Nella rigogliosa macchia verde che dalle spalle di Città Alta si allunga fino a toccare il colle di Sombreno, trionfa una minuta orditura vegetale, per lo più addomesticata, che nei secoli ha cesellato i pendii ridisegnandone le forme, in un mirabile equilibrio sospeso tra natura ed artificio.
Se verso nord il versante è più boscoso, selvaggio e in prevalenza ombroso, in quello esposto a mezzogiorno, più luminoso e soleggiato, l’uomo ha coltivato per secoli variegate ortaglie, alberi da frutto, olivi, vigneti ed anche gelsi, mentre più in basso biondeggiavano piccoli o grandi appezzamenti di frumento e di granoturco, curati dai mezzadri o da piccoli proprietari che nella bella stagione improvvisavano una “frasca”.
Qui gli avventori consumavano quel tanto che la natura elargiva sul posto, accompagnando le saporite pietanze con l’aspro vinello dei colli.
Se questi ambienti agresti di lontana memoria sono completamente scomparsi, o nel migliore dei casi rimpiazzati dagli “agriturismi”, fra Città Alta e Colli dominano ancora gli spazi aperti dei giardini, delle ortaglie e dei coltivi, in un meraviglioso intreccio di balze, terrazze e salite innervate da scalette, che si inerpicano in alto, lungo i versanti immersi in un bucolico scenario.
Così è nell’ampia conca che si apre grandiosa sotto le mura, fra la città alta e la Conca d’Oro, e così è nella conca di Astino e ovunque la dolcezza del clima lascia prosperare esemplari tipici dell’ambiente mediterraneo come il fico, il corbezzolo, l’olivo e la vite, coltivata da secoli non solo a mezzogiorno ma anche lungo i terrazzamenti più felicemente esposti del versante settentrionale, come in Valmarina, Valverde e Castagneta.
Anche i muri e i muretti dei Colli protetti dai venti freddi invernali riservano gradite sorprese, ospitando fra gli anfratti numerose specie spontanee o naturalizzate che dischiudono un mondo meraviglioso: talvolta sconosciuto ma meritevole di cure e di attenzioni.
E non stupisce che sui muri di via degli Orti in Borgo Canale – la conca “contadina” per eccellenza – oppure nella vicina via Sudorno, si trovino grandi esemplari di Cappero, riconoscibilissimo dagli splendidi festoni che si dischiudono nella maturità dell’estate.
Proprio sui muretti che sostengono i terrazzamenti sparsi qua e là lungo il reticolo dei colli, trovano ospitalità molte specie di tipo mediterraneo, come le borraccine e la cedracca, una felce dalle fronde carnose coperte sulla pagina inferiore da squame argentee.
Nella parte bassa dei muretti possiamo facilmente incontrare il finocchio selvatico, dalle foglie aromatiche e capillari, la rucola, la campanula siberiana, la pervinca maggiore ed anche numerosi tipi di aglio, che si accompagnano alle vistose fioriture del geranio sanguineo, alla salvia dei prati e al verde dorato di numerose graminacee, indicatrici di habitat macrotermici.
Se percorrete il sentiero della Madonna del Bosco nella tarda primavera, ai piedi del muro di cinta del giardino di Villa Bagnada potrete notare ciuffi di profumata melissa e generose macchie di erba cipollina, mentre fra i rovi del lato opposto fanno capolino grovigli di teneri loertis, germogli di luppolo creduti “asparagi selvatici”: quelli veri, da guardare e non toccare, se ne stanno nei paraggi, ben nascosti al centro di cespugli di pungitopo, il sempreverde dalle bacche rosse la cui raccolta è vietatissima.
L’olivo prospera soprattutto verso ovest, ben esposto anche sulle larghe terrazze secolari di Astino, dove rappresenta un vero e proprio ritorno dal momento che qui esisteva il podere Monte Oliveto, in linea con la lunga tradizione sui colli di Bergamo.
Con tutte le varietà coltivate – in prevalenza Leccino, Sbresa e Frantoio, cui si aggiungono esemplari di Pendula del Sebino, Pendulino, Maurino e Muraiolo – si produce l’olio D.O.P. Laghi Lombardi, un olio naturalmente biologico, fruttato e leggero, che profuma di erba fresca lasciando un retrogusto sia di mandorla verde che degli aromi che vi crescono intorno.
LA CONCA D’ORO
Passeggiare nel tripudio degli orti distesi lungo le terrazze della Conca d’Oro è un’esperienza unica. L’ampio anfiteatro che si apre a occidente della città, tra il crinale di Sant’Alessandro e la selvosa punta di San Matteo – che s’intravede da lontano coi suoi cipressi francescani -, regala all’avventore emozioni uniche.
Le sue verzicanti pendici sono coltivate da tempo immemore riportando alla mente le ceste ricolme di ortaggi portate dai contadini lungo le scalette che innervano la conca: Santa Lucia Vecchia, Paradiso, Fontanabrolo e scaletta delle More, sovrastate lungo il versante che sale a Sudorno e a San Vigilio rispettivamente dallo Scorlazzino e dallo Scorlazzone: ben sei – non c’è che dire -, cui andrebbero aggiunte la Ripa Pasqualina – che raccorda Astino a Sudorno – e la brevissima scaletta Bellavista!
Lungo queste splendide architetture gradinate dal tipico selciato dei colli, andavano su e giù i contadini trasportando il raccolto gelosamente coltivato fra i muriccioli a secco, a volte con l’aiuto di animali da soma; il rudimentale ma efficace sistema di raccolta delle acque garantiva l’apporto necessario per le coltivazioni.
Sono davvero poche le zone della Lombardia che oggi possono reggere il confronto con tali bellezze e con il numero pressoché infinito delle mete tanto sospirate da bergamaschi e da turisti, che nella loro quiete e frescura trovano il meritato riposo e refrigerio alla canicola dei periodi estivi, godendo ad ogni piè sospinto di scorci mozzafiato.
Volendo salire sul cocuzzolo di San Vigilio in un tardo pomeriggio spazzato dal vento, si può godere di quei tramonti rosseggianti e lasciarci il cuore. Da lì, sembra quasi di toccare con la mano la punta del Monviso e il profilo del Monte Rosa, che si staglia maestoso sulla linea dell’orizzonte: quegli stessi tramonti che ammaliarono Hermann Hesse quando, agli inizi del Novecento, venne in visita a Bergamo. E, naturalmente, con le cupole e le torri di Città Alta.
E fu proprio qui, nella conca protetta dal “tramontano” – il più vivo, rigido e molesto dei venti a Bergamo – che fu scelto di costruire negli anni Trenta il grande Nosocomio affacciato sulla splendida teoria dei palazzi severi, dalle chiese maestose e dai campanili solenni che profilano il paesaggio collinare.
Prima d’allora, la Conca d’Oro era una distesa agricola ricca di cascine ed orti, con biondi campi di grano, gialli spazi di ravizzone, giallo oro di gelsi in autunno, rogge correnti d’acqua e fonti: una valle caratterizzata dalla mitezza del clima per la fortunata esposizione; uno dei territori più ameni e fecondi che alla fine dell’Ottocento circondavano la città.
Soprattutto a ponente, grazie al particolare microclima di questo versante baciato dal sole, permangono numerosi appezzamenti che ammiriamo dai Torni e dalle stesse Mura, con le splendide geometrie di colture radenti il suolo, con le pezzature cromatiche di grande effetto e gli olivi ormai decennali, dediti alla produzione di olio EVO di ottima qualità.
Sono, questi, i pendii che verdeggiano anche a dicembre, colpiti dal sole basso sull’orizzonte che aiuta le colture nelle ampie ortaglie storiche lungo via San Martino della Pigrizia e Borgo Canale e che danno ancora reddito alle ultime famiglie depositarie di uno dei pochi prodotti tipici locali: la Scarola dei Colli, una particolare insalata che si raccoglie d’inverno sui pendii soleggiati di San Martino alla Pigrizia.
Ad esse si alternano coltivazioni floreali che trovano immediato smercio presso i fioristi in città o al mercato ortofrutticolo presso la Celadina, anche se è incessante l’approvvigionamento dalla riviera ligure delle plantule più comuni da crescere: geranei, violette, begonie o roselline perfette per un bouquet da sposa.
LA SCAROLA GIGANTE DEI COLLI DI BERGAMO: CHIARA, DOLCE E CROCCANTE
Appena fuori le mura veneziane si produce ancora la Scarola Gigante bergamasca, che ha trovato fortuna nella Conca d’Oro, dove in inverno riluce sui larghi fazzoletti di terra.
Per vederli, si oltrepassa la cinquecentesca porta Sant’Alessandro percorrendo via Borgo Canale fino a via San Martino della Pigrizia al civico 2, dove si prende una stradetta acciottolata da Giuseppe Bonacina in persona, da tutti conosciuto come Bepi: uno dei pochi produttori rimasti, insieme al figlio Michele, che da 75 anni porta avanti l’attività con i cugini Martino, Franco e Angelo Viscardi.
E’ grazie a loro se possiamo ancora ammirare lo spettacolo dei verdi campi di indivia scarola, un ortaggio a rischio di estinzione, oggi tutelato da un disciplinare nel quale l’aggiuntiva “dei Colli” è permessa solo per il prodotto coltivato all’aperto sui colli della città.
A rendere unica questa prelibatezza che trova le sue origini intorno a Bordeaux, in Francia, il sapere antico dei contadini locali e un mix di fattori ambientali, e cioè l’esposizione ottimale che la protegge dai freddi venti invernali tenendola al sole dalle otto alle cinque della sera; il terreno non argilloso ma ricco di sassolini che le permettono di stare per quattro lunghi mesi in campo aperto, senza ghiacciare.
Per poter crescere e prosperare infatti, la Scarola Gigante dei Colli di Bergamo ha bisogno di tanto freddo, per questo la si pianta, a seconda del clima, tra fine agosto ed inizi ottobre e la si lascia nel terreno per almeno quattro mesi. Il suo segreto è quindi restare al freddo il più possibile, tanto che la scarola di gennaio o di febbraio è sempre la più buona.
E’ proprio questa lunga permanenza all’aperto, insolita per un’insatata, a permetterle di iniziare ad acquisire il tipico sapore profondo.
Ma ciò che la rende speciale è la messa al buio per 7-12 giorni dopo la raccolta: o disponendola sotto terra coperta da teli oppure, come fa Giuseppe, riposta sotto “materassi” di fieno all’interno di una serra o di una cantina, dove subirà quel singolare processo di imbianchimento che renderà il suo cuore candido più fragrante e croccante e il sapore delicato: una scoperta avvenuta casualmente nel Dopoguerra e di cui oggi ringraziamo Giuseppe Bonacina (coadiuvato dalla paziente moglie Maria) nonché gli zii, pionieri di questa antica tecnica di produzione a mano, imitata da tutti gli ortolani che in gran numero lavoravano ed abitavano qui, in collina.
Dopo la raccolta, viene lavata e venduta all’ingrosso fin quasi a primavera, a circa 3 euro al kg.
Ma grazie al favorevole microclima, su questi terrazzamenti prosperano anche zucchine, fagiolini, cetrioli bianchi e teneri cornetti gialli: una delizia per il palato.
L’OLIO DELLE MURA VENEZIANE A VALVERDE: POCO MA PREZIOSO
Anche se l’olivo trova maggior fortuna a sud, agli esemplari citati sotto le mura o ad Astino vanno aggiunti quelli piantati più recentemente dall’azienda agricola della famiglia Cerea a Valverde, che si affiancano alla tradizionale coltivazione della vite.
A Valverde la tradizione resiste a dispetto dei cambiamenti che hanno portato al graduale abbandono delle famiglie contadine dal dopoguerra in avanti: qui, in questo paradiso verdeggiante che ha per sfondo la Città Alta dominata dall’altissima Torre del Gombito, sono ormai cinque generazioni che la famiglia Cerea, titolare dell’omonima azienda, continua a lavorare la fertile terra che si estende all’ombra delle mura veneziane, dove i fratelli Giuseppe (65 anni), Arcangelo (69), Giancarlo e Lucia ricavano del buon vino rosso, olio extravergine d’oliva di qualità ed anche un po’ di frutta.
Un tempo, era il padre degli attuali titolari ad occuparsi di tutto: della terra, delle mucche e dei maiali. Oltre alla vigna, sulle balze che arrivano sin quasi a toccare Porta San Lorenzo prosperavano il grano, il granoturco e tantissimi gelsi per i bachi da seta; gelsi con frutti bianchi leggermente aciduli e frutti neri, di cui non è rimasta nemmeno l’ombra.
Oggi, sono soprattutto i fratelli Arcangelo e Giuseppe ad occuparsi dell’azienda, coadiuvati da parenti e amici nei periodi di maggior lavoro.
L’ettaro scarso dello storico vigneto terrazzato all’ombra di San Lorenzo è coltivato dai Cerea dal lontano 1871, da quando la famiglia è proprietaria della “Cà de Sass”, la vecchia cascina costruita per lo più con sassi e pietre ed oggi abitata da uno dei quattro fratelli.
Nel 1998 l’azienda ha reimpiantato solo filari di uve rosse, ricavando annualmente circa 25 quintali di uva, pari a 3 mila bottiglie.
Tre le tipologie di vino prodotte: Merlot in purezza, Cabernet Sauvignon in purezza e l’etichetta derivante dalla vecchia cascina: il Cà de Sass, un taglio bordolese dei due vini, la cui formula è quella del Valcalepio Rosso.
Parte della produzione viene consumata in famiglia o da amici mentre il resto, etichettato a mano, è venduto a conoscenti.
Dal 2000, a far compagnia al vigneto e agli alberi da frutto posti ai piedi della “Montagnetta” vi sono 150 piante di olivo, poste amorevolmente in una zona che, a detta degli esperti, si presta a tale coltivazione. Le piante messe a dimora sono di diverso tipo: Leccino, Pendolino, Frantoio, Leccio del corno, Grignano e la Sbresa, una varietà autoctona bergamasca messa a dimora in epoca più recente.
Per poter cogliere le olive da frangere occorrono 6-7 anni da quando l’olivo viene piantato: il tempo necessario per provare a produrre un olio tutto targato Bergamo, com’è nelle intenzioni dell’azienda oggi tutelata dal Consorzio del Parco dei Colli.
Per ora, dalle preziose olive, tutte raccolte a mano e frante a poche ore dalla raccolta, si ottiene poco olio di alta qualità, che viene imbottigliato con l’etichetta “Mura Venete”.
Mollemente disteso lungo il declivio occidentale della collina di Città Alta, il quartiere di Santa Lucia prende il nome dall’antico complesso monastico domenicano femminile “di Santa Lucia in Broseta”, fondato nel 1337, di cui è sopravvissuta la chiesetta posta a fianco del vecchio orfanatrofio maschile (oggi Scuola Imiberg) in via Santa Lucia.
Ancor’oggi, nonostante l’intensa urbanizzazione la meravigliosa conca rappresenta una sorta di “intervallo”, quasi luogo di sospensione fra la città dei borghi e l’immediata periferia, dove ancora si avverte il profumo di un passato rurale, splendidamente fuso all’impronta elegante del costruito, a partire dalle pregevoli ville e villini di stampo liberty del primo Novecento.
Intessuta com’è da una delle orditure più complesse e sapienti dell’intero paesaggio collinare, la conca conserva, forse più di ogni altra, innumerevoli tracce del suo primitivo carattere agricolo: basta osservare le vecchie case e le cascine sparse, ed in primis i sedumi medioevali ancora presenti nella conca del Paradiso, e il calibro minuto degli appezzamenti evocanti le antiche colture dei broli (orti-frutteti delimitati da muretti a secco), oppure i percorsi acciottolati e i terrazzamenti con i muretti a secco di contenimento, che costrituiscono l’ “armatura” dell’antico paesaggio agricolo.
Se a ciò aggiungiamo i moderni giardini, le alberature e le coltivazioni che ancora resistono, otteniamo un meraviglioso colpo d’occhio sulla grande esedra verde che ancor’oggi chiamiamo a buon ragione “Conca d’Oro”.
Un’impronta che si conserva evidente nei tracciati sinuosi – per gran parte gradonati e tutti in forte pendenza – che innervano il pendio intessendo una fitta rete di collegamenti rapidi che dalla piana, dall’antico convento e i suoi dintorni, giungono, oggi come allora, in via Tre Armi, in Borgo Canale, in via Sudorno e in San Martino della Pigrizia.
Rimandano alla matrice rurale anche alcuni toponimi, come via degli Orti, dove permane il caratteristico ambiente agricolo collinare, vicolo degli Ortolani nonché via e vicolo Fontanabrolo (“loco ubi dicitur Fontana in valle que dicitur Brolo”), che ricorda la presenza delle acque e la densità dei broli e delle colture da giardino che resero famosa la zona fino a tutto il Cinquecento.
Scalette che i contadini percorrevano reggendo le grandi ceste ricolme di ortaggi che foraggiavano la città al piano: via Santa Lucia, via del Paradiso (che si staccano attualmente dalla via Tre Armi), e più defilate, verso Borgo Canale e la Pigrizia, la scaletta delle More, Fontanabrolo (che raggiunge via degli Orti, sul retro della cortina del Borgo Canale), vicolo degli Ortolani e, non dimentichiamo, lo Scalone di Sant’Alessandro, che si diparte dalla parte alta di via Francesco Nullo salendo ripida con i suoi 134 scalini a raggiungere il Paesetto e Porta San Giacomo attraverso la via S. Alessandro.
LA CONCA E IL SUO ANTICO MONASTERO
Ai tempi della fondazione del complesso monastico di Santa Lucia, la devozione alla santa siracusana era già consolidata in Bergamo, come testimonia una scultura del secolo XI inserita nella lunetta del portale d’angolo di Santa Maria Maggiore, dove Lucia, identificata dal nome inciso nella pietra, partecipa come ancella addetta al bagno della Neonata Maria.
Nella rappresentazione di Bergamo risalente a metà ‘400 – la prima veduta realistica della Città – il monastero “Santa Lizia” è rappresentato con due campaniletti al margine sinistro oltre “lo rizzolo” (antica cinta muraria) e la cinta delle nuove Muraine.
Ma l’isolamento del complesso di Santa Lucia rendeva il monastero rischiosamente esposto a infauste vicende, tanto che nel 1556 (1), a scopo precauzionale le monache decisero di trasferirsi all’interno delle Muraine, trovando definitiva sistemazione nel Prato di Sant’Alessandro – sul luogo dell’attuale Palazzo Frizzoni -, dove si aggregarono al convento occupato fino a quel momento dalle Umiliate di Sant’Agata de Rasolo, fondato nel Duecento dagli Antoniani del vicino ospedale di S. Antonio.
La chiesa, che prima era dedicata a S. Agata, venne unita a quella dell’ospedale di S. Antonio di Prato e dedicata alle Sante Lucia e Agata.
Da quel momento, a ricordo del trasferimento della comunità monastica, l’antica chiesa nella conca di Santa Lucia prese il nome popolare di “Santa Lucia Vecchia”, trasmesso poi a tutta la valletta.
La costruzione dello spalto di Santa Grata e del bastione di San Giovanni delle nuove mura veneziane (1561-1595) isolarono ulteriormente la conca di Santa Lucia e presto la chiesa finì in rovina, essendo già, ai tempi della visita apostolica di Carlo Borromeo (1575), piena di attrezzi agricoli.
Ai tempi della peste del 1630 narrata dal Manzoni, il medico Lorenzo Ghirardelli scriveva che nel convento di Santa Lucia, ormai ridotto a rudere isolato, era sopravvissuto un lembo di muro sbrecciato che manteneva prodigiosamente illeso l’affresco di Cristo curvato sulla strada del Calvario, attirando “i dolenti anche da lontani paesi” così come lo stesso Ghirardelli, che colpito dalla peste vi si rivolse offrendo in voto di ricostruire la chiesa.
Sopravvissuto il Ghirardelli all’epidemia e acquistate a tal fine “…casa e ortaglie in Santa Lucia Vetera”, ma morto ancor prima di portare a compimento il suo voto (1641), la nuova chiesa verrà edificata grazie ai figli (“padroni di questo luogo”), e consacrata nel 1648 con la nuova intitolazione al Santo Nome di Gesù, in coerenza con l’effigie cui era stata rivolta la promessa ai tempi del “memorando contagio”.
Nello stesso periodo, il gennaio del 1622, fuori Porta Broseta, nel Borgo Pompiliano (futuro quartiere di Loreto), posto a non più di mezzo miglio dalla città, veniva inaugurato il santuario della Beata Vergine di Loreto e nel mese di giugno, con grande processione la statua della Madonna veniva traslata dal convento di S. Lucia.
A quei tempi, parrocchia dell’intera plaga era la chiesa di Santa Grata inter vites, che abbracciava un’area vastissima.
La chiesa nella conca di Santa Lucia (con “quattro reliquie in bellissima urna” sotto l’altare), dotata di abitazione per il sacerdote e per il sacrista, disponeva di un fondo per la messa quotidiana e perpetua e della rendita di terreni siti in Curno.
Alla sua morte nel 1692, Andrea, figlio del medico Lorenzo Ghirardelli, venne sepolto nella chiesa.
La nuova chiesa, come detto intitolata al Santo Nome di Gesù, risultava simile per linee e proporzioni a quella della Madonna del Giglio presso porta San Giacomo, edificata nel 1660 in sostituzione della chiesa vicinale di S. Giacomo, distrutta per la costruzione delle mura veneziane nella seconda metà del Cinquecento.
In realtà, è intitolata alla Madonna del Giglio dal 1806, a ricordo dell’evento miracoloso del 1659 che vide protagonista Felicetta Coltrini, una fanciulla storpia, qui giunta a gran fatica dal borgo San Leonardo per chiedere la grazia alla Vergine dipinta ad affresco nei pressi dei portelli posti ai piedi di Porta di San Giacomo, tra le vie Tre Armi e Sant’Alessandro: la tradizione vuole che persino i gigli ormai appassiti deposti dinnanzi alla sacra immagine, improvvisamente rifiorissero. Dopo la concessione della grazia, l’affresco venne trasportato all’interno della chiesa.
I due edifici risultavano direttamente collegati dal vicolo Santa Lucia che risale ancor oggi, con la denominazione di via Santa Lucia Vecchia (scaletta), la via Tre Armi (via radicalmente modificata dalla costruzione delle mura veneziane) e la Porta San Giacomo nella Città Alta.
Il territorio intorno alla chiesa non subì trasformazioni, cristallizzandosi in un ameno paesaggio agreste che lambiva i non più minacciosi contrafforti della fortezza di Bergamo, come appare in un disegno di Giacomo Quarenghi, databile intorno al 1810.
NELLA CONCA COMPARE IL CIMITERO
Intorno al 1810, in seguito al divieto di sepoltura nelle aree urbane, fuori Porta Broseta, a servizio del sempre più popoloso Borgo di San Leonardo venne creato un cimitero dalla forma pentagonale intitolato a Santa Lucia, con ciò restituendo la devozione dell’antico e indimenticato monastero.
Il piccolo camposanto, uno dei tre cimiteri storici sorti in quel periodo fuori le Muraine (2), si trovava esternamente alla cortina del Lapacano ed era ancora in uso nel periodo in cui, a pochi passi, era già stato avviato il cantiere per il nuovo impianto della centrale della Società elettrica Bergamasca (1911 -1926), chiamata in seguito ENEL.
Anche se ormai dismesso, e sostituito dal nuovo camposanto di S. Giorgio alla Malpensata, nella pianta del Manzini del 1816 il piccolo cimitero è ancora presente; intanto, nel 1910, il Comune aveva già decretato l’ampliamento dell’attuale via Nullo (parallela alla distrutta cinta del Lapacano), demolendo la preesistente centrale della Società elettrica prealpina, per ricostruirne una nuova.
Nel 1838 in Porta Broseta si insediava la filanda Berizzi, dando avvio al nuovo destino proto-industriale della parte bassa della conca di Santa Lucia, lambita dalla roggia Serio.
Eletto a parrocchia nel 1863, il santuario di Loreto diventava parrocchia di riferimento anche per la zona di Santa Lucia vecchia e le sue pertinenze. Nello stesso anno, il lascito Ghirardelli finiva nelle proprietà dell’Opera Pia Azzanelli Cedrelli e la chiesa diventava di patronato della stessa Opera.
Ma nel 1902 la chiesa di santa Lucia passò alla famiglia Migliorini Carminati, che acquistò le Ortaglie del Paradiso, la chiesa e gli annessi fabbricati, con l’intenzione d’istituirvi un Orfanatrofio, realizzato nel 1916.
CADONO LE MURAINE: NASCE IL QUARTIERE LIBERTY ED IN SEGUITO L’OSPEDALE
Mentre la Città Bassa aveva cominciato a trasformarsi già a partire dall’Ottocento, dando vita ad un moderno centro cittadino con grandi palazzi istituzionali, ampie strade e innovativi mezzi di trasporto, l’abbattimento delle Muraine agli albori del Novecento cambiava il volto degli antichi borghi, decretando la perdita di isolamento anche per la conca intorno alla chiesa di Santa Lucia.
In quel “grazioso angolo di campagna con meravigliose visioni di papaveri nei campi a primavera” (ma anche ad oriente del contrafforte di S. Stefano) sorsero le prime ville padronali e le prime palazzine in stile Liberty, costruite per famiglie borghesi, professionisti, imprenditori e commercianti, per massima parte tra il 1905 e il 1915 determinando la nascita di un quartiere ordinato a scacchiera, che andrà sviluppandosi fino alla fine della Seconda Guerra mondiale, acquisendo un nuovo impulso con l’avvento del boom economico.
Nel frattempo, nel 1916 sui terreni del lascito Carminati agli Istituti Educativi iniziava la costruzione dell’Orfanatrofio Maschile (divenuto nel periodo della Prima guerra mondiale Ospedale Militare di Riserva).
In quel periodo, la società dei fratelli Ingegnoli di Milano aveva acquistato i terreni per un fronte di 500 metri dal Lapacano verso S. Lucia, iniziando la costruzione dei cosiddetti “Villini” della Conca d’oro, riecheggiando l’idea della città-giardino.
Poco alla volta, i moderni edifici in cemento (poco costoso e facilmente lavorabile), abbinato al ferro battuto di cancelli ed inferriate, cambiarono il volto del quartiere andando ad occupare una vasta area tutta intorno alla futura via Statuto, che presto divenne residenza della media e alta borghesia del tempo, desiderosa di distinguersi attraverso la nuova espressione artistica d’inizio secolo.
In un primo momento, essendo la zona completamente priva di servizi, il nascente quartiere era ancora congiunto alla città dal tortuoso tracciato di via delle Cavette (attuale via Sant’Antonino), che dal sagrato di Sant’Alessandro in Colonna arrivava fino al Lapacano costeggiando il parco dei conti Belli, mentre l’idea del “traforo del Fortino” per connettere il nascente quartiere con la città, comincerà a farsi strada solo a partire dal piano regolatore promosso dal Rotary nel 1926.
Nel 1922, l’area era abitata da circa 400 persone, ma le costruzioni in atto e l’intricata rete del tracciato stradale – già dotato delle nuove vie Milano, Torino, Albrici, Alborghetti, Rismondo -, lasciavano presagire un notevole sviluppo tra la zona immediatamente pedecollinare (l’attuale via Rosmini) e le vie Statuto (completata nel 1933), Negri, XXIV Maggio, ai tempi percorse solo da carri e da una comoda linea tranviaria che arriverà fino al nuovo Ospedale, inaugurato nel 1930, epoca in cui si comincerà a pensare ad una chiesa nuova per il quartiere.
L’ELEZIONE A PARROCCHIA DELLA CHIESA DI SANTA LUCIA, LA CREAZIONE DEL RIFUGIO ANTIAEREO E LA NASCITA DEL TEMPIO VOTIVO
All’inizio degli anni Trenta gli abitanti della zona erano circa 1.000, e mentre si era da tempo acquistato il “bellissimo campo d’angolo” tra via Statuto e via Alborghetti dove edificare la nuova chiesa, nel 1939 la chiesa al Santo nome di Gesù veniva smembrata da quella suburbana di Santa Maria di Loreto per essere eletta a parrocchia con il titolo di “Chiesa di Santa Lucia vergine e martire”, recuperando l’antica dedicazione. L’anno successivo veniva ceduta dall’amministrazione dell’Orfanatrofio alla curia di Bergamo.
Intanto, negli anni Quaranta nella zona c’erano poche case isolate, con la chiesetta di S. Lucia dominata dal poderoso edificio dell’Orfanatrofio maschile e la roggia Curna che correva lungo la via Statuto a demarcare le due anime del rione: quella alta ed elegante e quella bassa, ancora campestre, ricca di campi di grano, gelsi, e frutteti, delimitati da piccoli fossati.
Ma a parte le ville liberty nell’insieme la valletta era ancora un’area agricola, perennemente baciata dal sole e ancora chiamata Conca d’Oro per l’amenità del sito e per l’abbondanza e varietà dei suoi coltivi.
Nel frattempo, nel 1944 era iniziato lo scavo della Galleria Conca d’Oro sotto il colle del Fortino per creare il bunker antiaereo del Comando Germanico Werhmacht, collegato in “verticale” alla sovrastante villa (oggi nota come villa Bizioli) mediante una scala scavata nella roccia di cui è ancora visibile la porta in ferro di arrivo nel bunker, il quale era a doppia uscita.
In quella bellissima residenza con torre ad altana/belvedere, si svolsero le trattative che, si dice, nel 1943/’45 salvarono la città, prima da un bombardamento alleato e poi dallo scontro insurrettivo.
Con lo scavo della galleria, si poneva la premessa per la realizzazione del collegamento veicolare che dal 1953 sarà la Galleria della Conca d’oro.
A causa della guerra, ma anche per mancanza di fondi la cupola inconfondibile del Tempio Votivo cominciava ad emergere solo nel 1949, avviandosi al completamento l’anno successivo (poco dopo il Congresso Eucaristico diocesano e la proclamazione del dogma dell’Assunta), quando le anime della parrocchia di Santa Lucia erano ormai salite a 3.000.
Il 25 aprile del 1952, a sei anni esatti dalla posa della prima pietra, con grande concorso di popolo la nuova chiesa venne solennemente consacrata dal vescovo Bernareggi, dedicata al “Cuore Immacolato della Beata Vergine Maria” ma presto nominata Tempio Votivo (3) in segno di gratitudine per aver risparmiato la zona dall’orrore dei bombardamenti, adempiendo al votofatto dalla Città di Bergamo nel 1943 (4).
GLI ANNI DEL BOOM E L’APERTURA DELLA GALLERIA CONCA D’ORO
Negli anni ‘50-’60, pur mantenendosi residenziale la zona si adeguò ai mutamenti economici e sociali: dagli anni ‘50 cominciarono a comparire i primi condomini di via Rosmini, via Bologna, via Milano e via Santa Lucia.
Nel 1953 venne portato a termine il collegamento veicolare fra il quartiere di Santa Lucia e il viale Vittorio Emanuele, realizzato mediante la Galleria Conca d’Oro, lunga circa 245 metri e tutta illuminata al neon.
Fortunatamente non andò a buon fine il progetto concepito nel 1954 per creare un’altra strada partendo dalla rotonda di S. Lucia, che avrebbe dovuto aggredire con una serie di tornanti questa zona collinosa della città, creando “una rusticana passeggiata, una specie di ‘Viale dei Colli’ meno classico certamente del celebrato viale di Firenze, ma anch’esso allagato di sole, stornellato a primavera dalle chiome dei peschi che sui nostri colli esplodono prestissimo in fiore”.
Così come non andò a buon fine l’idea di far passare per la galleria una linea del tram, “nella suggestione di un traforo”, per raggiungere il bel quartiere di Santa Lucia (5).
In seguito, nel 1964 fu istituita la parrocchia di S. Paolo, al confine col quartiere, nell’ottobre del ’63 iniziarono a costruire le piscine Italcementi, entro il 1972 fu completato il complesso dell’Eurocollege, che dall’84 ospita l’Accademia della Guardia di Finanza e, sempre nel corso degli anni ’70, i contigui nuovi insediamenti di via Anna Frank e di via Damiano Chiesa.
La chiesa di Santa Lucia, embrione di tutta la valletta, dopo un adeguato restauro venne riaperta al culto nel 1980, quando la parrocchia contava ormai circa 8.000 abitanti; anche se, come detto, le principali liturgie si tengono a tutt’oggi al Tempio Votivo, eletto a chiesa parrocchiale della Conca d’Oro.
Nel complesso, nel quartiere convivono pacificamente le tante anime che nel tempo vi si sono sedimentate, all’ombra del pendio dorato della conca dove natura e costruito continuano a coniugarsi in perfetta armonia.
Note
(1) Per il Pasta 1586, per G.B. Angelini 1590. Per notizie relative ai due siti di S. Lucia si veda anche E. Fornoni, Le vicinie cittadine, pp. 440-411.
(2) In seguito alle nuove disposizioni imposte da Napoleone con l’Editto di Saint-Cloud, emanato in Francia nel 1804 per motivi d’igiene e di salute pubblica nel 1810 a Bergamo sorsero ben tre cimiteri, tutti fuori dalle Muraine: quelli di Santa Lucia, San Maurizio e Valderde. Nel 1813, ritenuta inadatta la sua localizzazione, il cimitero di S. Lucia venne dismesso e sostituito dal nuovo camposanto di S. Giorgio, costruito alla Malpensata, tra la chiesa e il grande parcheggio a lungo occupato dal mercato del lunedì. I tre cimiteri confluiranno in seguito nel Cimitero Unico costruito in viale Pirovano agli inizi del Novecento.
(3) La solenne consacrazione avviene in coincidenza con la conclusione del Sinodo diocesano svoltosi il 23 e 24 aprile e l’apertura definitiva al culto è del ‘53.
(4) Durante la solenne processione tenutasi il 14 marzo 1943, in piazza del Duomo il vescovo proclama solenne voto: “Per la città domandiamo la protezione di Dio; domandiamo tale protezione con la mediazione del Crocifisso, perciò è stato portato in trionfo; e domandiamo tale protezione anche con l’intercessione di Maria. Ecco il mio desiderio: se saremo risparmiati dai danni delle incursioni aeree, noi promettiamo e facciamo voto di erigere, quale parrocchia nel quartiere di Santa Lucia, a guerra terminata un tempio votivo al Cuore Immacolato di Maria, tempio che rappresenti nei secoli la nostra gratitudine al Signore”. L’epigrafe latina voluta dal vescovo Bernareggi a fascia di tutto il perimetro esterno dell’edificio proclama dunque: “COLOMBA BELLISSIMA CHE PORTI L’ULIVO DELLA PACE/ACCOGLI IL VOTO DELLA CITTÀ INDENNE PER IL TUO SOCCORSO/TI RENDIAMO GRAZIE O CREATURA DELLA TRINITÀ/SIGNORA DELL’ALTISSIMO GAUDIO DELLA CHIESA SPERANZA DEL MONDO/A TE CHE HAI CALPESTATO IL MOSTRO DELLA GUERRA/DEDICHIAMO PER LE MANI DI ADRIANO VESCOVO QUESTO TEMPIO”.
Tosca Rossi, A volo d’uccello Bergamo nelle vedute di Alvise Cima Analisi della rappresentazione della città tra XVI e XVIII secolo. Litostampa istituto grafico, Bergamo, 2012.
Nel corso del medioevo, i colli che si stendono a occidente della città murata videro sorgere casolari sparsi, piccoli monasteri, torri ed edifici fortificati, mentre a partire dal Cinquecento – e ancor di più nel Settecento – nacquero case di villeggiatura talvolta concepite come centri di conduzione agricola.
La dimora di maggior emergenza ambientale, Villa Benaglia, deve la particolare denominazione al nome dei Conti Benaglio, i cui discendenti ne detengono tuttoggi la proprietà.
Adagiata su un poggio esposto lungo il versante meridionale , la villa sorse come opera fortificata dominante il sito di Longuelo e la pianura.
Appare infatti evidente l’origine fortificata della costruzione, sia per la particolare posizione e sia per la presenza, poco a valle, di una porta di guardia duecentesca con struttura a doppio arco in pietra: la Stongarda di Longuelo o portone di San Matteo, così chiamata per la vicinanza dell’omonima chiesa, ristrutturata alla metà dell’Ottocento e di patronato dei Conti Benaglio.
In seguito, la villa ha subito profondi cambiamenti fino ad assumere l’attuale aspetto di dimora gentilizia; la trasformazione in residenza per villeggiatura si deve far risalire alla prima metà del Settecento, come testimonia l’iscrizione apposta sul portone d’ingresso: “nobis deus haec otia fecit a.d. 1726”.
Un successivo completamento della villa è stato attuato al principio del 1800, quando la trasformazione e l’ampliamento di un’antica parte rustica ha dato luogo all’attuale corpo di fabbrica a leva.
Uno scenografico viale di cipressi conduce all’ingresso principale che si apre su una corte delimitata a sud dal corpo centrale della villa.
L’altro affaccio è verso valle, con portico, loggia e giardino pensile, cui si innesta un corpo di fabbrica aggiunto probabilmente all’inizio dell’Ottocento.
Il grande giardino, anch’esso sottoposto a vincolo, presenta, insieme agli imponenti cipressi del viale d’ingresso una notevole ricchezza di essenze arboree, alcune delle quali tipiche dei climi più miti: la palma, il nespolo, il platano e il pino marittimo, oltre che faggi, abeti, cedri del Libano e uno splendido esemplare di Bagolaro (1); vi è inoltre un interessante roccolo in rovina.
Il viale d’accesso giunge ad un prato antistante la villa, delimitata a monte da due case rustiche, segnate da pilastri bugnati già aventi funzione di scuderie, rimesse a servizi.
Una corte a prato ha come quinta meridionale il corpo centrale della dimora signorile, cui si accede attraverso un portale settecentesco ad arco che immette all’androne d’accesso, nel punto di collegamento tra le due parti nettamente distinte costituite dall’antico corpo principale e dall’ala aggiunta nel primo Ottocento. Da qui, la villa presenta una semplice fronte alta due piani più l’ammezzato.
A valle si apre invece l’ala più antica, con un elegante portico ad archi a tutto sesto sostenuto da snelle colonne che sostengono un sovrastante, aereo loggiato; il tutto è rivolto verso un giardino pensile con vista sulla pianura, formando una delle presenze architettoniche meglio individuate dei dintorni di Bergamo.
Le aperture nella parete interna del portico, voltato a crociera, non sono in posizione regolare rispetto alle arcate, comprovando con ciò le integrazioni successive; il portico stesso si prolunga fino all’androne d’ingresso, che è laterale rispetto al corpo principale ed ha il portale settecentesco ad arco in asse con il viale d’accesso.
All’interno dell’edificio cinquecentesco, al piano del cortile (cui corrisponde a sud il giardino pensile con balaustra in pietra), vi sono sale con soffitto di legno decorato e pareti affrescate nella fascia superiore.
La sala più notevole, quella all’angolo nord-est, è coperta da una bellissima volta decorata a stucchi con affreschi di fine XVI secolo raffiguranti le otto “Beatitudini” di G. P. Cavagna; nella stessa sala è situato un camino con sovrastante specchio a stucchi con lo stemma della famiglia Benaglio.
Uno scalone, che si svolge entro un alto vano a soffitto piano affrescato, conduce al piano superiore, dove le stanze hanno soffitti con travi di legno decorate.
Al piano terra dell’ala ottocentesca, che è normale alla precedente, vi è un ampio salone decorato con gusto neoclassico, con fregi attribuiti al Bonomini e con un bellissimo soffitto a cassettone.
Lungo il declivio posto a sud della villa, ai confini del suo grande giardino sorge la chiesa di San Matteo con la Casa del Cappellano.
L’antico nucleo è andato formatosi ed assumendo l’attuale configurazione a partire dal Cinquecento e si offre quanto mai suggestivo nella sua nobiltà formale al visitatore che procede lungo la vecchia stradina campestre di Longuelo ed attraversa la Porta della Stongarda.
La chiesa, intitolata all’apostolo di Cristo, fu realizzata nel XVI secolo ed esiste testimonianza di una visita di San Carlo Borromeo del 1575, allorché auspicava la sistemazione di tetto ed intonaci.
Dal 1810 la storia della costruzione si lega a quella della potente famiglia dei Conti Benaglio allorché Gaetano, vescovo di Lodi, l’acquistò dal Demanio e la riaprì al culto con apposito Dispaccio Prefettizio, a seguito della soppressione in epoca napoleonica.
La chiesa presenta una sobria facciata caratterizzata da portale in pietra di Sarnico e due aperture a monofora nella parte alta, coronate da timpano. Al di sotto degli intonaci più recenti affiorano laceri delle malte originali e tracce d’affresco di notevole interesse documentario.
L’interno, a navata unica con volta a botte, mostra un pregevole apparato decorativo di gusto classico, costituito da stucchi finemente modellati che in un contesto oggi provato da un lungo stato d’abbandono ed incuria, testimoniano l’antico fasto, quando incorniciavano importanti quadri oggi altrove.
Al sui interno, la volta è affrescata con putti di gusto barocco ed è presente un antico organo Serassi.
Il nucleo architettonico sul quale svetta l’elegante torre campanaria comprende la Casa del Cappellano, costituendo un pregevole unicum per la soluzione formale dei prospetti improntati alla massima chiarezza compositiva e all’uso omogeneo dei materiali presenti, quali l’arenaria di Sarnico.
Sul fianco sinistro della chiesa di San Matteo vi è anche una chiesetta intitolata alla Madonna di Lourdes, realizzata nel 1911 con facciata in pietra artificiale policroma di stile neogotico, oggi storicizzata nel contesto di appartenenza e ben amalgamata con l’austera eleganza della vicina costruzione rinascimentale.
L’insieme comprende infine il piccolo sagrato e il giardino caratterizzato dalla presenza di alberi da frutto fra cui si nota un’imponente pianta di noce.
Note
(1) Il Bagolaro (Celtis australis L.), chiamato anche spaccasassi, romiglia o lodogno, è un grande albero spontaneo. Il suo legno si presenta chiaro, duro, flessibile, tenace ed elastico e di grande durata, è ricercato per mobili, manici, attrezzi agricoli e lavori al tornio. È inoltre un ottimo combustibile. Questa pianta è conosciuta anche con il nome spaccasassi, dovuto al suo forte apparato radicale che lo rende in grado di sopravvivere e radicare anche in terreni carsici e sassosi.
Riferimenti
Relazioni allegate al decreto di vincolo
Carlo Perogalli, Maria Grazia Sandri, Vanni Zanella, “Bergamo: Villa Benaglia”, Ville della provincia di Bergamo, Rusconi immagini, Milano, 1983, pagg. da 205 a 207.
Alberto Castoldi, Bergamo e il suo territorio, Dizionario Enciclopedico, Bergamo, Bolis Editore, 2004, pp. 219-220: