Sul Sentierone alla vecchia Fiera, tra il “Nazionale” ed altri Caffè

Il Sentierone con i suoi famosi “Caffè”, nel 1914

Verso la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, nei locali della Fiera che si affacciavano su Sentierone fiorivano quattro splendenti caffè-ristoranti: il Gambrinus, verso la chiesa di San Bartolomeo, punto di ritrovo dei giornalisti e dei tifosi di sport: calcio e soprattutto ciclismo;  il Centrale, all’ingresso della Fiera, frequentato da professionisti ed impiegati e più tardi trasformato in Cinema Centrale; il Bramati, ritrovo preferito di alcuni giornalisti, frequentato da pensionati e da studenti e sede di dibattiti e comizi politici. Ultimo, ma non ultimo, il Nazionale, presso il torresino che guardava verso Porta Nuova, più o meno nella stessa posizione in cui si trova l’attuale: era frequentato dalla gioventù “bene” e grazie al vulcanico Pilade Frattini divenne il centro della vita mondana della città, o meglio, il simbolo della Belle Époque in salsa orobica.

Quattro torri angolari delimitavano i lati dell’ ”insigne fabrica” della Fiera. Erano rozze, basse, tutt’altro che slanciate: perciò venivano chiamate “torresini”. Nei due torresini prospicienti l’Ospedale di San Marco (di cui oggi resta solo la chiesa) avevano le loro sedi il Tribunale della Sanità e i Conservatori della Fiera. Nel torresino che dava verso il portello delle Grazie (in fotografia) erano gli uffici delle Vettovaglie: qui sorgeva il caffè Nazionale. Il torresino vicino alla chiesa di San Bartolomeo, ospitava il Tribunale della Giustizia: accanto sorgeva il caffè Gambrinus e, nel mezzo, il Bramati ed il Centrale (chiuso nel 1914 per dare spazio al Cinema Centrale)

IL CAFFE’ GAMBRINUS

Presso il torresino della Giustizia, e proprio tra le ultime botteghe affacciate sul Sentierone, era il Gambrinus, vicino alla chiesa di San Bartolomeo. Caffè alla moda e punto di ritrovo dei giornalisti, era frequentatissimo dai commercianti ma soprattutto dei tifosi di sport: durante le corse di ciclismo, il Gambrinus era il centro delle informazioni sull’andamento delle competizioni.

Il Gambrinus, presso la Fiera

Fra i giornalisti, alcuni si salutavano fraternamente, altri si guardavano in cagnesco dopo essersi lanciati accuse ed insulti sulle colonne dei rispettivi  giornali. Tra i tifosi di sport invece, il più appassionato era certamente il Gamba, il suo eroe era Enrico Brusoni, allora campione italiano del ciclismo su strada.  

Il Sentierone nel 1914, nei pressi del Gambrinus. Tramanda il Pelandi che il Gambrinus era condotto prima del 1900 da Aristide Mangili, a cui seguì Gamba e più tardi Aroldo Carini, venuto dalla “Cervetta” e poi passato al caffè del Teatro Donizetti, Tra i giornalisti del Gambrinus, Giulio Pavoni, Franco Armando Tasca, Massinari,  Parmenio Bettòli, Carlo Zumbini, Adobati, salumiere con negozio in viale Roma e corrispondente a tempo perso del “Secolo”, quotidiano radicale milanese (1)

Ma questo caffè  era soprattutto rinomato per le battute umoristiche che partivano dal cosiddetto tavolo degli aristocratici, attorno al quale convenivano verso sera l’avvocato Giuseppe Brignoli, il dottor Francesco Negrisoli, il giornalista-scrittore Giovanni Banfi, lo scultore Alfredo Faino, che non era ancora partito per la Francia e che aveva il domicilio in Fiera.

La tavola del Gambrinus era la calamita di quei clienti che cercavano l’allegria come aperitivo all’ora del pranzo. La sorgente del buon umore partiva dalla triade Banfi, Faino Brignoli, quest’ultimo umorista più unico che raro.

Lo scultore Alfredo Faino in posa nel suo studio durante la realizzazione della imponente statua della Vittoria da collocare nella Torre dei Caduti (Archivio fotografico – Fondazione Bergamo nella Storia)

 

Il caravaggino Giovanni Banfi, autore dei noti “Racconti della Bassa”, negli anni intorno al 1907 scriveva per la “Gazzetta della Provincia” (di cui diventerà direttore), che si stampava presso Ia tipografia Isnenghi, la quale aveva l’officina in via Verdi, dove sorse il cinema “Mignon” poi divenuto Ritz (nella foto). Banfi, che dedicava notevole spazio alla critica teatrale, è ricordato da Umberto Zanetti come elegante e inappuntabile, col guanto penzolante, le ghette, il bastoncino da passeggio con il pomolo d’argento e la cravatta all’ultima moda. Con Faino e Vincenzo Monetti “formava un trio spensierato di scanzonati bohémiens”. Banfi è scomparso nel 1959

Nella bella stagione aleggiava lungo il Sentierone il suono delle orchestrine che si esibivano all’aperto per i clienti dei Caffè. Si udivano i valzer viennesi di Strauss e quelli parigini di Waldteufel, la napoletana “Santa Lucia” e il “Sogno” di Schumann, le melodie della “Vedova allegra” di Franz Lehar, le note della celebre barcaiola di Offenbach; in certe sere domenicali si potevano ascoltare un tenore o un soprano intonare raffinate melodie, oppure un bravo violinista creare atmosfere piene di magia.  Il blues, il dixieland e i ritmi sincopati erano ancora di là da venire (2).

I componenti di questi complessi musicali erano giovani professionisti diplomati, che avevano alle spalle anni di studi rigorosi e che tuttavia non disdegnavano di suonare nei café chantant o nelle sale cinematografiche quando si chiudevano i sipari sulle ultime rappresentazioni delle varie stagioni operistiche cittadine (quella di carnevale al Nuovo, quella di mezza quaresima al Sociale e quella di Fiera al Donizetti). Tra questi suonatori, Oreste Tiraboschi (che dal 1913 faceva parte dell’orchestra “Gaetano Donizetti” diretta dal maestro Achille Bedini), che aprì più tardi un negozio di strumenti musicali. Renzo Avogadri (Rasghì), celebre componente del Ducato di Piazza Pontida, era al violino. 

IL CAFFE’-RISTORANTE CENTRALE

Il Centrale seguiva al Gambrinus. Caffè-ristorante di buona nomea, era frequentato da numerosi professionisti e da impiegati di concetto, che qui convenivano coi gruppi familiari per “ciacole” serali e per combinare lunghe partite a scopa, partite di “famiglia” che duravano fino alla chiusura dell’esercizio.

La Fiera nel 1908

Ma un giorno del 1914 il Caffè Centrale, condotto da Bernardo Speranza e da Giuseppe Tiraboschi detto Dindo, cessò la sua attività. Nel locale, opportunamente riattato, il 15 agosto iniziarono le proiezioni del Cinema Centrale, diretto da Pietro Airoldi, lo stesso gestore del Cinema Salone Radium, il primo cinematografo di Bergamo. Dopo aver dato – fra l’altro – alcuni “numeri” di varietà, tutti sboccatucci e licenziosetti, il Centrale, acquisito da Giulio Consonno, ridimensionò i richiami erotici e dirottò la programmazione verso il repertorio poliziesco. Giulio Consonno darà nuovo spazio agli spettacoli di varietà prima rilevando il Teatro Nuovo e poi edificando il Teatro Duse.

Quando la vecchia Fiera verrà demolita e sorgerà il nuovo centro di Bergamo, il Cinema Centrale sopravviverà all’angolo del Quadriportico del Sentierone.

Il Cinema Centrale, nel nuovo centro piacentiniano, prima della ristrutturazione (per gentile concessione di Antonella Ripamonti). Il primitivo Cinema Centrale (quello nella vecchia Fiera) iniziò le proiezioni il 15 agosto 1914. “Fra una pellicola e l’altra si arrotola il lenzuolo dello schermo e si diverte il pubblico con scenette comiche, balletti e altri “numeri” di varietà, tutti sboccatucci e licenziosetti. I rampolli della “Bergamo bene” accorrono a frotte e sperperano i loro centesimi nella nuova sala, che i genitori scandalizzati definiscono “uccellanda diabolica”. A sera, quando gli uccellini irretiti si degnano di rincasare, odono compunti i brontolamenti materni e subiscono contriti le severe lavate di capo dei padri infuriati  (Umberto Zanetti, “Bergamo d’una volta”, cit. in Riferimenti)

IL CAFFE’ BRAMATI

Il Caffè Bramati si apriva dopo il cancello della seconda tresanda. Il proprietario era il signor Camillo, un ometto sempre serio, dignitoso, con un berretto di seta nera con visiera in testa e leggermente claudicante. Di lui il Pelandi ricordava  (anche) i gustosi spuntini: prosciutto cotto alto un dito, innaffiato da un certo vinello frizzante, al prezzo di una lira, mancia compresa.

Caffè Bramati, “bigliardi, birreria”

Il “Bramati” era il ritrovo preferito di alcuni giornalisti di quel tempo e fra essi, Carlo Zumbini, il direttore della “Gazzetta Provinciale”, il battagliero competitore di Parmenio Bettòli, allora direttore-proprietario-fondatore della “Nuova Gazzetta”. La “Provinciale” parteggiava per il partito moderato conservatore, l’altra doveva essere l’organo del partito monarchico liberale. La lotta fra i due giornali, o meglio fra i due giornalisti, fu decisa, aspra, senza quartiere. Altro habitué era Francesco Scarpelli, che dirigeva il “Giornale di Bergamo” ma fu costretto a lasciare la nostra città perché inviso ai fascisti.  

Vicino al “Bramati” aveva sede il “Club di ricreazione” sorto dopo la chiusura del “Casino dei Nobili”, già funzionante al primo piano della casa Goggi in via XX Settembre e come esso svolgente, in tono più modesto, le stesse finalità. Casa Goggi, ritrovo soprattutto delle famiglie degli impiegati statali, faceva parte di uno stabile acquistato nel 1882 da Grazioso Goggi, dove si trovava anche lo storico negozio Goggi (a destra della foto), che era preceduto dalla altrettanto storica Libreria Conti. Grazioso Goggi aveva creato, oltre alla facciata, un libero passaggio pedonale comunicante con via Zambonate, all’interno del quale esponeva le sue merci

IL CAFFE’ NAZIONALE

Di tutti, il Nazionale era il più rinomato. Il caffè ristorante occupava parte del torresino rivolto verso Porta Nuova ed altre botteghe sino al primo cancello della Fiera.

Il torresino rivolto verso Porta Nuova era occupato dal caffè Nazionale insieme ad altre botteghe, sino al primo cancello della Fiera

Il locale era stato rilevato da Pilade Frattini, un impresario dotato di tanta originalità ed inventiva, geniale scopritore di talenti ed organizzatore impareggiabile di molti spettacoli teatrali.

Il Caffè Nazionale, già Trattoria della Speranza. Sui cristalli, facevano bella vista fotografie di ballerine “mezzo ignude”, di soubrettes, di balletti can-can, di musicanti, giocolieri, cantanti alla moda. “Una meraviglia. I bigotti, passando, chiudevano gli occhi, si facevano il segno della croce, pronunciavano segrete preghiere” (Raccolta D. Lucchetti)

 

Frattini Pilade, il vulcanico impresario che acquistò il Caffè Nazionale nell’anno 1900 (gestendo dal 1904 anche il Teatro Nuovo, nonché il Casinò di San Pellegrino), trasformandolo da caffè-ristorante-birreria a una sorta di café chantant, con tanto di teatrino, scuotendo la sonnacchiosa Bergamo

Capitato a Bergamo intorno al 1900,  l’aveva rilevato da Pietro Balicco, che a sua volta l’aveva acquistato nel 1894, trasformando la Trattoria della Speranza in Caffè Nazionale.

Sul Sentierone, il Caffè Nazionale, frequentato dalla gioventù “dorata” di Bergamo. La clientela, per quei tempi, sufficientemente spensierata, godeva dell’ammirazione di chi non poteva varcare le solenni “soglie” (la ripresa è del 1907)

Il Frattini mise al banco della cassa Emilia, la consorte – un’affascinante bionda – e per richiamare gente assunse in servizio, in qualità di camerieri, degli autentici cinesi, vestiti all’orientale: tutta la città parlava divertita di questi camerieri esotici, che incuriosivano per le ciabatte dipinte, i paludamenti sgargianti e i capelli raccolti a codino.

Caffè-ristorante Nazionale. Il cartellone pubblicitario con le opere liriche al Teatro Donizetti fornisce una doppia indicazione: sull’anno in cui venne scattata la fotografia (dopo il 1897, quando il teatro venne inaugurato nel nome di Gaetano Donizetti) e sulla stagione (era d’autunno) – (Archivio Fotografico – Museo delle Storie di Bergamo)

Frattini introdusse i concerti musicali “senza aumento delle consumazioni”, si inventò svariate iniziative che ora definiremmo di marketing e cercò, riuscendoci, di far sì che il Nazionale fosse più di un esercizio pubblico, ma il centro della vita mondana, artistica e intellettuale, portandovi una ventata di aria metropolitana.

Da una rivista del 1900

All’interno del locale, oltre a riservare alcune salette al gioco – sua perenne e fatale passione -, Frattini fece un teatrino di varietà, una specie di “cabaret” nel quale si esibì per una quindicina d’anni il fiore dei cantanti famosi, dei musici, delle soubrette, delle ballerine, dei comici e dei giocolieri dell’epoca. Per il suo teatrino aveva costruito persino i camerini degli artisti ed un apposito fondale.

In questa foto risalente ai primi anni del Novecento, il grande Salone Teatro del Nazionale nell’Antica Fabbrica della Fiera, ai tempi in cui il locale era gestito da Pilade Frattini. Il salone, nel quale si tenevano anche feste e dei banchetti, era posto al piano superiore e venne a un certo punto affittato da Frattini al rinomatissimo Circolo Commerciale Agricolo e Industriale, che raccoglieva i maggiori commercianti ed industriali di città e provincia fra i quali il “Pesentù”, il fautore della direttissima Bergamo-Milano

Scriveva Geo Renato Crippa che a frequentare il locale erano “i ricchi di città e di borgate, la crème della nobiltà, i viveurs e gli elegantoni, quelli che portavano il cappello verde, gli abiti confezionati da Prandoni in Milano, calzavano le scarpe del classico Assuero Rota di Città Alta, frequentavano il Cappello d’Oro ed il Concordia di Viale Roma, magari sostenevano ‘donnette’ di qualche avvenenza, pagandole a ‘mesata’ (era molto chic), non mancavano ogni mattina, sul tardi, di sbarbarsi dal barbiere ‘Biffi’ di Via Torquato Tasso”. Questi signori, potevano in verità vantarsi di una visitina – una volta tanto – “al Cova, al Savini od al Bonola di Milano, ai Casinò di San Remo o di Montecarlo, celando tali scappate alle fedelissime consorti, alle fidanzate, alle madri intransigenti e sospettose.

Al Nazionale arrivavano, in gruppo, per l’aperitivo; non più il ‘bianchino’ delle trattorie, del Garibaldi o del Gambrinus, bensì il Campari, il Carpano, il Cinzano ed il Martini o, più fine ancora, il Costumé Cannetta , un rosé milanese di classe”.

Alle cinque del pomeriggio qualche elegante divetta ingaggiata dal Frattini si degnava di fare un’apparizione lungo il Sentierone per farsi ammirare dagli snob. Le dame dell’aristocrazia e le signore della borghesia sbirciavano passeggiando sussiegose e le loro occhiate tradivano fuggevolmente l’invidia.

“Tediose sofferenze turbavano le signore altolocate alle quali, in diverse oocasioni, l’entrata era vietata. Per il Nazionale, a Bergamo, si farneticava. Se non stavano più nella pelle le nobildonne scontente dei raggiri, delle bugie e del grosso di fandonie ad esse propinate da padri, mariti e figli, addirittura le giovinette accoravansi di essere tralasciate a profitto di ‘divette’ straniere delle quali si narravan ‘mirabilie’ a ripetizione. Bizzarrie scuotevan dame e fanciulle sino ad obbligarle a trascorrere sul Sentierone, all’Isacchi , ore ed ore, in attesa spietata di assistere al passaggio delle ‘compagnie’ contrattate per serate illuminanti. Lo scodinzolamento delle ‘invidiate’ succedeva, quasi sempre, intorno al mezzogiorno o alle cinque del pomeriggio. Le critiche rattristavano i purlottii e le denuncie dei salotti i più affollati. Non mancavamo, mai, recriminazioni, accuse, denuncie e qualche lacrimuccia. Le constatazioni ferivano e come” (Geo Renato Crippa, in Riferimenti)

Nel 1906 al Nazionale arrivò persino il cinematografo, o meglio, il Cinematografo Ungari, che proiettava “vedute modernissime, riflettenti fatti seri di attualità, educativi, istruttivi, nonché aneddoti umoristici”.

Al café chantant di Pilade Frattini giunse anche Gea della Garisenda, bella e agilissima. Il suo “Inno a Tripoli” fu un trionfo. Il pubblico andò in visibilio vedendo la brunetta emiliana entrare in scena con un cappello da bersagliere in testa, nuda sotto una grande bandiera tricolore, che l’avvolgeva tutta, ed ascoltandola effondere la generosa voce di mezzo-soprano nelle note marziali di “Tripoli, bel suol d’amore…”.

Grande Caffè Ristorante Nazionale. Si noti anche la dicitura “Ristorante Frattini”

Pietro Mascagni, a Bergamo per assistere ad una recita della sua “Cavalleria”, che si dava al Donizetti sotto la prestigiosa direzione del napoletano Leopoldo Mugnone, volle godersi lo spettacolo della ”diva” seduto in prima fila nel teatrino del Nazionale.

Il primo “Nazionale” sul Sentierone, nei locali della demolita Fiera. Come indicano le scritte sul muro, il celebre caffè ospitava anche la sede dell’Automobil club e il Garage Frattini (da “C’era una volta….” di Pino Capellini, Ferruccio Arnoldi Editore)

Quando l’estroso e geniale caffettiere, che dal 1908 dispose di un aereo personale, diventò impresario, con Giovanni Ceresa, del Teatro Nuovo, non finì di far strabiliare. Da buon impresario teatrale (suo a Roma il teatro Frattini), gestì il Nuovo in prima persona, facendone uno dei teatri italiani più vivi e à la page, trasformandolo in un vero e proprio centro d’attrazione per ogni genere di spettacoli. Grazie a lui il teatro divenne la sala più polivalente della città, rendendo memorabili i primi anni del Novecento.

Quando a San Pellegrino si aprirono le sale da gioco, Frattini era il patron del Casinò: alla sua esperienza, alla sua vivace spregiudicatezza ricorsero i promotori e gli organizzatori. Fra lo sfoggio degli smoking e lo sciupio dello champagne, un fiume di denaro affluì da Milano al centro termale brembano. ll patron tentò qualche colpo al banco da gioco ed ebbe fortuna.

Poi venne la guerra del ‘15-’18, con le inevitabili restrizioni; bardature, oscuramento, tesseramento, limitazioni di generi di lusso. Il Nazionale languiva. Dopo la disastrosa rotta di Caporetto, arrivarono anche a Bergamo numerosi militari feriti e si allestì per loro una infermeria nella sede del vecchio Ricovero delle Grazie. La gente non pensava più a divertirsi.

All’inizio del 1917 Frattini pensò bene di disfarsi dell’esercizio, cedendo il locale al pasticcere Luigi Isacchi (1-1-1917), noto per avere creato il tipico dolce bergamasco della polènta e osèi. Nel vecchio café chantant, adibito a pasticceria, regnava ora un discreto silenzio; all’ora del tè qualche signora sedeva ai tavolini biancodorati in stile impero per sorseggiare compostamente un bicchierino di rosolio: Bergamo – scriveva Crippa – si trovava ora “spenta e muta, ricadendo nella sua monotonia, nei ritorni alle preferenze ineleganti. Quanti la sera vestivano lo smoking si persero come nebbia di pianura…. Il floscio riportò Bergamo alla sua semplicità ancestrale”.

Un giorno, richiamato dalla passione del gioco, Pilade Frattini andò a Stresa e puntò ostinatamente un numero alla roulette per tutta la notte: all’alba, disperato, dopo aver dilapidato una fortuna, stramazzò al suolo. Un colpo apoplettico lo aveva stroncato: era il 1920.

Il Sentierone nel 1920. Questa parte della Fiera fu l’ultima ad essere abbattuta, mentre dietro già si costruiva (Raccolta D. Lucchetti)

Di tutti i locali incontrati nel corso della nostra passeggiata, il  Nazionale è l’unico dei quattro che ha continuato a vivere – dapprima come caffè-ristorante e poi solo come caffè – anche dopo l’abbattimento della Fiera e la costruzione del Centro piacentiniano: e lo si deve anche alla notorietà del vecchio locale e alle iniziative di Pilade Frattini.

Dopo Frattini, sarà Pietro Bardoneschi ad averlo in gestione, quando aprirà la nuova e attuale sede sotto i portici, che nel 1925 vedrà nascere anche il primo Rotary Club della cittadina.

Il bar del ristorante Nazionale dopo la riedificazione (1923) nel quadro del più vasto progetto urbanistico curato dall’architetto Marcello Piacentini

 

Uno dei saloni da pranzo del ristorante Nazionale dopo la riedificazione (1923) nel quadro del più vasto progetto urbanistico curato dall’architetto Marcello Piacentini. Il servizio di ristorazione continuò sino a quando, intorno agli anni novanta, il Nazionale si ridusse a solo Caffè

 

Uno dei saloni da pranzo del ristorante Nazionale dopo la riedificazione (1923) nel quadro del più vasto progetto urbanistico curato dall’architetto Marcello Piacentini

Nel 1936, sotto quei portici prese posto il caffè Balzer, con la sua sobria e nobile eleganza, impostata da una famiglia originaria del Liechtenstein. Balzer e Nazionale, che non mancavano mai in ogni reportage dal Sentierone, accoglievano gli spettatori che uscivano dal Teatro Donizetti, tenendo aperto anche fino alle due di notte.  

In quegli anni, quando la tradizione del caffè come luogo d’incontro era ancora viva e intellettuali, artisti e “bella gente” passavano le giornate ai tavolini, sul Sentierone c’era un dualismo alla Coppi e Bartali: dall’altra parte della strada, sempre nel ’36 nel palazzo della Popolare era stato aperto un caffè il cui nome ricordava l’euforia da Impero: il Moka Efti, famoso nel Dopoguerra per i concerti serali e diventato poi l’attuale Caffè del Colleoni.

Bergamo, anni trenta; il maestro Sala con la sua orchestra al caffè Nazionale sul Sentierone (proprietà A. Sala, in Riccardo Schwamenthal, Jazz a Bergamo. Ricordi, testimonianze, documenti dagli anni trenta agli anni Settanta- Archivio Storico Bergamasco. Nuova Serie n. 2, maggio-agosto 1995)

 

Bergamo, 1945. L’orchestra di Aldo Sala al caffè Moka Efti sul Sentierone: Aldo Sala pianoforte, Angelo Kadaelli batteria, Orlando Mazzoleni contrabbasso, Rino Gabellinl sassofono tenore, Gian Maria Berlendis violino; [?] Canavesi tromba, Ada Bondi cantante (proprietà A. Sala, in Riccardo Schwamenthal, Jazz a Bergamo. Ricordi, testimonianze, documenti dagli anni trenta agli anni Settanta- Archivio Storico Bergamasco. Nuova Serie n. 2, maggio-agosto 1995)
Il celebre Moka Efti del secondo Dopoguerra, ha visto i più bei nomi del jazz italiano e locale esibirsi per il pubblico bergamasco. Mitico il suo aperitivo “giallo” Martini con oliva verde, servito in coppetta da cocktail “Martini”. Oggi i locali sono occupati dal bar Colleoni 

All’estremo  dei portici, verso Largo Belotti, era invece attivo il Savoia, chiuso in età repubblicana nel 1956 (?).

Caffè Savoia sul Sentierone

In quello stesso ’56, al Nazionale si erano ritrovati gli artisti che avevano firmato il manifesto del Gruppo Bergamo. Ma nel 1945 il Nazionale-Concordia era stato anche una mensa di guerra.

Tra alti e bassi, è arrivata la chiusura a giugno 2006. Il locale ha riaperto esattamente dopo un anno di ristrutturazione con un nuovo nome “212 barcode” (212 è il prefisso dell’area di New York) e un arredo postmoderno. Tra cambi di gestione e licenze contese, finite nelle aule del tribunale, il 1° settembre 2011 il locale a riacquisito il nome Nazionale, ma non la vecchia atmosfera: se oltre un secolo fa nelle sue eccentricità Pilade Frattini aveva preso come camerieri degli autentici cinesi, con vestiti orientali e tanto di codino (come dovevano essere nell’immaginario dell’epoca), i cinesi, senza codino, prendevano ora in gestione il locale, per tenerlo fino al  2015, quando subentrava un’altra società cinese, che ha chiuso i battenti  alla fine del 2020. Si mormora che il Nazionale sia in procinto di rifarsi il look con importanti lavori di ristrutturazione, che puntano a farlo tornare tra i locali simbolo e più frequentati del centro.

Note 

(1) Negli ultimi anni dell’Ottocento a Bergamo si pubblicavano tre quotidiani: “L’Eco di Bergamo”, d’ispirazione cattolica, diretto da Gian Battista Caironi; la “Gazzetta Provinciale”, organo indipendente diretto da Parmenio Bettòli; e l’”Unione”, foglio liberale diretto da Enrico Mercatali. L’”Unione”, fondata nel 1891, ebbe vita breve; cessò le pubblicazioni nel 1900. Vi aveva fatto le ossa Franco Armando Tasca, il quale poi diresse il “Giornale di Bergamo”, emigrando infine a Pavia dove diresse un altro giornale, spegnendosi in tarda età. Scrittore intelligente e fecondo, aveva anche trovato il tempo per scrivere una storia di Bergamo, che fu pubblicata a puntate dal “Gazzettino” di San Pellegrino Terme Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa. II. La strada Ferdinandea”.  Banca Popolare di Bergamo. Co-Editore: Edizioni Bolis. Bergamo, 1963 (Collana di studi bergamaschi).

(2) “…in certe sere domenicali si potevano ascoltare un tenore nelle melodie di Tosti e di Denza e un soprano nella “Leggenda valacca” di Braga e nelle raffinate ariette in stile antico di Stefano Donaudy, nonché un bravo violinista nella “Serenata medioevale” di Silvestri, nella romanza andalusa di Sarzate, e in qualche virtuosa variazione su temi zingareschi (…) I componenti di questi complessi musicali erano giovani professionisti diplomati, che avevano alle spalle anni di studi rigorosi e che tuttavia non disdegnavano di suonare nei café chantant o nelle sale cinematografiche quando si chiudevano i sipari sulle ultime rappresentazioni delle varie stagioni operistiche cittadine (quella di carnevale al Nuovo, quella di mezza quaresima al Sociale e quella di Fiera al Donizetti). Tra questi suonatori, Oreste Tiraboschi, un violoncellista mantovano diplomatosi nel 1909 presso l’Istituto Donizetti; dal 1913 faceva parte dell’orchestra “Gaetano Donizetti” diretta dal maestro Achille Bedini. Il complesso (due pianoforti: Tironi e Briccoli; due violini: Avogadri e Pesci; due violoncelli: Airoldi e Tiraboschi) eseguiva musica da camera nella sede di via Pignolo. Il Tiraboschi aprì più tardi un negozio di strumenti musicali. Altri musicisti, Osvaldo Legramanti, contrabbassiste; Giovanni Marigliani, violinista; Eugenio Tironi… (“Umberto Zanetti, “Bergamo d’una volta”. Ed. Il conventino, 1983).

Riferimenti

Umberto Zanetti, “Bergamo d’una volta”. Ed. Il conventino, 1983.

Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa. II. La strada Ferdinandea”.  Banca Popolare di Bergamo. Co-Editore: Edizioni Bolis. Bergamo, 1963 (Collana di studi bergamaschi).

Geo Renato Crippa, “Bergamo così (1900 – 1903?)”.

Lo storico Caffè Balzer sul Sentierone, specchio di un’epoca

Il nome “Balzer” suona come una piccola melodia che riecheggia nell’aria evocando profumi e sensazioni palpitanti di vita, e vien voglia di pronunciarlo lasciandosi trasportare dalla scia di storie non poi così lontane.

Quando nel 1936 i Balzer, mercenari originari del Leichtenstein, aprirono i battenti del famoso “Caffè”, potevano già vantare un passato di tutto rispetto avendo già aperto dal lontano 1850 la loro prima pasticceria a Palazzolo sull’Oglio, cui ne era seguita una seconda a Treviglio.

Quando i Balzer nel 1936 aprirono il Caffè sul Sentierone, il Nazionale vi esisteva già dall’Ottocento in un edificio della vecchia Fiera, dove aveva simboleggiato a lungo, grazie all’intraprendenza dell’impresario teatrale milanese Pilade Frattini (che ebbe in gestione anche il Teatro Nuovo e il Casinò di S. Pellegrino), la “Belle Époque” in salsa nostrana. Era anche il ritrovo della vita artistica ed intellettuale di Bergamo

I Balzer erano approdati nel cuore di Bergamo bassa rilevando quei locali sotto i portici del Sentierone posti a pochi passi della pasticceria di Ubaldo Isacchi, già stanziata in loco dal 1917, nei locali occupati in precedenza dal Caffè Nazionale, aperto nell’antica Fiera.

L’ingresso dell’autostrada Milano-Bergamo nel 1928, poco dopo l’inaugurazione, con a destra il cartello pubblicitario della Pasticceria Isacchi e, a sinistra, quello del Moderno, albergo “di prim’ordine” (proprietà Museo delle Storie di Bergamo)

Giunta in città, la storica denominazione si riconfermò da subito come uno fra i marchi più prestigiosi, dando avvio ad un’epoca splendente che vide il suo apogeo negli anni Cinquanta e Sessanta, quando Modugno cantava “Nel blu dipinto di blu”.

Lungo il Sentierone nel 1939

 

La storica pasticceria, dal 1936 tra gli eleganti portici affacciati sul Sentierone, di fronte al Teatro Donizetti, domina il viale pedonale aperto nel 1762 come passeggiata per eccellenza dei bergamaschi

Se fino a metà Novecento il Balzer aveva conteso al Nazionale il primato di “Caffè d’eccellenza” del Sentierone, la gestione unificata dei due locali sotto il nome di Sandro Balzer aveva incrementato l’assidua frequentazione dei caffè più eleganti del “corso”, permettendo ai bergamaschi di rivivere l’eco della romana via Veneto.

 

Il Nazionale intorno alla metà degli anni Cinquanta, dopo che Sandro Balzer ne assunse la gestione. Si notino le tipiche tende Balzer lungo tutte le arcate dei portici, sormontati dall’insegna del “Nazionale” (immagine del Fondo Cittadini esposta alla mostra “La città visibile”, organizzata nel 2008 all’allora Museo storico di Bergamo)

 

Capannelli sul Sentierone nel  novembre 1963 (Foto Giovanni Gelmini)

 

Capannelli sul Sentierone nel novembre 1963 (Foto Giovanni Gelmini)

Fu proprio allora che, con Sandro Balzer, venne “rispolverata” la produzione della celebre “Polenta e Osèi”– rivisitazione dolce del tradizionale secondo piatto locale – che da tempo forma un binomio indissolubile con la città, tanto da essere uno dei pochi souvenir esportati in tutto il mondo.

La “Polenta e Osèi”, il dolce tipico di Bergamo, fu creata nel 1907 da Alessio Amadeo nella sua pasticceria di viale Roma, la “Milanese”. Egli la riprodusse in vari formati, ottenendo da subito un grande successo. Venne poi riproposta da altre pasticcerie della città (proprietà Balzer)

 

Gioppino e la “Polenta e Osèi” di Balzer (Archivio Balzer)

 

Brevetto di Balzer della “Polenta e Osèi” (Archivio Balzer)

 

Brevetto di Balzer della “Polenta e Osèi” (Archivio Balzer)

Negli anni precedenti, dai laboratori del Balzer si sfornavano panettoni annoverati tra i più celebrati marchi meneghini, grazie alla capacità di coniugare la fedeltà verso le antiche ricette ai gusti moderni e all’innovazione.

Anni Sessanta: l’ultima sfornata dei panettoni di Natale, prodotti con ingredienti di prim’ordine e capaci di concorrere con le rinomate fornerie meneghine (Archivio Balzer)

 

Il laboratorio Balzer. Giancarlo Balzer ricorda la produzione della pasticceria quando era piccolo e faceva capolino in laboratorio: “Prima i bignè erano uno diverso dall’altro e grandi, le torte molto lavorate e confezionate con meticolosità da mia nonna nel laboratorio” (Archivio Balzer)

 

Il vigile in pedana in piazza Vittorio Veneto (anni Sessanta)

Durante il periodo natalizio gli automobilisti li acquistavano per depositarli all’angolo del Sentierone, di fronte alla Vedovella, come gentile omaggio per i Vigili Urbani.

1967: il punto di raccolta dove a Natale gli automobilisti depositavano il panettone in omaggio ai vigili urbani

 

1967: il punto di raccolta dove a Natale gli automobilisti depositavano il panettone in omaggio ai vigili urbani

 

1967: il punto di raccolta dove a Natale gli automobilisti depositavano il panettone in omaggio ai vigili urbani

 

Piazza Vittorio Veneto e la torre dei Caduti negli anni Cinquanta (Archivio fotografico Sestini – Fondo Cittadini)

 

Bergamo Alta da piazza Matteotti, illuminata in occasione delle festività natalizie

E così fu anche per la “Torta Donizetti”, prodotta da Angelo Balzer nel 1948 in occasione del centenario della morte del noto compositore bergamasco; dolce di cui ancor oggi si conservano i brevetti originali: una torta margherita a forma di ciambella con pezzetti di ananas canditi.

Di nuovo le tende di Balzer nei locali precedentemente occupati dal Nazionale; tuttavia  l’insegna “Nazionale” è scomparsa (da una cartolina d’epoca)

Il suo successo non fu però immediato ed anzi, dopo la chiusura di alcune pasticcerie – in particolare Viola, Amadeo e Calzavara – la torta del Donizetti aveva addirittura rischiato l’”estinzione”: esplose nel 1997, quando la Camera di Commercio invitò il Gruppo pasticcieri dell’Associazione artigiani a rilanciare la torta e a definirne la ricetta, ora arricchita rispetto alla prima versione, con l’aggiunta di albicocche candite per garantire quel tocco in più di freschezza in una torta già di per sé ricca di burro, uova, zucchero e con un intenso aroma di vaniglia.

La nuova ricetta della Torta Donizetti, del 1997, è stata omologata ed inserita in “Bergamo Città dei Mille sapori”, il marchio della Camera di Commercio che garantisce la genuinità dei prodotti bergamaschi (proprietà Balzer)

Una felice intuizione, all’epoca assolutamente innovativa, fu quella di dotarsi di quei simpatici veicoli bicolori che ogni mattina distribuivano in tutta la provincia i prodotti appena sfornati e che ancor oggi rappresentano l’immagine di Balzer riconosciuta in tutto il mondo.

I furgoni di Balzer negli anni Sessanta (Archivio Balzer)

 

Anni `50 del XX secolo. Bergamo  (proprietà Museo delle Storie di Bergamo)

 

LA DOLCE VITA

L’interno di Balzer in un’immagine d’epoca (Archivio Balzer)

Negli anni “ruggenti” – quelli del Tullio, del Sandro, del Nino e del Pasta -, Balzer era il locale di punta della Bergamo chic e salottiera, quando nell’attiguo Teatro Donizetti impazzavano spettacoli di prim’ordine e l’aperitivo così come il dopo-teatro, erano un rito irrinunciabile.

In quegli anni il Donizetti sciorinava il fior fiore delle esibizioni: Lucia di Lammermoor, Don Pasquale, un concerto dell’orchestra d’Archi dell’Angelicum di Milano, i balletti del Festival internazionale di Nervi: Corrida, Cigno nero, Don Chisciotte, Giselle..

 

Un ricordo del Sig. Salvatore, al lavoro presso il Caffè Pasticceria Balzer (per gent.ma concessione della figlia, Renata Pellegrini)

Vi gravitavano i grandi nomi dello spettacolo e della cultura, nazionale ed internazionale: dalla divina Maria Callas al maestro Gianandrea Gavazzeni, da Mastroianni a Gassman, dal sovrintendente Bindo Missiroli alle ballerine classiche come Ivette Chauvrié (étoile e poi direttore dell’Opéra di Parigi), Lina Dayde e Rosella Hithower fino ai cantanti come Renata Scotto, Paolo Washington, Antonio Zerbini, e moltissimi altri.

Nelle soste prolungate ai tavolini all’aperto si dava appuntamento la crème della Bergamo bene composta da habitué: avvocati come Pezzotta, Riva, Graff, Tadini; politici, notai e banchieri, dottori, calciatori, industriali, giornalisti, intellettuali e nobiltà locale.

Uno stand della libreria fondata da Arnoldi sul Sentierone negli anni Trenta. La libreria si trovava in piazza Santo Spirito (proprietà Libreria Arnoldi)

Bisogna ricorrere all’onnipresente “Novecento a Bergamo” per ricordare alcuni fra i nomi degli habitué del Balzer.

L’insegna del Cinema “Centrale” sotto i portici

Fra gli intellettuali spiccava fra tutti il poeta Alberico Sala, insieme ad Emilio Zenoni col già citato Bindo Missiroli e il suo Teatro delle Novità

Gli edifici del nuovo centro progettato da Marcello Piacentini. Fra gli habitué del Balzer v’era anche anche il noto odontoiatra Mike Avetta, il cui cognome campeggiava a caratteri cubitali proprio sopra i portici del Sentierone

Negli anni Sessanta, fra gli habitué locali v’erano Moltrasio, Gilardoni, Nino Zucchelli, Vavassori tutore di Daniele Pesenti, l’altera signora Mina Pesenti, Martino Marzoli, descritto a rincorrere la splendida soubrette Elena Giusti, Aldo Rigamonti..

E ancora Frattini e Siebaneck, “Xella con la sua rombante moto, Marcello Personeni con il suo fascino di gran conquistatore, il giovane giornalista emergente Ravanelli, Renato Cortesi, l’Annalisa Cima di San Giovanni Bianco, sorella cerebrale di quel mattocchio di Francesco. Tutti seduti al Balzer a ciacolare spensieratamente”.

Notturno, 1953

Fra i “principi” del Foro: Pezzotta, Riva, Graff e Guido Tadini con la bellissima Maria: la coppia più in vista della Bergamo più snob.

Porta Nuova, 1947

Fra la Bergamo nobile: il conte Marino Colleoni, la baronessa Ninì Scotti con la madre Maria, Gian Maria Suardo, Carlo Bonomi e il caratteristico Stanislao Medolago.

Inoltre, il conte Alberto Mapelli, “sfegatato di auto e di belle donne”, Giancarlo Turani, Dedi Testa, i fratelli Radici, Giampiero Pesenti, Pierino Terzi, “il più grande barzellettiere di quel tempo, scapolo impenitente crollato sul filo di lana..”.

Trofeo Balzer Ciclismo. Anni ’50/’60

Ma vi bazzicavano anche personaggi bizzarri, “amanti e nuovi artisti, sfaccendati e biscazzieri, sensali e finanzieri. Bella gente e anche no, però sempre con un certo stile”.

A spasso per i portici del Sentierone, intorno agli anni Trenta

Un locale popolare e aristocratico, culturale e mondano, serio e pettegolo, tradizionale e moderno, dove passarono la cronaca e la storia.

Notturna, 1950

Gli argomenti spaziavano dalla politica allo sport, dalla cronaca locale agli scandali nazionali, dall’arte alla cultura e, naturalmente, le belle donne.

Il sentierone in veste domenicale (Foto Giovanni Gelmini)

 

Piazza Dante era all’epoca un tripudio di bolidi: c’era l’argentea Mercedes di Ferretti, l’Aurelia e la moto Rumi degli affascinanti fratelli Reggiani.

Motociclisti in piazza Matteotti,  anni ’50. Nell’immagine è ritratto uno dei due figli della famiglia Reggiani, entrambi scomparsi giovanissimi (Foto Gentili)

C’era Sergio Nessi con la Topolino Mille Miglia, Cesare Gambirasi con la Mg e Antonio Cembran con una sorta di ‘portaerei’ americana.

 

E non poteva mancare, nel ricordo di Antonio Cembran, un certo Rififì con tanto di Rolls Royce nera e autista in gambali (1).

Per il suo essere intimamente legato alla vita e agli umori cittadini, il Balzer era perciò era divenuto una costante dei principali reportage giornalistici locali, alla stregua della “dolce vita” di romana memoria.

DAGLI ANNI DELLA CRISI ALLA RINASCITA

La famiglia Balzer condusse la gestione del locale fino al 1986. A distanza di dieci anni e cioè dal luglio del 1996, il salotto buono e caffè storico d’Italia venne chiuso per una crisi causata da costi elevati.

Fine anni `50 – inizio anni `60. Bergamo, Sentierone (proprietà Museo delle Storie di Bergamo)

Si ebbe la sensazione che la sua chiusura coincidesse con la fine di una certa Bergamo. Che si trattasse di un cambio epocale e che il mondo che l’aveva caratterizzato fino a quel momento stesse scomparendo, insieme a quella spensieratezza che si era respirata molto a lungo.

Tanto che quando l’anno successivo il locale riaprì i battenti, in molti si chiesero se ciò potesse bastare per ritrovare quell’atmosfera vagamente mitteleuropea che ne aveva fatto un luogo magico e irripetibile.

Un luogo che aveva racchiuso in un angolo di città, tra migliaia di tazzine di caffè ed aperitivi, il pensiero, l’estro, la gioia di vivere, la voglia di esserci e raccontarsi.

Bene o male, si era chiusa un’epoca.

Dopo il lungo periodo contrassegnato dalla gestione della famiglia Balzer, si sono susseguiti a ritmo sempre più serrato ben sei passaggi di mano: un continuo avvicendamento culminato nel 2014 nell’estromissione dalla guida dei Locali storici d’Italia, dove il locale era regolarmente inserito fin dagli anni Novanta del secolo scorso insieme al Caffè del Tasso di Piazza Vecchia e al Caffè Falconi di via Camozzi (2).

Una crisi imputabile in parte anche al fenomeno dello “svuotamento” del centro, che sempre più occupato da banche ed uffici aveva portato la comunità cittadina a cercare altrove i suoi luoghi di incontro.

Mamme e bambini in Piazza Dante negli anni Cinquanta

Oggi, lasciatasi alle spalle le passate traversie, la storica insegna è oggetto di un progetto di rilancio che sembra andare di pari passo con la voglia di recuperare a nuova vita e a nuova energia il centro cittadino.

La rinascita del locale-simbolo della città è stata affidata all’estro e all’esperienza dello chef Vittorio Fusari, intenzionato a ricostruire il prestigio di un marchio che è strettamente legato al mondo del dolce.

Le medaglie di cioccolato dedicate a Donizetti (proprietà Balzer)

La pasticceria è perciò tornata ad essere protagonista assoluta nel rinnovato Balzer, tornando ad essere tutta prodotta nei grandi laboratori del seminterrato del locale, compresi i lievitati – i dolci storici del Balzer -, che tanta celebrità han dato ad un marchio capace di espandersi ben oltre i confini della provincia.

I celeberrimi panettoni “Balzer” (proprietà Balzer)

Un grande lavoro è quotidianamente orientato a recuperare i piatti e i dolci storici del Balzer, quelli che parlano alla memoria dei bergamaschi, alleggeriti però nelle calorie.

A livello più generale Fusari ha rivalutato il concetto di “osteria”, tornando a concepire il locale come un luogo di aggregazione, non solo attraverso una una proposta molto diversificata ed articolata, tesa a soddisfare le esigenze più svariate, ma anche creando più posti a sedere e rendendo accoglienti diversi angoli che erano stati dimenticati nel tempo, sempre nel rispetto dei dettagli storici.

L’interno (proprietà Balzer)

 

Proprietà Immobiliare della Fiera

Per quanto concerne la cucina (sempre aperta), la creatività si coniuga alla freschezza e alla qualità delle delle materie, con una spiccata predilezione per le biodiversità locali, per i prodotti provenienti da agricoltura biologica, per l’utilizzo più tradizionale delle tecniche di cottura, raffreddamento, fermentazione e trasformazione.

Proprietà Immobiliare della Fiera

“Una cucina che sceglie il rispetto del lento scorrere delle stagioni e che si ancori alla memoria della propria cultura e delle proprie origini”.

E se lo dice Vittorio Fusari, possiamo credergli.

Note

(1) “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. Di Pilade Frattini e Renato Ravanelli. A cura di Ornella Bramani – Vol. II. UTET. Anno 2013.

(2) Nel 2014 l’attività venne rilevata dal gruppo arabo di Dubai Dnata, uno dei maggiori fornitori al mondo di servizi nel settore aeroportuale, che già dal 2008 deteneva il 50% delle quote insieme alla Servair Air Chef, società francese specializzata nella gestione di bar e nella ristorazione aeroportuale. Il 30 gennaio del 2015 il testimone passò nelle mani dell’esperto imprenditore toscano Giovanni Barghi. Nel febbraio del 2018 la gestione venne ceduta all’imprenditore Patrizio Locatelli, con l’intento di riportare a Bergamo l’eccellenza e la qualità Balzer. Dal marzo 2018 la società capitanata da Patrizio Locatelli ha affidato allo chef Vittorio Fusari il progetto di rilancio della storica insegna del Sentierone.

La Pasticceria Isacchi sul Sentierone, l’antesignana di Balzer

Prima che la famiglia Balzer approdasse sotto i portici del Sentierone, nel cuore di Bergamo bassa, il locale d’eccellenza nel settore della pasticceria era quello di proprietà dei coniugi Isacchi, che dai primi del Novecento  conducevano il rinomato Caffè Pasticceria negli edifici della vecchia Fiera, proprio in affaccio alla passeggiata.

L’ingresso dell’autostrada Milano-Bergamo nel 1928, poco dopo l’inaugurazione. A destra, il cartello pubblicitario della Pasticceria Isacchi; a sinistra quello del Moderno, albergo “di prim’ordine”

Del Caffè Pasticceria Isacchi, che sorgeva nei locali della vecchia Fiera e di cui purtroppo non abbiamo immagini, ci è pervenuto un capitoletto in prosa dal gusto un po’ rétro dello scrittore bergamasco Geo Renato Crippa (Bergamo, 1900-1981), che ne ha tratteggiato con sapienti pennellate un minuzioso affresco, rievocandone un ricordo vivo, ricco di sfumature e di sonorità.

Il locale era il primo negozio della lunga fila che ornava la celebre passeggiata  dei Bergamaschi. Primo anche per pulizia, brillantezza, ordine, qualità signorile, moralità e silenzio: un fior fior di locale, un gioiellino oltremodo lindo ed ordinato e di una signorilità discreta.

La pasticceria sorgeva nei locali della vecchia Fiera, dove , regnava un discreto silenzio; all’ora del tè qualche signora sedeva ai tavolini biancodorati in stile impero per sorseggiare compostamente un bicchierino di rosolio”

Regnava un silenzio così irreale che le rarissime signore che vi sostavano per un caffè o un bicchierino di rosolio – il tè non era ancora in auge – , sussurravano a bassa voce, attente a non infrangere quella magica atmosfera.

Chi vi entrava avvertiva la sensazione di trovarsi una specie di cofanetto per gioielli. Era come aprire un carrilon e sorprendersi ad osservare il mondo in miniatura di una casa di bambole.

Sulla destra del salone vi era un lungo mobile ricco di cristalli che attirava la curiosità. Alle sue spalle, delle vetrine di mogano sui cui ripiani erano disposti con misurata accortezza splendidi vasi di barocchetto gonfi di caramelle, cioccolati, pralines d’ogni genere, qualche bottiglia dei liquori allora in voga, con l’etichetta perfettamente rivolta verso il “signor cliente”.

Lì accanto, quattro tavolini bianchi dorati in stile impero e in fondo altri tavolini diposti a mo’ di salottino nobiliare.

Nell’aria, un profumo di caffè e di dolci appena sfornati.

“In quanto ai proprietari, il signor Luigi e la cortese consorte, distinti in una loro speciale maniera, gentili al massimo di una condotta classica, sembravano usciti dalle mani abili di uno di quegli specialisti venuti dalla Toscana, da Capodimonte o da Sèvre, per foggiar statuine dipinte”.

Taciturni e laboriosi, capaci e ineccepibili, si muovevano fra una sala e l’altra con passo felpato quasi fossero in un tempio, “chiedendo, come trasognati, i desideri di quanti li interpellavano, usando, nelle risorse, grazie preziose”.

Come quel magico ambiente, sembravano usciti da una fiaba dove tutto tendeva al perfetto. Il silenzio dominava e, se necessario, gli Isacchi “sapevano astrarsi con cautelata magia”.

Anni Venti: la “Pasticceria Conca d’Oro”, all’incrocio tra via Garibaldi e via Nullo

La qualità dei suoi prodotti era perfetta e genuina e mai e poi mai nella sua pasticceria gli stessi dolci riapparivano il giorno dopo. Il vocabolo “stantio” gli era sconosciuto. Quello del signor Luigi, non era né un mestiere né un negozio qualunque: “la sua, precisava, consisteva in una professione di quasi artista”.

Le osservazioni lo ferivano. Di queste ne soffriva fin quasi ad ammalarsi e perciò difendere la bontà dei suoi pasticcini fu sempre, per il signor Luigi, un obbligo e un diritto: biscotti ad “esse”, offelle, cannoncini pieni di zabaglione, panettoni, colombe, “pan di Spagna” e “Polenta ed uccelli”, prodotti in quantità misurata, erano composti da ingredienti di primissima qualità: farina e zucchero a velo, burro speciale e ricercato.

L’interno della “Pasticceria Roma” nel viale omonimo, ora Papa Giovanni XXIII°. Sullo stesso viale esisteva anche la “Pasticceria Milanese”, gestita dal 1907 da Alessio Amadeo e dalla moglie Giuseppina. Si dice che Alessio fu il creatore, nel 1910, della “polenta e osei”, rifacendosi ad uno dei piatti tradizionali della cucina bergamasca: una cupola di Pan di Spagna inzuppato di liquore all’arancia, ricoperta di pasta di mandorle gialla spolverata di zucchero, e sopra uccelletti di cioccolato o marzapane. Prodotta in vari formati, ottenne un successo tale da essere offerta, come gentile omaggio bergamasco, ai capitani delle squadre avversarie prima dello svolgimento delle partite dell’Atalanta. La consegnava al capitano avversario di turno un nipotino di Alessio, per l’occasione mascherato da Gioppino. Dopo essere stata messa un po’ in disparte, negli anni Cinquanta è stata riscoperta da Balzer.  Luigi Pelandi riferisce invece che creatore della “polenta e osei” fu Ubaldo Isacchi, che la “inventò” nel 1904 nella pasticceria Isacchi di viale Roma

Il tutto, rigorosamente impastato a mano: niente macchine e frullatori meccanici nel suo locale, dove il forno era scaldato unicamente con pezzi – precisi e uguali – di quercia o di faggio.

In quanto alla clientela e ai frequentatori del suo “salotto”, non esistevano rivali. Andavano da lui le migliori famiglie della città e della provincia: “gente elegante, azzimata, molto, molto a modo. Arrivavano, magari, in carrozza, anche da Città Alta, dove vivevano i veri signori”.

In certe ore il “corso” prendeva ad essere frequentato da “professionisti di grido, nobili, industriali ai loro inizi, gente altolocata, perciò gli incontri sollecitavano prestigio.

Sul Sentierone nel 1911

Passar sul Sentierone non era cosa facile, occorreva vestirsi bene, camice pulite, scarpe brillanti.

La “Pasticceria Donizetti” sul Sentierone, nel 1914. Racconta Luigi Pelandi nella sua “Bergamo scomparsa” che nel settembre del 1923 Luigi Isacchi rilevò anche la Pasticceria Donizetti di Mariani e Crotti e già Bertoja sita in Fiera, botteghe di mezzo. Il Bertoja – scrive Pelandi – “era uomo aitante, di forza non comune e geniale suscitatore di festeggiamenti carnevaleschi. Organizzò, in occasioni di fine carnevale del martedì grasso, un gruppo mascherato rappresentante Re Menelich dell’Abissinia, con accompagnamento di Ras e di sudditi africani e, in altra volta, un Trionfo romano, nel quale il Bertoja, vestito da imperatore e splendente di ori, era seguito da un corteo di legionari. e di…barbari. Poi gli affari andarono a catafascio, gli fu dichiarato il fallimento e per giunta…doloso. Riuscì a scomparire in tempo per non essere preso dall’indimenticabile commissario di P. S. De Martino. Si seppe poi che il Bertoja era riuscito a rifugiarsi in America ed aprire una pasticceria a Buenos Aires”
Da una rivista del 1931

D’inverno sfoggiavano le pellicce, i paletots alla “pellegrina”, le signore poi, meglio tacere.

Dame a passeggio sul Sentierone, nel 1910 (Raccolta Lucchetti)

L’estate smagliavano i “panama”, le magiostrine, i tait grigi alla Fieschi, le giacchette di alpagas sui pantaloni a quadretti, ed i gilets bianchi inamidati.

I monumentali cappelli delle dame, zeppi di fiori, uccelli, piume, foglie varie, una meraviglia. Bergamo acquistava il viso di centro movimentato”.

Negli anni Venti, poco dopo la Grande Guerra, gli habitué dell’Isacchi occupavano le serate estive ai tavolini all’aperto: erano la crème della Bergamo borghese e intellettuale, e mentre i letterati e i giornalisti prediligevano il Gambrinus o il Bramati, all’Isacchi c’era un singolare miscuglio di musicisti, artisti, poeti e professionisti del Foro, questi ultimi spesso uniti, nella vita come nel lavoro, da vincoli di affettuosa amicizia.

Fra gli avvocati, Ubaldo Riva (poeta per passione, sempre declamava i versi di Verlaine o di Baudelaire), Eugenio Bruni, Camillo Graff (avvocato dell’Atalanta), Giacomo Pezzotta, Zilocchi, Naddeo, Alfonso Vajana, Mazza de’ Piccioli, Ranzanici, Lorenzo Suardi, quest’ultimo grande civilista e presidente della Banca Popolare di Bergamo.
Il musicista Gianandrea Gavazzeni era fra loro, insieme ai pittori – quasi tutti attualisti e avveniristi – come Gino Visentini, Dante Montanari, Contardo Barbieri, Giulio Masseroni, Pietro Servalli. Questi facevano gruppo, nel quale non mancavano Alberto Vitali, Recchi e l’architetto Pino Pizzigoni.

Il Sentierone nel 1920, con i suoi quattro famosi caffè: il Nazionale, il Bramati, il Centrale e il Gambrinus. Questo lato della vecchia Fiera fu l’ultimo ad essere abbattuto, mentre dietro già si costruiva (Raccolta Lucchetti)

Per la pasticceria, i periodi cruciali erano quattro: la Pasqua ed il Natale, la Fiera di Sant’Alessandro (26 agosto) e il Caffé delle Terme di San Pellegrino, dove gli Isacchi avevano da tempo una rinomata Pasticceria e Confetteria.

Da una rivista del 1901

In quel periodo affollato, il signor Luigi doveva fare la spola tra Bergamo e San Pellegrino, adeguando il personale alle troppe commissioni: “se a Bergamo non si sapeva dove sbattere la testa, a San Pellegrino peggio”.

Il Caffè Isacchi a San Pellegrino Terme

Durante la stagione curativa la calca aumentava, alle Terme, in modo impressionante. San Pellegrino era “centro” alla moda. Persino la regina Margherita, con il suo “corteggio”, vi avevano fatto una capatina.

Il trambusto si faceva impossibile quando di fronte al Caffè arrivava un’Orchestrina composta da sette artiste viennesi, tutte vestite di candide sete. E allora, mentre dal palco calavano i valzer di Waldteufel e degli Strauss, era tutto un via vai di camerieri con il signor Luigi che assisteva scorato, al disordine che aborriva.

Il Caffè Isacchi a San Pellegrino Terme, nel porticato della fonte (per gentille concessione di Paolo Colleoni, da San Pellegrino Terme Ricordi)

Anche nel mese in cui si teneva la Fiera, all’Isacchi si impazziva.

Molti vi accorrevano anche per la stagione dell’opera. Allora la quieta Bergamo si riempiva di forestieri e di centinaia di provinciali che si affollavano all’Isacchi richiedendo un ricordo, fosse esso “una torta od altro, da portare al ritorno ma preparato con quella esemplare cura riconosciuta dappertutto”.

Così la signora Isacchi – “un donnino a modo, vestita all’antica ma linda, parimenti ad uno zuccherino” si affannava a confezionare pacchetti e pacchettini, muovendo le sue manine con ricercatezza, specie quando si trattava di “rosei sacchetti di scelti drops o di pralines da recare in teatro. In tale compito mostrava la sua educata malia. Le clienti ne andavano fiere”.

La Strada Ferdinandea nel 1918

Era un piacere vederla scegliere le carte colorate, i nastri variopinti, le scatolette “decorate alla Liberty con fiorellini, foglie vaporose, fra le quali trovavano rifugio infanti nudi ed uccellini dalle ali screziate d’oro e d’argento”.

I baracconi per la Fiera dell’8 agosto 1908

Il pandemonio poi, infieriva per le feste di Natale e di Pasqua, per colombe e panettoni quando la fretta per i doni e le compere estenuanti, la gestione del “forno”, del laboratorio e dei fornitori, incalzava incessantemente: mantenere il garbo diventava perciò un’impresa, che obbligava gli Isacchi a custodire stoicamente la reputazione acquisita in anni ed anni di prudenza.

La chiusura a tarda sera, rappresentava una benedizione del Signore; alla fine delle festività ritornava la calma e nel locale tornava un senso di irreale.

Il laghetto dei cigni nel 1923

Il vecchio Luigi lo si vedeva spesso attraversare il Sentierone con vassoi carichi di vettovaglie, per soddisfare le richieste dei soci del Circolo dell’unione, impiegati in lunghissime partite a carte nelle sale “alte” del teatro Donizetti.

Non aver mai cercato di mutar verso per seguire nuove mode, fu sempre il pallino della celebre bottega. Ripeteva, il signor Isacchi, “ch’egli produceva per labbra e bocche sapienti nella moderata ricchezza dei sapori dosati con perizia”, e credeva “d’essere restato, forse in tutta la nazione, con le sorelle Vigoni di Pavia ed il cav. Ronzi, della Ronzi e Singer di Roma, il solo paladino della vera pasticceria d’onore”.

Tutto, in quella pasticceria, restò fermo per numero di anni indecifrabile, così come gli stessi profumi incorrotti stagnanti da sempre nell’aria. Stupiva assistere a una continuità tanto esemplare, così come lasciava attonito il brillio degli ottoni, dei rami e degli argenti posati in quell’insolito salotto.

I portici del nuovo centro e sullo sfondo gli edifici della vecchia Fiera, non ancora abbattuti

Dopo l’abbattimento della Fiera e la costruzione del Centro piacentiniano,  il nuovo Caffè Nazionale, ora gestito da Pietro Bardoneschi, poté rivivere una seconda vita, quantomeno nella denominazione, riproposta grazie alla notorietà del primitivo locale.

Nel 1936, sotto il Quadriportico del Sentierone, a pochi metri di distanza dal Nazionale, un tempo Pasticceria Isacchi, prese posto il caffè Balzer, con la sua sobria e nobile eleganza impostata da una famiglia originaria del Liechtenstein. Non ci volle molto perché la nuova pasticceria diventasse, come la precedente, una delle più rinomate della città, il fulcro della Bergamo chic e più alla moda, intimamente legata alla vita e agli umori cittadini.

E sulle orme di Luigi Isacchi, Sandro Balzer “rispolverò” la produzione della celebre Polenta e Osèi, che oggi forma un binomio indissolubile con la città, tanto da essere uno dei pochi souvenir locali esportati in tutto il mondo.

Una curiosità

Luigi Pelandi, nella sua antologia dedicata ai borghi di Bergamo ricorda che anche in viale Roma (oggi Papa Giovanni) esisteva una Pasticceria Isacchi, con un tipico bel salone e vetrine ridondanti di ogni golosità per la gioia del palato di grandi e piccini. Il locale si trovava presso l’Albergo Ristorante Concordia, nel negozio poi occupato dalla storica Libreria Lorenzelli ed oggi da una profumeria.

Grande Albergo Ristorante Concordia, viale Roma n. 8, Bergamo

La pasticceria, gestita da Ubaldo Isacchi, era stata fondata nel 1890 da suo padre. Nel 1904 Ubaldo creò il noto dolce “polenta e osei”, poi passato come tipico ricordo di Bergamo.

Riferimenti

Geo Renato Crippa, Il “L”Isacchi sul Sentierone” – “Bergamo così (1900 – 1903?)”.

Pilade Frattini e Renato Ravanelli, “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. A cura di Ornella Bramani – Vol. II. UTET. Anno 2013.

Ultima modifica: 03/12/2023.

La vicenda dello scomparso ospedaletto di Sant’Antonio in Prato (dove oggi sorge Palazzo Frizzoni)

Come osservato qui, da Vienne, cittadina francese che conserva le spoglie di S. Antonio abate e che dal XII secolo aveva mostrato il potere taumaturgico del Santo, il culto si diffuse rapidamente in tutta Europa (ed oltre), dove fiorirono rapidamente numerose fondazioni antoniane con una serie pressoché infinita di luoghi di culto ed ospedali al Santo dedicati.

In Italia i primi ospitali sorsero lungo la via francigena che collegava Delfinato e Italia, presso la Precettoria di S. Antonio a Ranverso in Val di Susa (ante 1188), poi a Roma, Teano e presso Napoli.

Sant’Antonio Abate, il grande eremita egiziano la cui devozione era legata alla cura dell’ergotismo, causato dall’ingestione di prodotti derivati dalla segale cornuta, malattia molto diffusa fra I poveri a causa della cattiva alimentazione. Nelle immaginette ricorre l’immagine del Santo, diffusa dagli stessi antoniani, raffigurato con accanto un porcellino e con in mano  una campanella ed un bastone terminante a forma di tau

Il culto si diffuse anche nella Bergamasca ed in città vennero fondati due hospitali intitolati al Santo: nel 1208 quello di Sant’Antonio in foris, appena fuori la porta di S. Antonio e all’imbocco di borgo Palazzo e, verso la fine del XIV secolo in luogo dell’attuale Palazzo Frizzoni, l’ospedale di Sant’Antonio “in Prato” (o “di Vienne”), entrambi con annessa chiesa.

In Contrada di Prato, l’ex- chiesa di S. Antonio di Vienne e poco oltre il monastero di S. Marta. Le colonne di Prato, davanti all’attuale via Borfuro, delimitarono il confine della Fiera fino al 1882 (disegno di G. Trécourt)

La chiesa e l’annesso ospizio per malati e pellegrini si trovavano in Contrada di Prato, sulla strada che dal Prato di S. Alessandro portava alla chiesa di S. Leonardo. Ma esistendo già una chiesa con ospizio nel borgo di S. Antonio, si aggiunse la dicitura di Antonio “in Prato” o di S. Antonio di Vienne per evitare che la dedicazione scelta potesse dare adito a confusione.

Al centro dell’immagine, l’ex- chiesa di S. Antonio di Vienne (dal 1586 dedicata alle SS. Lucia e Agata), in Contrada di Prato (incisione del 1815 ca. Proprietà Conte G. Piccinelli, Milano)

I frati antoniani erano giunti a Bergamo verso la fine del Trecento e vi si erano insediati, ma è difficile oggi stabilire se essi siano stati gli effettivi promotori della sua edificazione; di certo l’ospedale fu fondato per iniziativa laica tra il 1380 e il 1382: la tradizione ne fa risalire la fondazione a Gerardo (morto tragicamente nel 1380) della nobile famiglia cittadina dei De la Sale, ma un documento conservato nel fondo pergamene dell’archivio della Mia attesta la contemporanea presenza di un certo frate Francesco, “un armigero di ignota provenienza”, che nel 1382 è citato come edificatore della chiesa e dell’Ospedale di San Antonio in Prato (non era in “habito religioso”, ma “portabat pannos lungos et signum S. Antonii scilicet unum T super pectore”) (1).

(1) Maria Mencaroni Zoppetti (a cura di), L’Ospedale nella città – Vicende storiche e architettoniche della Casa Grande di S. Marco. Collana: Storia della sanità a Bergamo – 1. Fondazione per la Storia Economica e Sociale di Bergamo.

La riunificazione degli ospedaletti medioevali nell’Ospedale Grande di S. Marco: la resistenza dei frati di S. Antonio de Vienne

Così come stava accadendo in altre città, anche a Bergamo verso la metà del Quattrocento si deliberò l’accorpamento di 11 ospedaletti sparsi tra il colle e il piano in un unico grande organismo (l’Ospedale Grande di S. Marco), al fine di ottimizzare i servizi e creare un’unica dirigenza, esercitando così un maggior controllo (2).

(2) Le prime notizie di un sistema ospedaliero compiuto di Bergamo risalgono al 5 novembre del 1457, quando il Vescovo Giovanni Barozzi (1449-1465) approva i Capitula hospitalis novi et magni structi in civitate Bergami. Insieme ai Rettori della città aveva infatti ottenuto l’autorizzazione di fondare un Ospedale Grande che riunisse in sé tutte le strutture di assistenza al malato e tutti i luoghi pii dediti alla cura sanitaria e all’assistenza paramedica. I  beni degli ospedaletti avrebbero costituito il fondo economico necessario alla realizzazione del progetto.

La veduta prospettica di Alvise Cima, nella tela conservata presso la Biblioteca Civica Mai. Dall’azione congiunta del Vescovo Barozzi e della municipalità, nel 1457 viene deciso di riunire sotto un’unica direzione gli ospedali di Sant’Erasmo fuori dalla porta di Borgo Canale, di Santa Grata inter vites in Borgo Canale, di San Lorenzo dell’omonimo borgo, di San Bernardo presso il ponte della Morla sulla strada di Valtesse, di San Tommaso della Gallinazza dentro porta di Santa Caterina, di Santa Caterina fuori le mura, legato alla parrocchiale, di Sant’Antonio in foris,  fuori porta S. Antonio, del monastero di Santo Spirito, situato nei pressi del monastero dei Celestini, di San Lazzaro in Borgo San Leonardo, di San Vincenzo in contrada di San Cassiano, di Santa Maria Maggiore in Contrada Ante Scolis

Il documento firmato nel 1458, delibera “che il nuovo ospedale dovrà essere costruito nel luogo dell’ospedale di S. Antonio o altrove, qualora lì non fosse possibile”, avviando un’annosa disputa che vede da una parte la resistenza degli antoniani, decisi a difendere strenuamente privilegi e concessioni acquisiti nel tempo (dopo essere stata per un certo periodo in mano alla MIA, nel 1453 i frati di Vienne avevano ottenuto da Papa Nicolò la chiesa e l’ospedale) e, dall’altra, la cittadinanza, che non solo li considera abusivi all’interno della struttura “sorta a vantaggio dei poveri e su iniziativa di una famiglia bergamasca”, ma li rimprovera anche di elemosinare per sostenere la loro comunità e la precettoria d’appartenenza (quella già osservata di Ranverso, in Piemonte), trascurando del tutto l’ospedale e la chiesa.

La diatriba verrà risolta alla fine del Cinquecento, quando il vescovo Barozzi decide di accorpare l’ospedaletto di S. Antonio in Prato all’Ospedale Grande di S. Marco (di cui diviene una dipendenza), permettendo ai frati di restare nella loro sede, dove continuarono a esercitare attività di accoglienza per malati e pellegrini e a celebrare nella loro chiesa, che con l’unione decretata nel 1457 era divenuta parte dell’Ospedale Maggiore.

E poichè la chiesa di S. Marco, costruita (1572) nel perimetro dell’Ospedale Grande era solo chiesa cimiteriale per i degenti del nosocomio ed aveva un battistero per il battesimo degli esposti, per volontà degli amministratori dell’Ospedale Grande nella chiesa di S. Antonio di Vienne veniva celebrata ogni giorno una messa (3).

La chiesa di S. Antonio nel frattempo si era ampliata: “.. era ampia e non disadorna. Aveva quattro altari; la scuola dei Disciplini, che si riunivano in sagrestia; la scuola del Divino Amore, che si riuniva sopra la porta maggiore dove c’era una grande volta in forma di pulpito” (tribuna) (4).

(3) Nella chiesa di S. Marco, costruita 1572 nel perimetro dell’Ospedale Grande, venivano sepolti coloro che nell’ospedale morivano; c’era inoltre un fonte battesimale per il battesimo dei bambini esposti (come da atti della visita pastorale di S. Carlo Borromeo del 1575). C’erano poi due altari, il maggiore e quello di S. Marco, e c’era il SS. Sacramento, ma si celebravano messe solo nel giorno dedicato a S. Marco, poichè, secondo gli accordi presi dal momento dell’unione degli ospedali, una messa quotidiana veniva celebrata nella chiesa di S. Antonio di Vienne in Prato (M. Mencaroni Zoppetti, op. cit.).

(4)  A.G. Roncalli, Gli Atti della visita pastorale di S. Carlo Borromeo (1575), Firenze 1937, Vol. I, La Città, parte II, p. 140.

L’ingresso laterale della chiesa di S. Antonio di Vienne, davanti alla quale si faceva mercato, in un disegno ottocentesco (elaborazione tratta da M. Mencaroni Zoppetti, op. cit.)

I frati di S. Antonio di Vienne vi rimasero fino al 1586, anno in cui il complesso, che era adiacente al convento femminile di Sant’Agata, fu acquisito dalle monache domenicane provenienti dalla Valle di Santa Lucia Vecchia, che lo ridedicarono alle Sante Lucia e Agata (5).

Dopo le soppressioni napoleoniche attuate alla fine del 1798, tutto il complesso venne acquistato nel primo Novecento dalla famiglia Frizzoni, e demolito per far posto alla loro residenza cittadina poi divenuta Municipio della città di Bergamo.

(5) D. Calvi, Effemeridi sagro profane di quanto di memorabile sia successo in Bergamo sua diocese et territorio, vol. III, p. 398, 11 dicembre 1586 “Le monache di S. Lucia fuori delle mura di Bergamo, havendo fin l’anno passato comprate le habitationi e Chiesa dell’Ospitale di S. Antonio in Prato contiguo a S. Agata, vennero in questo giorno ad habitarvi formandosi delle due chiese di S. Antonio e di S. Agata una Chiesa sola con titolo di S. Lucia e Agata”.

Palazzo Frizzoni, edificato tra il 1836 e il 1840 dall’architetto bresciano Rodolfo Vantini ed attualmente sede del Municipio di Bergamo. L’edificio è sorto sull’area occupata dall’antica chiesa e annesso ospedale di S. Antonio di Vienne

Data l’impossibilità di utilizzare l’ospedale di S. Antonio, su cui erigere l’Hospital Grande di San Marco, nelle sedute comunali si avanzarono le ipotesi più varie finchè, nel 1474, si scelse un’area poco lontana, ai margini dello stesso Prato di S. Alessandro: si trattava di un terreno di proprietà dell’ospedale stesso, sul prato Bertellio (prato di S. Bartolomeo?), in una zona pianeggiante, chiusa a sud dalle Muraine, a monte del luogo dove sin dall’alto Medioevo si svolgeva la grande Fiera annuale dedicata al patrono della città: un punto a cui era possibile convergere da ogni parte dell’abitato e in posizione equidistante rispetto ai borghi di S. Alessandro a ovest e di S. Antonio a est, come indicato nella veduta prospettica di Alvise Cima,  dove il complesso ospedaliero e la chiesa annessa sono indicati come PEPITALE S. ANTONIO.

La supposta Bergamo quattrocentesca un un particolare della veduta di Alvise Cima, conservata presso la Biblioteca Civica Mai. In verde, la zona in cui si trova l’ospedale di Sant’Antonio (oggi Palazzo Frizzoni), posto accanto al convento di S. Marta. In azzurro, l’Ospedale di San Marco, al centro dell’antica Bergamo, ai margini del Prato di S. Alessandro, risulta formato da tre corpi di edifici collegati da un loggiato. A destra la chiesa (costruita nel 1572), priva di campanile e con il fronte al rustico, si affianca al corpo occidentale  (PEPITALE) connesso al chiostro, affiancato dal brolo (orto officinale). Verso est un edificio più basso si congiunge con quella che dovrebbe essere la Cappella dell’Ospedale.  La vasta area verde restituisce l’idea della salubrità del luogo antistante il  prato che si estende sino alle Muraine, solcato dalla Seriola Nuova che lambisce il convento di S. Bartolomeo e raggiunge la Porta del Raso

 

Anche nell’immagine della città secentesca formulata da Macherio e poi da Stefano Scolari, la facciata della chiesa di S. Marco appare in una modesta forma a capanna, probabilmente in arenaria. Sono visibili due cortili, il loggiato di fronte al prato, l’edificio della Dogana veneta e il tezzone del salnitro, che serviva per la fabbricazione della polvere pirica e dove, terminato l’evento, venivano ricoverate le baracche di legno della fiera. Il tezzone è abbattuto nel 1820 e trasformato in mercato del grano

 

La fabbrica dell’Ospedale Grande di San Marco si avvia dal 1478 e termina nella prima metà del Cinquecento; è ampliata all’inizio del Settecento e quasi interamente demolita nel 1937, per il nuovo assetto assunto dal centro della città bassa. La sua conduzione venne affidata ai frati del vicino convento delle Grazie

Del grandioso edificio rinascimentale dell’Hospital Grande di San Marco, demolito negli anni Trenta del secolo scorso, il ricordo più vistoso e bello è la chiesa dedicata a San Marco che, costruita nel 1572 nel perimetro dell’ospedale, ha assunto fogge barocche nel corso del Settecento.

L’interno della chiesa (qui ritratta nel primo Novecento) a una navata, è d’impianto quattrocentesco ma viene riformato all’inizio del Settecento, pochi anni dopo la costruzione del quarto braccio della crociera dell’ospedale. Fra il 1726 e il 1728 il prospetto, sino ad allora in semplice arenaria, viene rinnovato con il rivestimento marmoreo dalle eleganti forme barocche da Giovanni Ruggeri e impreziosito dal portale e dalle statue di coronamento dello scultore Giovanni Sanz. Nel 1747 le pareti e il soffitto vengono affrescati dal comasco Carlo Innocenzo Carloni che affrescò sulla volta l’Eucarestia, sui pennacchi della cupola i quattro evangelisti, nella cappella di destra la Vergine Assunta, e in quella di sinistra San Camillo De Lellis, fondatore dell’Ordine dei chierici regolari ministri degli infermi, sicuramente quegli stessi chierici che operarono nella struttura (Mencaroni Zoppetti, cit.)

Dopo l’ingresso (1586) delle domenicane di S. Lucia Vecchia nel convento di S. Antonio, la messa verrà celebrata nella chiesa di S. Marco (6), che da allora comincerà ad esser nominata “chiesa di S. Antonio” nonostante la sua dedicazione a S. Marco ed alla Vergine, in omaggio alla Serenissima.

(6) E a tal fine verranno mantenuti dall’ospedale un priore e un cappellano (A.G. Roncalli, Gli Atti della visita pastorale… Cit., pp. 158-159).

In un particolare del cabreo della Fiera di Bergamo, disegnato dall’agrimensore Bernardino Sarzetti nel 1723, la chiesa dell’Ospedale Grande, intitolata ai SS. Marco e alla Vergine, è indicata come Chiesa di S.to Antonio. Si noti, sul lato destro,  la cappella dei morti con il portico

La chiesa e l’ospedale di S. Antonio di Vienne, come detto verranno acquistati nel primo Novecento dalla famiglia Frizzoni e demoliti per far posto al palazzo di famiglia, oggi  Municipio della città di Bergamo, cancellando qualsiasi testimonianza dell’antico complesso.

Bibliografia

Maria Mencaroni Zoppetti (a cura di), L’Ospedale nella città – Vicende storiche e architettoniche della Casa Grande di S. Marco. Collana: Storia della sanità a Bergamo – 1. Fondazione per la Storia Economica e Sociale di Bergamo.

Santa Lucia, la festa della luce, tra passato e magia

E finalmente Dicembre con la sua magia.

Il periodo dell’anno in cui ci si stringe l’uno accanto all’altro nella convivialità delle feste tanto attese e desiderate, in un tripudio di regali, luci, abbondanza e….calorie.

Da che mondo è mondo, questo è il nostro modo per celebrare il solstizio d’inverno, quel momento in cui, tra il 21 e il 22 dicembre, dopo aver toccato il punto più basso dell’orizzonte il sole ricomincia a salire, regalandoci di giorno in giorno minuti di luce che prepareranno la natura al risveglio.

Il Solstizio d’Inverno non cade sempre lo stesso giorno, ma oscilla fra il 21 e il 22 Dicembre; questo perché noi utilizziamo un calendario chiamato gregoriano che suddivide l’anno in 365 giorni. Ma dal momento che alla Terra occorrono 365 giorni e 6 ore (circa) per completare la sua orbita attorno al sole, il disavanzo si riassesta grazie all’anno bisestile che, con l’aggiunta di un giorno in più, incorpora e integra le 6 ore lasciate indietro degli anni precedenti. Nel 2018 la data del Solstizio d’Inverno sarà dunque venerdì 21 dicembre, alle ore 22:22

Con la fine della caduta del sole, il solstizio invernale segna perciò l’inizio di una stagione che già nasconde in sé il seme della primavera.

Ed è appunto in questo periodo che attraverso i simboli legati alla alla luce celebriamo la speranza e il desiderio del risveglio: con l’albero di Natale illuminato, la stella cometa che guida i Re Magi, il ceppo che rimane acceso nella notte di Natale o con i grandi falò accesi nella festa di Sant’Antonio: tutte ricorrenze che affondano le radici nelle celebrazioni pagane legate al culto del Sole.

Varese: un maestoso falò per S. Antonio, festeggiato il 17 gennaio. L’antica usanza contadina è legata al delicato e importante momento di passaggio dal buio alla luce, dal letargo della natura al suo risveglio e alla vita 

Tra le feste situate a ridosso del solstizio d’inverno e legate alla luce,  quella di Santa Lucia è la festa per eccellenza e vedremo il perché.

CHI ERA SANTA LUCIA

La futura Santa siracusana, poco più che una ragazzina, apparteneva a una famiglia benestante. Orfana di padre, era stata promessa a un concittadino pagano. Quando la mamma Eutichia si ammalò gravemente, Lucia si recò in pellegrinaggio a Catania, sul sepolcro di Sant’Agata, per invocarne l’intervento. Durante la preghiera Lucia si assopì e vide in sogno Agata dirle: Lucia, perché chiedi a me ciò che puoi ottenere tu per tua madre? Nella visione Agata le preannunciava anche il martirio e il suo patronato sulla città. Ritornata a Siracusa e constatata la guarigione della madre, Lucia le comunicò la ferma decisione di consacrarsi a Cristo e di donare tutti i suoi averi ai poveri. Il pretendente, insospettito e preoccupato nel vedere la desiderata sposa donare tutto il suo patrimonio, verificato il rifiuto di Lucia, la denunciò alle autorità romane come cristiana. Erano gli anni delle persecuzioni di Diocleziano, e questa accusa equivaleva a una sicura sentenza di morte.

Santa Lucia davanti al giudice, particolare della pala di Santa Lucia, Lotto, 1532 – Pinacoteca civica di Jesi. Secondo la Legenda Aurea la santa si era rifiutata di adorare gli idoli pagani, per questo viene portata davanti al giudice, il console romano Pascasio. La sua posa verticale inflessibile simboleggia la sua fede incrollabile

Subì un processo in cui il Tribunale non riuscì a farla abiurare in alcun modo, e resistette anche di fronte alle minacce di essere esposta tra le meretrici.  Venne decapitata o, secondo alcune fonti, uccisa con una pugnalata alla giugulare, dopo le torture atroci inflittale dal console romano Pascasio, che non voleva piegarsi ai segni straordinari che attraverso di lei Dio stava mostrando.

Il culto di Lucia quale santa patrona degli occhi e della vista, si afferma a partire dal XIV secolo, quando nell’iconografia appare l’emblema degli occhi che la Santa tiene in mano (o su un piatto, o su una coppa) e che sarebbe da ricollegarsi con l’etimologia del nome Lucia (da Lux, luce)

Le sue spoglie riposano a Venezia dal 1203, qui giunte dopo una serie di vicissitudini storiche. Dopo aver peregrinato a lungo per le chiese di Venezia, dal 1863 sono state accolte in una cappella della Chiesa di San Geremia, da quel momento intitolata anche a Santa Lucia.

Le spoglie di S. Lucia sono conservate gelosamente a Venezia da oltre sette secoli, dopo essere state cedute a Costantinopoli (1040) ed essere state riportate in Italia nel corso della quarta Crociata guidata dal Doge veneto Enrico Dandolo.  L’urna contenente le sue spoglie è stata costruita col materiale della chiesa palladiana di Santa Lucia, abbattuta nel 1861 per dar spazio alla stazione ferroviaria di Venezia, che ne conserva tuttora il nome

 

Nel 1955 l’allora Patriarca di Venezia Angelo Roncalli, futuro papa Giovanni XXIII, fece porre una maschera d’argento sul volto, per proteggerlo dalla polvere

SANTA LUCIA A BERGAMO 

La devozione alla Santa si diffuse rapidamente e giunse nella Bergamasca probabilmente introdotta dagli eremitani agostiniani,  che nei secoli passati officiavano nella chiesa di San Nicola da Tolentino a San Pellegrino, adiacente al loro monastero, poi soppresso (1), mentre in città la prima chiesa dedicata Santa si trovava nella Valle di Santa Lucia Vecchia accanto all’attuale Tempio Votivo, dove oggi si trova la chiesa del Santo Nome di Gesù. 

La Valle di S. Lucia Vecchia in una ripresa del 1884

In questo luogo, esterno alle muraine, sorgeva dal 1337 il convento delle Domenicane con l’annessa chiesa titolata alla santa siracusana.

L’antica chiesa di Santa Lucia nella valle di Santa Lucia Vecchia (da Diego Gimondi e Salvatore Greco, “Santa Lucia – Tradizioni brembane e siracusane“. Ferrari Editrice)

Ma a causa della posizione isolata del sito, nel 1586 le monache decisero il loro trasferimento nel monastero di S. Agata, in Contrada di Prato (attuale Piazza Matteotti), occupato fino a quel momento dalle Umiliate di S. Agata de Rasolo.

Nei pressi del monastero di S. Agata in Contrada di Prato, corrispondente all’attuale via XX Settembre

Con l’arrivo delle Domenicane, il monastero di S. Agata assunse così la doppia titolazione di Santa Lucia e Sant’Agata.

Il monastero di S. Lucia e S. Agata in Contrada di Prato, al centro dell’immagine (incisione del 1815 ca. Proprietà Conte G. Piccinelli, Milano)

SANTA LUCIA, LA NOTTE PIU’ LUNGA CHE CI SIA

La festa di Santa Lucia rientra a pieno titolo tra le feste situate nel contesto invernale legate alla luce, essendosi letteralmente sovrapposta alle antiche feste pagane legate al culto del Sole, celebrate il giorno del solstizio d’inverno.

Fino a cinque secoli fa infatti, prima della riforma del calendario giuliano ad opera di Papa Gregorio XIII, il solstizio d’inverno cadeva proprio il 13 dicembre, nel giorno legato alla celebrazione liturgica di Santa Lucia. La Chiesa Cattolica l’aveva posta proprio al 13 dicembre per sostituirla alle celebrazioni pagane legate al solstizio, facendo della Santa la portatrice cristiana della luce, colei che attraverso il martirio ha testimoniato il cammino della sua fede.

Nel 1582, per rimediare a certi errori di calcolo astronomico commessi secoli prima da Giulio Cesare (il “redattore” del calendario giuliano), Papa Gregorio XIII aveva dato una “sforbiciata” al calendario di una decina di giorni (2) facendo slittare in avanti il solstizio d’inverno, che dal 13 passava al 21-22 dicembre. Ma mantenendo per il 13 la festa di S. Lucia, si mantenne anche il detto popolare, che recita:

E’ così che Santa Lucia, “portatrice di luce” ha anche il grato compito di portare i doni ai bambini in molte zone d’Italia – a Bergamo, come nel bresciano, nel Trentino e nelle province di Udine, Cremona, Lodi, Mantova, Piacenza, Parma, Reggio Emilia e Verona – come dell’Austria, in Boemia e in Svezia, dove la festa della Santa, “regina di luce”, rappresenta un momento di allegria prenatalizia nel momento più buio dell’inverno nordico.

In Svezia, la Santa vestita di bianco porta una corona di candele e offre delle focaccine allo zafferano dal nome curioso: lussekatter (il gatto di Lucia)

 

LE ORIGINI DELLA FESTA

Secondo un’usanza ormai consolidata, nei giorni che precedono la festa i bambini consegnano le letterine nella chiesa della Madonna dello Spasimo in via XX Settembre – chiamata ormai da tempo “di S. Lucia” -, mentre il Sentierone si anima di bancarelle rinnovando l’antica festa che un tempo si celebrava intorno alla chiesa dedicata alla Santa.

Il rito della consegna delle letterine nella chiesa della Madonna dello Spasimo in via XX Settembre

La si incontrava in Contrada di Prato, verso la strada che conduceva al popoloso borgo di S. Leonardo, poco oltre le colonne marmoree chiamate “di Prato”.

Le colonne di Prato, poste all’altezza dell’imbocco dell’attuale via Borfuro, delimitarono il confine della Fiera dal 1620 al 1882 (disegno di G. Trécourt)

 

In Contrada di Prato, la chiesa di S. Lucia e S. Agata. Accanto, ai limiti del Boschetto di S. Marta sorgeva l’omonimo monastero, di cui è sopravvissuto solo un chiostro e, in fondo, la chiesa di S. Bartolomeo

Sul fianco della chiesa si apriva un grande portone che introduceva all’interno, sovrastato da una grande volta.

Contrada di Prato, verso S. Leonardo. La chiesa di S. Lucia e S. Agata (ex S. Antonio di Vienne) era ampia e non disadorna; era divisa in tre grandi navate con quattro pilastri centrali, aveva quattro altari e un grande coro. Le fonti parlano di pregevoli pitture di Daniele Crespi e di Cristoforo Baschenis; di pale del Cariani del Cavagna e di un quadro raffigurante S. Lucia di Giacomo Cotta (incisione del 1815 ca. Proprietà Conte G. Piccinelli, Milano)

Allora come oggi, a S. Lucia si facevano tre giorni di festa con grande concorso di folla e nei dintorni della chiesa si allestiva un mercato affollato di banchetti e bancarelle, mentre le monache distribuivano ai bambini i deliziosi biscottini da loro preparati.

L’ingresso laterale della chiesa di S. Lucia e S. Agata in un disegno ottocentesco. Da sempre in questo spazio si faceva mercato

Dietro il versamento di un obolo alle monache, i mercanti esponevano nei loro banchetti merce di ogni sorta: panni, cappelli e berrette, stoffa, merletti, guanti, tela, refe, stringhe, zoccoli, corde, fusi e rocchetti, coperte, carta per bachi da seta, manichini in pelle, calze di lana di bambagia e di stame, masserizie in legno e in ferro e, naturalmente, non mancavano sacchi di castagne.

Le contadine, racconta il Reverendo Angelini, non sono sciocche e prima di comprare esaminano a fondo e con perizia, minuziosamente, l’articolo che vogliono acquistare.

La Contrada di Prato, davanti al monastero delle SS. Lucia e Agata

Con l’arrivo dei Francesi, a fine Settecento la chiesa ed il convento vennero soppressi per poi essere acquisiti dalla famiglia Frizzoni, che li demolirono nel 1825 per costruirvi la loro residenza di città, poi divenuta sede del Municipio di Bergamo.

Piazza Cavour, Palazzo Frizzoni, attuale sede del Municipio di Bergamo, edificato tra il 1825 e il 1840 sull’area un tempo occupata dal convento di S. Lucia e S. Agata da Rodolfo Vantini

Dopo il periodo delle soppressioni, la festa venne reintrodotta nella vicina chiesa della Madonna dello Spasimo, che dopo la soppressione del 1797 era stata adibita per due anni a sala per il Circolo Costituzionale, per essere riaperta al culto grazie agli Austriaci nel 1799.

Da allora, in questa chiesa adottata come chiesa “ufficiale” di S. Lucia, si è rinnovata la straordinaria devozione alla martire, il cui simulacro è stato collocato in una cappelletta laterale che è poi l’indirizzo terrestre al quale i bambini portano le letterine nei giorni che precedono la festa.

In prospettiva, a sinistra della cortina edilizia è visibile il campanile della chiesa intitolata alla Madonna dello Spasimo, eretta nel 1592 e riedificata a più riprese sino al 1768, a spese degli abitanti di borgo San Leonardo

La leggenda popolare ha da sempre ammantato di magia quella che per i bambini è una notte speciale che li vede trepidanti nell’attesa dell’evento.

La festa di Santa Lucia in Città Alta nel 1969

 

I doni per la festa di Santa Lucia in Città Alta, nel 1968

 

La festa di Santa Lucia al Seminarino di Città Alta, metà anni Sessanta

Un tempo c’era chi preparava le scarpe pulite, sperando di rivederle ricolme di dolci l’indomani; chi andava in cerca di paglia per nutrire l’asinello; chi per ingolosirlo appendeva alle finestre dei mazzetti di carote oppure esponeva alla finestra uno zoccolo colmo di crusca per l’asinello e un bicchier d’acqua per Santa Lucia.

Accanto a tutto ciò veniva posto un lumino acceso alla finestra, ad indicare la presenza di bambini.

Ancor oggi, i bambini pongono in tavola un po’ di cibo per l’asinello e una tazza di latte per la Santa (che l’indomani troveranno semivuota e magari con una leggera impronta di rossetto..), rinnovando a loro insaputa il rito pagano del “pegno”.

Naturalmente dovranno coricarsi presto e tenere gli occhi ben chiusi, perché ai bambini ancora svegli Santa Lucia getterà la cenere negli occhi senza lasciare alcun regalo!

Nell’attesa tenderanno ansiosi l’orecchio per udire i campanellini che ne annunciano l’arrivo, finché il sonno non avrà finalmente la meglio.

Ancora un secolo fa – scriveva Antonio Tiraboschi – alla vigilia della festa i bambini venivano portati a vedere “quelle due lunghe grandi fila di banchette ricoperte di dolci, di mille maniere, e fra sacchi ricolmi di noci e di castagne affumicate… Mi reco a passeggiare tra quei banchetti che, coi loro vari paramenti e con i loro tendoni illuminati di sotto producono un bellissimo effetto: mi fermo davanti a quei sacchi di noci e dì castagne, in mezzo ai quali è conficcata una candela, e mi diverto a sentire i vari inviti che dai venditori si indirizzano ai presenti: ‘I e ché i bei biligòcc de la Alota’” (3).

E cosa trovavano l’indomani i nostri nonni, fuori dalla finestra? …Beh, ben poco per la verità: pastefrolle, caldarroste, carrube, castagne bollite, noci, nocciole, arachidi, cachi, mandarini, fichi secchi e croccanti fatti in casa con nocciole, acqua e zucchero, sandaletti, scarpe, oppure maglioni e calze pesanti di lana necessarie per l’inverno.

I regali per le bambine di solito erano bambole di legno o di pezza fatte dalla nonna, mentre i bambini trovavano giocattoli di legno come cavallini, carriole, trenini e fucili, oppure biglie e fionde.

Mentre oggi?

Beh, oggi è tutta un’altra storia.

Note

(1) Diego Gimondi e Salvatore Greco, “Santa Lucia – Tradizioni brembane e siracusane“. Ferrari Editrice.

(2) Perché questa sfasatura? Il conquistatore delle Gallie, quando volle mettere ordine nel computo dei giorni e degli anni ad uso dei romani e dei loro sudditi, si rivolse all’astronomo egiziano Sosigene. Questi fissò l’anno di 365 giorni e sei ore. In realtà, dicono gli esperti, doveva essere di 365 giorni, cinque ore, quarantotto minuti primi e 46 secondi. Quell’errore di una dozzina di minuti fu tale da portare scompiglio nel calendario per i secoli futuri. Fu un astronomo gesuita tedesco che propose di sopprimere dieci giorni in ottobre. Perché proprio in quel mese? Perché, spiegò il gesuita, ottobre è il mese che conta meno feste religiose e anche perché gli uomini d’affari lavorano poco in quel periodo”.

(3) Antonio Tiraboschi, Manoscritto, Festività Bergamasche.

Bibliografia
P. Donato Calvi, Effemeridi Sacro Profane. 1676.
Martino Compagnoni, Folclore Bergamasco. Editrice Cesare Ferrari.
Diego Gimondi, Santa Lucia. Tradizioni brembane e siracusane, Centro Studi Francesco Cleri di Sedrina.
AntonioTiraboschi, Manoscritto. Festività Bergamasche, Biblioteca Mai.