazione delle norme sulla sanità” (5). (Credits Photo: i3sbox)

 

Clusone, Palazzo Comunale: bocca delle denunce segrete in tema di sanità. (Credits Photo i3sbox)

E per concludere, una curiosità.
L’atto primo dell’opera La Gioconda di Amilcare Ponchielli s’intitola “La bocca del leone” perché uno dei personaggi, Barnaba, durante il monologo “O monumento!”, inserisce proprio in una bocca di Leone una denuncia che accusa i due amanti Enzo e Laura.

Note
(1) Da www.ecodibergamo.it
(2) La pratica della Denuncia Segreta è riscontrabile negli Statuti medievali di moltissime città. Vari sono i termini che denotano questo tipo di denunciante: persona secreta, fin’hora secreta, per hora secreta, ecc. “Lo storico Paolo Preto ci informa su questo particolare tipo di denuncia: «Come si scrive e si inoltra una denuncia segreta? Il denunciante secreto, o chi agisce per conto di persona secreta che si riserva di comparire in un secondo momento, scrive, o si fa scrivere da altri, se è analfabeta o non vuol correre il rischio di far riconoscere la propria calligrafia, la polizza, cedola, scrittura, denuncia, su un foglio di carta e lo chiude in una busta con il nome della magistratura, o del magistrato in carica in quel momento; se chiede una taglia, una voce liberar banditi o altro compenso previsto dalla legge, precisa che comparirà, o di persona o tramite terzi, per la riscossione, e munisce la denuncia di un contrassegno, stracciando un lembo del foglio (o di un altro piccolo foglio allegato) su un riquadro dove è disegnato un ghirigoro e si trattiene lo scontro o incontro (cioè il lembo stracciato), che poi esibirà, o farà esibire, “per conseguir il premio ed beneficio”: oppure pratica un taglio circolare, della dimensione di una lente di occhiale, e trattiene la “particola” di carta. Spesso la denuncia viene inoltrata direttamente al magistrato, o al suo segretario, in ufficio o anche nella sua abitazione, chiusa in una sopracoperta, cioè una doppia busta, per meglio conservare la riservatezza o l’anonimato; talvolta è consegnata a un nobile estraneo alla magistratura cui si riferisce, il quale poi la consegna ai Dieci. C’e chi la manda per posta ordinaria (ma è caso raro), chi tramite un amico o un fante della magistratura; chi risiede in terraferma, e non si fida (caso frequente) di consegnarla a un rettore o altro magistrato locale e neppure di infilarla in una cassella o bocca di pietra, la manda per corriere, in sopracoperta, ai Dieci o agli Inquisitori, o ai loro segretari e fanti, o a un amico veneziano, che poi ne cura l’inoltro” (Tarocchi e inquisitori).
(3) “E occorreva il giudizio positivo dei 5/6 del Consiglio ( che in realtà era formato da almeno 17 persone) perché la segnalazione anonima fosse mandata avanti e non respinta. L’azione giudiziaria si apriva poi con un’altra ballottazione che doveva ricevere i 4/5 dei consensi e che poteva ripetersi fino a cinque occasioni successive. Solo a questo punto l’indagine seguiva la prassi comune alle denunce firmate o presentate personalmente”(Andreina Franco Loiri Locatelli per Bergamosera).
(4) “Ben diverse erano le procedure riguardanti denunce di reati privi di risvolti politici. Eliminate le segnalazioni anonime, quelle firmate facevano il loro corso presso i tribunali ordinari dei diversi gradi. Le prove venivano in genere escusse in pubblico e gli imputati avevano diritto alla difesa. I non abbienti venivano difesi da avvocati d’ufficio. L’istituto del gratuito patrocinio fu presente a Venezia fin dal Duecento e considerato obbligatorio anche per i rei confessi o per gli imputati che rifiutavano la difesa” Andreina Franco Loiri Locatelli per Bergamosera).
(5) Bergamogreen, “Clusone: fra arte, religione e cultura”.