A un anno esatto dalla rimozione dal soffitto del Santuario della Natività della Beata Vergine, l’ormai celebre osso di Sombreno ha potuto far finalmente ritorno alla sede che a lungo lo ha ospitato sul panoramico avamposto affacciato sulla piana del Brembo.
L’evento ha riguardato la serata dello scorso 7 settembre, durante la quale Marco Valle – direttore in carica del nostro Museo di Scienze Naturali – ha reso noti i risultati delle analisi svolte sul misterioso reperto, al fine di accertarne la reale natura.
Un’indagine totalmente documentata, svolta a partire dalla fatidica data del 13 settembre del 2018, quando, approfittando dell’impalcatura montata per il restauro del santuario, il personale del Museo, dietro incoraggiamento del parroco don Sergio Paganelli e con il benestare della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio, prelevava dalla storica sede il reperto paleontologico, insieme alla catena di fattura settecentesca che lo assicurava saldamente al soffitto.
Nel corso della storica serata che ha svelato i misteri legati al prezioso cimelio, il pubblico presente ha colto l’occasione per ammirare il santuario nella sua nuova veste, abbellito da una sapiente opera di conservazione e consolidamento che ha valorizzato la luminosità degli stucchi secenteschi e portato alla luce gli ormai noti affreschi, rinvenuti per larga parte nel corso dei lavori e legati per lo più – come del resto gran parte dell’apparato iconografico dell’edificio – al sacro tema ispiratore del sito: quello della Natività di Maria.
Per oltre cinquant’anni, confidando nell’ipotesi del prof. Enrico Caffi (1866-1950), ci siamo cullati nella convinzione che l’osso appartenesse a un mammuth (elephas primigenius ossia progenitore degli odierni elefanti), vissuto nei pressi in età preistorica.
Durante alcuni scavi effettuati tra il 1905 e il 1914, dai depositi argillosi della piana di Petosino di Sorisole (un’antica palude lacustre), poco distante dal Santuario, erano emersi denti, zanne e numerose ossa di mammuth, ed altre testimonianze fossili di vertebrati (poi donati dalla Società del Gres al Museo di Scienze Naturali), oggetto di un successivo articolo vergato dal Caffi (1).
Incuriosito dall’osso di Sombreno, e tenendo conto dei ritrovamenti d’inizio Novecento, l’esimio professore – primo direttore del Museo -, forte del suo indiscusso prestigio di scienziato aveva identificato l’osso nella costola sinistra del primigenio elefante, che doveva provenire dalla piana di Petosino, sebbene risalente ad un periodo anteriore rispetto ai resti di mammuth citati poc’anzi.
Elucubrando sull’osso del santuario Caffi si spinse un po’ troppo in là con la fantasia, asserendo che questi era stato ritrovato al di sotto degli strati argillosi della piana, sfruttati da tempi immemori per la produzione di ottime stoviglie. Egli immaginava che quando in qualche punto gli scavi dovettero raggiungere la zona fossilifera – non adatta per stoviglie – l’area fosse stata abbandonata e risepolta sino al’arrivo degli escavatori, che rinvenuto il fossile e ritenendolo “un avanzo del diluvio, lo considerarono come sacro e degno di essere conservato nella Chiesa”.
La perentorietà della sua affermazione suonava come una sentenza inappellabile, scagliata contro le leggende locali e contro l’interpretazione avanzata dall’ “enclave” del santuario sulla collina, dove, per diversi motivi, l’osso in questione veniva attribuito ad un cetaceo anziché a un mammuth.
Ma la sentenza del Caffi, se poteva aver rassicurato gli uomini di scienza, non convinceva né gli animi semplici dei popolani né i voli pindarici di coloro che sicuramente egli considerava dei visionari.
Vi era una leggenda infatti – riferiva il Caffi nel 1942 – che attribuiva la costola di Sombreno “a un mostruoso animale che insidiava la vita degli uomini saggi”: leggenda che insieme ad altre pare essere archiviata nel Santuario e che in quanto tale non deve stupire, dal momento che in Italia sono molti gli edifici sacri a conservare ossa od altri resti animali, trovando riscontro o dando vita ad antiche leggende popolari che li attribuiscono a draghi o a mostruosi serpenti.
“Le nostre chiese, monumenti di fede, furono anche i primi musei d’arte e di storia naturale”, scriveva a tal proposito il curato del santuario di Sombreno, Don Angelo Rota, nel 1963.
I reperti zoologici potevano giungere da lontano attraverso chissà quali peripezie, od essere rinvenuti nei territori circostanti, come la grande costola di Balena appesa nella chiesa di San Giorgio in Lemine, ad Almenno San Salvatore e a un tiro di schioppo da Sombreno: osso che gli antichi abitanti almennesi ritenevano appartenere al drago ucciso da San Giorgio e che secondo Caffi fu ritrovato in loco durante gli scavi per la fabbrica della Chiesa e dello scomparso Castello: trovata cioè nelle argille marine depositate dall’antico mare pliocenico, insinuatosi sin verso il territorio di Almenno, Villa d’Almè e Clanezzo in Val Brembana.
Reliquie che, di volta in volta, oggi attribuiamo – facendo non poca confusione – alla vicinanza del fiume Brembo piuttosto che allo scomparso e mefitico lago Gerundo (il grande acquitrino che fino al medioevo si allargava tra l’Adda e il Serio e secondo alcuni fino al Brembo e all’Oglio), dai cui fumi emergeva il drago Tarantasio (le misteriose esalazioni erano dovute in realtà alla presenza nel sottosuolo di metano e acido solfidrico). Oppure, appunto, all’antico mare Adriatico del Pliocene, che ad Almenno era un golfo nel quale la Balena di San Giorgio avrebbe lasciato i suoi resti.
E se nel nostro pliocene la costola di San Giorgio in Lemine era il primo resto di balena – scriveva il Caffi – “altrove nelle stesse argille furono raccolti numerosi avanzi”.
D’altro canto però, i religiosi arroccati sulla collina di Sombreno attribuivano il singolare osso a “un’enorme costa da cetaceo”, aggiungendo che secondo il parere di un “distinto professore di storia naturale” il reperto doveva corrispondere in lunghezza alla sesta parte dell’animale: una notizia, questa, racchiusa in un opuscolo riguardante il santuario, pubblicato nel 1923 dal sacerdote Daniele Secondi (2).
Nel chiedersi il perché della presenza dell’osso di Sombreno, come e quando fosse arrivato nel santuario e per mano di chi, il sacerdote riteneva che, come ipotizzato dal parroco locale, il reperto fosse giunto in loco mediante la“distinta famiglia Moroni”, famiglia sombrenese che si era elevata al rango patrizio grazie al commercio marittimo in quel di Venezia, e che aveva concorso all’arricchimento del santuario attraverso la donazione di numerosi arredi.
Non era quindi strampalato supporre – scriveva il sacerdote – che imbattutosi in mare in un terribile scontro col cetaceo, dopo aver scampato una sciagura qualcuno di tale famiglia avesse “trasportato nella amata chiesa tale avanzo” – l’osso famoso – “a trofeo di vittoria, ed a monumento di gratitudine”.
A suffragio di tale interpretazione, il Secondi poneva l’accento sulla scritta AIM che appariva sull’osso, e che non poteva che significare A Imperitura Memoria.
In merito a tale questione, dopo quasi cinque lustri e precisamente nel 1947, in un articolo de L’Eco il Caffi parlava espressamente della costola con la scritta AIM ed esternava la sua contrarietà, scrivendo che per essere la costola di una balena era tutt’altro che enorme se confrontata con quella della Basilica di San Giorgio, che aveva una lunghezza doppia.
Non v’erano dubbi: la costola (che aveva asserito essere quella di sinistra, “piatta e curva”) apparteneva a un grosso elefante, aggiungendo che “non abbiamo bisogno di ricorrere alla storiella che essa sia stata portata da uno della famiglia Moroni, che aveva casa anche a Venezia, quando ne troviamo un deposito ai piedi del Colle di Sombreno”.
E in quanto alle leggende locali, come abbiamo capito le rigettava sdegnosamente e in toto.
Oggi, considerati i dubbi che da tempo gravano attorno all’osso del santuario, si è voluto riconsiderare la questione alla luce dell’esattezza offerta dai nuovi ritrovati tecnologici, che hanno permesso di datare lo scheletrico esemplare ed esaminare molto da vicino i particolari della sua superficie.
I risultati delle ricerche e delle analisi svolte sull’osso di Sombreno sono stati resi noti in occasione dei festeggiamenti per la Natività di Maria, alla presenza di un attento pubblico composto per lo più dagli abitanti del luogo – da sempre partecipi alle vicende del “loro” santuario – e da alcuni giornalisti.
Con l’ausilio di alcuni pannelli esplicativi, Marco Valle ha illustrato passo dopo passo le procedure preliminari di pulizia e consolidamento dell’osso, da cui sono emerse le prime, interessanti notizie.
IL PRELIEVO E IL RESTAURO DELLA COSTOLA
Il 13 settembre 2018, nel corso dei lavori di restauro del santuario il personale del museo preleva il reperto e la catena che lo sospende al soffitto. Nonostante la costola presenti, soprattutto superiormente, una superficie molto scura costituita da grasso ed alcune macchie di ruggine, la sua struttura è solida e con la dovuta cautela viene trasportata nei laboratori del museo, dove vengono valutate le modalità di intervento, a partire dalla pulizia effettuata mediante prodotti non aggressivi (che non alterano la superficie del reperto) o reversibili.
Le zone annerite e la ruggine dovuta al prolungato contatto con la catena di ferro, vengono delicatamente asportate mediante sostanze specifiche, mentre la superficie dell’osso viene consolidata grazie ad un’apposita soluzione.
Per riportare l’osso alla condizione originale, vengono asportate le scritte dei nomi che appaiono sulla superficie liscia della costola, e che erano state eseguite nella prima metà del Novecento dalle maestranze allora impegnate in lavori di tinteggiatura del santuario.
Dall’osservazione del reperto emerge che l’osso non è un fossile (in ciò contraddicendo Caffi), in quanto i tubercoli che ne caratterizzano la superficie si presentano puliti e non ingombri di materiale come argilla, terriccio o simili, come avviene solitamente nei fossili.
Alla domanda di una signora che chiede lumi riguardo il peso dell’osso, il relatore si accorge di non aver rilevato il dato. In ogni caso la lunghezza della costola è di 169 centimetri, ossia 11 cm in meno rispetto a quelli calcolati da Enrico Caffi.
La ripulitura dell’osso ha messo in evidenza anche il vistoso rigonfiamento nella parte distale, dovuto a una fattura malamente ricomposta.
AIM: QUALE IL SIGNIFICATO?
Ma il momento topico della serata inizia con l’osservazione delle scritte storiche che erano state segnalate dal sac. Secondi e citate dal Caffi, e che sottoposte a illuminazione ultravioletta da Franco Valoti hanno rivelato un esito del tutto inaspettato.
E qui occorre fare un passo indietro: il sacerdote Secondi nella “guida” del 1923 asseriva che la scrittapresente sulla superficie dell’osso, che interpretava come AIM, poteva essere stata eseguita da un membro della famiglia Moroni a significare “A Imperitura Memoria”, in riferimento allo scampato pericolo occorso in mare dopo l’incontro con una balena.
La luce ultravioletta ha invece evidenziato che le lettere A e M non sono inframmezzate da una “I” maiuscola – come si credeva – bensì da una croce: pertanto, alla luce della nuova scoperta l’interpretazione di quello che si credeva essere l’acronimo di “A Imperitura Memoria” non è corretta.
Quale significato cela dunque la croce interposta tra le lettere A e M? Riusciremo a dare una risposta?
LA DATAZIONE DELL’OSSO TRAMITE L’ANALISI AL RADIOCARBONIO
Passiamo ora alla datazione dell’osso, per la quale si è estratto un frammento di tessuto dal peso di circa 5 grammi inviato all’Università del Salento, dove è stato sottoposto all’esame del Carbonio 14.
Per inciso, il campione è stato rimosso una porzione già micrifratturata del callo osseo presente nella parte distale della costola.
Gli esiti dell’analisi al radiocarbonio fanno risalire con tutta probabilità la costola ad un periodo compreso tra il 1432 ed il 1591: ciò significa che essa non può essere quella di un Mammouth, smentendo decisamente la sentenza del Caffi.
ELEFANTE E CETACEO A CONFRONTO
Una successiva immagine mette a confronto le costole di un elefante con quelle di un capodoglio, ossia un grosso cetaceo: le prime appaiono come delle “strisce” sottili ed uniformi, mentre le costole di capodoglio sono a sezione rotondeggiante proprio come la costola del santuario, che è da ricondurre con sicurezza ad un cetaceo – forse una piccola balena -, vissuto all’incirca 500 anni fa, in pieno Rinascimento.
LA SORPRESA…
A questo punto la testolina del reporter Maurizio Scalvini comincia a macinare: “quali dati abbiamo a disposizione?”.
Le lettere A e M disegnate sull’osso sono inframezzate da una croce;
la costola appartiene ad un cetaceo vissuto tra il 1432 ed il 1591.
L’intuito lo porta a dare un’occhiata all’affresco Moroni, che si trova verso l’ingresso del santuario.
Lo sguardo cade ai piedi delle figure, dove un cartiglio indica che l’affresco è un ex voto, recando anche il nome di Antonio Moroni da Breno, con la data di esecuzione: il 15 Maggio 1580.
Intorno a quella data dev’essere dunque accaduto un un fatto talmente importante, da indurre Antonio Moroni a compiere un voto.
Riassumendo i dati disponibili:
Le lettere A e M disegnate sull’osso sono inframezzate da una croce;
l’affresco è un ex voto commissionato da Antoni Moroni da Breno nell’anno 1580 (o al massimo poco prima);
il cetaceo è vissuto tra il 1432 e il 1591, quindi nel 1580 era vivo e vegeto.
Le lettere A e M potrebbero corrispondere ad Antoni Moroni da Breno, la cui famiglia intratteneva affari commerciali marittimi in quel di Venezia. Accade dunque che nell’anno 1580 (o intorno ad esso), mentre è per mare Antonio s’imbatte in un mostro marino, e invocati i suoi santi scampa alla sciagura per grazia ricevuta; grazia alla quale ottempera commissionando l’affresco per il santuario, al quale dona un osso di balena su cui fa incidere la sue iniziali.
Queste le congetture di Maurizio.
Tutte coincidenze? I pezzi del puzzle sembrano incastrarsi, tanto più che si sa con certezza che per le genti di mare era consuetudine regalare alle chiese una costola di balena in segno di grazia ricevuta per scampato pericolo corso in mare.
Un’ulteriore verifica attesta che a Sombreno nel Cinquecento esistevano ben due Antoni Moroni, fratelli di quel Beltrami citato nel cartiglio: tutti membri della famiglia più antica di Sombreno oltre che la più misteriosa fra tutte le famiglie Moroni sparse in Lombardia (3).
Resterebbe da verificare quantomeno un effettivo legame tra costoro e i viaggi in mare, per completare il cerchio di quella che don Angelo Rota, curato di Sombreno, definì “una storia avvolta nel mistero”: un mistero che, in fondo, non fa che accrescere il fascino che da secoli avvolge il piccolo santuario arroccato sulla collina.
Note
(1) ENRICO CAFFI, Sul deposito di argille del Petosino (Sorisole, provincia di Bergamo), Rivista di Bergamo, vol. 6 (1934).
(2) Sac. Daniele Secondi, da: Il “santuario e l’antica parrocchiale – Umile guida – 1923 tipografia G. Carrara, Bergamo.
(3) A Sombreno i loro successori edificarono la prestigiosa villa che ora è Maccari (meglio nota come villa Moroni-Maccari) e possedevano altre case e una filanda che era annessa ad una villa sei-settecentesca: edifici che vennero acquistati dal conte Pietro Pesenti che ne fece la fattoria.
Ringraziamenti
A Maurizio Scalvini per le notizie, le fotografie e, ultima ma non ultima, la geniale intuizione.
Collocato in posizione dominante sull’estremo sperone occidentale dei colli di Bergamo, il Santuario di Sombreno (m. 329 s.l.m.) costituisce una presenza emblematica non solo dal punto di vista religioso, storico e culturale ma anche paesaggistico, con l’altissimo campanile che funge da essenziale perno visivo nel Parco dei Colli e rende il profilo del Santuario facilmente riconoscibile da lontano.
Reportage fotografico di Maurizio Scalvini
COME RAGGIUNGERE IL SANTUARIO
Il collegamento veicolare verso il Santuario avviene mediante una carrozzabile (via Castellina, realizzata grazie all’intervento del Genio Zappatori nel 1936), che dal paese si avvia con stretti tornanti verso un ampio piazzale in terra battuta, posto all’ombra di maestose querce.
Ma vi è un percorso ideale e dal sapore agreste, immerso nella quiete della gradinata alle spalle di Villa Agliardi, che conduce dolcemente alla vetta.
La bellezza di questo antico e soleggiato percorso rappresenta la miglior prospettiva per gustare i più mirabili scorci sulla Val Breno e su Villa Pesenti-Agliardi, che con l’annesso parco costituisce una delle mete privilegiate di questi luoghi.
L’ascesa invita alla contemplazione e alla meditazione, scandita dalle sette cappellette devozionali dei misteri dolorosi di Maria presenti dal 1920 e più recentemente affrescate da artisti locali.
Al termine della salita, solo un ultimo breve tratto separa il visitatore dal portale d’accesso, sormontato da una lunetta in stucco raffigurante il Padre Eterno benedicente.
Dal Santuario, eretto su un terrapieno in pietra squadrata adagiato sul poggio dominante la Val Breno, la vista gode di un vasto panorama che spazia dal Canto Alto e dall’Ubione alle cime della Roncola, del Linzone e dell’Albenza e della Val San Martino.
Non appena varcato l’accesso, si incontra dapprima il piccolo Santuario dedicato alla Madonna Addolorata – la struttura da cui ha avuto origine il complesso sacro -, che sul quattro e Cinquecento venne affiancato ad una chiesa più grande, quella della Natività di Maria Santissima, in grado di contenere un maggior numero di fedeli.
La chiesetta dell’Addolorata era in origine l’antica cappella del castello di Breno (una fortificazione che, come accennato qui, fungeva da avamposto del sistema difensivo organizzato sul crinale del colle fino a San Vigilio (1)) e, secondo il Fornoni, fu la prima ad ottenere il battistero divenendo parrocchia anche per le vicinie di Paladina e Ossanesga, fino alla metà del XVI secolo (2).
La troviamo nominata per la prima volta in un atto del 1093 come antica cappella battesimale di Santa Maria di Breno, benchè si pensi che le sue origini siano assai più antiche.
La chiesa – passata dal 1267 alla Chiesa di Bergamo – si può considerare ancora abbastanza primitiva, anche se è piuttosto difficile stabilire quanto conservi, o ricalchi nei suoi andamenti, della preesistente fortificazione.
L’impianto attuale è trecentesco, con massicci interventi effettuati in stile barocco agli inizi del Settecento. Gli intonaci mostrano tracce di primitivi affreschi.
LA CHIESA MAGGIORE
La chiesa maggiore, nota anche per l’osso di cetaceo appeso al soffitto e recentemente analizzato, è stata edificata negli anni tra il 1493 e il 1570 ma l’interno è stato profondamente rinnovato a partire dal 1613 in seguito alla visita pastorale del vescovo Emo.
L’edificio è sorto in seguito ad una supplica inviata dagli uomini e dai vicini di Breno ai Rettori della città di Bergamo, considerata ormai inadeguata l’antica cappella del castello per accogliere il popolo che vi confluiva.
Gettate le fondazioni e i pilastri della “tribuna” con materiale ottenuto dalle demolizioni di quanto rimaneva del vecchio e ormai inservibile castello (3), si attese il benestare dei Rettori (il Podestà di Bergamo Francesco Mocenigo e il Capitano Matteo Lauredano), che il 14 agosto del 1493 concessero l’autorizzazione a procedere, secondo dettagliate indicazioni ed invitando ad osservare la massima economia possibile (la chiesa fu infatti costruita con l’oblazione e le elemosine di tutta la diocesi bergamasca).
La costruzione della chiesa prende avvio nel 1494 sotto la guida del Presbitero Gasparino de Nervis (che resse la parrocchia negli anni 1494-1533) (4), con il quale si procede ad affrescare le pareti con immagini di tipo votivo (che vedremo in un secondo momento). Ma a causa della grande povertà che affligge la maggioranza della popolazione, la chiesa (e con essa il campanile) verrà terminata soltanto verso il 1570 sotto la guida del parroco Jo. Battista de Solario, che la governa dal 1534 al 1586 ossia per ben 53 anni. Altre opere di completamento e di sistemazione del Santuario inizieranno nel 1710, protraendosi sino ai primi decenni del Novecento.
La forma, le dimensioni, la struttura portante e il tipo di copertura dell’attuale “chiesa grande”, rispecchiano le indicazioni allegate all’autorizzazione del 1493: una sola navata con due archi ogivali trasversali che la dividono in tre campate, sulle quali sono posti travetti in legno e piastrelle in cotto.
Inoltre, l’altare maggiore, posto in asse centrale e a base quadrata, e due altari posti sui fronti laterali del presbiterio: l’Altare di S. Rocco e quello di S. Caterina.
Ai tempi della visita pastorale del vescovo S. Carlo Borromeo (1575), la chiesa risulta ampia (lunga passi 32 e larga 13) e con quattro altari: il maggiore, S. Rocco, S. Caterina e quello, costruito recentemente dal parroco Solario, della Madonna di Loreto.
Dagli atti della visita di S. Carlo emerge la sensazione di un certo abbandono delle due chiese sul monte, forse dovuto al fatto che, con l’avvento del Solario, nonostante la chiesa di S. Maria non avesse cessato di essere la parrocchiale, la cura d’anime cominciava a esercitarsi nella chiesa dei SS. Fermo e Rustico, dove si conservava il SS. Sacramento, si trovavano gli olii Santi e le solite funzioni parrocchiali, e dove fu trasferito anche il fonte battesimale (Rota).
Borromeo ordina quindi la modifica dell’altare maggiore nella forma richiesta dalle nuove disposizioni, l’eliminazione dell’altare di S. Maria di Loreto, e la modifica degli altari e delle cappelle.
La vecchia chiesetta di S. Maria, piccola e con un unico altare, necessitava invece della riparazione delle volte e della modifica dell’altare secondo le nuove disposizioni.
Nel frattempo, intorno al 1563, Solario aveva fatto realizzare il gruppo ligneo della Madonna con Cristo morto, l’opera più importante conservata all’interno della chiesetta.
La statua veniva coperta con un drappo sul quale è raffigurata la Madonna con il Cristo Morto, pregevole opera di pittore anonimo del XVI secolo, purtroppo, e per mancanza di spazio, conservata nella sagrestia vecchia.
Nel suo testamento (1591) il Solario lascia alla Chiesa di S. Maria posta sopra il monte di Breno, beni immobili e denari per l’ampliamento della sagrestia e concorda di essere sepolto in detta chiesa. Il sepolcro, in lastre di marmo di Zandobbio, è posto nel pavimento, in centro, subito dopo i gradini del presbiterio.
Le opere di ampliamento della sagrestia si realizzano alla fine del Cinquecento, periodo in cui si posa anche il pregevole lavabo in marmo (1599), tuttora esistente.
La Confraternita del SS. Nome di Gesù ottiene, il 4 aprile 1604, dal Papa Clemente VIII e su richiesta del “diletto Maffeo Pesenti”, la concessione di indulgenze alla chiesa della Madonna e alla sua Confraternita.
Come detto, in seguito alla visita pastorale compiuta il 27 aprile 1613 dal vescovo di Bergamo Giovanni Emo, il Santuario della Natività verrà sottoposto ad un profondo rinnovamento strutturale (tra cui figura l’erezione della cappella intitolata alla Madonna del Rosario).
GLI AFFRESCHI DELLA CHIESA NUOVA
Costruita la nuova chiesa, per intercedere grazie e protezioni o per ringraziamento i devoti fanno affrescare le pareti con immagini di tipo votivo che ripetono la figura della Madonna cui la chiesa è dedicata. Nel corso del Seicento tali affreschi verranno ricoperti dagli stucchi e dai quadri visibili attualmente.
Sono noti quelli collocati sopra gli altari posti a lato del fronte del presbiterio (altare di S. Rocco e altare di S. Caterina), poi ricoperti dalle pale del Genovesino. Mentre è solo dal 1962 che in occasione dei recenti restauri si è venuti a conoscenza di alcuni affreschi di fine Quattrocento nell’area del presbiterio, proprio laddove oggi sono emerse nuove scoperte che stanno riscrivendo importanti capitoli della storia artistica e comunitaria del Santuario sul monte.
Al centro dell’altare maggiore (d) vi era inoltre un polittico cinquecentesco suddiviso in nove comparti, poi disperso e sostituito pala dello Zanchi.
L’affresco della “Madonna allattante” (1524 ca.) presente sul lato destro del fronte del presbiterio, in corrispondenza dell’altare di S. Caterina, è stato attribuito ad Andrea Previtali, che l’ha eseguito nel periodo in cui risentì maggiormente l’influenza di Lorenzo Lotto (5).
Sulla parete che sovrasta l’Altare di S. Rocco, la tela del Genovesino nasconde l’affresco della Madonna in trono con Angeli (sovrapposto ad affreschi più antichi), attribuibile ad un anonimo seguace del Lotto. L’esecuzione si può far risalire a poco prima della metà del XVI secolo. Nella rappresentazione vi sono elementi (l’atteggiamento della Madonna con la mano tesa in avanti – forse verso S. Rocco – il Bambino con la mano benedicente alzata e il panneggio verde con fondo di cielo sorretto dagli angeli) ripresi nelle opere del Lotto, dalle Madonne in trono della Chiesa di S. Bernardino e S. Spirito in Bergamo.
La realizzazione di un nuovo affresco sopra quelli eseguiti pochi decenni prima si giustifica con la necessità di creare un maggiore equilibrio degli altari sul fronte del presbiterio e di rivaleggiare con un’opera di influenza lottesca con quello “che oggi ci giunge come il più godibile affresco del Previtali”.
IL (DISPERSO) POLITTICO AL CENTRO DELL’ALTARE MAGGIORE, IN VIA DI PARZIALE RICOMPOSIZIONE?
Al centro dell’altare maggiore, al posto della attuale pala della Natività di Antonio Zanchi (eseguita nel 1671) vi era un polittico formato da nove comparti e di cui tre (Madonna con Bambino e i Santi Fermo e Rustico) firmati Giovanni De Vecchi detto Galizzi nel 1543, mentre la cimasa con il Padre Eterno benedicente, non firmata, è attribuita al medesimo pittore.
Dagli atti della visita pastorale del Vescovo Ruzzini dell’8 luglio 1701, risulta che tre quadri del Galizzi si trovavano nel coro della chiesa dei SS. Fermo e Rustico (GRITTI, 1990): oggi, il pannello con il Padre Eterno benedicente è conservato nella Parrocchiale, quello della Madonna con Bambino dai conti Agliardi, mentre quelli di Fermo e Rustico sono in Accademia Carrara, già dei coniugi Asperti di Boccaleone.
Secondo notizie emerse, si è ventilata l’intenzione di recuperare almeno quattro delle tavole originali del polittico, per poterlo parzialmente ricomporre e posizionare sulla parete di sinistra.
I NUOVI AFFRESCHI VENUTI ALLA LUCE
In occasione dell’apertura straordinaria del Santuario, tenutasi il 10 novembre 2019, il reporter Maurizio Scalvini ci ha offerto un’anteprima assoluta degli affreschi e delle strutture emerse grazie ai recenti lavori di ricognizione e restauro conservativo che ha interessato tutta la struttura interna della chiesa, compresi i pregevoli stucchi che decorano le pareti.
Mentre si era a conoscenza dell’esistenza degli affreschi della Madonna del Cardellino e della Madonna della Pera, si ignorava totalmente l’esistenza dell’affresco Moroni, posto sulla parete destra accanto all’ingresso, e di quello della vasta Crocifissione, collocato al centro dell’altare maggiore sotto la pala dello Zanchi: una sorpresa assoluta, che ci consente oggi di fruire della loro bellezza e raffinatezza.
All’ingresso del Santuario, sulla parete destra è emerso l’affresco Moroni, datato 1580, il meglio conservato rispetto a tutti quelli scoperti durante i lavori e che ora possiamo ammirare grazie al sapiente restauro.
A destra della Madonna si individua con certezza San Rocco, mentre le vesti della figura sinistra riprendono quelle di un santo del citato polittico, quindi San Fermo o San Rustico, ritratti solitamente accoppiati e senza tratti distinguibili.
Un cartiglio reca il nome del committente e la data d’esecuzione (15 Maggio 1580), riportati in calce a piè dell’affresco.
Proseguendo sulla parete di destra, accanto alla porta che immette nella sagrestia è stato portato alla luce l’affresco della “Madonna col Cardellino“, tenuto in mano dal Bambinello.
Immediatamente a lato, nell’angolo con l’altare di Santa Caterina è stata riportata in luce la cosiddetta “Madonna della Pera“; ora completamente svelata, tiene nella mano destra il frutto.
Nel presbiterio, di fianco all’Adorazione dei Magi è venuta alla luce una colonna decorata, dove sono presenti una Madonna con Bambino molto rovinati. Si è così scoperto che in corrispondenza dell’Adorazione dei Magi, sotto un muro posticcio vi è una nicchia entro la quale proseguono le decorazioni presenti sulla colonna.
E, sorpresa, al centro dell’altare maggiore, dietro la pala dello Zanchi è venuta alla luce una Crocefissione di straordinaria bellezza e dalle dimensioni considerevoli!
Nonostante l’antichità dell’affresco, sorprendentemente i colori hanno mantenuto la loro vivacità.
Infine, fra la serie delle Madonne emerse dall’area presbiteriale – tutte databili intorno alla fine del ‘400 – è emersa, ai piedi della Crocefissione e a sinistra, una delicatissima ed inaspettata Madonna del Latte, che sorregge il Bimbo con una fascia ricamata.
Gli affreschi sono oggi visibili grazie alle cerniere mobili che permettono agli addetti di scostare agevolmente gli antistanti supporti dei dipinti su tela.
IL PROFONDO RINNOVAMENTO STRUTTURALE DEL SEICENTO: DAGLI AFFRESCHI ALLE GRANDI TELE
In seguito alla visita pastorale compiuta il 27 aprile 1613 dal vescovo di Bergamo Giovanni Emo, il Santuario della Natività viene sottoposto ad un profondo rinnovamento strutturale, dettato da una serie di decreti improntati al rispetto del rigore della riforma tridentina.
Tra questi, per evitare scandalo al popolo o sconvenienza per luogo sacro, veniva ripresa la prescrizione di chiedere licenza scritta al Vescovo per collocare immagini sacre nelle chiese.
Nell’ultimo scorcio del Cinquecento infatti, aveva avuto inizio quel fervore di attività per arricchire di stucchi e decorazioni gli spazi nudi o affrescati delle nostre chiese. L’esempio più importante partiva dalla Basilica di Santa Maria Maggiore dove la MIA incaricava l’ing. milanese Martino Bassi di redigere un progetto di rinnovamento dello spazio interno con inizio dalla Cappella votiva della città.
Altre chiese si adeguano a questo nuovo modo di trattare le superfici interne, come la Matris Domini e la chiesa della Madonna dei Campi a Stezzano e lo stesso gusto viene seguito nella sistemazione dei palazzi privati.
La visita del vescovo di Bergamo ci tramanda interessanti notizie sull’aspetto del luogo di culto al principio del Seicento:
«Alla Madonna di Sombreno vedendo noi lì tante pitture vi si sono fatte et fanno della Gloriosa Vergine, rappresentando però il medesimo Misterio, che non servono a devozione né a ornamento, intendendo noi di volerle levare a suo tempo ed occasione di qualche più durevole ornamento à mag. divvozione di nostra Signora della chiesa dedicata a Lei, fratanto commando che all’avenire non si faccia pittura alcuna senza noi si esprima licenzia ottenuta in scritto».
Anche la chiesa nuova di Sombreno nella sua opera di rinnovamento si conforma ai modelli citati affidando gli stucchi barocchi ai fratelli Gerolamo e Gio B. Porta (già esecutori con il padre delle decorazioni di S. Maria Maggiore), e il ciclo di affreschi delle Storie della Vergine (1623) nella volta del presbiterio, a Pietro Baschenis.
Essi si firmano nel primo gradino della presentazione al tempio “PETR. BASCHENES PINXIT IERONIMO BATTISTA PORTA STUAVIT”.
In questo periodo si presume sia stato alzato il presbiterio con la formazione della volta a botte, in sostituzione della crociera, e aperta la finestra ad arco di tipo palladiano.
Sono da attribuire ai fratelli Porta anche la figura del Padre Eterno con le decorazioni a stucco sopra il portale d’ingresso al Santuario.
Come anticipato, nelle cornici a stucco degli altari sul fronte del presbiterio furono collocati nel 1626 i quadri di Bartolomeo Roverio detto il Genovesino: a destra la tela di S. Lucia e S. Caterina a conferma della titolare dell’altare; all’altare di sinistra invece in luogo di S. Rocco, compaiono S. Francesco e S. Bonaventura con il Salvatore.
La famiglia Pesenti dona i quadri posti sopra il cornicione a nord rappresentanti la circoncisione di Gesù e la presentazione al tempio con in basso lo stemma Pesenti e la scritta ex-voto Petro Mariae, aequitis de Pesentibus anno MDCXXXIV e si fa promotrice, a partire dal 1620, della costruzione del nuovo altare del Rosario, aperto nella parete sud, nel corpo centrale.
Nelle chiese di culto mariano nel Seicento si espresse e si diffuse in molte parrocchie sotto l’episcopato del Barbarigo la devozione della Madonna del Rosario e dei Santi domenicani che l’avevano promossa. La formazione della Confraternita della Madonna del Rosario di Sombreno avvenne nel 1631 e secondo il parroco Quarenghi è da considerarsi la più antica della zona.
Nel 1645, appena eseguiti gli stucchi, si collocano i quindici Misteri del Rosario eseguiti da Carlo Ceresa (su incarico del fabbricere Pietro Corna) e nel 1646 i due quadri laterali rappresentanti l’uno i Santi Nicola da Tolentino e Antonio da Padova, l’altro i Santi Rocco e Sebastiano (che ripropongono i Santi rappresentati negli antichi affreschi dell’altare omonimo).
Solo nel 1649 viene collocata la pala dell’altare della Madonna del Rosario raffigurante la Madonna con il Bambino in gloria con S. Pietro e S. Caterina d’Alessandria (a ricordo di Pietro Corna mentre la figura della Santa è forse il ritratto di Caterina Pesenti) e S. Domenico.
La famiglia Pesenti, offerente, fa apporre lo stemma dell’aquila con sormontata la stadera, alle tele dell’Annunciazione eseguite da Carlo Ceresa nel 1660, poste ai lati dell’arcone del presbiterio (tele già menzionate e descritte da Angelo Pinetti nel 1931).
Nel 1672, Francesco Carminati (6) versa una cospicua somma per l’acquisto della nuova pala dell’altare maggiore eseguita dal pittore veneziano Antonio Zanchi e per la realizzazione della nuova ancona a stucco affidata allo scultore luganese Giovanni Angelo Sala, artisti che già avevano lavorato per la MIA in S. Maria Maggiore.
Pietro Zampetti a proposito della pala di Sombreno scrive: …”E’ opera dello Zanchi tutta giustapposizioni e bilanciamenti, ricchi piegamenti di panni e solidi colori a rilievo. Alla base della sapiente piramide costruttiva, le splendide figure delle due giovani fantesche…sono un richiamo alle importazioni caravaggesche raccolte dal gruppo dei riformati…”.
Sulla parete di fronte all’altare del Rosario la famiglia Carminati nel 1682 fa costruire la Cappella dei Morti, un altare in forma simmetrica con la dedica alla passione di Cristo in suffragio delle anime del purgatorio, culto che aveva preso impulso dopo la peste del 1630 e che nelle chiese della bergamasca tendeva ad occupare gli altari laterali più importanti.
I figli di Francesco, Pietro e Don Carlo Carminati, acquistano la pala con Gesù crocefisso e Santi (1675) di Johann Carl Loth, pittore nato a Monaco di Baviera e vissuto a Venezia dalla metà del secolo e la collocano, nel 1683, nel centro dell’altare, insieme ai due quadri laterali attribuiti da Mariolina Olivari a Gregorio Lazzarini, raffiguranti la Resurrezione di Lazzaro e la Resurrezione del figlio della vedova di Naim.
Alla base delle colonne laterali della cappella sono posti gli stemmi in marmo di Carrara della famiglia Carminati con aquila bicipite sopra un carro e lo stesso stemma lo troviamo sulla parete ell’ingresso in alto con la dicitura: FRATRES FILII Q. FRANCISCI / DE CARMINATIS PATRITII VENETI EX DEVOTIONE / ANNO MDCLXXXVIII”. Il titolo nobiliare era stato conferito a Venezia nell’anno 1687 per l’attività di banchieri.
Nel 1708 il rettore don Francesco Gavazzeni, su ordine della Curia episcopale di Bergamo redige l’inventario dei Beni della Chiesa di S. Maria che consistevano in case e terreni posti in Breno, in Paladina, in Almè e ad Ossanesga.
Le opere di completamento e sistemazione del Santuario iniziarono nel 1710, protraendosi sino ai primi decenni del Novecento.
Nel 1710 venne innalzata la volta della chiesetta dell’Addolorata sostituendo la copertura lignea e vennero aperte due nuove finestre in alto.
Nel presbiterio venne collocato un nuovo altare in marmo nero con al centro il paliotto in marmo bianco dell’Addolorata, ai lati furono posti i quadri dei dolori di Maria.
Sotto la direzione del capomastro Gianni Moroni di Ponte S. Pietro si ampliò la casa del romito e si formò il portico con le colonne binate in pietra arenaria.
Per la chiesa nuova si procedette all’ampliamento della sacrestia e ad adornare la stessa con mobili eseguiti dal romito intagliatore fra Giacomo Micheletti (tre poltrone e due sgabelli finemente intagliati). Nel 1736 si eseguì la cantoria in legno con decorazioni ad intaglio e dipinte e si installò l’organo fornito dalla ditta Serassi.
Il sagrato del Santuario che presentava cedimenti è stato sistemato nel 1832. L’opera di ampliamento dello spalto del piazzale con la formazione dei fornici in muratura si può far risalire alla fine del XVII secolo. Originariamente il muro di sostegno del terrapieno era più arretrato ed è ancora visibile nelle murature di pietra squadrata che si scorgono nei fondali delle volte.
Nell’Ottocento si rifanno le decorazioni interne della chiesa piccola, l’affresco della Madonna dei Servi di Maria del 1853 è opera di Luigi e Carlo Rota.
Il 12 febbraio dello stesso anno era stata eretta la Congregazione dei Servi di Maria dal Priore Generale di Roma. A questa occasione si può far risalire l’acquisizione dei due quadri di Francesco Vigna esposti alle pareti.
La cuspide del campanile e la statua dell’Immacolata sono opere di Antonio Preda e dei F.lli Rusconi che le eseguono nel 1879.
Al 1902 risale la ricostruzione con solaio in cemento del terrazzo e del porticato di fronte alla chiesa dell’Addolorata; al 1905 la formazione di quattro stanze sopra la sagrestia nuova; al 1925 la collocazione dell’orologio sul campanile.
NOTE
(1) Il sistema difensivo di Breno comprendeva anche due torri, una inglobata nell’ala occidentale di villa Pesenti-Agliardi ed una seconda torre collocata in quella che è oggi la piazza, inglobata in un edificio di più vaste dimensioni. Le due torri furono probabilmente acquistate dai Pesenti, allorquando nel 1473 si insediarono a Breno, ampliandole e trasformandole in abitazioni.
(2) La cappella del castello fu, secondo il Fornoni, la prima chiesa ad ottenere il battistero divenendo parrocchia anche per le vicinie di Paladina e Ossanesga (Gritti 1997). Ossanesga si staccherà nel 1538 e Paladina nel 1568.
(3) Nel 1621 viene cioè concesso a un abitante di Breno di costruire un muro di cinta tra i beni della chiesa situati in cima al monte e il ronco di sua proprietà, servendosi dei sassi ricavati dall’abbattimento “di quella mura vecchia chiamata il Torrazzo esistente nel detto pezzo di terra di ragione del beneficio” (Pietro e Luigia Gritti, “Il Santuario della Madonna di Sombreno”, cit.)
(4) Il Presbitero Gasparino de Nervis fu il principale artefice delle opere eseguite alla chiesa di S. Maria al monte. Egli si occupò anche della chiesa dei SS. Fermo e Rustico, che per comodità del popolo fu sistemata nei primi decenni del ‘500. Durante la visita pastorale del 1520 il Vescovo Pietro Lippomano raccoglie buone informazioni sul comportamento del Presbitero Gasparino de Nervis dai testi Joannino de Pesenti e da Antonio Moroni. Per il completamento della costruzione della chiesa di S. MariaSerzanus f.q. Ioanini dicti Cappelle de Moronibus habitator de Brene nella sua cucina, alla presenza di Gasparino de Nervis, fa redigere nel 1506 il testamento in cui lascia “10 lire imperiali da spendersi per la stessa fabbrica e due ducati da spendersi per una pianeta per la stessa chiesa”. Al Presbitero, oltre ai benefici e alla proprietà dei beni della chiesa di S. Maria, era stato assegnato nel 1527, in un arbitrato fatto nel palazzo vescovile: al “rettore e beneficiato Gasparino de Nervis” il godimento delle piante del bosco di Sombreno: “tenga, goda e fruisca degli alberi di moroni e castagne esistenti al presente e in futuro sul monte si S. Maria di Sombreno, fino al monte di Breno…”.
Nel suo testamento del 1536 Gasparino de Nervis lascia i suoi beni alle Suore di S. Grata in Colunnellis di Bergamo, di cui era cappellano e confessore compresa la casa di via S. Lorenzino acquistata dalla MIA, che l’aveva avuta in eredità da Battista Cucchi cerusico (Pietro e Luigia Gritti, “Il Santuario della Madonna di Sombreno”, cit.).
(5) Francesca Cortesi Bosco concordando sull’attribuzione ad Andrea Previtali, indica nel 1524 la data presumibile di esecuzione. I motivi della datazione riguardano l’influsso avuto sul Previtali dal ciclo degli affreschi nell’oratorio Suardi di Lotto, chiaramente riscontrabili nella maggiore attenzione al vero, nella freschezza e luminosità del colore nella realizzazione del Bambino rispetto al quadro dell’Accademia Carrara; nell’abito di Santa Lucia con il laccio della manica appena sotto la spalla, presente anche nella Sibilla Chimicha del Lotto, tanto più che dello stesso anno è il cartone che il Lotto presenta al Consorzio della Misericordia per il coperto della tarsia detta “la Creazione” nel quale il simbolico occhio divino si modella congiuntamente alla carne delle braccia. “Il ritratto del committente in abito monastico è di grande vigore ed efficacia; sotto questo aspetto accostabile al ritratto di Paolo Cassotti nella tavola della Carrara. Per l’identificazione del committente, probabile appartenente ad una famiglia della zona, può essere utile il fatto che lo stesso doveva soffrire di disturbi alla vista, in quanto S. Lucia è in atto di proteggerlo e raccomandarlo alla Vergine.
(6) Il nobile Alessandro Morone f.q. Fermo, abitante in Porta Romana della parrocchia S. Tecla di Milano, originario di Breno, lascia nel suo testamento del 1650 trenta scudi di moneta di Bergamo sia per la chiesa di S. Maria di Breno e sia per la chiesa di S. Fermo e Rustico, e deposita nel Banco di S. Ambrosio lire otto mille cinquecento imperiali, i cui utili dovranno servire “per far celebrare una messa quotidiana nel detto loco di Brenno territorio di Bergamo e nelle chiese di detto loco…e siano d’aiuto ai suoi eredi che intendono seguire la carriera ecclesiastica” (…) A quindici figliole di Breno e dieci dei luoghi vicini (…) si diano 100 lire di moneta di Bergamo per ciascuna al tempo che si mariteranno o spiritualmente o temporalmente”…con preferenza ai parenti delle famiglie Moroni e Carminati. Nomina il cognato Francesco Carminati, abitante in Bergamo, tutore dei figli avuti dalla moglie Caterina Carminati e lascia erede universale il figlio Carlo Fermo Morone. Francesco Carminati, trasferitosi a Venezia dove svolge l’attività di mercante, non dimentica il suo luogo di origine e si prodiga per l’abbellimento della sua parrocchia sul Monte di Breno (Pietro e Luigia Gritti, “Il Santuario della Madonna di Sombreno”, cit.).
Bibliografia essenziale
– Pietro e Luigia Gritti, “Il Santuario della Madonna di Sombreno” – Consorzio per il Parco dei Colli di Bergamo. Grafica e Arte Bergamo, 1990.
– Il Parco dei Colli di Bergamo – Introduzione alla conoscenza del territorio, capitolo “Caratteri urbanistici e presenze architettoniche”, Graziella Colmuto Zanella.
Procedendo dal lungo rettifilo che da Fontana conduce a Sombreno, ultimo lembo agreste a occidente dei colli, al centro del solco del Brembo, il visitatore è accolto dall’alta e fitta massa arborea del parco di Villa Agliardi, posta ai piedi della collina: un’emergenza monumentale e paesaggistica d’eccezione che si staglia al margine opposto del compatto nucleo storico.
La villa è celata discretamente da una quinta di edifici e per vederla bisogna imboccare un’antica diramazione – via Agliardi – che dai margini occidentali del tessuto storico si dirige fra gli ultimi lembi edilizi e il fitto bosco.
La strada si allarga in un piazzale ombroso delimitato, da un lato da una fontana incorniciata da due scale curve che invitano a salire verso la collina e, dall’altro, dal lungo ed austero prospetto nord della villa, che come una fiera e ritrosa fanciulla di campagna si mostrerà alle spalle.
Di fronte al viottolo che immette alla villa, su un grande portone campeggia una targa metallica che introduce ad un bellissimo esempio di dimora padronale del ‘600 costruito dalla famiglia Moroni (proprietaria dell’adiacente Filanda) ed acquistato dal conte Pietro Pesenti (1771-1826 ), che lo adibì a casa del fattore.
Pietro Pesenti, il committente della villa che andremo a visitare, era l’ultimo rampollo maschio di uno dei due rami in cui s’era divisa nel ‘600 l’importante famiglia di drappieri. I Pesenti già all’inizio del ‘400 dalla culla natale di Gerosa in Vall’Imagna si erano insediati in Bergamo e Sombreno, dove nel corso del tempo avevano aumentato i propri possedimenti. A soli 22 anni Pietro aveva ereditato tutti i beni paterni ed entusiasta degli avvenimenti storici che in quegli anni stavano profondamente mutando l’Europa, partecipò attivamente alla vita politica bergamasca ritrovandosi a ricoprire, tra il febbraio e l’aprile del 1798, la carica di Presidente dell’Amministrazione del Dipartimento del Serio, la maggior carica politica locale.
Fu proprio in quel 1798 che il cittadino Pietro Pesenti, sull’onda del successo politico commissionò (1) all’architetto austriaco Leopold Pollak (Vienna 1751 – Milano 1806), insigne architetto operoso in Lombardia nella stagione neoclassica, la ristrutturazione in chiave moderna della Villa di famiglia, per trasformarla in luogo d’incontro per i politici del tempo. Pesenti gli espose una serie di richieste che questi doveva rispettare e gli commissionò anche l’invenzione ex-novo del giardino. E soprattutto il giardino, secondo l’uso dell’epoca, avrebbe dovuto essere concepito come manifesto delle idee politiche del committente.
La dimora, un’edificio di impianto seicentesco con impianto a L, aveva un nucleo antico costituito da una torre medioevale facente parte dell’antico sistema difensivo di Breno che comprendeva (oltre al castello situato in cima alla collina, in luogo dell’attuale Santuario) anche una seconda torre, collocata in quella che è oggi la piazza. Quando nel 1473 i Pesenti si insediarono a Breno probabilmente acquistarono le due torri, ampliandole e trasformandole in abitazioni. La torre della piazza è infatti inglobata in un edificio di più vaste dimensioni.
Della torre medioevale si trova traccia nell’angolo nord ovest della villa, dove possiamo individuarla grazie alla presenza di pietre piuttosto grandi e ben squadrate che la differenziano dal resto dell’edificio, che è in acciottolato, mattoni e materiale vario.
Perchè il Pollak (che talvolta si firmava Pollach e che taluni chiamano Pollack, allievo e discepolo del Piermarini, con cui collaborò per Villa Belgiojoso a Milano), aveva accettato la proposta di risistemare una residenza di campagna, in un luogo così periferico rispetto alla capitale lombarda e per di più da riprogettare su una precedente costruzione? Lui, che si era conquistato grande fama con la progettazione di rilevanti edifici pubblici, firmando a Bergamo il teatro Sociale.
Caduto il dominio austriaco nel 1796 e considerata la sfortunata vicenda austriaca in Lombardia ai primi anni dell’Ottocento, le sue origini non rappresentavano un incoraggiante biglietto da visita per la nuova classe dirigente; l’occasione fornitagli dal conte Pesenti gli offriva la possibilità di riscattarsi attraverso un innovativo progetto di reinterpretazione in chiave neoclassica di una preesistente dimora secentesca non separabile dal notevole parco. E dal momento che l’ammodernamento della casa era vincolato dagli schemi di una costruzione preesistente, fu soprattutto sul giardino che egli concentrò il proprio estro creativo.
Un giardino che, probabilmente a causa dei costi eccessivi, venne ultimato solo in alcune parti, assolutamente insufficienti a darci conto dell’insieme come era stato concepito nel progetto, ma che è possibile descrivere sulla base dei disegni incorniciati nella villa (2).
Dalla fattoria, percorso un breve viottolo si entra in un atrio, non molto vasto e illuminato da tre arcate orientate a sud verso il giardino. Il cancello si trova proprio di fronte.
Come detto, all’arrivo del Pollak la villa presentava un impianto seicentesco impostato ad L, costituito dal corpo mediano e dall’ala occidentale. Tale impianto conteneva già le premesse dell’attuale planimetria, che dal nucleo centrale preesistente si è dilatata articolandosi simmetricamente ad U, secondo i canoni di un evidente schema neoclassico.
Al pian terreno del corpo mediano venne ricavato un grande vestibolo porticato (oggi coperto da vetrate) e venne conservato il sovrastante salone; nell’ala occidentale venne invece innestato un monumentale scalone a due rampe. E’ invece praticamente tutta nuova l’ala orientale, così come i corpi più bassi che prolungano le ali.
UTILE E BELLO
In ognuno dei prospetti delle ali l’architetto austriaco inserì una nicchia, con coronamento a timpano, contenente una statua sormontata da un riquadro entro il quale campeggia un’iscrizione, un elemento di reminiscenza cinquecentesco-palladiana (3).
Le due statue in facciata, rappresentanti l’Ospitalità e l’Agricoltura, sono due elementi importanti per comprendere l’idea ispiratrice di tutto il giardino, concepito come luogo in cui utile e bello si fondono (una delle idee portanti dei giardini paesaggistici inglesi che Pollak aveva assimilato grazie ai numerosi contatti avuti con il suo committente milanese Belgiojoso). Il tema è simboleggiato dallo stesso progetto della villa che prevedeva otto “suite” per ospiti, poi non realizzate.
GLI AFFRESCHI E LE DECORAZIONI
Alcuni aspetti riguardanti l’intervento sulla villa – affreschi e decorazioni – si relazionano, dialogano, con il progetto del giardino, dando vita a un tutto organico in cui il dentro e il fuori si richiamano a vicenda.
Le decorazioni ad affresco furono realizzate da Vincenzo Bonomini (1756-1839) nei primi anni dell’Ottocento (salone centrale al primo piano ed altre sale al piano terreno), mentre le decorazioni a stucco vennero affidate ad un certo Bossi .
Gli affreschi e le decorazioni al piano terreno
Le tre sale poste al piano terreno sono riccamente decorate e nascondono numerosi significati simbolico-politici, riconducibili a quelle idee politiche di Pesenti che si ritrovano citate anche nel giardino.
Il tema della prima sala è quello della pace e della guerra: al centro della volta è affrescato il riposo del guerriero, tema che manifesta l’ideale di un governo illuminato (la Repubblica raffigurata nella terza sala, evidente riferimento alla Repubblica Francese), capace di garantire ai propri cittadini la serenità proveniente dalla pace e, al contempo, la forza e la solidità portata dalle armi.
Sempre legati alla simbologia della pace e della guerra sono i decori a stucco, sia in questa sala che in quella accanto, dove alle pareti compaiono anche alcune stampe rappresentanti diversi momenti della vita di Napoleone.
Al centro della volta della terza sala (quella che doveva essere già al tempo sala da pranzo) Vincenzo Bonomini affrescò la Repubblica con in mano un fascio consolare, con chiaro riferimento alla Repubblica Romana e, in quel momento storico, alla Repubblica Francese.
L’allusione alla Repubblica Francese ritorna nelle decorazioni dell’obelisco (di fronte all’ingresso principale), punto di riferimento simbolico e spaziale del giardino.
Sulle pareti è simbolicamente rappresentato il mondo. All’interno di piccole ghirlande sono posti quattro animali che rappresentano i quattro continenti: il cervo rappresenta l’Europa, il cavallo le Americhe, il leone l’Africa e l’elefante l’Asia, ad indicare che la Repubblica come istituzione politica domina sui quattro continenti del mondo.
I temi del riposo del guerriero, del significato politico di Napoleone e della Repubblica, cari al committente, si ritrovano citati anche nel giardino.
Gli affreschi e le decorazioni al primo piano
Le decorazioni più importanti e significative sono comunque al piano superiore, al quale si giunge attraverso un imponente scalone a due rampe, che si imbocca a sinistra del vestibolo.
Alle pareti del salone centrale del primo piano (quello già osservato con la volta affrescata dal Ghislandi) compaiono quattro vedute affrescate con perizia da Vincenzo Bonomini, di analogo interesse per il rapporto con il giardino.
Tema di tali vedute è il paesaggio raffigurante rovine classiche, elementi che Pollak aveva disegnato nel progetto per il giardino: una veduta raffigura le terme (che non vennero realizzate) ed un un’altra la casa dell’ortolano (realizzata), elementi che riprendono i due temi di fondo del progetto pollackiano: l’Ospitalità e l’Agricoltura:
“Così, in un ambiente immaginario ma con vivo richiamo all’essenza del paesaggio reale, egli raffigurò due significativi elementi del progetto del giardino: uno – la casa dell’ortolano – reale ed agricolo, l’altro – le terme, destinate al piacere del vivere in villa – solo ideato dal Pollach e mai realizzato” (4).
In alcuni locali adiacenti il salone centrale, spiccano per la loro particolarità alcune pareti rivestite da papier peints francesi, carte da parati decorate a tempera, i cui colori nonostante il passare del tempo hanno mantenuto una straordinaria vivacità.
Una piccola saletta, adibita a locale di studio, presenta un più realistico diorama di Parigi, ove sono chiaramente riconoscibili alcuni fra i maggiori monumenti della città: quasi una sua sintesi, in termini di pre-moderna simultaneità. Idee proiettate nello spirito enciclopedico ed universalistico di quel periodo (Perogalli, cit.).
IL PROGETTO DEL GIARDINO
Si è già detto dell’idea ispiratrice di tutto il giardino, concepito come luogo in cui utile e bello si fondono, dove l’utilità della campagna, con i suoi frutti, si concilia al bello per il diletto dell’anfitrione e dei suoi ospiti.
Come anticipato qui, “L’origine montanara di molti abitanti della zona, Pesenti compresi, spiega la gelosa cura dedicata per secoli alla terra. Si intuisce un rapporto non solo fisico ma anche ‘ideologico’ col giardino, amato, ma forse anche temuto dagli stessi proprietari come antagonista dei terreni coltivati (e quindi passato alla nuova destinazione con un’iniziale cautela ed attenzione al rapporto con la campagna circostante.) Da qui la cautela, quasi avara, con cui i campi venivano destinati al nuovo ruolo di giardino. È quindi pensabile che il binomio “agricoltura / ospitalità” che ha ispirato il Pollack ed il suo committente Pietro Pesenti non abbia soltanto uno stimolo culturale nello spirito bucolico settecentesco, ma proprio un concetto d’utilità e di rispetto della campagna, in una visione nuova, neoclassica, dell’ortus clausus, che riscatta questo ‘spreco’ di terreno agricolo” (5).
Nelle intenzioni del Pollack e del suo committente, il giardino doveva perciò essere in parte destinato alla produzione agricola ed inoltre, semplificando, “arredato” come un vero e proprio luogo di soggiorno estivo nel quale i motivi ornamentali si sarebbero alternati ad una serie di sorprese.
Il terreno destinato alla produzione agricola occupava più di un terzo del giardino e prevedeva la creazione di strutture finalizzate a coltivazioni improntate al principio pratico ma anche filosofico-politico, dell’utilità.
Da un lato, strutture finalizzate alla coltivazione di prodotti utili per la casa, ossia fiori, frutti, uva e ortaggi, con un Giardino a fiori all’olandese; diversi Potager (orti); una Casa rustica per abitazione dell’Ortolano; una Fruttiera con vasca nel mezzo; una Vigna d’Alcatico.
Dall’altro, era prevista la creazione di una Agrumera e di una Filanda (un elemento originale del giardino di Villa Pesenti-Agliardi), destinata alla produzione della seta: prodotti di elevato valore commerciale forse destinati ad un mercato esterno. La Filanda ben si accordava alla situazione agraria del territorio bergamasco nel Settecento, in cui la maggior ricchezza era rappresentata dalla seta e dove il gelso aveva tolto al vino il primato produttivo.
Dal giornale delle spese per la fabbrica di Breno dal 1793 al 1819, apprendiamo che nell’inverno del 1815 la filanda acquistata dal Moroni il 7 luglio 1814 (corrispondente al mapp. 71 della planimetria risalente al primo decennio del 1800) era stata demolita (insieme alla “casa contigua in facciata alla tinera”) “per poter usare il materiale per la costruzione del casino dell’ortolano ultimato nel mese di luglio-agosto” (l’esistente casa del giardiniere nel giardino della villa progettato da L. Pollak). In quel 1815, in luogo della filanda fu costruita la tinaia.
“Il progetto originale fu modificato non realizzando la retrostante filanda prevista. Tale modifica è da ritenersi dovuta all’evoluzione delle filande, proprio in quel periodo, che da artigianali diventano industriali” (Gian Paolo Agliardi, cit.).
Pollak collocò poi il frutteto e aiuole ornamentali di verdura (potager) nel cuore del giardino, quegli stessi ortaggi richiamati negli affreschi del salone centrale della villa.
Dai disegni conservati nella villa emerge come la progettazione del giardino fosse meticolosamente estesa fino al più minuto dettaglio costruttivo, comprendendo un numero straordinario di elementi architettonici e naturalistici, intesi forse a “recuperare, concentrandola, l’esperienza delle grandi ville romane, proiettata però nello spirito enciclopedico ed universalistico del proprio tempo” (Perogalli, cit.).
Vengono infatti recuperati elementi archeologici, egiziani e classici (obelisco, templi, terme), romantici (per alcuni cenni che rievocano l’architettura castellana, rustica), speleologici (con la formazione di una grotta), esotici (con aiuole realizzate con fiori olandesi, l’agrumeria, «qualche pianta pregevole forestiera»); industriali (con una filanda munita di 24 fornelli), scientifici (per la possibilità di misurare il tempo attraverso un orologio solare) ed inoltre motivi simbolici e celebrativi quali un Monumento della Libertà in Italia, un Tempio della Pace ed uno del Silenzio (quest’ultimo realizzato), riservando alcuni margini all’iniziativa del committente.
A evidenziare l’originalità del progetto per Villa Pesenti-Agliardi rispetto ad altri progetti del Pollak (Montecchio e Riva di Chieri) basterebbero la filanda, l’edificio dei bagni, la piazza dei pini a cima, la sala a verde con piante “forestiere” e la torre del belvedere.
UNA VISIONE D’INSIEME
Il terreno destinato a giardino si sviluppava in modo irregolare e disarmonico a sud-est della casa; l’architetto doveva quindi sottrarre la disarmonia agli occhi del visitatore.
In asse con la casa, disegnò lo spazio regolare della corte, dividendola visivamente dal resto del giardino.
Il giardino venne disegnato sulla base di un ideale triangolo equilatero avente per vertici le tre piazze: oltre a quella circolare (Obelisco), quella semipoligonale a nord-est (cui avrebbe dovuto corrispondere il portico fra i due tempietti) e quella ottagonale (la “Fruttiera”) a meridione.
All’interno della composizione la rotonda dell’obelisco svolge quindi l’essenziale funzione di snodo e di congiunzione tra la corte ed il giardino e diviene il punto di riferimento non solo spaziale (la sua punta è visibile da tutto il giardino) ma anche simbolico-politico con l’allusione alla Repubblica, tema già espresso nell’affresco del Bonomini al centro della volta della terza sala al piano terreno.
Per ovviare al rischio di un eccessivo affastellamento delle costruzioni architettoniche, Pollak dispose tutti gli edifici (la lunga serra, la casa dell’ortolano con la filanda retrostante, la grotta, l’edificio delle terme, il “Tempio della Pace” e il “Tempio del Silenzio”) lungo il perimetro del giardino, con il vantaggio, da un lato, di sfruttare al massimo l’estensione interna dello spazio a sua disposizione e, dall’altro, di catturare l’attenzione del visitatore celando nello stesso tempo parti del muro di cinta.
Com’era uso nei giardini inglesi, le macchie di vegetazione completavano la mimetizzazione del muro, in modo che il visitatore non avesse la sensazione di trovarsi in un luogo limitato. Dove sorge il Tempio del Silenzio, una fitta e irregolare parete di carpini invita lo sguardo a spaziare verso l’ampio anfiteatro della collina coltivata a vite, oltre la quale l’occhio è attirato dalla torre posta a metà della salita acciottolata che conduce al Santuario.
Bisognava anche cercare di estendere lo spazio del giardino all’esterno dei confini della proprietà e adottò alcuni accorgimenti per dilatare illusionisticamente la percezione dello spazio.
Collocò la vite a nord, nei pressi del muro di cinta, così da suscitare la sensazione di continuità tra la vite del giardino e quella coltivata sul pendio della retrostante collina, dominata dal profilo del Santuario. La dimensione virtuale del giardino era l’intero paesaggio circostante con cui il Pollak seppe sapientemente rapportare il giardino reale.
Verso la pianura, creò due aperture nel muro di cinta, grazie alle quali si poteva allungare lo sguardo sulla campagna circostante e collocò sull’angolo estremo del giardino una Torre o Belvedere da cui osservare tutta l’estensione del giardino e la campagna circostante.
GLI ALLINEAMENTI PROSPETTICI E IL GIOCO DEI RIFERIMENTI SIMBOLICI
Come rilevato da Ginevra Agliardi, una fitta rete di sottilissime linee rosse tracciate sulla planimentria, evidenzia un gioco di quinte, cannocchiali ottici e prospettive entro le quali Pollak ha allineato un gioco di riferimenti simbolici, allusivi a quei temi cari al commitente espressi anche nelle sale della villa.
Un asse parte dall’ingresso principale, attraversa l’obelisco e termina nel Tempio della Pace. “Torna qui il riferimento a quel ‘aureo regime nascente’ portatore di Pace, simboleggiato nella villa, come già accennato, dal ‘guerriero a riposo'”.
L’Ara collocata tra l’obelisco e il tempio si riferisce probabilmente “ai ringraziamenti che gli antichi offrivano per le vittorie”.
Vi è poi un lungo cannocchiale prospettico che dalla rotonda dell’obelisco permette di scorgere un Vaso cinerario. Tale sottolineatura “conferma l’ipotesi di un significato simbolico che lega i due monumenti. Si tratta forse un riferimento a coloro che persero la vita per la conquista della libertà politica”.
Infine, Ginevra Agliardi ha scoperto “che il Tempio della Pace posto all’estremità dell’asse principale, appare idealmente congiunto al Tempio del Silenzio posto all’estremità dell’asse secondaria”.
“L’esattezza delle linee che si possono tracciare sulla planimetria e il triangolo che ha come vertici i due templi e il centro della corte e come lati i due viali, confermano la non casualità dei riferimenti: pace e silenzio dopo la guerra contro l’oppressore”.
DAL GIARDINO OTTOCENTESCO AD OGGI
Pietro Pesenti morì giovane lasciando la villa in eredità alla nipote, Marianna Pesenti che sposò il Conte Paolo Agliardi (6). Dopo la morte d Marianna, suo figlio, Conte Giovanni Battista Agliardi, ne divenne proprietario e negli anni 1875-1880 trasformò l’incompiuto giardino in chiave romantica all’inglese con l’uso di molte essenze di pregio, di cui talune esotiche.
Il ricco corredo fotografico della famiglia Agliardi offre un’idea del giardino prima e dopo l’impianto romantico, nonchè validi indizi riguardo la datazione delle piante superstiti più importanti.
Sullo sfondo mutevole del giardino è poi piacevole vedere l’intrecciarsi di “episodi di vita e di amore familiare” che abbracciano sei generazioni. Qui fu scattata la fotografia di Maria Montessori che, divenuta la fotografia ufficiale della Dottoressa, fu stampata sulle vecchie banconote da 1.000 lire. Vi venne ospitato anche Papa Giovanni XXIII quando ancora era Patriarca di Venezia.
Come giustamente sottolineato da Gian Paolo Agliardi, il giardino neoclassico, anche se non realizzato per intero ha lasciato una profonda traccia per la sua forte carica progettuale, condizionando felicemente anche l’evoluzione del giardino romantico. Traccia che è riaffiorata nel tempo con la morte di alcune piante ultracentenarie e che, tra l’altro, ha contribuito a mantenere quel “dialogo” tra il giardino e il paesaggio collinare, che è stato uno dei temi di fondo del progetto del Pollak.
Prima del giardino romantico
Nell’autunno 1867, probabilmente in occasione del compleanno del figlio minore Gian Battista fu realizzato un bel sevizio fotografico divenuto un importante documento della fase che precede l’impianto romantico, di cui possiamo cogliere alcuni dei tanti aspetti.
Ad esempio, la parte antistante la casa dell’ortolano era a frutteto ed orto, la limoniera non era stata ancora realizzata e la rotonda attorno all’obelisco era completamente circondata da piante, probabilmente ippocastani, molto più alte e ravvicinate rispetto a quelle progettate dal Pollak.
Il giardino romantico
Appassionato di fiori e di piante, Giovanni Battista Agliardi dimostrò la sua competenza attraverso una scelta qualificata di essenze di pregio, di cui talune esotiche (soprattutto conifere), secondo la moda del tempo: cedri, cipressi, Chamaecypearis, sequoie, tassi..
Ci si chiede se dalla grande amicizia di Giovanni Battista con casa Piazzoni – che il quel periodo avrebbe impiantato il bellissimo Parco poi divenuto Marenzi in via Pignolo -, possono essere derivate influenze culturali e forse progettuali.
E’ comunque possibile datare l’impianto del nuovo giardino grazie agli acquerelli di Gio. Madone, del 1883, dove si nota la giovane età dei Cedri e delle Sequoie. La crescita, talvolta imponente, di alcuni alberi ha prodotto effetti nell’evoluzione dei rapporti spaziali del giardino e quindi anche nel modo di vederlo e di fruirlo, così com’è tipico del giardino romantico.
Altre foto del 1906 documentano l’evolvere del giardino romantico, che con la creazione di grandi quinte verdi, specialmente di conifere, si estraniava sempre più dall’ambiente circostante e quindi dal disegno pollakiano.
Nel frattempo, le due palme in facciata vennero abbattute perchè non piacevano già più alla generazione successiva, come si apprende dalla corrispondenza del 1916 tra Giovanni Battista Agliardi al fronte e le sue sorelle.
Nel corso del tempo, alcune delle piante superstiti dell’impianto ottocentesco si sono forgiate assumendo sempre più il carattere di “monumento verde”.
Tra i pregevoli esemplari di carpine bianco, uno forma sette poderose ramificazioni già a pochi metri dal suolo, tanto da somigliare ad un candelabro. Elemento di base dell’arte del giardino, il carpine bianco è spesso presente nei parchi storici ed anche nei roccoli.
Su una collinetta, in un luogo isolato, vi è un magnifico cedro dell’Himalaya facente parte dell’originario impianto romantico.
Oggi, a distanza di circa centoquarant’anni dall’impianto ottocentesco, gli alberi più antichi e prestigiosi del giardino condividono il ruolo di protagonisti con quei piccoli e grandi monumenti scaturiti dal progetto originario di Leopoldo Pollak.
Note
(1) La scritta A.R.C. I (che sta per anno primo respublicae cisalpinae) presente su un’iscrizione riportata su una “rovina architettonica” della planimetria del progetto di Pollak (ICNOGRAFIA VILLAE DICTA PRE’ A PIETRO PESENTI BERGAMI CIVES AD COMODITATEM ET SOLATIVM HOSPITVM AVCTAE ET CON ORTIS AMPLIATAE A.R.C I) suggerisce che “Il progetto venne steso da Pollach tra il gennaio e il maggio del 1798 e cioè tra l’inizio dell’anno riportato su quasi tutte le tavole e lo scadere del primo anno della Repubblica Cisalpina” (Ginevra Agliardi, Il progetto di Leopoldo Pollach per il giardino di villa Pesenti-Agliardi a Sombreno, cit. in bibliografia).
(2) Il progetto di Pollak, quasi totalmente integro, è composto da ventinove tavole acquerellate conservate nella villa di Sombreno e così suddivise: una pianta generale della villa e del giardino, venti disegni relativi agli edifici e alle vedute del giardino, tre piante, tre prospetti e due sezioni della villa (Ginevra Agliardi, Il progetto di Leopoldo Pollach per il giardino di villa Pesenti-Agliardi a Sombreno, cit. in bibliografia). Di questo progetto esistono poi vari studi che esaminano anche le correlazioni con altri giardini dall’epoca.
(3) Reminiscenze cinquecentesche non erano assenti dall’architettura di Pollak; un esempio, in ambiente bergamasco, può essere la facciata di palazzo Agosti-Grumelli che Pollak progettò nel 1797 a Bergamo.
(4) “Storia d’un giardino. 200 anni tra immagini sognate e immagini reali” – Bozza per lo studio del giardino della villa Agliardi già Pesenti in Sombreno in base alla documentezione iconografica dell’archivio Agliardi. Inoltre: “I quattro grandi paesaggi entro riquadro a sviluppo verticale sulle pareti maggiori sono una pagina altissima pur nell’inusitato rispetto dogmatico, nuova e irripetuta nello svolgimento poetico bonominiano, e danno un’altra volta la misura delle sue possibilità nel genere specifico. La luce particolare che sublima le potenzialità timbriche del colore in natura, le architetture a spinta verticale, allisciate, l’assoluto silenzio nell’aria sterile e il memento mori tra l’elegiaco e il sentenzioso dell’elemento rovina grandiosa e tenace sembrano segnare un momento di pensamenti più drammatici per l’esuberante Bonomini” (R. MANGILI, Vincenzo Bonomini…, p. 73).
(6) Dopo la prematura scomparsa nel 1826 di Pietro Pesenti e quasi un ventennio d’abbandono della villa e parco in parte incompiuti, attorno al 1840 pervennero per divisione a Marianna Pesenti Agliardi (sposò nel 1822 il conte Paolo di Bonifacio Agliardi). E’ all’ultimogenito, il Senatore Giovanni Battista (1827+1896), a cui si attribuisce l’attuale impianto del giardino (Sombreno. Storia d’un giardino, cit).
Bibliografia
Ginevra Agliardi, Il progetto di Leopoldo Pollach per il giardino di villa Pesenti-Agliardi a Sombreno. Tesi di Laurea, Università degli Studi di Milano, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 2001-2002.
Carlo Perogalli. Villa Pesenti, Agliardi a Paladina, Sombreno (Bergamo). Estratto dall’«Archivio storico lombardo» serie IX – volume VII – 1968 Milano Società Storica Lombarda, 1969.
Roberto Ferrante, Paolo Da Re, Ville Patrizie Bergamasche, Bergamo, Grafica e Arte Bergamo, 1983, pp. 45-51.
Gian Paolo Agliardi, Vita di un giardino e nel giardino. In: I grandi Alberi. Monumenti vegetali della terra bergamasca. A cura di Gabriele Rinaldi. Provincia di Bergamo, Grafo, 2006, p. 131
Superato il cocuzzolo di San Sebastiano e discesi nella conca di Fontana, ci si ritrova di colpo in un’oasi agreste: la piana di Val Brembo, un unicum paesaggistico di grande importanza compreso tra l’ombra della Piègna – propaggine che separa la conca di Astino da quella di Fontana – e l’estremo sperone occidentale dei Colli di Bergamo che digrada dolcemente sino a Sombreno.
Inoltriamoci lentamente nella valle distesa tra i campi ed il pendio che conclude a nord-ovest il piccolo sistema della dorsale dei Colli, adagiandosi sul terrazzo fluviale solcato dalla tenue orlatura del torrente Quisa.
Se i versanti sono ricoperti da fitti boschi, soprattutto verso la parte sommitale (querceti, carpineti, robineti e castagneti), i pendii dell’ampia conca di Fontana, ricca di acque sorgive, lasciano spazio alla trama dei numerosi terrazzamenti coltivati e punteggiati qua e là da piccoli nuclei abitativi e da case padronali o rurali.
Al centro della conca spicca l’antica cascina Rebetta con la sua torre, e la cinquecentesca chiesa di S. Rocco, un tempo legata alla chiesa matrice di S. Grata inter vites.
Nella larga maglia dei campi agricoli possiamo ancora leggere il reticolo degli antichi tracciati: quello preromano della transumanza, da Mozzo ad Almè, che conduceva ai pascoli brembani (un asse che, proseguendo verso sud, sarebbe poi divenuto in epoca romana il cardo massimo della prima centuriazione del territorio bergamasco), e quello definitosi nel Medioevo, esattamente ortogonale alla via della transumanza, che collegava la forcella di S. Sebastiano (importante nodo del sistema collinare) al ponte di Briolo sul Brembo (tra Ponte San Pietro e Valbrembo) e alla Val S. Martino.
Si tratta del Rizzolo del Pascolo, un tracciato perfettamente rettilineo di cui oggi si conserva solo il suggestivo tratto acciottolato che da Valbrembo sale ripida nel bosco all’ultimo tornante di via Pascolo dei Tedeschi e da qui alla chiesa di S. Sebastiano (la “forcella” poc’anzi nominata).
Prevalgono nei boschi rigogliosi castagneti, impiantati dall’uomo per la produzione dei pali necessari al sostegno della vite coltivata sui versanti esposti al sole. Da questi alti e generosi fusti prende il nome la minuscola località a ridosso di Sombreno: Madonna della Castagna, snodo di sentieri e di strade che s’incontra percorrendo il lungo rettifilo di Fontana, divenuto importante punto d’aggregazione per chi d’estate frequenta l’area boschiva alle sue spalle, attrezzata con strutture per il pic-nic e campi per il gioco delle bocce.
Da Madonna della Castagna si può camminare sino a S. Vigilio attraverso il lungo percorso dei Roccoli, ma è ancor più facile scollinare sul versante settentrionale, nel regno dell’arenaria di Sarnico: lo “zoccolo” che dà forma alla base settentrionale dei Colli (da S. Agostino, S. Lorenzo e Castagneta fino alla Madonna della Castagna e al Santuario di Sombreno) e che insieme alle calcareniti del Flysch di Bergamo, dal caldo color nocciola, ha fornito per secoli materiale in abbondanza per la costruzione dell’antica città e dei borghi storici.
La secolare vocazione agricola del sito si spinge alla base del versante di Sombreno e sino alla piana coltivata si estendono vigneti, frutteti, orti domestici, colture di mais, giardini ed aree attrezzate per attività vivaistiche: un prezioso esempio di riuscito connubio tra natura e cultura, capace di generare grandi espressioni estetiche e naturalistiche.
Tra il ‘600 e la prima metà del ‘900 il nucleo di Breno godette di un certo benessere dovuto alla viticoltura ma soprattutto al redditizio allevamento dei bachi da seta.
La bachicoltura diede un impulso molto importante all’economia dell’area e la ricchezza di alcune famiglie, sapientemente amministrata, concorse a produrre una notevole sensibilità artistica, ben testimoniata dai numerosi monumenti storici tuttora presenti a Sombreno.
Ancora nel 1820, Maironi da Ponte nel “Dizionario Odeporico della provincia” rilevava che il terreno di Breno era fertile di gelsi, di biade, di vini sulla collina e che gli abitanti, circa duecento, erano quasi tutti agricoltori, “con diciotto possidenti estimati”.
Con la costruzione della settecentesca Villa Pesenti-Agliardi, ristrutturazione in stile neoclassico di un edificio preesistente, una parte cospicua dei terreni coltivati viene destinata dal suo proprietario, il conte Pietro Pesenti (uno dei più accesi sostenitori del nuovo corso rivoluzionario) al nuovo ruolo di giardino. Pesenti, d’origine montanara così come molti abitanti della Val Breno, compì tale scelta con cautela ponendo attenzione al rapporto con la campagna circostante.
Ed è proprio dalla gelosa cura dedicata per secoli a questa terra, che deriva quel binomio “agricoltura / ospitalità” che ha ispirato il Pollak (o Pollach) e il suo committente nella progettazione del parco (purtroppo non completamente realizzata), che ha trovato lo stimolo culturale non solo nello spirito bucolico del tempo ma anche in un concetto di utilità e di rispetto per la campagna, in una visione nuova, neoclassica, che riscatta questo ‘spreco’ di terreno agricolo.
IL NUCLEO STORICO DI BRENO
Il piccolo nucleo storico di Breno (276 m slm) (1), crebbe ai piedi del castello sul colle sino a diventare Comune (come risulta da un atto di vendita del 1169) e ancor’oggi il suo compatto impianto urbano, le cui caratteristiche risalgono al XIII secolo, mantiene una particolare integrità negli antichi tracciati e nei caratteri architettonici dei suoi edifici, anche grazie alla particolare situazione orografica a ridosso del colle.
Gli edifici, con impianto a corte, comunicano con il tracciato stradale interno, dalla forma arcuata e sotteso sulla direttrice Astino-Almè.
Quando nel 1473 i Pesenti si insediarono a Breno probabilmente acquistarono due torri, trasformandole, dopo opportuni ampliamenti, in abitazioni. Le due torri facevano parte del sistema di fortificazione del castello situato in cima alla collina (e trasformato tra il 1492 e i primi anni del Cinquecento nell’attuale Santuario): la torre medioevale che costituisce il nucleo più antico di Villa Agliardi e una seconda torre che si trovava in quella che è oggi la piazza, anch’essa inglobata in un edificio di più vaste dimensioni.
Dunque l’edificio, di chiara impronta medioevale, posto all’incrocio tra i brevi percorsi viari del centro storico, ingloba una torre a pianta quadra alquanto rimaneggiata e mozzata in altezza. La struttura muraria, con spigoli squadrati in arenaria grigia, ne sottolinea spiccatamente l’impianto.
Per la sua importanza, l’edificio, chiamato dai Sombrenesi “il Vaticano”, fu la sede del Comune di Sombreno fino al 1928, anno dell’unificazione con Paladina.
Chi erano le famiglie nobili o comunque importanti della zona? Un rilievo eseguito dall’agrimensore Gio Batta Paganelli e ridisegnata dal notaio agrimensore Antonio Gasparini di Bruntino ci rivela i loro nomi: i Moroni, i Pesenti (che a Sombreno possedevano da tempo molti terreni oltre alla villa ristrutturata nel ‘700), i Lupi, i Morandi e i Nervi.
Le prime notizie dei Moroni di Sombreno si riferiscono ai fratelli Beltramo, Gio. Antonio, Fermo Antonio e Stefano, attestati nel Cinquecento; sono i Moroni più antichi attestati a Sombreno, citati dal curato don Rota nel suo manoscritto degli anni ’50. Egli dice che tale famiglia era in Sombreno sin dal XV secolo ed aveva terre e massari.
Ritroviamo i loro nomi nel cartiglio del cosiddetto affresco Moroni, rinvenuto nel corso dei recenti (2018) restauri del Santuario, e in cui compaiono i nomi dei committenti – Beltrami e Antoni De Moroni da Breno -, accompagnati dalla data del 15 Maggio 1580.
A seguito delle rivelazioni emerse dalle recente analisi del famosa costola appesa al soffitto del Santuario, costoro potrebbero giustificare la presenza dell’osso nel sacro edificio.
Di tutti i Moroni sono anche i più misteriosi, insieme a quelli di Ponte S. Pietro: gli antenati di entrambi potrebbero essere due Moroni attestati nel 1288: un Bergamus filius quondam Guillelmi Moronum de Sorisole, e poi Ioannes Moronum de Sedrina, come risulta dalla Enciclopedia delle Famiglie Lombarde.
Tra il ‘700 e l‘800 i Moroni di Sombreno dovettero avere una notevole fortuna come setaioli e come costruttori, ingegneri e architetti, realizzando nel ‘700 un’opera di notevole interesse architettonico: Villa Moroni ora Maccari, che con la sua pianta a U s’inserisce con discrezione nella cortina edilizia della stretta e tortuosa via Bolis – l’asse interno che struttura il nucleo storico -, edificata sull’area di una vecchia cascina.
Oltre alla villa essi possedevano in Sombreno case e una filanda che era annessa alla villa sei-settecentesca, poi acquistata insieme alle case dal conte Pietro Pesenti che ne fece la fattoria che sorge accanto a Villa Pesenti-Agliardi.
LA VIA GRADINATA
Alle spalle di Villa Agliardi si diparte una via gradinata acciottolata che si insinua dolcemente lungo il versante meridionale del colle.
Lungo il percorso s’incontra a mezza costa la torre del Lazzaretto, facente parte del sistema difensivo del castello ed utilizzata nel periodo della peste del 1630.
Dal suo “Chronicus” Don Angelo Rota ci fa sapere che nonostante la peste nella Val Breno abbia seminato “molta strage”, la terra di Breno venne in gran parte risparmiata “per la buona vigilanza e perchè Girolamo Pesenti” (padre di P.M. Pesenti, fra i delegati sanitari per il Comune di Breno) “come tesoriere della Ven. Misericordia di Bergamo, vi faceva capitare assai provviste di sale e di farina da dispensarsi ai poveri. Così rimasero la maggior parte degli abitanti e i terreni furono ancora lavorati”.
La stradetta è punteggiata da santelle dedicate ai Dolori della Vergine, risalenti al 1920 ed affrescate nel 1989 di Maribea Bonzani, Angelo Capelli, Calisto Gritti, Mino Marra, Simon Morelli, Franco Normanni, Alessandro Verdi.
Lungo la salita, le cappellette si alternano a intervalli regolari sino al grande piazzale antistante il Santuario, posto all’ombra di querce secolari.
Un ultima, breve tratto conduce al portone d’accesso del Santuario, ricco di opere d’arte commissionate dalle ricche famiglie del luogo, i Carminati e i Pesenti in particolare.
Al termine del percorso acciottolato, il portone d’accesso sormontato da una lunetta con il Padre Eterno benedicente, dà il benvenuto al visitatore, introducendolo al pianoro affacciato sul vasto panorama su cui sorge il Santuario, che è composto dall’accostamento di due edifici sacri, nell’insieme quasi millenari: il piccolo Santuario dell’Addolorata (già Chiesa Santa Maria), che anticipa la Chiesa della Natività di Santa Maria Santissima.
DA CASTELLO A SANTUARIO
Il Santuario fu edificato sul sedime di una fortezza medioevale posta sul colle che domina Breno, citata per la prima volta nel X secolo quale proprietà dei Conti Calusco e Carvico, passata entro la fine del XII agli Albertoni legati alla famiglia Vertova e dal 1267 alla Chiesa di Bergamo.
Le sue remote origini riportano però a una leggenda, quella di Brenno, mitico condottiero dei Celti Senoni, nemici di Roma, la cui storia fu narrata nel XII secolo da Mosè del Brolo nel suo Pergaminus. Si narra che Brenno avrebbe fatto erigere un castelliere nella zona di Breno, proprio laddove nel medioevo sarebbe stato edificato il castello sulle cui rovine è sorto il Santuario.
E’ certo comunque che nel medioevo la fortificazione funse da avamposto del sistema difensivo organizzato sui rilievi del territorio, dai centri della Val Brembana fino alla Bastia e a S. Vigilio, con torri di avvistamento poste in collegamento sia visivo che viario, attraverso un percorso di collegamento che correva lungo il crinale del sistema collinare esteso a ovest della città, da S. Vigilio al castello di Breno.
Il tratto iniziale, fino a S. Vigilio, venne sconvolto dalla costruzione del Forte di S. Marco, mentre il tratto successivo è puntualmente documentato nella cartografia veneziana, da quella di Giulio Sorte ai rilievi realizzati dagli ingegneri della Repubblica tra Cinquecento e Seicento per gli studi di ristrutturazione e di rafforzamento della Cappella e della rimodellazione del territorio circostante fino alla Bastia per scopi difensivi.
Questo percorso doveva ricalcare un tracciato di origine romana che dalla “civitas” conduceva al ponte di attraversamento del Brembo ad Almenno, lungo strada militare romana per il Comasco e la Rezia.
Al castello di Breno era annesso, secondo le antiche consuetudini, anche un edificio religioso: la cappella battesimale di Santa Maria di Breno, (corrispondente all’attuale Santuario della Madonna Addolorata), menzionata per la prima volta in un atto del 1093e rimaneggiata nei secoli, essendo divenuta, sino alla metà del XVI secolo, parrocchiale di Breno, Paladina e Ossanesga.
Dal XV secolo, alla piccola cappella di origine medioevale (il Santuario dell’Addolorata, che cela sotto di sé esigue parti dell’antica fortificazione) fu accostata la Chiesa della Natività di Santa Maria Santissima.
Quest’ultima fu edificata tra il 1493 e il 1570 in accoglimento alla supplica degli abitanti di Breno ai Rettori Veneti della Città di Bergamo, considerata ormai inadeguata l’antica cappella del castello per accoglere il popolo che vi confluiva.
Ma che ne fu dell’antica fortificazione? Con l’avvento della Serenissima (1428), non più utile alla difesa della città (il confine territoriale si era spostato lungo la sponda dell’Adda) essa aveva cominciato ad essere smantellata e sappiamo che le demolizioni erano ancora in atto nel 1621 (2).
DALLA PARROCCHIALE ALLA “FATTORIA”
Ai margini meridionali del nucleo di Sombreno si trova la chiesa parrocchiale dei Santi Fermo e Rustico, costruita nel 1739 (forse su progetto del Caniana) sui resti di una chiesa cinquecentesca, della quale rimangono ancora tracce di affreschi datati 1482.
Alle spalle della parrocchiale si trova invece Casa Agliardi, una antica e misteriosa dimora chiamata “Casa e brolo alla Chiesa di Breno” in un vecchio cabreo del 28 marzo 1814. Venne acquistata dal conte Pietro Pesenti nel 1813 ad un’asta dei beni di tal Pietro Giacomo Moroni e fu ristrutturata negli anni ’60 dall’arch. Ajardo Agliardi, che la riportò al suo antico armonioso aspetto, per divenire l’abitazione del fratello Gian Paolo.
La villa è arredata con mobili d’epoca e vi sono parecchi quadri del ‘600: Evaristo Baschenis, Salvator Rosa, Barbello, Cifrondi e quattro tele rustiche d’un anonimo fiammingo che ritraggono scene cortesi ambientate pare in Olanda. Vi è poi una tela, di pittore ignoto, che documenta il paesaggio dei dintorni di Sombreno nel tardo Seicento. A ciò si aggiungono opere di Maratta, del Piccio e di Costantino Rosa.
Il piccolo giardino è costituito da essenze tipiche dell’epoca e del luogo: carpini, querce, tassi e arbusti da fiore e bacche ed è ispirato ai roccoli, un tempo numerosi sulle colline circostanti, ma nel contempo riprende i motivi ad archi della villa.
Infine è significativo l’edificio denominato “Fattoria” che si trova in via Agliardi, via d’accesso all’omonima Villa che prende le mosse dalla piazzetta centrale del paese.
L’edificio, un bellissimo esempio di dimora padronale del ‘600 costruito dalla famiglia Moroni, proprietaria dell’adiacente Filanda, era stato acquistato da Pietro Pesenti ed adibito a casa del fattore. Tale uso è rimasto sino agli anni Novanta quando è cessata l’attività agricola a Sombreno.
Torneremo a breve in questi luoghi, alla scoperta del Santuario e di Villa Pesenti-Agliardi, nella tenue luce di una sera ottobrina.
Note
(1) “Sombreno, con la denominazione di Brene (e in seguito Breno), fu comune autonomo nel XIV secolo, e tale rimase sino al 1798, anno della prima aggregazione a Paladina. Fu nuovamente autonomo tra il 1805 e il 1809, quindi venne aggregato a Bergamo sino al 1816. In seguito rimase autonomo sino al 1929, anno della definitiva aggregazione a Paladina. L’attuale denominazione di Sombreno venne adottata nel 1864” (Alberto Castoldi, Bergamo e il suo territorio, Dizionario Enciclopedico, Bergamo, Bolis Editore, 2004, pp. 735-736).
(2) Nel 1621 viene concesso a un abitante di Breno di costruire un muro di cinta tra i beni della chiesa situati in cima al monte e il ronco di sua proprietà, servendosi dei sassi ricavati dall’abbattimento “di quella mura vecchia chiamata il Torrazzo esistente nel detto pezzo di terra di ragione del beneficio”.
Riferimenti principali
– Il Parco dei Colli di Bergamo – Introduzione alla conoscenza del territorio, capitolo “Caratteri urbanistici e presenze architettoniche”, Graziella Colmuto Zanella.
– A cura di Andrea, Luigia e Pietro Gritti, “Almè, l’antico nucleo e il territorio”, 1997.