Memoria del Cimitero di Valtesse, di Vittorio Polli

Il Cimitero di Valtesse in un’acquaforte di Sandro Angelini

Il ricordo che Vittorio Polli ci ha lasciato attraverso questa testimonianza legata al piccolo Cimitero ottocentesco di Valtesse, oltre a costituire di per sè un frammento assai prezioso di storia cittadina, rappresenta – seppur con il tono mesto ed elegiaco della narrazione – un minuscolo spaccato della sensibilità collettiva nei confronti della morte nel periodo romantico, così ben analizzata dallo storico e filosofo francese Philippe Ariès nel suo I luoghi della morte in Occidente. Dal medioevo ai giorni nostri (1).
L’Ottocento è caratterizzato infatti da una sensibilità nuova, che non tollera più l’indifferenza tradizionale nei confronti dei morti ma che vede piuttosto l’insorgere del sentimento della pietà verso i defunti (da cui poi scaturirà la venerazione della tomba, con relativi flussi migratori verso i cimiteri), che possiamo ampiamente rintracciare nel presente racconto.

Particolare del Cimitero di Valtesse in un’acquaforte di Sandro Angelini

“Scompaiono anche i cimiteri: i morti, le lapidi, i cespugli sempreverdi; e dove un giorno eran le tombe si ritrova un terreno arato.
Da quando nel cimitero non si sotterra più nessuno, incomincia la vera morte. L’erba devasta; corrono ramarri e lucertole, signoreggiano cespi di verde sulla terra grassa; le arenarie si sfaldano, le parole gemono colore sul marmo bianco, il muschio si abbarbica alle pietre, i ferri diventano rossi di ruggine, l’oro delle corone volge al vecchio.
Croci sbilenche, ferri storti, cancelli aperti, muri scrostati: resiste il silenzio, non c’è segno di passo umano. L’uomo è tenuto lontano dalla paura e dai fuochi fatui.
La distruzione la compiono il vento, l’acqua, la ruggine, gli animali che vivono coi morti marciti sotterra.
Non c’è ancora chi ruba a questo punto dell’agonia del cimitero; la paura e i fuochi fatui tengono lontana la mano sacrilega del malfattore.

Particolare del Cimitero di Valtesse in un’acquaforte di Sandro Angelini

Dopo, i ricordi posti dai vivi non saranno più ricordi, ma solo nere lacrime sulle lapidi, lacrime di pioggia, cose destinate a perire.
Gli angeli tagliati nella lamiera, battuti nel ferro per le sepolture dei fanciulli lasceranno cadere di mano il violino, le lunghe trombe e così sarà spenta la musica loro dedicata e la tenerezza delle madri per i figli perduti.
Le evocazioni dei trapassati, scolpite nella pietra, svaniranno per sempre ai nostri occhi, che riconoscevano in queste cose atteggiamenti di anime e dolori.
Le parole incise nella pietra per i morti sono le stesse che vorremmo per noi, rimpianto e ricordo, quando saremo passati di là. Chi non ha immaginato attraverso la lettura degli epitaffi il morto disteso nella bara? C’è scritta l’età, il nome, il cognome, la famiglia, la sua vita e la sua serenità di morto. In posizione supina, gli occhi chiusi, le mani tenute sul petto dal nero rosario. Gli occhi chiusi e il volto sereno di chi muore nel proprio letto.
A Valtesse è tutta gente morta così, di autentica crudele malattia. Repentina, improvvisa, prematura; forse lunga, sopportata con rassegnazione. Ma non c’è il morto della strada, della guerra e della folgore; non c’è l’ucciso dalla barbara mano di altro uomo.
La grande parte di questa gente appartiene a un mondo tramontato, a un’epoca in cui si moriva nella casa dei padri, confortati dal pianto del medico e dei familiari. E allora si poteva dormire il sonno eterno.
Non ci sono i giustiziati della politica; la politica a quel tempo non usava la morte come mezzo d’affermazione nei pubblici poteri. Sono questi i morti dell’Ottocento, tutti con croce e rimpianto e la pace di Dio implorata per loro dai vivi, che avevan tempo e animo per pregare ogni sera.

Curiosi e accesi per la novità del sito, venimmo a Valtesse; stupiti dall’atmosfera ritornammo a guardare le croci e a leggere le lapidi, sostammo timorosi davanti a un cancello aperto, prendemmo paura per le grosse lucertole che si muovevano sotto i cespugli.
Non veniva in mente quell’altro cimitero dove riposano i nostri cari; altra cosa, nulla a che fare con Valtesse. Questi non sono più Giovanni, Luigi, Giuseppe, Ottaviano, non sono persone: è tutta un’epoca morta a Valtesse.
E così c’è rimasto per anni il desiderio che l’immagine di questo luogo non andasse perduta, che le riflessioni tratte nelle sere di Valtesse o nei pomeriggi assolati venisse comunicata a qualcuno, per un rimpianto o un ricordo.

Particolare del Cimitero di Valtesse in un’acquaforte di Sandro Angelini

Conoscemmo Valtesse dapprima alla superficie: sta morendo il cimitero, tra poco sarà un prato, non esisterà più.
Era una cosa quasi romantica che sopravviveva con le sue espressioni a un momento di barbaro gusto.
I vivi mostravano qui di voler bene ai morti; un bene semplice, costernato, rassegnato, dolente, secondo le età, i casi e il morbo. Angeli e trombe per i fanciulli, musica che immaginavamo suonata dalle stesse notti tranquille per questi adolescenti. Rugiada e fiori, erbe e cespugli, piccoli monumenti.

Il bene dei vivi e la soddisfazione dei morti era l’impronta di un’epoca. Senza tragedie, senza misteri; non dicevano i loro segreti e le probabili turpitudini commesse in vita e tutto era dunque lasciato alla fantasia, convogliata dalle parole delle lapidi, affettuose e tranquille.
C’erano le illusioni sull’uomo di scienza, sull’uomo di lettere, il vir praeclarus. C’erano chiari concetti di vita intemerata, di virtù elette, di operoso lavoro.
Integer vitae scelerisque purus.
Si vedevano pochi ritratti sulle tombe di Valtesse.
E allora il volto d’una giovane donna rapita a trent’anni, nel fiore della vita, dava l’emozione intensa che solo la morte sa provocare nei viventi. E la sposa che lasciò i diletti figli e l’inconsolabile sposo? Dove ritroveremo famiglie così dolcemente legate di affetto, e i sogni che facemmo su di loro? Sogni forse suscitati per noi stessi, quasi soltanto per noi e per la fine del nostro cammino su questa terra.

Quando il vento e la pioggia avranno tutto devastato, quando croci e cancelli saranno caduti, come sognare tanto commoventi storie? Piangendo qualche cosa che non c’è più, che non abbiamo più, sentiamo maggiormente il peso e l’orrore della nostra vita attuale con le sue svariatissime e nuove modalità per morire.
I morti dei nostri giorni, quelli che sono rimasti una notte per la strada infangati e abbandonati ci spaventano d’un tratto come se questa sorte toccasse proprio a noi l’indomani.
Qui ci stanno davanti lapidi con i medesimi nomi, che rappresentano varie generazioni di una stessa famiglia. Si richiamano negli uomini e nelle donne. Giuseppe di Pietro, Pietro nipote e Giuseppe pronipote, che “posero” e “lacrimarono”. Non macchia, non infamia, non delitto, in queste esposizioni: la morte era ancora quella dello scheletro con la falce, che colpiva l’imperatore e il contadino; era la naturale compagna del vecchio, l’eccezionale ventura del giovane.

Naturalezza nel morire; poi son venute sterminose guerre, odî di parte, sovrapposti agli orrori delle guerre, cosicchè ci meravigliamo di queste vite spente, di queste luci oscurate sulla terra e trasmigrate a vivere in cielo col buio della notte.
La pietà cristiana è palese e i morti hanno l’aria di buonanime consolate; i guerrieri caduti per l’indipendenza della patria si chiamano eroi e si trovano tutti in paradiso.
“In paradisum deducant te angeli…”
I morti delle guerre perdute, trovandosi con questi, si sentiranno meschini e umiliati, come chi ha gettato male la propria vita, la propria vita buttata via per nulla.

Particolare del Cimitero di Valtesse in un’acquaforte di Sandro Angelini

Se tocchi il ferro ruggine d’una corona o d’una croce, vibra. L’angelo custode del ragazzetto perito danza e muove le ali, gioca con l’anima candida di Carletto Rubis. Il canonico delle Grazie conversa con quello di Santa Maria; gli occhi d’un vecchio contadino contemplano la sua collina poco distante, la sua terra, conservata per gli anni della vita, sulla quale camminò, vide la primavera e faticò un suo sereno mestiere.
Una colonna sta perdendo il capitello; così mossa dalla sua posizione ordinata sembra scherzare coi pipistrelli della notte. L’aria fa cigolare un cancello, poi il rumore di qualche insetto, un rumore di essere vivo, ti fa voltare di scatto.
Nessuno più si cura del verde, dei fiori, dei sempreverdi; sono gli ultimi compagni di questi morti di un secolo e rifioriscono ogni anno e faranno così finchè non verrà qualcuno a strappare le più intime radici, profonde radici andate sotterra.

Particolare del Cimitero di Valtesse in un’acquaforte di Sandro Angelini

Sembrava un’elegia questa immagine visiva di Valtesse; poi vennero altri pensieri. Come fa la morte a scegliere i suoi soggetti? E’ proprio Dio che fa morire gli uomini? Il demonio ha forse tirato per i capelli qualcuno di questi che dorme “il sonno del giusto”.
Bisognerebbe vedere qualche segno. E le lacrime ci saranno anche per noi? Soavi lacrime di sposa innamorata, verrete a confortarci?
Guardiamo a questa gente di un’epoca piena e umana, perchè non sappiamo dove riposerà la nostra morte.
Il mondo di Valtesse è finito, non può più tornare. Ha reso felice qualche generazione, mentre oggi neppure i filosofi pensano più a che cosa sia la felicità.
C’è un modo per rendersi conto degli eventi, ed è il contrasto che esiste tra una epoca e l’altra e gli effetti sulla vita dell’uomo. Venimmo qui a cercare le spiegazioni perchè vedevamo un mondo tranquillo, addormentato per sempre, che permetteva di riflettere.

I morti di Valtesse sono quelli che hanno inventato la luce elettrica, la locomotiva, quelli di “Delagrange volerà”. Noi guardiamo queste conquiste, senza badare a quello che significano per noi. Che cosa faremo noi per i nostri pronipoti, come potremo incantarli con qualche cosa del genere quando verranno a vedere il cimitero di….. che cade in rovina?
Restiamo confusi, oscuramente presaghi di tristezze; il morto della strada ci rimprovera. Conta poco ormai la vita dell’uomo.
Questa gente ci ha lasciato una eredità libera e armoniosa di pensiero e di sentimenti; il sapere, l’invenzione aiutavano il benessere dell’uomo; la scienza serviva all’uomo per la sua vita materiale. Noi non abbiamo continuato in questa direzione.
Dopo di loro con le nostre lotte incivili e tutti i nostri eccessi, scienza e poesia balbettano sovente confuse incomprensibili parole; anche comode parole, crisi di civiltà.

In qualche parte del recinto si leggono queste parole; “Natura non facit saltus”: il pellegrino uomo ha camminato sulla strada del progresso lentamente col suo fardello; è arrivato quasi fino a noi, poi s’è fermato distratto da parole che non intendeva a pieno.
Noi ci sentiamo pungolare violentemente, non possiamo camminare più: preferiamo deporre il fardello e il bastone; siamo spinti a correre, a superarci e non sostiamo mai nelle dolci sere del nostro spirito.
E così il naturale sviluppo, non esiste; non ci insegnano nulla i paragoni del creato, i nove mesi per nascere, le foglie, le stagioni, il giro del sole, lo splendore lento e ordinato delle notti lunari. Ansanti siamo, bollenti, timorosi di restare indietro; desiderosi di rovesciare tutto con un colpo rivoluzionario e di trovarci d’un tratto in un immeritato paradiso.
Forse qui ci siamo disillusi di ciò che ci sta attorno in arte, in politica e costume, mentre sotto le zolle di Valtesse i morti borbottano un rosario:

“La nostra compagnia non sia discara
Stando coi morti a vivere s’impara.”

Particolare del Cimitero di Valtesse in un’acquaforte di Sandro Angelini

Il cimitero era fatto d’un perfetto ottagono col muro di cinta coperto di coppi; adornato di cappelle gentilizie, rotonde, quadre, esagone, con lunette e timpani di chiaro stile neoclassico.
Intorno le colline della città, una parte di Bergamo di intatto fascino e una campagna verdissima e serena.
I morti erano bene collocati, in questo piano dietro l’abitato. Agonizzavano pochi salici piangenti; non cipressi, piante d’altri climi, ma salici come un richiamo alla malinconia.
Chi erano questi morti? Giacquero qui i compagni della vita, i maestri e gli allievi come Simone Mayer e Donizetti, poi traslati sotto le volte di Santa Maria Maggiore. Giacquero molte coppie di sposi, finiti quasi insieme, per armonia di sentire.
C’erano i pittori Ronzoni, quel De Leidi che fu detto il Nebbia, il poeta Rovetta. Le monache di Santa Grata avevano una propria dignitosa cappella e i loro nomi erano indicati al mondo così:

 “Signora Idelfonsa… Morta di 50 anni.”

Valtesse non fu mai ingrandito, ampliato, rimodernato; nacque una forma geometrica, si riempì di croci, di angeli custodi, di cappelle, di marmi; quando fu completo non raccolse più nessuno; vegetò dimenticato coi suoi morti e anche loro furono dimenticati. Ingrassò una flora lussureggiante e molte lucertole; poi cominciò a sfaldarsi, divenne un gran disordine di vita vegetale.
Portarono via qualcuno, ceneri e ossa; infine restò abbandonato. Un giorno se ne andò la donna custode con il suo tavolino. Furono lasciati aperti i cancelli delle cripte e il cancello d’ingresso. Ferro ruggine, pietre spezzate, sfaccendati che giravano, innamorati impudici di notte dietro il muro.
Città alta guardava, indifferente a tanta rovina.
Non lumi, i morti non eran più visitati. Forse dimenticanza di parenti, forse tutti perduti anche loro, e triste oblio di nipoti e pronipoti. Non avevano più senso neppure le lapidi, non era più vivo l’affetto e tutto il cimitero di Valtesse andava perdendo il suo tono vero, il suo ordinato sapore neoclassico che rappresentava un’epoca.

C’era un cippo storto che faceva un riassunto con queste precise parole:

“Porgete la mano a noi, poveri morti”.

Ma loro continuavano a dormire il sonno del giusto: tutta gente da paradiso.
Erano veramente discesi nella terra nera in comunione intima primordiale. Intorno al loro volto fiorivano radici, con tenuissime barbe candide, forse più delicate dei fiori.
Un odore di terra fresca deliziava le ossa che restavano bianche e intatte vicine alla purificazione. Non era un mistero, ma la vera vita dei morti ritornati a Dio creatore per le strade profonde della terra.

Le nostre visite eran furtive, camminavamo ovunque quasi senza rispetto; dapprima le lapidi ci sembrarono battute di spirito; poi venne una affettuosa riverenza, una curiosità ammirata e forse non inutili pensieri e riflessioni. Avevamo imparato a vivere coi morti. Così Sandro incise la sua acquaforte; e son già dieci anni.
E speriamo che questa memoria sia cosa opportuna; perchè se qualcuno ci chiedesse d’accompagnarlo a Valtesse, potremmo mostrargli soltanto un tratto d’erba più rigogliosa sul luogo del campo santo”.

Particolare del Cimitero di Valtesse in un’acquaforte di Sandro Angelini

 

Di Vittorio Polli.

Da: “Memoria del Cimitero di Valtesse”. In memoria di Luigi Agliardi Presidente dell’Ateneo di Scienze Lettere ed Arti di Bergamo (Comunicazione fatta all’Ateneo di Scienze Lettere ed Arti di Bergamo nella seduta del 6 dicembre 1952).

NOTE

(1) Ariès, con un metodo che potremmo definire induttivo, cerca attraverso fonti eterogenee (letterarie, religiose, giuridiche) di mettere in luce come nelle epoche precedenti ci si rapportasse alla morte al fine di comprendere i fenomeni collettivi, dinanzi alla fine della vita, che l’autore vede in prima persona nell’epoca a lui contemporanea.
Da questa ricerca uscirà come ogni periodo storico, inerente alla cristianità occidentale, sia stato caratterizzato da un suo specifico atteggiamento di fronte alla fine della vita che si basa su un preciso modo di concepire, vivere e sentire la morte.

Notizie relative alla fonte storica
La Tavola di Sandro Angelini è stata eseguita dalle Poligrafiche Bolis di Bergamo.

Il libro è stato stampato nel novembre 1952, in 371 copie numerate, dalla Stamperia Conti di Bergamo, via XX Settembre.
21 esemplari contrassegnati con lettere dall’A alla Z e 350 esemplari numerati dal N. 1 al N. 350. Esemplare 92.

La storica libreria Conti, Bergamo, via XX Settembre – 1930 ca. La libreria ha chiuso definitivamente i battenti nel 1970