Il Castello di San Vigilio e la sua evoluzione nella storia

Nel lungo corso della storia di Bergamo, con i suoi 496 metri di altitudine il colle su cui è sorto il Castello di S. Vigilio ha sempre costituito il luogo privilegiato di avvistamento per la difesa della città. Data l’ampiezza della visuale, dalla sua sommità era possibile controllare una vastissima porzione di territorio, dall’imbocco delle valli principali – Brembana e Seriana – all’antica Val Breno e l’intera spianata di Almenno, per arrivare alla pianura e ai centri posti all’imbocco della Val San Martino. La posizione preminente del colle, cardine del sistema orografico dei colli nel territorio cittadino, permetteva di  osservare i movimenti dei nemici decidendo le opportune contromisure, ed è quindi probabile che sin dall’occupazione romana vi sorgesse una torre di avvistamento.

Ubicato allo sbocco delle due principali valli bergamasche – Brembana e Seriana – il nucleo storico di Bergamo (nel medioevo denominato “Mons Civitatis”) è posto sullo sperone sud-orientale di un lunga dorsale collinare isolata, che alle spalle della città si prolunga verso ponente fino a Sombreno, culminando nel Monte Bastia, massima elevazione dell’intero corrugamento orografico

 

La preziosa foto aerea del 1924 mostra il rilievo su cui sorge il Castello (circa 496 m. slm), perno della dorsale maestra del sistema collinare, culminante nel vicino Monte Bastia (518 m. slm), e comprendente l’altura del Corno (472 m. slm)

 

Dal Castello si gode di una visuale a 360° sulla città, sulla pianura, sull’imbocco delle valli e sulla catena montuosa delle Prealpi Orobie

La sua posizione eminente rispetto alla città antica, ne fa il punto privilegiato da cui osservarne il lato migliore, che si offre ai nostri sguardi attraverso il tondo profilo del colle di San Giovanni.

Per la sua posizione particolarmente esposta rispetto al colle di S. Vigilio, il colle di S. Giovanni ha sempre costituito il punto più vulnerabile della città  (Racc. Gaffuri)

Avvenente protagonista delle nostre scorribande fotografiche, il colle su cui oggi sorge il Seminario era alquanto vulnerabile, essendo le sue difese particolarmente esposte ad eventuali assalti provenienti dal Castello di S. Vigilio.

La città alta con in primo piano il colle di S. Giovanni (rappresentato dalla mole del vecchio Seminario), ancora provvisto di alcune delle torri della trecentesca Cittadella viscontea, poi scomparse. A sinistra sono visibili i possenti contrafforti del Forte di S. Marco Inferiore

Se infatti la parte sud-orientale di Città Alta era ben protetta dall’altura di S. Eufemia (dal Trecento non casualmente occupata da una rocca), aprire una breccia nelle fortificazioni che cingevano il colle di S. Giovanni era più facile che altrove: come avvenne nel IX secolo, quando nel corso delle le lotte che dilaniavano l’Italia, dal “Castellum” gli assalitori capeggiati da Arnolfo di Carinzia devastarono le mura, e, conquistata la città, distrussero il fortilizio.

Bergamo dal Castello di S. Vigilio: una delle vedute più belle rappresentate della città

Fu così impartita a Bergamo una grande lezione, e cioè quella dell’importanza strategica del forte sul colle, che troppo distante per essere incluso nella cerchia delle mura urbane, verrà potenziato a più riprese nel corso dei secoli.

Gran parte della storia del Castello risulta quindi fortemente condizionata da questa circostanza, che in ogni periodo storico ne ha fatto il punto privilegiato da cui partire per assalire la città. Per questo motivo, di pari passo con le grandi trasformazioni del nucleo urbano ed ogni volta che si poneva mano alle fortificazioni della città, questa fortificazione è sempre stata oggetto di particolare scrupolo e attenzione, per quanti erano incaricati della difesa di Bergamo.

Il Castello di San Vigilio, posto sulla cima dell’omonimo colle, fuori la cerchia delle Mura veneziane di Città Alta, ha costituito nei secoli una strategica porta d’accesso verso la città. Nell’immagine, risalente al 1920, è osservato dalle pendici del monte Bastia e pertanto la didascalia posta in calce alla fotografia è errata

Il Castello, posto a capocroce della dorsale maestra, in riferimento alla direttrice nord-sud manteneva un perfetto controllo, spaziando da Sudorno (m 432 slm) al monte Casnida (Castagneta) per arrivare all’intestatura del Pianone (m 378 slm).

Il nucleo di Borgo Canale e l’imbocco di Sudorno, dominati dal Castello di S. Vigilio

Ma lo stesso non poteva dirsi per la sovrastante altura della Bastia che, seppur più alta di 22 m rispetto alla sommità di S. Vigilio ma da esso distante di appena 300 passi, poteva costituire un serio pericolo per lo stesso Castello: per questo motivo la Bastia è sempre stata oggetto di opportune attenzioni in ordine alla difesa della città.

Con i suoi 518 metri di quota il colle della Bastia, in antico denominato (anche da Mosè del Brolo nel 1120) “Mons Milionus”, è la massima elevazione prossima al Castello di S. Vigilio. In età viscontea vi viene costruita una fortificazione per l’avvistamento e la segnalazione di movimenti sulle direttrici del teatro occidentale della città, svolgendo quindi un’efficace azione di antemurale che rafforzava il ruolo difensivo della “Cappella”

Purtroppo, nonostante l’abbondanza delle fonti, non è semplice ricostruire con certezza l’evoluzione storica del fortilizio  – primo e vero manufatto realizzato sul colle -, in quanto non esiste un’indagine approfondita che ne chiarisca le continue trasformazioni, i rinnovamenti e le vicissitudini che lo hanno visto protagonista.

Il torrione Belvedere, costruito in epoca veneta e rivolto verso Monte Bastia, l’altura che è stata oggetto di particolari attenzioni, tanto da dettare le nuove opere realizzate attorno al Castello. Per contenere un eventuale assalto proveniente dalla Bastia, si arrivò persino a prendere in considerazione l’eventualità di abbassarne la cima perché in caso di attacco il nemico avrebbe potuto piazzarvi dei cannoni con cui colpire i difensori del Castello

Alcuni documenti attestano la presenza di un “Castellum Bergomense” sul Colle di San Vigilio nel 538 d.C. ai tempi di Giustiniano; lo stesso ricordato dal Mazzi già nel 395 d.C. Il Castellum è citato anche nell’894 d.C. in un documento rilasciato dal figlio di Carlo Magno, Arnolfo di Carinzia.

Bergamo Alta con sullo sfondo il colle di S. Vigilio e il suo castello

Denominato anche ‘Cappella’ per la presenza in loco nel IX secolo di un piccolo insediamento di monaci, il Castellum viene individuato dal Comune di Bergamo a partire dal 1167, come essenziale per la difesa della città. Ampliato e completato dai Visconti nel 1336, subisce modifiche e rinforzi durante e dopo la costruzione delle Mura veneziane, quando si distingue per i suoi quattro torrioni circolari perimetrali con cortina di pietra a blocchi, costruiti verso la fine del Quattrocento nel quadro dei lavori di ristrutturazione e ampliamento della Cappella, disposti dalla Repubblica Veneta: da quel momento l’edificio costituirà un apparato difensivo sufficientemente sicuro.

Dai torrioni del Castello di S. Vigilio (denominati Castagneta, Belvedere, Ponte e S. Vigilio), di cui emerge la struttura d’epoca Veneta, si può immaginare che gli armigeri del tempo vigilassero sul territorio ed ancor’oggi restano i punti più maestosi e suggestivi dell’antico fortilizio

E sarà in epoca Veneta che l’assillante timore di un attacco proveniente dalle colline di  ponente porterà non solo a un continuo rimodellamento del Castello, ma anche a condizionare fortemente la costruzione della porzione settentrionale delle mura – sicuramente la più bella e meno conosciuta –, che da Porta San Lorenzo a Porta S. Alessandro andrà a costituire il cosiddetto “Forte di San Marco” (m 423 s.l.m.), frutto di lavori grandiosi, particolarmente attenti a contenere un eventuale assalto dal colle di San Vigilio, dalla Bastia e dall’attiguo monte Corno.

La parte occidentale del Forte di S. Marco rivolta verso Borgo Canale e l’imbocco di Sudorno. Ai piedi dei baluardi corre la funicolare per S. Vigilio

Ed è soprattutto con questo sguardo che dobbiamo osservare oggi la “Cappella”, parte integrante (seppur disgiunta) dalla cinta bastionata: la fortezza inizia qui e da qui si spiega. Non sorprende dunque che dall’inizio della costruzione delle Mura veneziane fino a tutto il Seicento, il Castello di S. Vigilio sia stato continuamente oggetto di adattamenti in rapporto a tutto l’imponente apparato difensivo posto sul fronte di ponente del Colle di Bergamo.

La piattaforma alberata del Castello, ora Parco pubblico, circondata dai quattro torrioni con la loro superficie curva appositamente studiata per attutire i colpi delle artiglierie, deviandoli al momento dell’impatto e riducendone la capacità penetrativa e distruttiva

Per la posizione privilegiata, per la ricca e documentata vicenda storica che forma una trama di forte significato, per le preesistenze e le strutture presenti, il Colle di S. Vigilio è quindi identificato, come pochi altri luoghi di frangia, quale reale perno del divenire e dell’esistenza stessa della città di Bergamo.

LE ORIGINI ALTO MEDIOEVALI DEL CASTELLO

Sappiamo che nella zona si era insediata una piccola comunità ecclesiastica, che vi aveva costruito una chiesuola intitolata a Santa Maria Maddalena, particolarmente venerata in Provenza e per tale motivo forse sorta durante l’occupazione carolingia del IX secolo. Le dimensioni del luogo sacro erano tuttavia molto ridotte, tanto che questo non veniva identificato come santuario o chiesa, ma con l’appellativo di “Capella”: uno dei nomi con cui è nota la località sin dall’altomedioevo.

L’altro nome era “Castellum”, e a conferma del ruolo strategico rivestito da questo luogo, l’appellativo si lega all’assalto alla città da parte di Arnolfo avvenuto nell’894 nel corso delle dispute tra Berengario e Guido da Spoleto per il possesso della corona d’Italia dopo la deposizione, avvenuta nell’ottobre del 887, di Carlo il Grosso, ultimo imperatore della dinastia carolingia: l’assalto di Arnolfo, figlio di Carlomanno di Baviera, è la prima notizia di una fortificazione militare sul colle di S. Vigilio.

Bergamo trecentesca Xilografia da Supplementum Chronicarum, di Jacopo Filippo Foresti, Venezia, 1486 (Bergamo, Biblioteca Civica)

In quell’anno, chiamato in suo sostegno da Berengario del Friuli, Arnolfo scese in Italia. La città di Bergamo e il suo conte Ambrogio si mantennero fedeli al marchese Guido da Spoleto, rivale di Berengario. La città ribelle fu quindi posta sotto assedio dalle truppe tedesche.

L’assalto investi dapprima proprio il “Bergomense Castello”, che fu difeso strenuamente dal chierico veronese Gotefrido, ma i difensori furono sopraffatti e questi giustiziato.

Proprio dal castello conquistato Arnolfo diresse l’assalto alla città e aperto un varco nelle mura, diroccate e sbrecciate in più parti (scrive il Mazzi: “battute in mille maniere da questo lato”, e cioè verso il colle di S. Giovanni), Bergamo fu saccheggiata, smantellata la cinta della mura e la Cittadella Alessandrina devastata con la sua Basilica.

Particolare della lapide realizzata dall’Ing. Luigi Angelini (1961), affissa sul muro retrostante la colonna di Borgo Canale. La lapide reca incisa la planimetria della Cittadella Alessandrina, devastata dalle truppe tedesche di Arnolfo di Carinzia nell’894 (“diruta et combusta remansit” – “Codex diplomaticus” di Mario Lupo). Solo dopo molti anni, quando il borgo e la vita torneranno a rifiorire, il vescovo Adalberto provvederà alla sua ricostruzione (la Cittadella verrà definitivamente distrutta nel 1561 con l’erezione delle nuove mura edificate da Venezia)

Come riportato dal Mazzi (1), dopo queste distruzioni compare la prima notizia dell’esistenza del Castello, dal quale il 1 febbraio 894 Arnolfo emise il diploma con cui donava i beni confiscati al chierico Gotefrido (che tanto ostinatamente aveva resistito) alla Cattedrale di S. Vincenzo, che si era mantenuta fedele alla corona di Berengario mentre il vescovo e i canonici di S. Alessandro avevano aderito al suo antagonista.

Il conte Ambrogio fu impiccato davanti a una porta della città (l’unica città ad opporre resistenza, fidando nella sua firmissima munitione), mentre il vescovo Adalberto fu fatto prigioniero.

Nel corso delle lotte, il Castello in cui Arnolfo si era barricato e che tanto filo da torcere aveva dato agli oppositori, venne distrutto.

Il termine “Castellum” restò comunque in uso per due secoli e mezzo come riferimento topografico (come citato in un documento del 1032), presto affiancato dalla denominazione di “Cappella” con riferimento esplicito alla cappella di S. Maria Maddalena, proprietaria delle terre su cui sorgeva il diruto Castello: in un atto del 1112 si trova infatti “in Monte ipsius Civitatis ubi diritur ad Capellam”.

Successivamente l’appellativo di “Cappella” prevalse nella documentazione e l’edificio divenne elemento iconografico dominante nella rappresentazione della città. Chiaramente visibile nel disegno quattrocentesco conservato presso la Biblioteca di Mantova.

La più antica immagine della città è – a parte il conio delle antiche monete bergamasche del sec. XIII limitata alla sola raffigurazione della Basilica Alessandrina -, un disegno, di cui non si conosce l’autore, contenuto nel codice agiografìco della Biblioteca Civica di Mantova del 1450. Le mura accerchiano una città nella quale lo spazio interno già saturo, obbliga a uno sviluppo edilizio in verticale. Nello skilyne due-trecentesco emergono le aste dei campanili e appena al di sotto i tetti delle case a più piani, rare le torri che si ergono al cielo, come rileva Mosé del Brolo nel suo Liber Pergaminus del XII secolo. La spinta ascensionale è resa efficacemente nel disegno raffigurante alcuni monaci nel Prato di S. Alessandro. La città è arroccata sul monte, “costretta” tra la Rocca e la Cittadella, protetta dalla Cappella posta sull’altura a occidente (Monica Resmini, cit. nei riferimenti)

IL CASTELLO IN EPOCA COMUNALE 

L’esperienza traumatica dell’assalto subito da parte di Arnolfo, rimase di certo ben presente ai Bergamaschi tanto che nel XII secolo, durante le contese tra la nascente Lega Lombarda e l’imperatore di Germania Federico I di Svevia detto il Barbarossa (calato in Italia con un potente esercito), ogni città coinvolta (oltre a Bergamo, Brescia, Mantova, Cremona e successivamente Milano) provvide a rinforzare le proprie difese.

Bergamo ampliò la cinta muraria ricostruendo le parti rovinate e poi, riconoscendogli un ruolo strategico nel sistema difensivo, mise mano al fortilizio sul colle.

Non è dato di sapere come fosse il Castello prima della sua distruzione, ma di certo il nuovo manufatto superava il precedente per dimensioni e dava maggiori garanzie per la difesa di Bergamo: è infatti del 1167 il rialzamento del recinto e del mastio (hedificatum est castrum et turris), la torre eretta a ribadire il ruolo strategico del fortilizio, e da questo momento la Cappella diviene simbolo della libertà comunale della città. Al centro della piazza d’armi troneggiava così la riedificata “turris” coperta, circondata da un “castrum”, termine che designava il muro merlato. Si ebbe inoltre cura che la fortezza fosse vigilata da una conveniente guarnigione e da custodi.

Per realizzare la nuova fortezza il Comune dovette espropriare alla chiesetta di S. Maria Maddalena quel terreno che da oltre due secoli era passato di sua proprietà, cedendole in cambio un altro appezzamento di terra all’Acqua Morta, sopra Astino.

I lavori di fortificazione alterarono lo stato dei luoghi, come testimonia nel 1160 un lascito del prevosto Lanfranco Rivola alla chiesa di S. Maria Maddalena, per l’edificazione di una nuova cisterna.

Proprio in questo periodo, la denominazione di “Castellum”, per indicare il fortilizio di S. Vigilio, iniziò ad essere sostituita da quella di “Cappella” (in un atto del 1175 il colle di S. Vigilio è denominato monte della Cappella), che rimase poi sino al termine della dominazione veneta.

DAL COMUNE AI VISCONTI 

E nel 1229 la denominazione di Cappella si era addirittura estesa al riedificato fortilizio: un atto attesta infatti la chiesa di Santa Maria della Cappella che sorgeva presso il castello della Cappella.

Dallo statuto del 1248 si evince che la città intende prestare una maggior cura alla manutenzione del fortilizio, dotandolo anche di un guardiano: nel giuramento del Podestà Giovanni Brolo, troviamo che aveva l’obbligo di fare custodire la Cappella da “buoni e leali cittadini” che avessero un patrimonio di almeno 100 lire imperiali e che la “turris cappelle” fosse tenuta in ordine in modo che i custodi vi potessero salire e starvi di guardia.

Per la difesa della città il comune prestò quindi al fortilizio un’attenzione particolare, non permettendo che andasse in rovina; ed altrettanto fecero i vari signori che dominarono di Bergamo, che lo vedevano non solo come uno strumento per atterrire i propri oppositori ma anche come un mezzo per controllare la popolazione.

Infatti, quando nel 1331, terminata l’età comunale venne conferito il potere signorile sulla città di Bergamo a Giovanni di Boemia, si stabilì la costruzione della Rocca sul colle S. Eufemia e la fornitura per la Cappella di vettovaglie e provviste per almeno sei mesi.

Passata in un lampo la meteora del re boemo, nel settembre 1332 Azzone Visconti, duca di Milano, si impadronì di Bergamo e tre anni dopo, nel 1345, il suo successore Luchino Visconti si dedicò al rafforzamento della Cappella e al restauro delle mura della città (2).

Lo stralcio di un’iscrizione (“Hos condi fecit muros”), ora dispersa, ricordava dei lavori di restauro e delle migliorie fatti eseguire nel 1345 dall’allora incaricato podestà e capitano Negro da Pirovano, che eresse muri provvisti di merli e feritoie che formavano un circuito lungo circa 186 metri.

La descrizione prosegue indicando l’ingresso al fortilizio che si affacciava verso la città, a oriente, e precisando che la chiesuola di S. Maria Maddalena rimaneva all’esterno dell’apparato murario, ma ad una quota inferiore per non ostacolare la difesa.

Nel periodo signorile la Cappella, nome con cui ormai usualmente era indicato il forte, venne sempre fornita di una guarnigione, che più che alla difesa della città era ormai espressamente dedicata al suo controllo: essa ormai non rappresentava più il propugnacolo della libertà cittadina, ma uno strumento di soggezione.

IL MONS MILIONUS DIVIENE COLLE DELLA BASTIA 

Quando nel 1373 le Valli e in particolare quella di S. Martino, si ribellarono a Barnabò Visconti, nel rinsaldare le difese bergamasche suo figlio Ambrogio edificò sul Mons Milionus una bastia (o bastita), una fortificazione campale in muratura, completata con recinto merlato, la cui fossa fu terminata il 2 maggio di quello stesso anno.

Dominando la parte occidentale, la bastia controllava anche visivamente lo sbocco delle valli ribelli, comunicando con altre postazioni viscontee – le fortezze di Mapello e Carvico e più tardi di Sombreno, rimaste fedeli ai Visconti – mediante segnali di fumo o luci notturne.

Da quel momento il Mons Milionus assunse il nome di “Bastia” (che ancor’oggi pronunciamo con l’accento sulla “a”) e annoverata tra le fortezze della città venne fornita di un regolare presidio, che sappiamo ancora esistente nel 1407. Quando poi, scalzando Barnabò, il nipote Giangaleazzo Visconti prese il potere, il castellano della Bastia, Antonio de Mussi di Crema, si affrettò a consegnarla al nuovo signore.

Su questo colle alla fine del Cinquecento il da Lezze vide ancora le fondamenta di una torre, nel mezzo della quale si trovava una cisterna, con un’altra lì accanto.

All’inizio del Quattrocento, sotto il caotico governo di Giovanni Maria Visconti, la Cappella, unitamente alla Rocca e alla Cittadella era difesa dal ghibellino Giovanni Suardi. Con il consenso del duca di Milano questi consegnò Bergamo nelle mani di Pandolfo Malatesta (riservandosi però il controllo della Cappella e del vicino colle della Bastia, già attrezzato di difese), il quale rimase fino al 1419 allorché il nuovo duca, Filippo Maria Visconti, affidò al Carmagnola l’incarico di riconquistare la città.

Il condottiero del duca comprese ben presto che se voleva conseguire un rapido successo militare doveva innanzi tutto conquistare la Cappella, cosa che fece rapidamente corrompendo il Guastafamiglia, che l’aveva in custodia. Fu uno dei momenti sanguinosi della contesa tra Milano e Venezia (3).

La resa di Bergamo al Carmagnola (1427), dettaglio – Opera di Antonio Vassillacchi, l’Aliense (1556-1629) – (Sala della Bussola, Palazzo Ducale, Venezia)

Già nel 1432 sotto i Veneziani, tra le fortezze cittadine in cui erano gli stipendiati la Bastia non è più nominata. Ma non per questo incute meno timore, tanto che tutte le nuove opere realizzate attorno al forte della Cappella saranno dettate dalla presenza del sovrastante colle della Bastia. Per quest’ultimo furono anche predisposti vari progetti per rendere più ardua la comunicazione tra i due colli e per farvi nuove fortificazioni. Si prese anche in considerazione la possibilità di abbassarne la cima, perché in caso di attacco il nemico avrebbe potuto piazzarvi dei cannoni con cui colpire i difensori del castello. Ma quest’opzione venne accantonata, lasciando intatto l’adiacente paesaggio collinare.

IL DOMINIO VENEZIANO

Nel 1428 Bergamo entrò a far parte della Serenissima, che pose da subito un presidio nella Cappella (nel 1429 vi era castellano Benedetto della Stoppa), individuata come cardine difensivo della città.

Alcune opere di rafforzamento verranno intraprese dalla Repubblica Veneta solo dal 1482 conferendo alla struttura un ruolo di primissimo piano nella gestione della città, ma già qualche anno prima dell’edificazione dei quattro torrioni, lo studioso veneziano Marin Sanudo, in visita a Bergamo nel 1483, afferma che “Chi à la Capella è signor di Bergamo”.

Schizzo schematico di Marin Sanudo (Venezia, 1466 – 1536) raffigurante il castello della Cappella in S. Vigilio (1483). Il Sanudo, uno dei più importanti cronisti dell’epoca, scrisse nel 1483 “Itinerario per la terraferma veneziana” dove venivano descritti alcuni luoghi della città di Bergamo e dintorni. Il forte della Cappella è rappresentato da mura circolari con un’alta torre nel mezzo, in quanto la sua descrizione viene redatta precedentemente alle prime modifiche apportate al fortilizio dalla Repubblica di Venezia. Inoltre, a mezzo del colle una chiesetta: l’attuale di S. Vigilio ora del tutto trasformata. Nella descrizione, egli ne conferma l’importanza difensiva: “questo è tondo con una torre in mexo alta ne la qual tre volte havea dato la saeta: era molto mal condizionada, ma si fusse conzada, per el sito saria inexpugnabbile…. È locco di gran momento, et concludendo, chi à la Capella è il signor de Bergamo”. Luigi Angelini scrisse che la posizione esatta della torre centrale (demolita nel 1595 dai Veneziani) “è tuttora individuata in luogo essendo accessibile un cunicolo che porta sottoterra al perimetro di questa antica torre”

Intanto, nel 1433 si diede ordine di riparare i danni che erano stati inflitti dal Carmagnola. Forse in quel tempo si provvide anche ad ampliare il recinto verso est per includervi la cappella di S. Maria Maddalena e per creare i nuovi alloggi per la guarnigione. Nonostante il forte fosse malconcio, il luogo era inespugnabile. Presentava la cappella di S. Maria Maddalena, un pozzo per le munizioni, una porta con saracinesche.

Fu però solo verso la fine del secolo che i Veneziani, ormai saldamente insediati in Bergamo, ordinarono (1482) l’adeguamento del forte della Cappella, ripartendo la spesa tra la città, il territorio e la camera fiscale. E sarà con i Veneziani che la Cappella muterà la sua denominazione in Castello di S. Vigilio.

Negli anni 1485-87 si procedette al rifacimento del torrione vecchio, alla sistemazione delle fosse e di altre parti (4) e soprattutto alla costruzione dei quattro torrioni tondi angolari (di Castagneta, Belvedere, torrione detto Ponte e torrione di S. Vigilio) che, collegati tra loro da un muraglione di cinta di forma poligonale, andarono a delimitare la fortificazione: un muraglione della lunghezza totale di 189 metri, dotato di merli e feritoie e munito di cannoniere, oltre che da un fossato di protezione. La antica torre centrale assunse quindi la funzione di mastio del castello.

I torrioni (chiamati Castagneta, Belvedere, Del Ponte e San Vigilio) presentano tutti due piani interni che costituiscono le casematte, cioè le postazioni per l’artiglieria a difesa del fortilizio. In queste, le bocche cannoniere erano rivolte a difesa dei vari tratti di muro congiungenti le torri ed hanno il foro per la bocca del cannone ed un’apertura superiore che fungeva da traguardo di mira. Ulteriori postazioni per i cannoni si trovavano sul bordo superiore delle mura del castello

 

Torrione di Castagneta: a sinistra la sortita, verso la fossa, del corpo di guardia nord e a destra la sortita, descritta dal capitano Da Lezze, che portava all’esterno delle strutture difensive del castello. Il disegno è di L. Deleidi detto Il Nebbia (1784 – 1853) – (Riproduzione fotografica conservata presso la Biblioteca Civica A. Mai, Archivio “Bergamo illustrata”)

La pregevolissima ed alta scarpa verrà invece addossata al corpo cilindrico delle torri solo circa 100 anni dopo, verso la fine del Cinquecento (quando si penserà ad un tale accorgimento anche attorno alle mura cittadine) per adattare la fortezza alle nuove tecniche di difesa imposte dall’impiego sempre più massiccio dell’artiglieria.

I lavori di ampliamento si conclusero inserendo nel lato rivolto ad est, quello che guarda la città, un solenne ingresso monumentale realizzato in forme rinascimentali, spostato, con la realizzazione del recinto basso, dalla coalizione antiliberista dopo la fine del secolo.

La porta rinascimentale del Castello, posta sul fronte verso la città e realizzata su probabile progetto del Codussi, architetto particolarmente attivo a Venezia. Fu demolita senza specifiche ragioni nel 1829

Dell’opera architettonica rimangono alcuni schizzi effettuati del pittore bergamasco Giuseppe Rudelli, che ci permettono di conoscerne la forma costruttiva. Dalla lettura dei disegni, Luigi Angelini attribuì l’opera all’architetto bergamasco Mauro Codussi che, a quel tempo, stava lavorando alla facciata di S. Zaccaria dove adottò il motivo delle lesene binate reggenti l’arco, motivo che poi ritroviamo nel frontone dell’ingresso della Cappella, unitamente all’elemento tipico dello stile codussiano di quel periodo, ossia il coronamento ad arco del portale e le due curve laterali più basse.

Schizzo del pittore Rudelli, riprodotto sulla rivista “Bergomum”, con a sinistra la porta rinascimentale del Castello, attribuita al Codussi (da Bergomum, Bergamo scomparsa, ottobre 1949 di L. ANGELINI: Un’insigne opera architettonica perduta. Pag. 12)

IL FORTE AL TEMPO DELLE GUERRE D’ITALIA 

I primissimi anni del Cinquecento furono tragici sia per Bergamo che per tutta la terraferma veneta di cui ora la città faceva parte. In seguito alla formazione della lega di Cambrai contro Venezia (1508) si succedettero una serie di eventi che portarono a vedere la Lombardia invasa da truppe francesi e spagnole: il castello parteciperà alla sorte della città e verrà impiegato quale rifugio per tentare la resistenza.

Quando nel 1509 le truppe coalizzate di Francia, Impero e Papato sconfissero nel cremonese ad Agnadello l’esercito Veneziano, questo fu costretto ad arretrare fin quasi alla laguna: per l’unica volta nella sua storia Venezia si preparò ad un assedio. Bergamo venne occupata da Carlo d’Amboise e solo la Cappella, in cui si era ritirato il provveditore veneto, resistette per un giorno al tiro delle artiglierie per poi arrendersi, tradita per denaro da un connestabile bresciano.

Il Castello in una veduta di Bergamo prima della costruzione delle mura veneziane (in nero), attribuito a Alvise Cima (1643-1710) 1693 (?).  Risulta definito da quattro torrioni angolari a pianta circolare e da una porta torre d’ingresso

Dopo tre anni di occupazione da parte dei Francesi (e cioè dal 1509 al 1512),  Venezia tentò la riconquista della città assediando la Cappella, dove i Francesi, insieme ad alcuni ostaggi bergamaschi, si erano rifugiati capeggiati da un guascone, tale Odet de Caucens.

Dapprima il de Caucens si limitava a tirare qualche colpo di bombarda sulla città, radendo anche al suolo la chiesa di S. Vigilio i cui resti furono poi spianati per la posa della prima pietra della nuova chiesa, avvenuta il 10 maggio 1517.

La chiesa dedicata a San Vigilio, Vescovo trentino che pare abbia dimorato nei dintorni  nell’anno 727, due anni prima della sua elezione, sorgeva vicina al “Castello Bergomense”, dando il nome al colle sovrastante la città.  A fianco si diparte l’imbocco della scaletta dello Scorlazzone, termine forse derivante da “scorlass”, contrazione di “castellaceum”, da cui “castellazzo”

Ma l’assedio si protrasse e gli assediati iniziarono a fare delle sortite, sino a che il monte S. Vigilio non risultò tutto bruciato e devastato. Il de Caucens infatti sotto gli occhi dei provveditori veneti e delle loro compagnie, aveva ardito uscire dal forte e distruggere le case limitrofe, facendo bottino e forzando gli abitanti a portare legnami presso il forte, dove edificò un bastione in terra di fronte al dominante colle della Bastia e addirittura procedendo a realizzare delle riparazioni urgenti di cui il forte necessitava.

Fu forse durante questo assedio che i difensori, e cioè gli Spagnoli, realizzarono, partendo probabilmente dal lato est, fra Città Alta e la Cappella, lo scavo di un cunicolo di contromina (e cioè destinato a contrastare gli attacchi “di mina”), per giungere sotto le mura del forte e demolirle con l’uso di esplosivo.

La galleria, scavata completamente in roccia ed accessibile, tramite un profondo pozzetto, dal torrione di Castagneta (da cui si dirama verso nord ovest e sud est), è stata ritrovata durante le esplorazioni del G.S.B. le Nottole negli anni ’70 partendo da una leggenda che voleva il fortilizio collegato tramite un passaggio segreto sotterraneo a Città Alta, da utilizzare per portare aiuti al castello o, per contro, permettere una fuga sicura ai militari in caso di assedio. Si può invece ipotizzare che il collegamento sotterraneo fra castello e Città Alta non sia mai esistito e sia sempre stato confuso con la strada coperta, opera di collegamento ma a cielo aperto.

Quindi dopo quattro mesi d’assedio il 28 ottobre del 1512 il de Caucens si arrese a onorevoli patti.

Venezia tenne Bergamo per poco, infatti nel giugno del 1513 vi giunsero nuovamente le truppe spagnole, che in quell’occasione incendiano il Palazzo della Ragione. Il provveditore veneto Bartolomeo Mosto e il castellano Carlo Miani con cento fanti si rinchiusero a loro volta nella Cappella, ma gli Spagnoli, dopo un blando assedio iniziale in settembre, avendo ricevuto rinforzi (2000 uomini ed artiglierie) iniziarono dei seri lavori d’assedio battendo il forte con le artiglierie e scavando gallerie di mina, obbligando quindi l’8 ottobre i veneziani alla resa, fatta salva la vita.

A sorpresa, nel 1515 gli Spagnoli abbandonarono Bergamo lasciando solo un presidio formato da 40 fanti, con cinque pezzi d’artiglieria.

A nulla valsero le trattative di resa da parte dei Veneziani, che al comando del provveditore Giorgio Vallaresso, avevano ricevuto l’ordine di riprendere il forte e spianarlo al suolo. Furono quindi posti cento schioppettieri ad impedire l’accesso di viveri e munizioni e fu tentato un colpo di mano che tuttavia fallì. Data la circostanza, i Veneziani si trovarono a dover ingaggiare per la riuscita dell’impresa proprio colui che anni prima era stato protagonista di una simile vicenda, ossia il francese Odet de Caucens.

Il 7 gennaio 1516 da Milano giunse un corpo di Guasconi a dare man forte agli assedianti, e alla testa di 400 guasconi e sette cannoni tornò in Bergamo Odet de Caucens, che da assediato divenne assediante.

Questi, che aveva tenuto in scacco i nemici per oltre quattro mesi dalle cortine della Cappella, ben ne conosceva i punti deboli, e disposta l’artiglieria prese ad asserragliarla col fuoco dei cannoni posti sul monte Corno, procurando una grande breccia nelle cortine del forte che dopo quattro mesi di assedio, il 21 gennaio 1516 convinse gli Spagnoli ad arrendersi.

IL FORTE DELLA CAPPELLA TRA XVI E XVIII SECOLO

Col tempo, anche se i danni prodotti dalle artiglierie del de Caucens furono in qualche modo riparati, cominciarono a giungere da più parti proposte di radere al suolo la malridotta Cappella, quasi dimenticata e ritenuta pericolosa per la città (5).

I drammatici avvenimenti costituirono comunque le premesse che alla metà del secolo portarono il governo veneziano ad elaborare un piano di fortificazione dell’intero territorio del dominio ed in particolare di Bergamo, dove nel 1561 si diede avvio alla costruzione delle Mura che racchiudono  ancor’oggi Città Alta.

Tuttavia, nonostante le preoccupazioni espresse in alcune relazioni di capitani e podestà succedutisi in città, non furono proposte soluzioni utili al potenziamento del Castello, che, sebbene costituisse il punto debole delle costruende Mura, almeno inizialmente non venne considerato all’interno di una più ampia visione (6).

La questione fu dibattuta a lungo tra coloro che erano favorevoli ad un suo rafforzamento e coloro che, ritenendolo inutile se non pericoloso, ne consigliavano l’abbattimento insieme al dirupamento del terreno circostante. Il nodo controverso divideva i tecnici in due fazioni:

  • da un lato i sostenitori del rafforzamento del Forte di S. Marco di cui era portavoce il Governatore Generale Sforza Pallavicino, che incaricato a sovrintendere la costruzione delle Mura considerava la Cappella ininfluente nella difesa della cinta bastionata che stava prendendo corpo sul terreno (7).
  • Dall’altro, vi erano coloro che spingevano affinché la Cappella non andasse nuovamente perduta in quanto rappresentava il punto debole verso la nuova opera difensiva in costruzione, che potrebbe “eser battuta et offesa da due monti….” (8): la Bastia e il monte Corno.
 Il Forte di S. Marco (evidenziato in verde) completava il perimetro nord-occidentale delle Mura, dalla porta di Sant’Alessandro alla porta di San Lorenzo: una “fortezza nella fortezza” posta in relazione alla Cappella per difendere la città in direzione dei colli. Il suo rimodellamento era stato progettato dallo Sforza Pallavicino avvalendosi dell’abilità tecnica del Savorgnano, che alla morte dello Sforza (1583) ne portò avanti l’opera. Il disegno, eseguito nel 1664 da Cesare Malacreda, è conservato presso la Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia

Per la Cappella lo Sforza pensava semplicemente al rafforzamento del fronte verso la Bastia e all’ammodernamento del Castello con un baluardo. Intenzione irrealizzabile, perché la ristrettezza della piazza (140 passi) mal s’adattava ad un presidio efficiente e soprattutto a un’ordinata azione di uomini e pezzi in caso di operazione. Osserva G.M. Labaa che forse la determinazione di non trasformare in corpo reale la piazza del Castello poteva sottendere il disegno tattico di evitare, in caso di perdita, che la fortificazione potesse accogliere sufficiente artiglieria da sfondare il fronte della lunga muraglia del Forte di S. Marco.

Tavola dimostrativa dei possibili tiri contro il forte San Marco di Città Alta, conservata presso la Biblioteca nazionale Marciana di Venezia

Tuttavia la straordinaria posizione che la identificava come impareggiabile cavaliere con visualità di azione a 360°, pur nella difficoltà obiettiva di assicurarne la difesa rendeva restii a sacrificarla (9).

Che questo fosse un problema vitale e aperto risulta dal fatto che già nel 1565 si provvide a studiare il rimodellamento di tutto il territorio tra la Fortezza (le Mura) ed il Castello al fine di togliere di mezzo ogni possibile pianoro che potesse accogliere l’artiglieria di un ipotetico assediante (10).

A questo scopo si stanziarono 12 mila ducati e si fece in modo che in andamento rimanesse solo una stretta strada di soccorso e d’approvvigionamento del Castello, che a questa data era presidiato da soli 40 fanti (11).

La mancanza di fianchi adeguati sminuiva indubbiamente la validità della Cappella: le cannoniere erano infatti ricavate nei vetusti torrioni cilndrici del Castello medioevale con evidenti difficoltà di brandeggio e di operatività complessiva di fuoco e di fiancheggiamento. Quanto si sarebbe potuto fare in barbetta era poi limitato dall’esiguità della piazza.

Da qui le ragioni che fecero orientare non verso interventi sul nucleo ma verso l’approntamento di opere esterne ed avanzate, che però vennero realizzate solo tra la fine del Cinquecento e il secondo decennio del Seicento.

Le preoccupazioni maggiori venivano sempre dai colli vicini, Corno e Bastia, dai quali il fortilizio, facilmente raggiungibile tramite il dolce declivio del terreno, poteva essere battuto; i terreni verso la Cappella non erano sufficientemente scoscesi per contrastare l’avvicinamento del nemico.

Progetto per la sistemazione del Castello firmato dai provveditori (1585)

LA RISTRUTTURAZIONE DEL CASTELLO NEGLI ANNI 1585-1595

Intanto, verso l’ultimo decennio del Cinquecento il Senato Veneziano deliberava per l’inizio dei lavori di ammodernamento del fortilizio, che entro il 1595 era completamente ristrutturato sotto la direzione del capitano Nicolò Michiel e dell’ing. Bonomi (12).

Del Bonomi il lavoro più pregevole fu sicuramente la costruzione della scarpa addossata al corpo cilindrico delle torri, accorgimento difensivo poco prima attuato sulle mura cittadine, per difenderle dagli attacchi portati con le mine.

Sono infatti notevoli le differenze tra il paramento murario della scarpa e la cortina dei torrioni, dovute alla differente funzione delle due parti murarie: la scarpa doveva reggere l’urto e le principali offese degli assedianti, doveva sostenere il maggior onere dei carichi dei terrapieni e poteva, per la sua posizione, essere facilmente sbrecciata dalle mine; il muro verticale doveva sopportare carichi di gran lunga inferiori servendo solo di sostegno per la merlatura sulla quale solitamente si appoggiavano le travi della copertura.

Il paramento, interamente realizzato con pietra d’arenaria, appare caratterizzato da un’altissima scarpa realizzata con grossi blocchi squadrati e bugnati con estrema cura, disposti in corsi regolari e perfettamente connessi. Il completo redendone nella parte terminale sottolinea lo stacco tra la scarpa e la cortina sovrastante, dove i conci appaiono di piccole dimensioni, tagliati con poca precisione e collocati irregolarmente (fotografia del 1922)

 

Redendone che delimita la scarpa inclinata dal muro verticale

Nel corso dei lavori, vennero demoliti alcune casupole e il residuo dell’antica torre centrale (il maschio medioevale che era già stata fatta abbassare dal Pallavicino per renderla meno esposta ai tiri di artiglieria), per ottenere uno spazio di manovra maggiore sulla piazza superiore del Castello, ora ampliata (40×70 metri ca.) e capace di ospitare fino a 500 soldati e 10 pezzi di artiglieria.

Per ampliare il fortilizio verso est, la cortina rivolta verso la città fu demolita nel tratto compreso tra i due torrioni e sostituita da due cortine perpendicolari a quella abbattuta (e cioè edificate sul lato settentrionale e meridionale),  collegate fra di loro da una cortina a “coda di rondine”, al centro della quale venne costruito il nuovo ingresso al castello. Da questa parte i muri erano di esiguo spessore, ben diversi da quelli assai più robusti e massicci rivolti verso le alture circostanti.

Lo spigolo nord della cortina “a coda di rondine” che si protende verso Città Alta. A destra il torrione di Castagneta

Da tali lavori si ricavò una nuova piazza chiamata “inferiore” per distinguerla da quella sopraelevata, di dimensioni assai maggiori – con la quale era collegata tramite una scala in pietra di 4 passi veneziani (1 passo = m 1,738) -, entro la quale furono costruite una polveriera e una chiesetta (forse per sostituire quella dedicata a S. Maria Maddalena, demolita nel 1567 e i cui resti potrebbero essere stati inglobati nella Casa del Custode con i lavori di ampliamento?); sulla sinistra, il deposito delle munizioni, degli archibugi, degli attrezzi e, dietro, gli alloggiamenti per i soldati disposti in doppia fila.

Negli alloggi dimorava il contingente militare che variava a seconda dei periodi storici e delle crisi politiche. Una piccola comunità il cui compito principale era l’esercitazione oltre al rondamento diurno e notturno, nella fossa intorno al Castello e a controllo del territorio.

La polveriera del castello di San Vigilio nell’Ottocento, documentata da un disegno di Luigi Deleidi, detto il Nebbia, nell’album di vedute di Bergamo trafugato alcuni anni or sono dalla Biblioteca Civica “Angelo Mai”. Il progetto di quest’opera grandiosa, di cui non è rimasta traccia, secondo Luigi Angelini può essere attribuito al Codussi, autore anche del portale monumentale. Da Lezze precisa che la torretta (piramide) “per conserva della polvere” era coperta di piombo. Fu demolita molto probabilmente in coincidenza con le notevoli trasformazioni che la “Cappella” subì nell’Ottocento per mano degli Austriaci, che la sguarnirono del tutto abbattendo pure il portale d’ingresso; i disegni eseguiti da Giuseppe Rudelli nel momento della demolizione ne documentano la grandiosità

Venne inoltre edificata la Casa del Castellano (costruita solo nel 1593 ed oggi sede l’associazione Castrum Capelle, a sinistra della scalinata principale) e la Casa del Capitano, chiamata del Pittore (ubicata sulla destra).

 

Vista del fronte Sud del Castello con la Casa del Castellano

 

Stato della cappella verso la fine del XVI Secolo, dopo la ristrutturazione interna. Risale a questo periodo  la principale conformazione che il Castello possiede oggi, con la cosiddetta “Piazza di Sotto” collegata con la “Piazza di Sopra” da scalette in pietra (disegno conservato presso l’Archivio storico di Venezia, Ter. 110)

In mezzo alla piazza superiore venne eretta un’antenna su cui nei giorni festivi veniva issata l’insegna di San Marco. Sotto questa antenna venne realizzata una vasta cisterna per assicurare il rifornimento idrico, alimentata da una sorgente e dalla raccolta delle acque piovane.  

Un’altra cisterna fu realizzata di fronte alla Casa del Castellano.

La cisterna costruita di fronte alla casa del castellano è  un vano ipogeo con volta a botte alta poco più di otto metri e pianta con dimensioni medie di 7 metri per 11, posizionato sotto la balconata antistante la casa stessa (ex Trattoria del castello). Nell’immagine, la fontana della cisterna a servizio delle abitazioni dei militari come si presenta oggi. La relazione del proto Bernardo Berlendis del 1600 indicava la cisterna, che ancora doveva essere completata, posizionata all’interno della fossa vecchia del castello: è stato quindi utilizzato parte dello spazio che si è reso disponibile con l’espansione del fortilizio verso est. Fu completata nel 1606

 

La stessa fontana  in un disegno di L. Deleidi detto Il Nebbia (1784 – 1853) (Riproduzione fotografica conservata presso la Biblioteca Civica A. Mai, Archivio “Bergamo illustrata”)

Tutt’ intorno venne scavata una fossa profonda quattro passi, controllata da due corpi di guardia sul lato nord e sud e dotata di una controscarpa che, erosa e continuamente dalle piogge, richiederà continui interventi. I lavori eseguiti erano costati sino a quel momento 34.000 ducati.

La cortina verso il torrione Belvedere, la passerella lungo un fossato mai esistito e, a destra, il muro di controscarpa

Altri lavori di rafforzamento del forte furono realizzati all’inizio del Seicento seguendo le proposte di Francesco Berlendis e di Marco Antonio Negrisoli.

Pianta del Castello di San Vigilio dove sono indicati: in verde, la cortina congiungente le torri di San Vigilio e di Castagneta come da costruzione veneta della fine del XV secolo; in rosso, l’espansione della piazza del castello con i lavori della fine del XVI secolo; in blu, i corpi di guardia nord e sud (Proprietà GSB  Nottole).

LA PROSECUZIONE DEI LAVORI: LE STRUTTURE ESTERNE ED AVANZATE PER LA DIFESA VERSO IL MONTE BASTIA

Riguardo le perplessità relative all’effettiva inespugnabilità del Castello dovuta alla presenza dei colli vicini (Corno e Bastia), tra i progetti presentati nel 1585 il Bonomi aveva proposto quattro bassi baluardi attorno al vecchio Castello, uno dei quali era un puntone che si protendeva fra la Bastia e il Corno, soluzione onerosissima (80 mila ducati) e di scarsa fattibilità; il Malverda si era limitato ad un puntone verso il monte Corno utilizzando le vecchie torri del Castello per il fiancheggiamento, oltre a potenziare al massimo il collegamento con la città, soluzione meno onerosa (25 mila ducati) ma di scarsa efficacia; Paolo Emilio Scotto aveva proposto una soluzione costituita da una tenaglia che dal vecchio Castello si rivolgeva verso la Bastia e il Corno e la realizzazione di una strada coperta che occupasse tutto il dosso che s’interpone fra la fortezza e il Castello. Tale strada non avrebbe dovuto essere un semplice percorso protetto, ma consistere in cortine terrapienate e forte scarpamento dei pendii esterni. L’ipotesi della tenaglia venne quantificata in 35 mila scudi. La soluzione fu avvertita come la migliore e più o meno secondo quest’ultima ipotesi ci si mosse.

Stampa secentesca dei Remondini di Bassano. I lavori intrapresi all’inizio del XVII secolo diedero alla fortezza la configurazione definitiva a forma di stella (di questo nuovo perimetro difensivo, tratta F. CACCIA: Trattato scientifico di fortificazione in appendice al TASSI. – Vita dei pittori – architetti – scultori bergamaschi, 1793)

La costruzione della strada coperta tra la città e la Cappella iniziò nel 1607 ma solo tra il 1613 e il 1616 i lavori, diretti dall’ing. Marcello Alessandri, si poterono considerare conclusi. La strada, una sorta di trincea con argini in terra (rivestiti da parapetti in pietra nel nel 1623), che dal muro di controscarpa che affiancava la fossa correva lungo la costa del colle, costituiva un collegamento sicuro tra il Forte di S. Marco e la Cappella, utile a portare rifornimenti e aiuti in caso di necessità.

La freccia rossa indica la strada coperta tra la Cappella e il Forte di S. Marco, con il quale si doveva collegare tramite una sortita nel Baluardo Pallavicino

 

Planimetria del 1617 presente nella relazione di Buonaiuto Lorini (conservata presso la Biblioteca Civica A. Mai, Bergamo)

La strada coperta era protetta, a metà del percorso, da una piccola piazza per posizionare i cannoni sul lato sud (verso S. Gottardo) e da un’altra piazza sul lato nord, verso il Monte Corno.

L’intero passaggio, che aveva una larghezza di 18 passi ed era costato la considerevole cifra di 41.000 ducati, verrà smantellato e completamente cancellato da Napoleone Buonaparte.

Il Castello e il forte di S. Marco nel contesto orografico dei colli, con la strada coperta

Di pari passo con le modifiche relative al Forte di San Marco, la difesa esterna del Castello venne definitivamente completata tra il 1621 e il 1623 su progetto degli ingegneri Tensini ed Alessandri, mediante la costruzione, oltre la controscarpa della fossa, della tenaglietta di nord-ovest (due grandi speroni , rivolti verso il monte Corno ed il monte Bastia, posti a protezione del torrione più occidentale) e dei due baluardetti di sud-ovest e di sud- est, realizzati per migliorare la difesa dei due sottoposti torrioni: il primo, denominato baluardo Moncenigo, è un puntone verso la chiesa di S. Vigilio, il secondo è posto a protezione del primo torrione, detto di S. Vigilio.

Pianta del Castello di S. Vigilio, con descritta ogni singola parte (arch. G.M. Labaa)

Infine, i terreni circostanti vennero dirupati per rendere meno agevole l’avvicinamento del nemico.

 

Con il 1623 si concludevano le operazioni di fortificazione della città di Bergamo da parte di Venezia. Ma servivano altre risorse economiche e per averle si ribadiva nuovamente che in questo luogo si giocava per Venezia “Ia conservazione di questa Città e di tutta Bergamasca”:  in particolare, bisognava rendere ancor più aspro il declivio davanti alla “fòrvese” attraverso un ennesimo intervento di modellamento della sella fra il Castello e l‘altura del Colle, che restava facilmente accessibile al nemico (14):  un appassionante e “classico” problema tattico-strategico (tale da entrar nella trattatistica), per la cui soluzione vennero chiamati i migliori ingegni nell’arte del fortificare d‘Italia.

L’impianto fortificato della “Cappella” nel contesto orografico del colle di S. Vigilio, con la strada coperta che giunge fino al Forte (disegno di Cesare Malacreda, conservato presso la Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia)

 

Il Castello e la cinta bastionata unite dalla strada coperta, nella planimetria di Pierre Mortier (1660)

Affinché niente fosse anteposto al superiore bisogno di sicurezza, le plurimillenarie forme della natura vennero modificate ancor più radicalmente, artificializzando e caricando di nuovi valori una parte importante del Colle di Bergamo, esaltandone il senso di dominanza: si scavarono fosse, si tolsero boschi, vigne ed alberi isolati e si asportarono persino i muretti dei terrazzamenti, rimodellando tutt’attorno al Castello il profilo delle alture, delle selle e dei crinali, lasciando percepire da lontano persino il corridoio che correva lungo la strada coperta.

Il Castello alla fine dell’Ottocento

Il luogo tutt’intorno al Castello mutava ma la sommità del colle non perdeva i suoi valori semantici di spartiacque fra le vigne e le aree boscate che si succedono a ponente e l’artificialità del costruito a levante, con la città serrata nella smagliante cinta bastionata.

“NelI’ordinaria percezione da sud, dal piano, si godeva la stereometrica astrattezza dei piani in terra e delle pareti in pietra, che connotano rampati, Ia tenaglia e le bastionature minori, ai corridore della strada coperta e alle rotondità delle torri del soprastante vetero impianto” (G.M. Labaa, “Progetto – Il colle, cit.)

  

L’emergenza del Castello, circondato da un cerchio di folti tigli, letta dalla collina di Madonna del bosco

Sino alla fine della presenza Veneta a Bergamo, il forte non subì l’assalto di alcun avversario.

Giovanni Antonio Urbani, Planimetria acquerellata del Castello di San Vigilio e degli spalti interni ed esterni, 22 aprile 1766 (conservata presso la Biblioteca Civica di Bergamo)

 

Giovanni Antonio Urbani, disegno del 1776 raffigurante gli interni del Castello di San Vigilio (conservato presso la Biblioteca Civica di Bergamo)

DOPO VENEZIA

Il 25 dicembre 1796 i francesi di Napoleone I entrano in Bergamo ed è la fine della dominazione veneta. I francesi si fanno consegnare dal capitano veneto Ottolini il Castello, temendo un tentativo di controffensiva di Venezia proprio da quella postazione; ed è forse per questo motivo che, l’anno successivo, viene distrutta la strada coperta costruita circa duecento anni prima, decretando per il Castello la perdita definitiva dell’importanza strategica che lo aveva contraddistinto fino ad allora.

Incisione settecentesca di Bergamo Alta, vista da Santa Maria del Giglio, presso Porta S. Giacomo, posta di fronte al Fortino. In alto a ponente svetta la Cappella imbandierata. La prima versione, in bianco e nero, era stata eseguita Giorgio Fossati (1704-85)

Il fortilizio perde importanza per le ormai mutate strategie militari e dal 1803 il Ministero della Guerra indice alcune aste per la vendita o affitto a privati dei terreni facenti parte della ex fortezza (15), che in questo periodo viene anche utilizzata come magazzino militare.

Bergamo Alta vista da Porta S. Giacomo, dominata dall’alto dal Castello di S. Vigilio (incisione veneta settecentesca). E’ una prima prova della stampa di Giorgio Fossati (1704-1785) integrata poi con figure nella stampa della sopracoperta e dei risguardi (Racc. Conte G. Piccinelli)

Le campagne napoleoniche richiedevano ingenti finanziamenti e, venute meno le ragioni militari, furono vendute numerose parti della fortezza cittadina. Tra queste, oltre al Castello, il Forte di San Marco che da allora è di proprietà privata, compresa la Porta del Soccorso e le interessantissime strutture sotterranee.

Occupata Bergamo nel 1815, gli Austriaci intrapresero una politica di smantellamento delle principali strutture militari presenti in città; nel 1829 furono infatti demolite alcune parti del castello, tra cui la polveriera e la  monumentale porta d’ ingresso entrambe attribuite al Codussi.

In precedenza, nel gennaio del 1825 avevano messo all’asta gli spazi dell’intero perimetro delle mura. Per buona fortuna l’operazione fu bloccata dal podestà di Bergamo Rocco Cedrelli il quale riuscì ad aggiudicarsi (la somma sborsata fu di 6.050 lire) tutte le aree, divenute poi la splendida passeggiata che è uno degli aspetti più affascinanti dell’antica città.

Il rilievo, risalente al 1828, mostra i nuovi manufatti all’interno delle mura di cinta, successivamente demoliti (conservato presso  l’Archivio Comunale di Cittadella)

Alla fine dell’Ottocento, con la cessata strategia difensiva, si assiste al progressivo inurbamento del Colle con la costruzione di residenze e case di villeggiatura sul suo versante più soleggiato.
Questo a seguito della crescente attrazione delle zone collinari a luogo di villeggiatura e ristoro.

A partire dai primi anni del Novecento, e nell’arco di tutto il secolo, si assiste sempre più alla riconversione dei cascinali meglio esposti al sole in ville e villette in stile liberty e la progressiva sostituzione del verde rurale in giardini, anche con essenze estranee all’areale tipico e/o con essenze esotiche.

Veduta di S. Vigilio nel 1900 (da Patrik Serra, Antiche stampe di Bergamo – XIX secolo. Grafica & Arte Bergamo)

Del 1912 è la costruzione della funicolare di collegamento tra Città Alta e S. Vigilio, che copre una distanza di 621 metri con un dislivello pari a 91 metri.

 

L’imbocco della strada che dalla stazione superiore della funicolare conduce al Castello

 

Cartolina di Via Sudorno con il Colle di San Vigilio sull’altura

Le mappe catastali rilevate negli anni successivi non riportano trasformazioni evidenti e gli edifici si manterranno pressoché inalterati fino ad oggi, tranne l’edificio settentrionale soggetto ad una demolizione parziale.

Nel 1934 buona parete del sedime dell’antico forte fu ceduto alla famiglia Soregaroli, che trasformò la Casa del Castellano in un caffé-ristorante; i camerieri servivano clienti ai tavolini allineati all’ombra del tigli sulla sommità. Il proprietario, Pierino Soregaroli vi profuse molte energie fisiche ed economiche per riadattare la scalinata e sistemare i camminamenti del malconcio castello. Nel corso degli anni ’80, a causa del progressivo stato di degrado dell’edificio il ristorante ha cessato la sua attività.

Nel 1957 il Comune di Bergamo ritorna in possesso del castello e dei terreni a nord dello stesso, acquistandoli da privati ed a partire dal 1960 vengono avviati i lavori di restauro del fortilizio, su progetto dell’architetto Pippo Pinetti.

Il Castello prima della ripulitura

I lavori si conclusero alla fine di agosto del 1961, quando la piazza superiore venne riaperta al pubblico (16).

Due fotografie che ritraggono il castello prima e durante i restauri condotti fra il 1960 ed il 1961: oltre alla rimozione della vegetazione che aveva invaso la piazza superiore i lavori si sono concentrati sulla ricostruzione di parte delle cortine andate distrutte nel corso degli anni. (Fotografie inserite nelle relazioni di sopralluogo ai lavori, archivio del Comune di Bergamo)

Anche la funicolare di San Vigilio, che funzionò fino al 1976, venne ripristinata nel 1991, quando si conclusero i lavori di restauro.  Un’ulteriore restauro è stato approntato in tempi recenti ed è stato completato nel 2004.

Il recupero ha dato la possibilità di far riemergere dal colle le parti superstiti di questa struttura, restituendo alla luce agli antichi torrioni, disboscando la vegetazione spontanea e trasformando le cortine nelle terrazze panoramiche di un giardino pubblico.

Planimetria del Castello con la nuova sistemazione del verde dell’arch. Bellocchio (conservata negli atti  del Comune di Bergamo)

 

Vista dell’ ingresso alla Cannoniera del Torrione Ponte

Per concludere con le parole di G.M. Labaa, oggi possiamo identificare il Castello di San Vigilio come un “segno formale di grande significato e strumento interpretativo di sedimentazione storica e di tecnica difensiva”. Lo si evince “dalle strutture murarie e dagli spazi ricchi di portato castellologico riferibili sia all’impianto visconteo che a quello veneziano, per arrivare cronologicamente fin oltre la soglia del secolo XIX, all’epoca del definitivo disarmo strutturale dell’impianto voluto da Napoleone” (17).

Ed oggi come allora, il Castello continua a costituire uno dei più precisi riferimenti — e non solo visuale — di quel contesto variegato che è Bergamo.

 

NOTE

(1) Angelo Mazzi, Il Castello e la Bastia di Bergamo, Ist. It. d’Arti Grafiche, 1913.

(2) Secondo il Mazzi (Il Castello e la Bastia di Bergamo, cit.) ai tempi del rafforzamento della Cappella sotto il governo di Luchino Visconti (1345) non si provvide solo ad un semplice restauro ma i lavori dovettero essere ben più sostanziali, comprendendo la costruzione dei quattro torrioni circolari posti agli angoli delle cortine coronate dalla merlatura. Questi, secondo Luigi Angelini, per la loro forma e struttura, sarebbero invece stati edificati dai veneziani verso la fine del XV secolo nel quadro dei lavori di potenziamento della fortezza.

(3) Nel 1419 il duca Filippo Maria Visconti, intenzionato a riannettere Bergamo al Ducato di Milano affidò al Carmagnola il compito di cacciare il Malatesta da Bergamo. Carmagnola, compreso da subito l’importanza strategica del fortilizio della Cappella, il 24 luglio ne acquisì il controllo, corrompendo con denaro il castellano, Antonio Guastafamiglia. Non appena occupata la Cappella, le truppe del Carmagnola da lì iniziarono ad attaccare incessantemente la città, che fu presto ridotta alla resa ed obbligata a tornare sotto il dominio visconteo.

(4) Questi lavori sono documentati dalle ducali venete sino al 1490. Per il rifacimento e la sistemazione del torrione vecchio, delle fosse ed altre parti, furono spesi 1000 ducati della camera fiscale. Nel 1487 sono documentate opere realizzate sotto la direzione dell’ingegnere militare Venturino Moroni.

(5) Nella Relazione del podestà Costantino Priuli, 8 novembre 1553: “… Vi è la Capela qual è parte ruinata, et per mia opinion se doveria ruinar del tuto, in tuto quela è fuora di la Cità poco spacio.”

(6) Al sopralluogo alle fortificazioni, eseguito a cavallo fra gli anni venti e trenta del Cinquecento dal comandante delle truppe Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino, segue un progetto per il loro rafforzamento con alcuni bastioni, ma non v’è accenno alcuno al castello di S. Vigilio (Cfr. G. Colmuto Zanella, “La fortificazione di Bergamo promossa da Francesco Maria della Rovere” in “1588 – 1988 le mura di Bergamo”, nota 52 pag. 295). Nella Relazione del podestà Costantino Priuli, 8 novembre 1553: “… Vi è la Capela qual è parte ruinata, et per mia opinion se doveria ruinar del tuto, in tuto quela è fuora di la Cità poco spacio”.

(7) Cfr. E. Fornoni, “Le fortificazioni di Bergamo sotto la Repubblica Veneta” alle pagg. 108 e 109.

(8) Dalla Relazione inviata al Senato dal podestà Francesco Venier nel novembre 1561, tre mesi dopo l’inizio dei lavori della Fortezza.

(9) G.M. Labaa, Il Castello, in: “Progetto – Il Colle di Bergamo”. Pierluigi Lubrina Editore (anno non indicato).

(10) Nel 1565 il capitano Donato relaziona sui lavori di modifica ai terreni compresi fra la Cappella ed il Forte di San Marco per la rimozione di alcune piazze che potevano diventare utili al nemico per collocare l’artiglieria e, secondo lo stesso capitano, era questo il punto di maggior pericolo per la fortezza in costruzione (Cfr. relazione 17 del capitano Lorenzo Donato, 31 dicembre 1565, in “Relazioni dei rettori veneti ….”). Dopo i lavori doveva rimanere solo una strada stretta per raggiungere il castello.

(11) Cronicamente modesta rimarrà sempre, invece, la guarnigione: il 18 settembre 1585 il capitano Michele Foscarini lamenta che a custodia della Cappella vi siano solo 35 fanti, parte dei quali devono fare anche servizio di ronda in città e ravvisa in ciò un grandissimo pericolo in ordine alla sicurezza generale della Piazza (G. M. Labaa, cit.): “La milizia stipendiata posta alla custodia della fortezza di Bergamo è di trecentodieci soldati, sotto la caricha del governatore et de sei capitanij….. Il quinto [capitano] è posto alla custodia della rocchetta detta la Capella con 35 fanti, parte de quali convengono a servire a rondare et fare le sentinelle dentro alla Città, per esser il numero de soldati così ristretto, che non può suplire ai necesari bisogni, di maniera che la Capella resta con soli 25 huomini, parte de quali alle volte anco si trovano inutili per esservi degl’ammalati, et inclusovi il tamburo, ragazzo et bombardieri et perciò viene ad essere pocco sicuramente guardata, il che a me pare di nottabilissimo disordine per gl’accidenti che potessero occorrere.” In “Relazioni dei rettori veneti in terraferma – Podestaria e capitanato di Bergamo”. Nella relazione sono riportati anche i quattro diversi progetti di modifica per il rafforzamento della Cappella, fatti pervenire alle istituzioni Venete.

(12) La data della fine dei lavori è documentata con la relazione del capitano Giovanni Guerini.

(13) Da Archivio Comune di Bergamo 1900, faldone 883, Biblioteca Civica A. Mai.

(14) Anche la tenaglia verso il Corno, non essendo sufficientemente incamiciata franava continuamente per le piogge, mentre la strada coperta, ancora nel 1702 (Cfr. relazione del capitano Andrea Badoer del 1702 in “Relazioni dei rettori veneti in terraferma – Podestaria e capitanato di Bergamo”), non aveva più i parapetti, dei quali rimanevano “le vestigia”, ed era ormai così stretta da non permettere il passaggio di un cannone.

(15) Da Archivio del Dipartimento del Serio, faldone 1071 (piazzeforti Bergamo), Archivio di Stato di Bergamo.

(16) Da archivio del Comune di Bergamo: atto di compravendita del 6 giugno 1957. Progetto di restauro a cura dell’arch. Pinetti.

(17) G.M. Labaa, Il Castello, cit.

Alcuni riferimenti 

G.M. Labaa, Il Castello, in: “Progetto – Il Colle di Bergamo”. Pierluigi Lubrina Editore (anno non indicato).

Mario Locatelli, “Il castello di S. Vigilio (La Cappella)”, Castelli della Bergamasca 2, Il Conventino, Bergamo.

Emanuela Gregis, “Complesso museale presso il Castello di San Vigilio a Bergamo”. Politecnico di Milano, Facoltà di Architettura e Società. Corso di Laurea in Architettura. A.A. 2009-2010.

Castrum Capelle onlus

Tosca Rossi, A volo d’uccello Bergamo nelle vedute di Alvise Cima Analisi della rappresentazione della città tra XVI e XVIII secolo, Litostampa istituto grafico, Bergamo, 2012, cm 21×28, pp. 244.

Monica Resmini, Le Mura: immagini e realtà. In “Le mura. Da antica fortezza a icona urbana”, di Renato Ferlinghetti, Gian Maria Labaa, Monica Resmini. Bolis Editore, 2016.

“I sotterranei del Castello di San Vigilio – Bergamo”, a cura del Gruppo Speleologico Bergamasco Le Nottole.

Angelo Mazzi, Il Castello e la Bastia di Bergamo, 1913.

Giro ad anello fra Astino e le colline di Mozzo, fra scorci mozzafiato e tracce di storia

La facile escursione, che si svolge nella parte occidentale dei colli, ricca di valenze storico-naturalistiche, si diparte dalla piana di Astino, con al centro il  complesso benedettino vallombrosano, immerso tra campi coltivati e dolci versanti terrazzati coltivati a vite e a frutteto. Il percorso si dirige verso Mozzo – dove spicca per importanza storica l’emergenza di Castello Presati – e prosegue salendo la cima del monte Gussa sino a lambire il balcone soleggiato di Villa Bagnada, dominante sulla pianura. Raggiunta la sella di Madonna del Bosco, il nostro percorso ideale s’inoltra nel Bosco dell’Allegrezza che cela, avviluppati nella folta vegetazione, i ruderi dell’omonimo “Castello”: una delle tante fortificazioni che punteggiano la zona. L’anello si conclude presso il monastero di Astino, uno dei monumenti più affascinanti di Bergamo, che al centro di una conca verdeggiante accoglie e ritempra il viandante, fra la secolare quiete delle sue spesse mura ed un piacevole effluvio aromatico sprigionato da innumerevoli essenze: il tutto, leggendo i tanti segni lasciati dai Vallombrosani in questa valle miracolosamente sopravvissuta al trascorrere del tempo.

Via Astino, arteria dell’omonima valletta compresa fra lo sperone della Benaglia e il bosco dell’Allegrezza. I licheni che vivono sulle cortecce degli aceri americani e dei frassini ornamentali disposti lungo il viale , indicano una qualità dell’aria decisamente superiore a quella cittadina

Il giro ad anello ha inizio dalla via Astino – che raggiungiamo anche dalle vie Sudorno, Torni e Lavanderio -, dove spicca la mole del monastero vallombrosano con la torre gotica del Beato Guala e la chiesa del S. Sepolcro, totalmente recuperati.

All’inizio dalla salita che conduce al monastero, adagiato su un terrazzo prativo alle prime balze della collina, il visitatore è accolto da uno splendido esemplare di Quercus petraea (rovere), che dominava questi territori prima del dissodamento per lasciar posto ai coltivi. I parenti più stretti si trovano nella Riserva boscata di Astino e dell’Allegrezza, sui due versanti della valle

Più in là, la Cascinetta del Mulino, un tempo adibita a legnaia ed oggi reception e spazio ricreativo, ricorda con il suo nome le attività che un tempo si svolgevano nella valle, ancor’oggi caratterizzata da attività agricole ad alto rendimento, grazie alla a un microclima termofilo, alla fertilità del terreno e dell’abbondante presenza d’acqua.

La vocazione agricola della conca di Astino è oggi perseguita sui terrazzamenti coltivati e nella piana, solcata dal reticolo di antiche rogge

Siamo nell’ultimo angolo della città rimasto quasi immutato nel tempo, ricco di presenze storiche e di grande suggestione paesaggistica: qui tutto “parla” del monastero e delle grandi opere intraprese dai benedettini Vallombrosani sin dal lontano 1070, quando si insediarono in terre per gran parte feudo dei Mozzo e dei Suardi, in un latifondo oggi sopravvissuto miracolosamente alla frammentazione e agli appetiti speculativi: da quel momento, i Vallombrosani cominciarono ad intrecciare una fitta rete di relazioni con le vicende politiche e civili della città.

Come quello benedettino di Valmarina all’opposto versante, l’ex monastero di Astino caratterizza fortemente il luogo in cui sorge, facendone il più ricco di valenze culturali all’interno dei Colli di Bergamo

Giunti ad Astino, i frati cominciarono a dissodare e livellare i terreni e a trasformare il luogo con sapienti lavori di irrigazione, terrazzando i declivi anche con muretti a secco di contenimento, così da poterli coltivare a fondo: era il periodo in cui i lavori intrapresi dai grandi impianti conventuali di Astino, Santa Lucia e Valmarina, emancipavano l’intero territorio comunale al ruolo di suburbio agricolo del “Comunis Pergami”.

La via Astino e il suo monastero agli inizi del Novecento. La strada campestre collegava la chiesa della Madonna del Bosco al monastero ed era percorsa da processioni, contadini, carichi agricoli

Se ci guardiamo intorno, possiamo ritrovare le tracce di quel lontano passato nelle cascine sorte intorno al monastero, inserite in un disegno minuto di vigneti ed orti, di pendii tagliati a gradoni, di viottoli e scalette, di muretti costruiti a secco sorretti da archetti.

E boschi, boschi rigogliosi come quello sopra Astino, che gli abitanti del posto chiamano familiarmente “Scabla”: un querceto secolare d’importanza comunitaria, la cui forma ricorda la pelle di un orso.

Il plurisecolare querceto del bosco di Astino (Ph Claudia Roffeni)

Osservando con attenzione, vediamo intrecciarsi strettamente le storie degli uomini e del lavoro nei campi e vedere nelle vicende attuali il futuro di questa fertile valle, da sempre vocata all’agricoltura.

Le cascine sorte con l’arrivo dei Vallombrosani avevano l’aspetto di fortezze, come si evince dalle grosse mura perimetrali o dalle torri poi inglobate in ristrutturazioni postume; solo con il tempo si trasformarono in cascine aperte, i cosiddetti “sedumi” che compaiono negli antichi cabrei.

Prese forma il minuscolo borgo del Lavanderio, e, insieme, ad una fitta rete di percorsi di terra – di cui il convento era il fulcro – e di vie d’acqua.

una delle cascine sopravvissute nella valletta di Astino negli anni ’70 (Ph Edgardo Salvi)

Fin dall’epoca del suo insediamento, il monastero si approvvigionava di acqua dalla fontana “Astina”, ovvero il Lavanderio.

L’antica fontana “Astina” detta “Lavanderio”, da cui ha tratto origine la denominazione del borgo (Ph Claudia Roffeni)

L’autorizzazione alla captazione da parte del Podestà di Bergamo risale al 1203, ma prima, nel 1156, il monastero aveva ottenuto il diritto a captare l’acqua anche dalla fontana dell’Acquamorta, che insieme alla fonte del Gavazzolo alimentava generosamente l’acquedotto di Sudorno.

Dal XII secolo la sorgente dell’Acqua Morta (documentata dal 1156), posta in via S. Sebastiano al di sotto delle Case Moroni, fornì le sue acque alla conca di Astino; ad ovest del monastero resta traccia del condotto che vi giungeva

La piana di Astino è ancor’oggi disegnata dai canali di irrigazione che documentano la sapienza delle antiche opere idrauliche intraprese dai Vallombrosani: come il Canale del Pomperduto (che deriva l’acqua dal Serio sotto il ponte di Gorle e la conduce con tre “seriole” che tagliano la città, fino alla pianura di Stezzano e Levate) e la Roggia Curna, una derivazione della Morlana, a sua volta alimentata con acque dal fiume Serio.

Ideata primariamente dai Benedettini di Astino a cavallo del 1100 d.C., fu rifatta completamente da Bartolomeo Colleoni nel 1475 per portare le acque irrigue nelle sue estese proprietà terriere ad ovest di Bergamo, quindi verso Mozzo, Curno, Treviolo e Ponte San Pietro, notoriamente in balia delle estati siccitose. La Curna è tuttora di proprietà del Luogo Pio della Pietà Istituto dallo stesso condottiero.

Oggi il reticolato idrico è stato semplificato per facilitare il movimento dei moderni mezzi agricoli e i canali sono stati approfonditi allo scopo di drenare i campi convogliando l’eccesso delle acque superficiali.

Affiancato da platani e ontani, l’antico canale disegna oggi una grande ansa tra i campi, accorpati dal secondo dopoguerra in seguito all’abbandono delle campagne. Nel tratto a valle dell’attraversamento stradale, costituisce un corridoio ecologico con canneti e ripe vegetate, offrendo rifugio a fauna e flora spontanea

Ancor’oggi la valle d’Astino ha acque proprie, sia di origine sorgentizia, sia perché solcata da canali d’impluvio (qui nasce il torrente Morletta), mentre la falda sotterranea, ricca d’acqua, alimenta il pozzo recente servendo l’attuale progetto agricolo biologico: acque preziose, da sempre tenute in grande considerazione e gestite con oculatezza, a partire dai primi contadini che vi abitavano.

Tra gli appezzamenti di maggiore estensione oggi si alternano cereali (frumenti, segale, farro) e leguminose (soia), circondati da frutteti coltivati biologicamente. La presenza di un’ampia varietà di prodotti disponibili in ogni stagione, permette di rifornire direttamente i consumatori e i banchetti dei mercatini agricoli: un esempio di produzione a km 0

I PERCORSI

Anche le strade che percorriamo ricalcano l’antica rete dei collegamenti – imperniati sulla presenza del monastero – ed in primis il tracciato che sale al Lavanderio o quello che si inoltra nel bosco dell’Allegrezza per risalire all’antica via Bagnada, scollinando alla Madonna del Bosco.

L’antico monastero era uno snodo della strada proveniente dalla bassa Valle Brembana, che dal ponte di Briolo si dirigeva al Rizzolo del Pascolo e da lì alla sella di Madonna del Bosco, discendendo per l’antica via Bagnada, l’Allegrezza e il monastero. Raggiunto il Lavanderio, si risaliva alla Botta di San Sebastiano e da li a San Vigilio, in direzione Città Alta. Oggi il collegamento più immediato con Città Alta avviene attraverso i Torni e via Sudorno (un altro successivo asse è quello costituito da via San Martino della Pigrizia che da via Longuelo o da Strada Vecchia saliva a confluire in via Borgo Canale, antico confine tra le vicinie)

Il borgo del Lavanderio, il cui nome deriva dal lavatoio ancora presente, è sorto proprio sul percorso che collegava Città Alta – e lo stesso monastero di Astino – ai ponti di attraversamento sul Brembo attraverso Rizzolo del Pascolo; un percorso la cui antichità è comprovata dalla torre difensiva  medioevale, mozzata ed inserita nella cortina edificata posta all’altezza del portico, il quale ne ha celato la vista dalla valletta.

L’erta salita che conduce al minuscolo borgo del Lavanderio (Ph Claudia Roffeni)

IL PERCORSO: TRA VILLE, BOSCHETTI E ANTICHE FORTIFICAZIONI 

In un ambiente così conservato, percorrendo il nostro itinerario possiamo ancora “leggere” i segni del sistema difensivo medioevale eretto attorno alla città, di cui vi sono ampie tracce nelle strutture isolate d’avvistamento e segnalazione presenti tra Longuelo e Mozzo, dove, sia in pianura che in collina, sorgono torri, “castelli” e cascine turrite.

La zona di Astino è proprio quella che conserva il più articolato sistema di torri e fortificazioni, che controllavano le principali vie di penetrazione proteggendo sia il suburbio che la città murata, compresi i borghi che erano sorti lungo i suoi fianchi (a loro volta protetti da addizioni, cui si accedeva attraverso porte fortificate come quella dei Sanici in Borgo Canale).

A oriente della valletta di Astino, il colle di San Matteo della Pigrizia termina con l’emergenza settecentesca di villa Benaglia sorta sul luogo di un’antica fortificazione databile intorno al XV secolo, posta in collegamento visivo le  torri circostanti

All’estremità nord-occidentale dei colli, l’antichissima roccaforte di Sombreno, posta a controllo delle valli Brembana e S. Martino, svolgeva le medesime funzioni di avvistamento, mentre al vertice di tutto il sistema di segnalazione il Castello di S. Vigilio e, dal XIV secolo, la Rocca sul versante opposto, assicuravano in caso di pericolo una puntuale difesa.

Lo stesso monastero era in contatto visivo con la trecentesca casa-torre che sorge ad ovest, in via Astino 41, proprio in angolo con via Ripa Pasqualina: un antico fortilizio inglobato in un edificio.

La torre di via Astino 41

 

La fortificazione all’angolo tra via Astino e via Ripa Pasqualina, come si presentava nel 1910

Era poi in contatto visivo con la torre della cascina Bechèla (Becchella), nella via omonima, che si innesta allo svicolo tra via Astino e via Madonna del Bosco.

La Torre trecentesca della Cascina Becchella, posta al centro di un complesso rurale che incorpora la rozza torre, valorizzata in un successivo restauro. La via prende il nome dall’antica cascina fortificata Boccaleone detta Bechèla

Proseguendo per via Madonna del Bosco ed oltrepassata la cascina-trattoria Lozza, con animali in bella mostra per la gioia dei bambini, ci dirigiamo verso l’edificio delle Suore delle Poverelle (fondato nel 1869 dal Beato don Luigi Palazzolo ed ora casa di riposo per le suore), raggiungendo in breve la Chiesa di Madonna del Bosco, costruita nel 1762 abbattendo la primitiva cappella del 1615.

La chiesa di Madonna del Bosco, sorta nel 1762 in luogo di una cappella votiva dedicata alla Madonna che era stata eretta nel 1615 dalla gente della Val d’Astino, in questa località evidentemente ricca di alberi. Dal 1925 è chiesa parrocchiale

All’inizio dei tornanti che salgono ripidi alla sella di via Madonna del Bosco (strada aperta nel secondo dopoguerra), la piccola via della Vena portava a una cava di pietra arenaria, ora abbandonata, e le cui tracce sono ben visibili sui tornanti della nuova strada.

La fontanella che si incontra all’imbocco di via Castello Presati

Ma all’altezza della chiesa il nostro itinerario piega a sinistra lungo la pianeggiante via Castello Presati, che prende il nome dal possente fortilizio dei Capitani di Mozzo e che si incontra dove la strada, restringendosi, diviene sterrata.

In via Castello Presati

Mantenendoci lungo via Castello Presati costeggiamo il muro del campo da golf, attraversato da un antico bosco di roveri, incontrando diversi edifici tra cui la Casa Carnazzi e l’attigua cappella dedicata a Sant’Anna, sorte in età barocca quando Mozzo acquisì un ruolo di villeggiatura suburbana.

Villa S. Anna, in via Castello Presati

Giungiamo quindi a Castello Presati, adagiato su un dossello coltivato a vite e alla cui base sorgono cascine dal tardo medioevo. L’edificio è identificato nelle sue strutture più antiche con il castello dei signori di Mozzo.

Cartello Presati, citato all’inizio del XII secolo da Mosè del Brolo, è posto su una collinetta  in vista delle difese di Astino ad est e del territorio a ovest

Si sostiene che la sua torre quadrata sia stata fatta abbassare in epoca Napoleonica.

La corte di Castello Presati. Verso monte si intravedono il bellissimo arco acuto dell’ingresso e gli spigoli vivi delle pietre angolari

Da via Castello Presati, lasciata a sinistra la via che scende verso Longuelo, proseguiamo per via Borghetto di Mozzo, ammirando la conca stretta tra lo sperone del castello Presati (265 m.) e quello del colle Lochis (m. 287-309 s.l.m.), la propaggine che conclude a sud-ovest il sistema collinare, caratterizzando il crinale con cipressi secolari e disegnando il pendio con la trama dei vigneti e le case a corte con rustici, aperte a meridione.

Il colle costituiva una linea fortificata avanzata a difesa della città, dominata dal “castrum” dei capitani di Mozzo, un’importante famiglia documentata nel IX secolo, che contribuì alla nascita del monastero di Astino.

Colle Lochis, in territorio di Mozzo, dominato dalla residenza sorta in luogo di un’antica fortificazione, sul crinale caratterizzato da viale di cipressi. Alla base del pendio dolce e riparato si sviluppa il nucleo del Borghetto

Fiancheggiato il centro di recupero funzionale (ex Ospedale di Mozzo), continuiamo su via Borghetto (che segue l’andamento del colle tra villette, vigneti e bosco) sino a via Castello (una via asfaltata chiusa alle auto da una catena), che seguiremo in salita piegando a destra. Più si sale e più il panorama diviene ampio ed invidiabile.

Dopo il tratto di salita, la via Castello diviene pianeggiante sovrastando bellissimi vitigni; raggiunto il punto in cui la strada comincia a scendere, abbandoniamo via Castello per piegare nettamente a destra (indicazioni) imboccando il largo sentiero 805 CAI che si immette nel fitto e fresco bosco.

Poco oltre, raggiunto il primo bivio sentieristico, pieghiamo a sinistra per raggiungere in poco più di dieci minuti la modesta cima del Monte Gussa (390 m) in territorio di Mozzo (segnavia 807 CAI), dove è presente la croce metallica costruita dagli scouts nel 1950 e ricostruita dagli Alpini di Mozzo nel 1981.

La croce metallica del Monte Gussa in territorio di Mozzo: una zona attorniata da sentieri

Torniamo al precedente bivio sentieristico e pieghiamo a sinistra per raggiungere in breve la carrareccia che costeggia il lungo muro di contenimento della tenuta dell’imponente Villa Bagnada , punto panoramico in comunicazione visiva con il colle della Benaglia.

Villa Bagnada, immortalata da Claudia Roffeni. L’interno della villa è completamente affrescato

La villa, un esempio di architettura neoclassica di fine dell’Ottocento concepita come casa di villeggiatura, fu presumibilmente occupata dai capitani di Mozzo, data la sua posizione e i muri medioevali su cui è fondato il corpo centrale.

Vista frontale di Villa Bagnada, immersa nell’omonima tenuta (Ph Claudia Roffeni)

La dimora,  oggi dei fratelli Bonassi, si trova al centro di un paesaggio collinare ancora integro, dominando sola soletta la conca, al limite del bosco, e restando ben visibile dalla pianura.

Villa Bagnada: la semplicità dell’architettura è riscattata dalla bellezza della posizione e della natura. Su via della Vena, ai piedi del colle, è segnalata anche una cascina Bagnada bassa

 

L’interno dell’attigua chiesetta, costruita nel 1661 dal nobile  Giacomo Francesco Bagnati del fu Guardino, conserva una pala d’altare raffigurante una Madonna con Bambino, S. Francesco d’Assisi e S. Felice

Nonostante la modesta quota (338 m), il panorama sulla città di Bergamo e sulla pianura occidentale è davvero apprezzabile e la vicinanza ricorda la vicina frasca, ormai divenuta casa privata, cui si accedeva dalla sterrata di via Caneva (da “cantina, deposito di vino”, appunto).

Via Caneva, strada campestre posta tra via Bagnada e via Rabaiona

Lasciata alle spalle l’omonima villa, ripariamo mantenendoci su via Bagnada, che diviene in breve nuovamente asfaltata, e proseguiamo sempre dritti su via Rabaiona, toponimo derivante probabilmente dal cognome Rabaioni o Rabaglio, conservato nel nome di una cascina.

In lieve discesa raggiungiamo la sella di Madonna del Bosco (il valico che collega la conca di Astino con quella di Sombreno) per immergerci, al di là della strada, nel fitto bosco dell’Allegrezza attraverso un sentiero che ridiscende dolcemente sino al bivio sentieristico che indica verso destra la direzione per il Castello – Cascina dell’Allegrezza.

Il bosco dell’Allegrezza, in vista dell’antica fortificazione. Il toponimo sembra derivare dal termine “Grangia”, deformato in “Granza”; troviamo nel corso dei secoli: “la Granza”, “Alagranza”, “de la legranza”, “Allegraza”, “Allegrezza”. Ma potrebbe essere anche una deformazione del termine “leporizia”, un’allusione alla ricchezza di selvaggina (Ph Claudia Roffeni)

In breve raggiungiamo i ruderi del Castello dell’Allegrezza (280 m), nel medioevo presidio fortificato di proprietà della potentissima famiglia Suardi, inserito nel sistema difensivo del suburbio. Era dotato di un’alta torre di avvistamento posta in contatto visivo con il Castello Presati.

I ruderi del Castello dell’Allegrezza, presidio fortificato medioevale poi adattato a cascina (Ph Claudia Roffeni)

 

Il Castello dell’Allegrezza, proprietà fortificata della potentissima famiglia Suardi (Ph Claudia Roffeni)

Esaurita la funzione originaria, il complesso venne adattato a cascina con l’apertura di alcune finestre, la creazione di una corte e la costruzione di un porticato sul fianco est, per poi essere abbandonato alla fine degli anni 50 del secolo scorso.

I ruderi lasciano trapelare la solida geometria delle sue architetture, con le cortine murarie in massicci blocchi di pietra a vista, accuratamente squadrata (Ph Claudia Roffeni)

Il Castello è immerso in una Riserva tutelata, grazie alla presenza di un querceto misto a specie rare nella collina Bergamasca (come il cerro), lungo il sentiero che congiunge la Madonna del bosco alla valletta di Astino.

Scorcio sul bosco dell’Allegrezza con il suo “Castello” (Ph Claudia Roffeni)

Non mancano i castagni, che erano fonte di alimento e di materiale da impiegare nel vigneto e per riscaldare e, con un po’ di attenzione, si scoprono anche i vecchi terrazzamenti.

Il Castello è immerso in un’area speciale di tutela, grazie alla presenza di un querceto misto a farnia, rovere e specialmente cerro (ampiamente diffuso in Appennino e facilmente riconoscibile per la cupola della ghianda aculeata), con carpino bianco e frassino minore, un’autentica rarità nella collina Bergamasca, ove prosperano i robineti e i vecchi castagneti che tentano a fatica di ritornare querceti come in origine (Ph Claudia Roffeni)

 

Il ruderi del Castello-Cascina dell’Allegrezza (Ph Claudia Roffeni)

Ritorniamo indietro sino al precedente bivio e seguiamo ancora in discesa il sentiero che in breve si immette sulla strada asfaltata di via Allegrezza, da cui si apre una veduta di largo respiro sulla piana coltivata di Astino.

Dalla via dell’Allegrezza si può godere della vista del terrapieno del monastero, un tempo destinato alle colture difese dagli alti muri e i cui prodotti erano destinati alla cucina. Si può anche apprezzare l’eccezionale l’amenità del luogo e il profumo delle essenze (camomilla, malva, calendula, menta ed equiseto) e il colore delle bacche mature (more, lamponi, mirtilli giganti, cespugli di ribes rossi e gialli, di uva-spina e fragole), ricche di vitamine ed antociani dalle proprietà antiossidanti

Percorriamo la strada raggiungendo in breve tempo il complesso monastico, che i frati rinnovarono dagli inizi del ‘500, quando nella valletta fortificata intervennero importanti cambiamenti.

Il chiostro dell’ex monastero di Astino prima degli interventi di recupero

AGLI ALBORI DEL CINQUECENTO: IL RINNOVAMENTO AGRICOLO E LA NASCITA DELLE CASE DI VILLEGGIATURA

Con gli interventi di rinnovamento eseguiti nella chiesa e nel monastero anche  la terra divenne oggetto di un rinnovato impegno di sfruttamento agricolo: le nuove cascine sorte intorno al monastero e distribuite lungo il calibro minuto  dei tracciati medioevali, vennero adattate ad usi rurali, così come i robusti impianti fortificati circostanti quali il Castello dell’Allegrezza o la torre del Lavanderio, che da quel momento vennero a dipendere dall’abbazia: un documento del 1516 rivela che il terreno intorno al Castello dell’Allegrezza era ‘coltivato a vite, prugni, castagni da frutto e da legna, meli, peri, noci, ciliegi, fichi, salici, roveri, cerri’.

L’ambiente naturale intorno ai ruderi dell’antica Cascina-Fortezza dell’Allegrezza (Ph Claudia Roffeni)

Già nel Quattrocento, sulla collina di San Vigilio erano sorti i primi roccoli,  avviando una tradizione tipica della terra bergamasca e dei suoi abitanti. Ora considerata pratica crudele, la caccia con le reti era un tempo l’unica che consentisse a montanari e contadini di aggiungere nel piatto – dove prevaleva la polenta – la saporita carne degli uccelli stanziali e di passo; quotidianamente, dai colli giungevano alla città  lunghe sfilze di tordi.

L’inizio del Cinquecento è anche il momento in cui la plaga di Astino è già ambito e collaudato luogo di villeggiatura suburbana, con le “villulae” che punteggiano qua e là i crinali ed i pendii.

L’ingresso di un’antica dimora affacciata sulla valle di Astino, lungo la strada del Lavanderio (Ph Claudia Roffeni)

 

Prospetto della dimora affacciata sulla valle di Astino, lungo la strada del Lavanderio (Ph Claudia Roffeni)

Ville di dimensioni raccolte affiancate da rustici, in una semplicità di elementi costruttivi, di impiego di materiali e colori, felicemente fusi in un paesaggio disegnato da alberi e coltivazioni. Oggi, non sempre riconoscibili in quanto trasformate da ristrutturazioni successive.

La forcella della Botta di San Sebastiano nel 1938: è in questo importante nodo viario che si concentrano i maggiori interventi del periodo, con la chiesa di S. Sebastiano e la cortina edificata della Botta e la piccola piazza alla quale confluiscono le vie del Colle dei Roccoli,  del Rione, S. Sebastiano (quest’ultima tracciata proprio agli inizi del ‘500) e la via Botta

La tradizione vuole che Plinio il Giovane, nipote dell’altro Plinio (morto nell’eruzione del Vesuvio), avesse una villa sui colli. Nativo di Como, Bergamo doveva essergli familiare e si volle identificare in una villa sul crinale tra il Pascolo dei Tedeschi e la valle d’Astino la dimora – chiamata ancor oggi Villa Plinia, sede delI’Istituto Palazzolo-Noviziato Suore delle Poverelle – dove trascorreva le vacanze.

Com’era Il monastero nel 1972 (Ph Gianni Gelmini)

Del tardo Quattrocento riconosciamo la “Cascina Moroni”, mollemente adagiata su un terrazzo soleggiato al di sotto della Bastia: fu edificata dai monaci di Astino come tubercolosario ad uso privato (è infatti impreziosita da affreschi di soggetto religioso) e poi divenne un edificio padronale.

Al bivio tra via Case Moroni e via del Rione, la “Cascina Moroni” è conservata nel suo aspetto originario. Dal 1600 divenne proprietà dei conti Moroni e negli anni ’50 fu adibita a “frasca”, gestita dalla famiglia Nessi fino agli anni ‘80. La sua origine non rurale si riconosce nella netta distinzione tra la parte padronale e quella rustica giustapposte, la prima con portico ad archi ribassati su pilastri di arenaria e loggia sovrastante ad archi su colonne

 

Come appariva il versante dei Torni negli anni 70, quando ancora si coltivava la vite. Via alle Case Moroni attraversa il pendio fino all’omonima cascina, in quegli anni adibita a frasca

Nella fase cinquecentesca delle ville sui colli rientra anche la non lontana Villa Benaglia, che dominando il piano di Longuelo forma una delle più spiccate emergenze architettoniche e ambientali del Parco dei Colli.

Villa Benaglia, con l’arioso fronte meridionale a portico e loggiato ad archi; il raddoppio delle arcate al primo piano richiama i loggiati rustici e i chiostri conventuali del XV secolo

Dal 1600, il versante meridionale, terrazzato dagli stessi Vallombrosani, fu vitato con uva bianca moscatella, vernaccia e malvasia, regalando la sua impronta al paesaggio della Val d’Astino.

I tralci di vite erano sostenuti da pali ricavati dai castagni del bosco e maritati a olmi o aceri campestri. La terra tra i filari, distanziati tra loro di 3-4 metri, era coltivata zolla per zolla, concimata dal letame che usciva dalle stalle

I grappoli, portati al monastero lungo i sentieri campestri, venivano immersi negli enormi tini delle imponenti cantine, dove affluivano anche uve di altri territori che fecero del monastero la prima cantina sociale della Bergamasca.

Un momento della degustazione dei vini e delle birre artigianali del Birrificio Elav nella suggestiva cornice di antiche volte in pietra delle Cantine del Monastero, tra le secolari botti in legno

 

Astino negli anni ’70 (Ph Edgardo Salvi)

LA STAGIONE LIBERTY DEL COLLE

L’antico spazio rurale è radicalmente mutato, insieme ai colori e alla tessitura dei pendii; i contadini hanno da tempo lasciato le loro cascine, trasformate in residenze stabili o di villeggiatura sul finire dell’Ottocento e ancor di più nel primo Novecento, quando gli abitanti della città hanno cominciato a scoprire le splendide colline panoramiche di monte Bastia e S. Vigilio, felicemente esposte e baciate dal sole in ogni stagione.

La fioritura del Liberty sul colle di San Vigilio (stampa di Partrick Serra)

Alle poche case che punteggiavano la conca, ch’era ancora fortemente rurale, si sono sovrapposti gli edifici in stile liberty, che hanno trasformato questi luoghi sulla scia dei modelli di città-vacanza facendo loro acquisire quella singolarità paesistica e panoramica che oggi ben conosciamo:  non più solo case di villeggiatura nella vecchia casa di famiglia o per le cacce quindi, ma vere e proprie residenze che i cittadini più abbienti hanno cominciato a costruire nei luoghi più accessibili.

L’arrivo della funicolare, con l’impianto di collegamento rapido tra S. Vigilio e Città Alta, impose la sua discreta presenza nel paesaggio collinare

Sui pendii che abbracciano la conca sono fiorite ville e villini di stampo Liberty felicemente fusi nel paesaggio vario di coltivazioni e alberi: è il caso di Villa Keller, a oriente del monastero, o del Villino Neri sui Torni, costruita su una casa preesistente e delicatamente decorata in stile.

Villino Neri sui Torni, dimora decorata in stile liberty costruita una casa preesistente, con il fronte su strada affrescato con soavi figure femminili di gusto preraffaelita e ingentilito da modanature in stile

Villa Keller, di timbro romantico-eclettico, è circondata da uno splendido parco naturalmente legato al plurisecolare querceto di Astino, adagiato sul versante nord-occidentale della dorsale di Sudorno: un bosco che, insieme a quello dell’Allegrezza, ha conservato condizioni che avvicinano agli antichi equilibri.

Villa Keller immersa nel bosco di Astino (Ph Carlo Leidi)

Ai piedi di via Monte Bastia spicca l’emblema più vistoso del fenomeno che in quel periodo fa divenire la località ambito sito di villeggiatura: la monumentale Villa Viviani, nata dalla ristrutturazione e dall’ampliamento negli anni Venti di un edificio cinquecentesco corrispondente alla torretta terminale medioevaleggiante.

Villa Viviani, con lo scenografico giardino che prospetta su via S. Sebastiano. Come altri villini della zona, le due piccole dipendenze rustiche sono di aggiornato gusto déco, mentre la parte nuova, con gli apparati decorativi interni, è neobarocca

A questa singolare ed esclusiva concezione dell’abitare si è accompagnata la fioritura di giardini, che oggi mimetizzano i crinali così come lo stesso Castello di S. Vigilio.

A poco a poco, al verde tradizionale costituito anche da colture legnose come la vite e gli alberi da frutto, si è sostituito il verde dei giardini con la comparsa di nuove essenze, anche esotiche, e l’introduzione di alcune conifere.

Il Belvedere di San Vigilio

A partire dagli anni ’50 del secolo scorso, via via che le famiglie abbandonavano le attività agricole e le cascine intorno al Monastero, si è assistito al degrado degli edifici, all’estirpazione dei vigneti, all’espansione del bosco sui terrazzamenti, alla trasformazione della piana agricola in una grande monocoltura a mais.

Le viti sono così scomparse dalla valle, con qualche rara eccezione, come in prossimità della cascina La Schésa, adagiata sul lato sud-est della conca, databile nelle sue strutture più antiche tra il ‘400 e il ‘500.

Oggi, il nuovo vigneto appena sotto il Monastero rappresenta quindi un grande ritorno.

Oggi il vigneto di Astino produce le prime uve bio della Bergamasca di chardonnay, le uve bianche destinate alla produzione di ‘bollicine’ con metodo classico, 24 mesi sui lieviti. Il terreno interfilare è gestito a prato, in luogo di una precedente monocoltura a mais. Sull’altro lato del viale è previsto un altro impianto con un mix tra due cloni di Pinot bianco e Riesling renano. Inoltre, la coltivazione di luppolo, la prima della Bergamasca, è destinata a diventare componente di una birra biologica aromatizzata con more e lamponi coltivati in loco, insieme a una vasta gamma di frutti di bosco

Anche il “colore” e la tessitura dei pendii, ora disegnati da una più minuta architettura vegetale, è cambiato, ed oggi non possiamo che ammirarne supefatti la bellezza struggente e variegata, fatta di terrazzamenti rigogliosi, campiture di colore e giardini grandi e piccoli, che donano alla valletta uno strepitoso pregio paesaggistico.

Soprattutto, la piana e le prime balze della collina mantengono le caratteristiche di un’oasi agricola, dove permane la  consuetudine della passeggiata domenicale, della colazione sull’erba o in qualche radura del bosco, con frotte di persone che percorrono viuzze, boschi, sentieri e scalette.

La scaletta della Ripa Pasqualina – toponimo derivante dalla famiglia Pasqualini, un tempo proprietaria di alcuni appezzamenti di terreno ai margini della scaletta – attraversa il bosco di Sudorno fino alla splendida balconata affacciata sulla Conca d’Oro, consentendo un percorso ad anello che riconduce alla piana di Astino

Ed infine, ben esposto sulle terrazze secolari che un tempo accoglievano viti e coltivi, è tornato l’olivo, ove un tempo vi era un podere denominato Monte Oliveto, in linea con la lunga tradizione sui colli di Bergamo.

La valle di Astino, un ambiente rurale oggi “rivisitato”, tanto da potersi fregiare dell’ambito titolo di “valle della Biodiversità”, la sezione dell’Orto botanico di Bergamo che avvicina il pubblico al Regno delle Piante utili e contribuisce a dare nuova vita al compendio agricolo e forestale di Astino

Nella piana racchiusa tra i boschi la vita scorre lenta all’ombra del monastero, dove grazie al lavoro dell’uomo la natura elargisce frutti a piene mani.

Dove la sera, il volo delle cornacchie lascia spazio al suono dei rapaci e al gracidìo di raganelle, che zittiscono al sorgere del sole quando un cinguettio indistinto prende a scandire il tempo insieme al canto del Cucù.

Nella Valle che profuma di Storia, dove il tempo sembra essersi fermato.

 

Riferimenti essenziali
“Il Parco dei Colli di Bergamo – Introduzione alla conoscenza del territorio”: “Caratteri urbanistici e presenze architettoniche”, Graziella Colmuto Zanella. “Spunti per una lettura del paesaggio del Parco dei Colli”, Lelio Pagani.
“Alle porte di Città Alta”, V. Bailo, R. Cremaschi, P. Serra – Associazione per Città Alta e i Colli di Bergamo – Spaggiari edizioni Srl, 20.

A cura del Parco dei Colli, “Progetto Il Colle di Bergamo”.  Lubrina, 1989.

La vita e il lavoro nella Valverde e nella Valtesse di ieri

E’ impossibile non innamorarsi della conca di Valverde, quell’anfiteatro verdeggiante esposto nel versante più fresco dei Colli, che s’inerpica su, fino alla porta di San Lorenzo, ai piedi della quale si adagia nella sua splendida semplicità, volgendosi al meraviglioso profilo del borgo San Lorenzo.
Ma quanto conosciamo davvero questa piccola località incastonata tra l’alta città e le propaggini montane?  
Cosa sappiamo del suo passato e della sua gente, del  lavoro che per secoli si svolse in questa umile eppur bellissima porzione collinare, consorella di Valtesse?
Per questo motivo ho voluto dedicare alle due località un intimo affresco, che ritrae i momenti più significativi della vita e del lavoro che  si svolgeva nei campi e nelle cascine: dalle attività più tradizionali legate all’agricoltura  con la produzione della vite, a quella tipica del luogo, a molti sconosciuta: quella dei lavandai, un’attività resa possibile dalla presenza della Morla e dai tanti ruscelli e ruscelletti che solcavano copiosi tutta l’area

Le cronache di fine Ottocento raccontano che fino agli anni ’50 del secolo scorso Valverde era tutta composta da lavandai e giornalieri.

Tra le tante famiglie che traevano sostentamento da questa attività, spiccavano i nomi dei Sarzetti e dei Luzzana.

Sarzetti Lucia Rigamonti in una foto giovanile, davanti al cavallo e Sarzetti Pietro nel carro, con il cappello da alpino, assieme ad un amico, con il carico di biancheria da lavare ritirata in città. Foto del 1946, ripresa nella stradella che da via Maironi porta alla cascina di Valverde, sotto la porta Garibaldi

La famiglia Sarzetti svolgeva tale mansione presso la cascina “Cerea”, nel cuore della Val Verde, utilizzando l’acqua del “rio Valverde”, alimentato da sorgenti permanenti disseminate in tutta la valletta che scende da Colle Aperto e da Porta S. Lorenzo, come abbiamo avuto modo di osservare qui.

Porta S. Lorenzo segna la linea di demarcazione fra Valverde e Città Alta (Raccolta D. Lucchetti)

La cascina “Cerea” era anche denominata la “Cà dei sòi”, tradotto letteralmente in “casa dei mastelli”, qui ritratta in una cartolina dell’epoca insieme ad una quantità incredibile di lenzuola stese ad asciugare: l’attività dei Sarzetti reggeva la concorrenza dei lavandai di Paladina, dove quasi tutti gli abitanti erano occupati in tale attività.

La “ca dei sòi”, nella valletta di Valverde, attorniata da lunghe fila di LENZUOLA stese ad asciagare, segno evidente della presenza nella cascina dell’attività di lavandai. La biancheria veniva ritirata al lunedì e riconsegnata al sabato. Agli alberghi si faceva il possibile per riconsegnarla già al mercoledì (Raccolta D. Lucchetti)

Nel vocabolario dei dialetti bergamaschi del Tiraboschi,“Sòi”  sta per “Mastello, Tinello. Gran vaso di legno, a doghe, cerchiato di ferro, consimile a un tino, ed adoperato pel bucato”.

La “Ca dei sòi” e il profilo di borgo S. Lorenzo

I mastelli, collocati sopra un treppiede di legno – “cavra dei sòi” -, contenevano fino all’orlo i panni da lavare, che venivano ricoperti con un tessuto a trama fitta sopra il quale i lavandai versavano la cenere di legno e poi l’acqua bollente. Da questa miscela si otteneva la liscivia, il rudimentale detersivo di una volta.

Il lavoro comportava una gran fatica sia per i lavandai e sia per donne di casa, che adottando tale sistema garantivano una perfetta pulizia del bucato, profumato in modo del tutto particolare.

La “ca dei sòi” e Valverde nella penombra. In lontananza la Maresana e il Canto Alto

Tra gli altri, facevano parte della clientela dei Sarzetti il Comando della Guardia di Finanza con sede in Rocca, il Comando dell’aviazione tedesca, sistemato nell’attuale scuola di ragioneria nei pressi della stazione ferroviaria, l’Albergo “Agnello d’Oro” di Borgo S.Caterina, l’Albergo del Sole di Piazza Vecchia.

Albergo del Sole in Piazza Vecchia

La biancheria veniva ritirata il lunedì e riconsegnata, al massimo, a fine settimana; ma per quanto riguardava, in particolare, le tovaglie dei ristoranti e le lenzuola degli alberghi, si faceva il possibile per portare a termine il lavoro con maggior celerità.
Il trasporto della biancheria avveniva con il carro tirato dal cavallo.

Il carretto dei lavandai in via Arena

 

Il servizio di lavanderia a domicilio svolto dai lavandai di Valverde (Ph Alfonso Modonesi)

C’erano poi i Luzzana, che svolgevano l’attività di lavandai vicino aI ponte della Morla. Il capo famiglia, Luzzana Pietro, era conosciuto come Piero del pùt.
L’abitazione era accanto al ponte dal lato della chiesa.

La barriera daziaria di Porta Santa Caterina (già borgo di Plorzano) in una splendida fotografia di Rodolfo Masperi (Raccolta Lucchetti)

 

Luzzana Pietro e Esposito Giacoma via Maironi da Ponte, 1919 (Lazzana, lavandaio al Ponte della Morla)

Per lavare veniva utilizzata l’acqua stessa della Morla, che all’epoca, alla fine anni ‘3O, era ritenuta pulitissima.

I sòi erano collocati in uno stanzone al piano terra dell’abitazione, mentre i panni lavati, per lo più lenzuoli, tovaglie, asciugamani, venivano stesi ad asciugare in un campo che la famiglia aveva in affitto al di là della Morla, prima del ponte.
In una fase successiva, nel campo era stato costruito anche un capannone dove erano stati sistemati i mastelli e in tal modo tutta l’attività si svolgeva oltre la Morla.

Tra la clientela gli abitanti ricordano le suore Canossiane di via della Milizia (oggi via S. Tomaso), il conte Marenzi di Pignolo, alberghi e ristoranti.

Via S. Tomaso, un tempo chiamata via della Milizia

Per ritirare e riconsegnare la biancheria (ritirata al lunedì e riconsegnata il lunedì successivo) i Luzzana usavano un carretto trainato da un asino di loro proprietà, che tenevano presso il vicino contadino.

La famiglia di Pietro Lussana, di via Maironi, 1948. “Piero del put” è noto per essere stato uno degli ultimi lavandai di Valverde

Piero del pùt cessò l’attività di lavandaio verso l’inizio degli anni 40 per una sfortunata serie di motivi: la morte dell’asino, che gli serviva per ritirare e riconsegnare la biancheria (e che non poteva rimpiazzare), una forte inondazione della Morla, che aveva divelto quasi tutte le pietre sistemate per lavare (l’acqua  aveva ricoperto anche il ponte) e la partenza per la guerra del fratello, che gli dava una mano nell’attività.

La piena della Morla del Luglio 1992 (Foto di Carlo Scarpanti)

 

La piena della Morla del Luglio 1992 (Foto di Carlo Scarpanti)

In Valverde v’erano altre famiglie di lavandai, seppur con attività più limitata rispetto a quelle citate.
I Cerutti (Ol Filottì) svolgevano l’attività in via Filotti, nella casa abitata dalla famiglia e adoperavano l’acqua della Morla.

Anche la casa di Andreini Piero detto, “il Baracchì”, di via Filotti era denominata “la cà dei sòi”.

L’ingresso dell’osteria “Gnuc”

I Noris abitavano in una casetta in via Maironi, dal lato apposto alla chiesa, sotto il castello di Valverde. Usavano l’acqua di una seriolina che passava lungo la strada.
I Noris avevano costruito anche un’ampia tettoia sotto cui stendere i panni ad asciugare.

Nella panoramica, il castello di Valverde sulla destra

I Foresti abitavano all’angolo tra via Valverde e via Maironi; anch’essi usavano l’acqua di una seriolina che passava nelle vicinanze; probabilmente, come per i Noris, doveva trattarsi di diramazioni del “Rio Valverde”.

Un componente di quest’ultima famiglia, di professione tipografo, si faceva notare per essere proprietario di un velocipide (una bicicletta con la ruota davanti grandissima e quella posteriore invece molto piccola) con il quale ogni anno partecipava alla biciclettata organizzata da un gruppo di Valverde.

C’erano poi i Borsatti,  lavandai in via Valverde nella zona delle case Rossi, che utilizzavano l’acqua del ruscello della valle delle Cave. Nella stessa zona  anche i Minoia dovevano forse svolgere la medesima attività.

Nel tratto finale del ruscello, poco prima della confluenza nella Morla, erano sistemate delle grandi pietre lisce utilizzate per lavare i panni.

La via Maggiore, in uscita da Valverde

Con gli anni ’50 cessava l’attività dei lavandai di Valverde.
Diversamente da quanto in quegli anni fu fatto a Paladina – località in cui quasi tutti gli abitanti svolgevano l’attività di lavandai -, a Valverde non furono introdotte innovazioni e quando giunse a termine la stagione del solo lavoro manuale, cessò anche l’attività dei lavandai.

 

Momenti di vita e di lavoro: le immagini

Franco Rigamonti al mercato nel 1954

 

Brembati Evaristo, nonno di Burini Anna Rigamonti

 

Farina Carolina, nonna di Burini Anna Rigamonti

 

I fratelli Rigamonti nella stagione della divisa, 1936. Le quattro divise rappresentano rispettivamente: figlio della lupa, balilla, avanguardista, giovane fascista

 

Cattaneo Giacomo della Tegazza, con i compagni di lavoro, al termine della costruzione della cappelletta votiva lungo la strada che conduce a S. Vigilio (fine anni ’20)

 

Cattaneo Giacomo della Tegazza, muratore, al lavoro per costruire la cappelletta votiva lungo la strada che conduce a S. Vigilio (fine anni ’20)

 

Gritti di Valverde (1° a sinistra), classe 1895

 

Ingresso stabilimento Fratelli Mazzoleni

 

La Sace ritratta nel 1946 in occasione dell’inaugurazione dell’ stabilimento. Il territorio di Valtesse è ancora quasi del tutto agricolo

 

Veduta su Valverde, la piana di Valtesse e la Maresana. In lontananza a destra spicca la chiesa di San Colombano

 

La casa contadina dei Taiocchi trasformata in officina, prima che venisse abbattuta per la costruzione di un nuovo edificio da adibire alla produzione (1960 circa)

 

Via Pietro Ruggeri: Boffelli Gianni nella salumeria ereditata da suo padre Antonio (nativo di Camerata Cornello), che aveva aperto il negozio negli anni ’20

 

“Piciorla e pom”

Panorama su Valverde da Colle Aperto (Raccolta D. Lucchetti)

La piana di Valtesse è molto cambiata, dove c’erano cascine e molti poderi, oggi ci sono tante abitazioni e l’attività agrícola è del tutto scomparsa.

Anni ’30: massaie rurali di Valtesse e Valverde alla “Ca Binca” di via Castagneta

Anche sui Colli, si sa, vi sono stati moltissimi cambiamenti; il numero delle case è rimasto pressappoco lo stesso ma da cascine per contadini si sono trasformate in abitazioni per il ceto medio.

Anni ’30: massaie rurali di Valtesse e Valverde alla “Ca Binca” di via Castagneta

Dei vigneti di allora, testimoniati dalle immagini dell’epca, non restano che pochi lembi.

Veduta sulle propaggini di Valverde e sulla piana di Valtesse

 

Veduta sulle propaggini di Valverde e sulla piana di Valtesse

Quegli stessi vigneti che non consentivano la produzione di vino di buona qualità ma piuttosto di un vino chiamato “piciorla”.

Anni ’30 – “Ca Bianca”: le viti del “piciorla” e la mietitura svolta ad opera delle massaie rurali

 

Anni ’30 – “Ca Bianca”:  Le viti del “piciorla” e il “melgòt”, con le massaie rurali

Si parla del ”piciorla” in un curioso articolo pubblicato dall’“Eco” il 24 apríle del ’93, che rievoca episodi riportati dal giornale un secolo prima:

”Ieri sera (cíoè Domeníca 16 aprile 1893, visto che il reporter scriveva il lunedì 17), verso le 7 e mezza, nell’osteria detta il Trentino fuori Porta S. Caterina, vennero a rissa parecchi contadini di Valtesse. Riscaldatisi presto gli animi, volarono per aria tazze e bicchieri e quant’altro capitava alle mani dei rissanti.
Un certo Properzi Antonio, d’anni 42, mediatore, s’ebbe nella testa la misura di un mezzo litro di vino, che gli produsse una ferita giudicata guaribile in una trentina di giorni. Venne ricoverato all’Ospedale.

Come ricorcla Luigi Pelandi, la bettola in questione era posta in via Baioni. Gestita da pugliesi, prendeva il nome dal prezzo del suo vino: “squinzano” e “manduria” a centesimi trenta (trenta ghèi) al boccale d’un litro. Una vera bazzecola per quegli amici di Bacco, contradaioli e forestieri (così allora venivano considerati anche gli abitanti dell’hinterland), che non potevano o volevano permettersi l’aristocratico barolo o la barbera.

Presso il “trani”, racconta ancora il Pelandi, era stato istituito un servizio di carriole (come quelle in uso dai maratori…) per riportare a domicilio gli incauti bevitori messi K.O. dalla gradazione alcoolica di quel generoso liquore, fatale a compare Turiddu e bevuto disinvoltamente come se si trattasse delle anemiche “piciorle” della Maresana e dei colli limitrofi. Nel caso rievocato la carriola aveva funzionato da…ambulanza”.

La vendemmia, 1982

Fortunatamente si è registrato qualche singolare ritorno al passato nel terreno intorno alla cascina di via Valverde (ex proprietà Garofano), con la nuova piantagione di vitigni adatti all’ambiente, che forniscono uva di buona qualità e dunque un buon vino da tavola.

La vendemmia a Valverde, 1990

 

Il raccolto dell’uva a Valverde

Mosè del Brolo, nel XII secolo, scriveva che sui colli di Bergamo si avevano
“Boschetti ove fiorisce il castagno qui verdi e sempre verdi prati e pampinee viti, e meli e noci e olivi e tenue zampillar di fonti…”.

Scriveva poi il poeta vernacolo Bressani che nel 1490, a Ponteranica e a Sorisole, nella valle del Morla, si producevano e si vendevano mele.

“Gne con tal desideri Sant’Antoní
Per vèend beligòcc, pom e castegni pesti,
Da Poltranga a Surisel specià i doni
Gne ai desidera ch’as faghi di festi”.
(Volpi, “Usi Costumi e Tradizioni Bergamasche”, pag. 183).

 

Il lavoro nei campi e nelle cascine

La cascina sotto le mura di S. Agostino (1978)

 

Andreini Angelo e Tajocchi Franco “massadur de sunì”

 

Arnie in Valverde

 

Prometti Tullio, Rocco, Tomaso e Rosario (primi anni ’50)

 

La fienagione

 

Caprette al pascolo

 

Vaglieri Ernesto con il figlio Gino, 1950

 

La raccolta delle ciliege, 1955

 

Il “ravizzone”, pianta da cui si può cavare l’olio e che può essere usata anche come foraggio, 1996

 

La raccolta delle patate, 1990

 

La mietitrebbia, 1986

 

Le cave

Particolare della Carta Industriale della provincia di Bergamo, fine ‘800. Valtesse porta il segno della presenza di un polverificio

In passato nella località di Castagneta erano attive Cave di pietra mentre in Valverde si estraeva argilla per la produzione della ghisa negli altiforni. L’ultima cava di terra in Valverde, gestita dalla famiglia Rossi, ha cessato la propria attività pochi anni orsono.

Nella zona è stata soprattutto estratta la pietra di Castagneta (molto simile all’arenaria di Sarnico), impiegata abbondantemente in Città Alta sin dall’epoca romana: nei tratti di basolato  rinvenuto nelle vie Gombito e Colleoni e in alcune lapidi, così come in coperture tombali risalenti al medioevo e, in grande misura, nella fabbrica di S. Maria Maggiore, nella chiesa di S. Agostino e  nelle Mura veneziane, da S Agostino fino al Castello di S. Vigilio.

Chiesa di S. Agostino, adibita a caserma

Fra le moltitudini di tagliapietra impiegati nell’opera ciclopica delle Mura vi furono senz’altro i “picapreda” di Valtesse; un documento attesta che l’incarico di costruire la Porta di S. Agostino venne dato ai fratelli Pietro e Cristoforo dei Marchesi, che per quest’opera ricevattero 352 ducati: quella stessa porta che insieme a quella di S. Giacomo il generale conte Francesco Martinengo considerava le “due più belle e più sicure del Veneto”.

Nota
Le notizie relative al capitolo “Gli ultimi lavandai di Valverde”, sono state redatte sulla scorta di informazioni fornite da Lucia Sarzetti Rigamonti e da Giuditta Luzzana Frigeni, che hanno aiutato i genitori e i fratelli piu anziani a svolgere questa attività.

Riferimento essenziale
“Valverde e dintorni” – Centro ricreativo Valtesse per la Terza Età – A cura di Gino Pecchi.

Bergamo nelle impressioni di Hermann Hesse: dalla percezione all’anima

Al suo terzo appassionato viaggio in Italia, nel 1913 il grande scrittore svizzero-tedesco Hermann Hesse – premio Nobel per la Letteratura nel 1946 – compie un viaggio in Lombardia visitando in successione Como, Bergamo e Cremona, mete tra le meno sfruttate dai viaggiatori celebri del tempo. Com’è consuetudine, annota le impressioni e le emozioni del viaggio nel suo “Bildebuch”, lasciandoci in eredità una delle descrizioni più belle e suggestive dell’antica Bergamo.

Dopo aver visitato due grandi mete del Belpaese, Venezia e Firenze, egli desidera ardentemente andare alla scoperta di centri minori, lontani dai Grand Tour così in voga tra gli intellettuali e gli aristocratici del tempo. Desidera vagare per cittadine raccolte e un po’ assonnate, ricche di logge e porticati che offrano frescura e rifugio al viandante straniero; luoghi dal carattere remoto e dalla grazia ritrosa che si possano percorrere a piedi e abbracciare dall’alto in un solo sguardo, con strade e viottoli nei quali il tempo sembra sospeso. Luoghi simili alle amate cittadine dell’Italia centrale con quegli ‘umidi vapori di angusti vicoli’ e le ‘presaghe oscurità’.

L’autore del “Viandante” si lascia condurre per la città non dalle istruzioni contenute in una Guida ma solo dalla sua anima colta, sensibile e aperta,  soffermandosi su ciò che per lui è fonte essenziale di emozione e quindi degno di prolungato sguardo contemplativo.

Hesse, che salì in Città Alta verso notte, pieno di curiosità, addentrandosi inaspettatamente in una grande, magnifica piazza si lasciò attrarre da oscurità piene di mistero e sorprendere da nobili costruzioni balzanti su all’improvviso con genuino stupore, lasciando che i suoi sensi, complice la notte, lo trasportassero in un mondo surreale, ingigantito da ombre oscure, che si dissolsero con la luce del giorno.

Giunto al cospetto della chiesa grande di Santa Maria, si trovò subito ravvolto da una luce e da un profumo devoti e solenni, respirando l’ardore e la consapevolezza di un superbo passato e attirato da un raggio di sole ad un palazzone che sullo sfondo lasciava giungere dalle finestre spalancate le voci a coro di scolari…

Rimase lì incantato.

§§§

In una notte di marzo del 1913 l’allora trentaseienne Hermann Hesse  approda  alla stazione di Bergamo…

s’incammina verso la funicolare e a poco a poco il profilo lucente di Città Alta si svela al suo sguardo.

Risale l’imponente arteria centrale, dove sono allineati ristoranti e negozi illuminati…

raggiunge la funicolare per Città Alta…

e dal Mercato delle Scarpe…

si dirige verso Piazza Vecchia.

“Mi ritrovai nel cuore di una buia città antica, inghiottito da un vicolo stretto e spopolato.

Proprio allora venivano chiuse le botteghe.

D’un tratto mi spaventò la vista di una torre incredibilmente alta che fuoriusciva da una forra di case e spariva in alto, nella notte; mi parve di essere tornato all’improvviso nella Toscana meridionale o in una cittadina dell’Umbria montagnosa.

Torre del Gombito, eretta nel XII secolo, appartenne anticamente alla potente famiglia de’ Zoppo. La torre, una delle poche superstiti, testimonia il potere esercitato dai clan familiari sulla città in epoca medioevale. Molte altre torri vennero abbattute da Venezia quando nel 1428 la Serenissima estese il suo dominio sino a Bergamo

 

Inaspettatamente il vicolo si allargò come spartendosi in due e sfociò in una grande piazza stupenda:

a destra un lungo portico ad arcate dove tardivi passeggiatori fumavano la pipa;

a sinistra un grande monumento moderno, probabilmente un Garibaldi; e a ridosso una scura, elegante architettura con grosse colonne ed archi eleganti.

Il “grande monumento” a Garibaldi, qualche decennio prima aveva fatto sloggiare dal centro della piazza la settecentesca fontana del Contarini, che si prese tuttavia la rivincita ritornando al suo posto nel 1922; la “scura, elegante architettura” è l’austero palazzo della Ragione, costruito nei primi anni del Duecento e più volte rimaneggiato, simbolo della sovranità comunale

Sulla piazza nessun segno di vita all’infuori dei vetri debolmente illuminati di un piccolo caffè e di una drogheria che in vetrina esibiva, a mo’ di gioielli, brillanti bottiglie di vetro verde e arancio cupo.

Il porticato scamozziano in marmo bianco di Palazzo Nuovo, oggi sede della Civica Biblioteca, ospitava allora il Regio Istituto Tecnico

Trassi un profondo respiro. Da molto tempo non entravo più di notte in un’antica cittadina italiana, adescato da oscurità presaghe, sorpreso dal repentino apparire di nobili architetture e salutato dall’umidità della pietra degli stretti vicoli.

Nella locanda mi venne assegnata una camera pavimentata in cotto rosso, grande come un palazzo, e mi fu dato del tenero arrosto di montone. Il vino era buono, e l’oste aveva una bella cognata.

Hesse prese probabilmente alloggio all’Albergo del Sole, l’unico allora collocato in Piazza Vecchia, dove inizia la Corsarola. Oggi come allora l’albergo espone la bella insegna del sole in ferro battuto, dorato e colorato vivacemente

Ciò nondimeno uscii subito.

La pioggia sgocciolava soavemente sui lastroni di pietra, su cui si cammina tanto bene.

Il Garibaldi era là, serio e un po’ abbacchiato, sul suo alto piedistallo, custodito da quattro leoni dall’aria assai truce. A tre ficcai nelle fauci urlanti di bronzo una monetina da due soldi che l’indomani ritrovai al medesimo posto.

Nel frattempo avevo aggirato il monumento ritrovandomi così davanti a un meraviglioso palazzo il cui pianoterra formava un imponente portico col soffitto voltato, pilastri a spigoli verso l’esterno e belle colonne leggere all’interno.

Lo attraversai. Sul lato sinistro vidi una maestosa scalinata bianca che portava al Duomo..

e di fronte un’altra grande chiesa dall’aspetto fantastico, cupole indistinte nel cielo notturno..

Un portale molto antico, presumibilmente gotico, con figure entro piccoli tabernacoli;

di fianco, la facciata ricca e turgida di una cappella. Il tutto immerso nella foschia crepuscolare, il tutto carico di presagi e di promesse.

Pregustai sorprese affascinanti.

Andai oltre, eccitato e pieno di aspettative per il mattino seguente, senza alcun desiderio di guastarmi l’attesa con la lettura di un Baedecker o Cicerone.

 

L’indomani la prima passeggiata mi riportò sulla piazza, che ora, nella luce del mattino, mantenne tutte le promesse della notte.

Solo il Garibaldi usciva perdente, se ne stava tapino sul suo zoccolo troppo grosso, mentre i quattro leoni feroci non solo, come allora vidi, avevano un’aria stolida, ma fortunatamente erano anche molto più piccoli.

 

Il palazzo con il portico, a volte, ospitava la famosa biblioteca di Bergamo, che conserva alcune centinaia di incunaboli; avrei anche potuto vederli se solo ne avessi avuto voglia.

Dal 1843 al 1927 il Palazzo della Ragione ospitò la Biblioteca Civica di Bergamo, già ai tempi di Hesse annoverata tra le prime dieci biblioteche italiane per ricchezza e qualità dei fondi conservati

Un’ardita scalinata lunghissima con soffitto a cassettoni sorretto da colonne costituiva l’accesso alla biblioteca.

La lasciai dov’era e, sperando in nuove sorprese, percorsi il porticato passando davanti a una briosa statua barocca raffigurante il poeta Tasso..

..e proprio lì vidi due chiese che la notte dianzi erano emerse dal buio come sagome spettrali: nel parco sole del mattino erano limpide e coraggiose.

Dall’altra parte il Duomo, pomposamente gaio e chiaro con una larga gradinata maestosa davanti alle porte;

vicino, di fronte a me, Santa Maria Maggiore e, attigua, con le sue bizzarre e sfrenate decorazioni, la Cappella del Colleoni.

Davanti al portale della chiesa, un piccolo avancorpo molto alto: sei modesti gradini di pietra, un largo arco romanico a tutto tondo poggiante su due colonne sorrette da leoni, e concluso da una sopraelevazione gotica, una specie di piccolo vano grazioso a tre nicchie e in ciascuna una antica scultura, quella mediana a cavallo. Al di sopra uno stretto baldacchino cuspidale, un piccolo ambiente con due lucide colonnine leggiadre e con tre figure di santi. Il tutto di una grazia contegnosa e di una innocenza selvatica che emanava quel fascino proprio dell’anonimato; perché questo genere di forme artistiche, simile peraltro all’arte dei popoli primitivi, non sembra scaturito da una sola mente, ma piuttosto dal pensiero e dal sentimento di un’intera generazione e di un’intera comunità”.

Un’intera comunità che ha fatto del protiro, luogo simbolo di accesso alla principale chiesa cittadina, un’espressione viva e scultorea della propria identità mitica e religiosa.

Il protiro di Santa Maria Maggiore, opera di Giovanni da Campione e della sua bottega. Le figure dei santi che lo sovrastano sono i protettori di Bergamo: Alessandro, Vincenzo, Barnaba. Più in alto, sotto lo stretto baldacchino cuspidale, sono collocate Maria Vergine, Grata e Adleida: statue di cui si ignora la provenienza, e che gli studiosi non sanno attribuire né a un artista né a un periodo certi

“Stavo per entrare nella cattedrale, ma il mio sguardo fu catturato dalla dovizia decorativa della facciata della Cappella Colleoni.

La Cappella Colleoni, eretta da Giovan Antonio Amedeo nel 1472 per volontà del condottiero Bartolomeo Colleoni, che aveva raggiunto ricchezza e celebrità al servizio di Venezia

Il suo disegno originario doveva essere molto bello e lineare, una ripetizione elegante dello schema classico: portale e due finestre laterali, sopra l’ingresso un grande rosone e, a conclusione, una leggera e nitida galleria di gentili colonnine.

Ora però i conti, non si sa perché, non tornano. L’insieme non è armonico, non è né pulito né perfetto; tra la facciata e la cupola c’è uno spazio vuoto e non risolto (…). Ah, talvolta mi sento davvero allargare il cuore quando mi capita di cogliere in fallo gli italiani che, di certo, sono spesso spavaldamente virtuosi e magari superficiali, ma che in architettura e nella decorazione sono tuttavia incorsi raramente in quelle funeste disavventure che da noi sono invece pressoché la regola.

Nemmeno quel tatuaggio mi mise in fuga, sicchè entrai all’interno della cappella dove il generale veneziano Colleoni è sepolto insieme alla figlia e dove ancor oggi si officiano messe in suffragio della sua anima, in virtù di un lascito di milioni donato dallo stesso pio condottiero. Al di sopra del suo sacello, in un’ombrosa nicchia nella parete, il generale dorato cavalca un destriero pure dorato, affascinante nella sua grandezza e dignità, magari un po’ rigida.

Sulla parete di fianco la sua giovane figliola, delicata e minuta, riposa scolpita nella pietra su un cuscino pure di pietra e, resa immortale dall’ignoto artista, dorme ignara incontro alla stessa eternità e fama del suo grande padre.

Pieno di curiosità, mi affrettai a raggiungere la grande chiesa superando i due leoni rossastri che sorreggono le colonne dello stretto protiro.

Particolare del protiro della basilica di S. Maria Maggiore

Entrai. Subito mi sentii avvolgere da una luce e da un profumo religiosi e insieme solenni.

 

Una penombra dorata filtrava sui dipinti della pala dell’altare e sui pallidi affreschi. Nelle nicchie e lungo i muri ovunque opere scultoree e d’intaglio di ogni sorta; molto splendore e molta ricchezza profusi in ogni dove.

Quella chiesa la si attraversa: si respira l’ardore e la consapevolezza di un passato orgoglioso, si saluta al rapido passaggio un volto noto scolpito nella pietra, si ammira un arazzo. Si va avanti e, procedendo, si dimentica già ciò che si è appena visto. Solo un suono rimane: l’armonia di una magnificenza satura e di una penombra venerabile.

Una cosa però non si dimentica più: i seggi del coro di questa chiesa singolare. Tutti i i dorsali di questi seggi (sono parecchie dozzine), sono gli stalli del coro di questa stupefacente chiesa. Gli schienali, e sono parecchie decine, sono intarsi in legno, quadro dopo quadro, su disegno di Lorenzo Lotto e altri, realizzati da artisti bergamaschi in un paziente lavoro di intaglio e commettitura. A queste formelle hanno lavorato nonni, figli e nipoti per oltre centocinquant’anni.

Una delle preziose tarsie custodite in S. Maria Maggiore, realizzate da Giovan Francesco Capoferri su disegni di Lorenzo Lotto.  Le quattro grandi tavole intarsiate sul fronte esterno dell’iconostasi erano accessibili ai fedeli solo in occasione delle cerimonie solenni

E non si rimpiange né il tempo né la fatica che questo lavoro è costato. Difficile vedere opere che comunichino tanta gioia come quest’arte fedele, raffinata e inconsueta: legni bruni, gialli, verdi bianchi, mielati, tutti della medesima vaporosità e con la medesima patina del tempo, sommessamente brillanti in tonalità calde e piene, un benefico, tiepido bagno per la vista (…).

Tarsia realizzata da Giovan Francesco Capoferri su disegni di Lorenzo Lotto

 

Tarsia realizzata da Giovan Francesco Capoferri su disegni di Lorenzo Lotto

Diedi un’occhiata all’interno del Duomo: bianco e oro e uno splendore straordinariamente sposato alla sobrietà.

 

Uscito, seguii l’invito di un raggio di sole su una piccola piazza sghemba in leggera salita, dove sull’acciottolato spuntavano fili d’erba appuntiti di un verde luminoso..

..e dalle finestre aperte di un grande palazzo uscivano le voci un po’ monotone di alcuni scolaretti.

Arrivai, più oltre, in un silenzioso angolino chiamato pomposamente Piazza Terzi.

Un lato di questa piazzetta era formato dall’alto muraglione di un giardino pensile. Il muro, pesante e grezzo, era però deliziosamente interrotto da un nicchione che ospitava una bella figura femminile armoniosa nelle fattezze, forse una Cerere, e che si concludeva con una galleria compresa fra due putti con cornucopia e spighe.

Mi fermai estasiato: uno degli angoli più belli d’Italia, una delle tante piccole sorprese e gioie per le quali vale la pena di viaggiare.

E appena mi girai, dirimpetto alla statua notai il portone aperto di un palazzo. Sotto un’alta volta nitida si vedeva una corte con piante e lampioni appesi al soffitto, magicamente conclusa da un’elegante balaustra. Due grandi statue dal puro contorno si libravano quasi nell’aria, evocando, lì in quell’angolo racchiuso dalle murature, il senso presago dell’infinito e della vastità dello spazio aereo al di sopra della pianura del Po”.

Nel cinquecentesco palazzo Terzi aveva soggiornato ai primi dell’Ottocento il celebre scrittore francese Stendhal, del quale aveva scritto : “Il paesaggio di Bergamo è davvero il più bello che io abbia mai visto”

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Hesse si reca poi nella città bassa e dopo aver visitato l’Accademia Carrara si concede una pausa per bere due caffè, meravigliandosi  “di come gli italiani riuscissero, nonostante le loro elevatissime tasse doganali, a fare per pochi soldi un caffè che da noi non si trova nemmeno nei locali eleganti”…

Dopo essersi “abbastanza annoiato nella città moderna”, s’incammina verso l’alta città gironzolando senza meta e senza fretta per stradine.

“L’importante non è la meta, bensì il viaggio”, affermava  Siddartha in una riflessione scaturita dal suo autore.

Superato Colle Aperto e giunto alla porta di Sant’Alessandro, dato uno sguardo a case dipinte di rosa o di verde, inondate dalla luce del tramonto…

…si ritrova nella piccola sala d’aspetto della funicolare che conduce a San Vigilio, inaugurata un anno prima, nell’agosto del 1912.

“Era quello che mi ci voleva”.

Dalla funicolare Hesse ammira il graduale svelarsi dell’antica città, dei tetti, dei campanili e delle torri; poi si lascia avvolgere dalla quiete dei luoghi godendosi il tepore della giornata che declina verso il tramonto.

“Presi la prima telecabina in partenza e dopo pochi istanti mi si dischiuse un panorama stupendo e del tutto diverso: sospeso al di sopra della città sulla piattaforma della funicolare, vidi profilarsi, tra me e la verde pianura che la lontananza sfumava, la sulhouette compatta e altezzosa di Bergamo vecchia, con le sue torri e le sue cupole, le sue mura e i suoi tetti. Un pallido sole serale sfiorava le cupole…

Di fronte alla stazione c’era una bassa costruzione che ospitava una locanda.

L’edificio era poco profondo e un’occhiata attraverso la porta a vetri mi fece immaginare sul lato opposto una vista incantevole, cosicchè decisi di entrare.

La celebre “Antica Trattoria Isola Bella”, sul colle di San Vigilio, dove sostò Hermann  Hesse

Prima però mi avventurai per un tratto sulla stradicciola che si snoda lungo il crinale della collina”.

Da San Vigilio Hesse si avvia verso la scaletta dello Scorlazzone, la ripida via gradinata che si diparte dalla chiesa e calando ripida verso i Torni si insinua tra gli orti ben coltivati.

I fianchi delle colline alla cui estremità sorge la Bergamo antica erano profusi di orti, terrazzamenti con vigne, filari di piante da frutta, ciliegi e mandorli, galline in libertà, cascinali che nel volgere di qualche decennio vennero trasformati in residenze di pregio, le cosiddette “ville di delizia”.

La trama minuta delle scalette, dei sentieri e dei viottoli, era percorsa da un continuo andirivieni di contadini, popolani, viandanti, muli, cavalli, asini…

 

Mentre cercava i vasti panorami, le ”azzurre lontananze” della pianura che si svelavano man mano, al suono delle note incerte di un pianoforte rallentò il passo senza andare oltre.

“Davanti a una linda villetta mi fermai ad ascoltare il suono esitante di un pianoforte. C’è sempre uno strano fascino nell’ascoltare la musica che proviene da una casa sconosciuta in una città sconosciuta; è una sensazione che evoca nostalgiche visioni di una felicità e di un’intimità cui siamo estranei.

Sostai a lungo cercando di immaginare chi stesse suonando. Certamente una fanciulla, forse di quindici o di sedici anni, che andava a scuola giù, nella città nuova, e che da poco aveva il permesso di esibirsi al pianoforte in occasione di ricorrenze familiari.

Inaspettatamente il portone si aprì e ne uscì un signore molto cortese che mi chiese che cosa desiderassi. Io gli dissi che avevo semplicemente ascoltato il pianoforte, ma, dal momento che aveva aperto, gli sarei stato grato se mi avesse lasciato dare un’occhiata al suo giardino. Il signore sorrise e si presentò: era un professore…”.

ll padrone di casa era il prof. Giuseppe Alberti, insegnante all’istituto tecnico. Gli presentò l’autrice della melodia, la figlia di dodici anni, e incominciarono a parlare: ”D’inverno, mi raccontarono, se ne stavano spesso seduti lassù, al sole, mentre la pianura tutt’attorno era inghiottita da un mare di nubi”.

La lieve foschia di quella giornata non gli impedì di scorgere la pianura, ai cui margini si elevano “montagne di un azzurro cupo, ispirando un profondo senso di spazio e lontananza”.

Ad un tratto, un raggio di sole svelò una “piccola forma bianca, infinitamente lontana e irreale”, un ”puntino gaio e luminoso” perduto nell’infinito della pianura.

Era il Duomo di Milano.

“Solo ora vedevo in tutta la sua estensione e maestosa dignità l‘immensa pianura dell’Italia settentrionale. Imponente e sconfinata come un mare, era verde e luminosa nelle vicinanze, mentre in lontananza assumeva mille diverse tonalità, dal grigio, al turchino, all’azzurro sempre più intenso punteggiato da una bianca miriade di cittadine, villaggi, monasteri, casali, fattorie, campanili, ville, fino a sfumare all’orizzonte in una distesa di blu senza fine”.

 

 

 

Note

Nel “Bildebuch” (“libro di immagini”, uscito nel 1926) sono contenute le annotazioni di viaggio di oltre un ventennio di Hermann Hesse. Il testo originale tedesco è pubblicato in H. Hesse, Gesammelte Schriften, Frankfurt am Main, Suhrkam, 1968, vol. III, pp. 780-785. La traduzione italiana della descrizione di Bergamo, qui riportata sino al soggiorno in Bergamo Alta, è apparsa in H. Hesse, L’azzurre lontananze, traduzione di Luisa Coeta, Milano, Lugarlo 1980.