Il ponte che ancor oggi regge validamente il traffico di via Borgo Palazzo fu costruito nel 1550, ma la presenza di un ponte sulla Morla, proprio là dove oggi sorge l’attuale, è sicuramente antichissima. Lasciamo stare la solita storiella di chi lo volle innalzato su ordine di Carlo Magno: quella di voler nobilitare edifici e monumenti attribuendoli a grandi personaggi del passato, era un’abitudine piuttosto diffusa.
In realtà, il ponte cinquecentesco fu rifatto al posto di un altro che aveva un livello più basso. L’ing. Fornoni nelle sue “Vicinie” precisa che, sul finire dell’Ottocento, in occasione dello scavo per una fognatura, ad oltre un metro al di sotto del piano attuale venne trovato il lastricato della strada antica: l’antico ponte era piantato a filo della casa sull’angolo con la via Madonna della Neve, per cui la strada era tutta letto del torrente.
La statua collocata sulla spalletta orientale del ponte risale al 1747 e rappresenta San Giovanni Nepomuceno, il santo polacco che, torturato e buttato nella Moldava dal celebre ponte Carlo IV di Praga, venne eletto patrono e protettore non solo (o non tanto) dei ponti, come si crede, bensì di tutte le persone in pericolo di annegamento. In seguito la sua protezione venne estesa anche ai confessori (il perché lo scoprirete leggendo la didascalia sottostante, che dobbiamo a Tosca Rossi).
La sua storia così come il modo in cui venne martirizzato giustificano quindi la consuetudine di collocare una statua che lo ritrae sopra i ponti fluviali, intento ad adorare il Cristo crocifisso, messo bene in vista per la devozione di chiunque si trovasse a transitare in quei luoghi: oltre al ponte sul torrente Morla, a Bergamo e provincia molte sono le sue presenze, tra cui ad esempio sul ponte di Gorle o a Trescore Balneario.
Il nostro, realizzato in Pietra di Zandobbio ed elevato su un alto piedistallo, è privo di aureola ma calza il copricapo distintivo; è vestito dell’abito talare, della cotta e dell’almuzia impreziosita da un’alta fascia in pizzo, aperta sul petto e alzata alle estremità dal gesto che porta all’orazione visiva e mentale del Cristo.
La scolpì Giovanni Antonio Sanz (lo stesso che ritrasse le allegorie delle quattro stagioni e delle Arti Maggiori di Palazzo Terzi in Bergamo Alta) per esaudire il desiderio di un nobile residente nel borgo, il conte Gerolamo Albani (tenente maresciallo e cameriere della Chiave d’Oro di sua Maestà Imperiale), il quale, morto il 20 agosto 1747, lasciò per testamento che si ponesse una statua di San Nepomuceno, lasciando l’incarico al fratello Carlo.
La statua fu realizzata quello stesso anno, includendo il nome del conte nella specchiatura affacciata sulla via, recando la scritta seguente: PER TESTAMENTO / DEI CONTI / GIROLAMO ALBANI / I MARESCIALLO / CESAREO / MDCCXLVII.
IL PONTE E LE SUE “MACCHIETTE”, ANIME DEL BORGO
Borgo Palazzo ebbe i suoi personaggi e anche le sue macchiette. Figure pittoresche, che hanno lasciato una traccia nella cronaca spicciola e in qualche racconto. Una di queste, celebre nei primi decenni del Novecento, sia nel borgo che in tutta Bergamo, fu Giovanni Servalli detto “ol Barba”, “il principe delle macchiette bergamasche, principe lustrascarpe”, come definito dal giornalista Giovanni Banfi in un opuscolo del 1920. Anche il poeta Guerrino Masserini, “Ol Girù”, si è occupato del Servalli. Ma è il ritratto delicato di Geo Renato Crippa, a restituire a Servalli, al di là di ogni faciloneria, la dignità che gli spetta, quella cioè di un uomo sensibile e sfortunato.
Descritto come pazzoide e accattone dignitoso, con una gran barba profetica, il lustrascarpe ed attacchino Servalli era un oratore spassoso, incarnando a meraviglia la parodia oratoria. Con il suo berrettone calato sulla fronte e l’ampia palandrana, soleva intrattenere gli avventori nel recinto della vecchia Fiera, dove innalzava una tribuna improvvisata convinto di rivolgersi “al colto pubblico”, cui proclamava la propria nobiltà.
Sosteneva di essere un figlio bastardo della “gloriosa casa Giovanelli di Venezia” e di essere giunto in città da una grossa borgata di montagna, dove quella famiglia, un tempo di famosi commercianti s’era talmente avvantaggiata, in mercature nell’Oriente, da richiedere alla Serenissima titoli nobiliari e cavallereschi. Vantando l’appartenenza al lignaggio principesco, finiva col parlare di tutto, stralunando ogni tanto gli occhi e volgendosi impietosito al cielo, gesticolando con solennità, come un patriarca.
I suoi discorsetti pomposi erano per lo più un caotico aggrovigliamento di idee d’ogni sorta, buttate fuori alla brava, con parole in lingua italiana non certo ossequienti ai precetti della Crusca. Non si potevano ascoltare alcune delle sue frasi senza abbandonarsi ad una irrefrenabile ilarità, scatenata dalla sua potenza comica e dalle inflessioni della voce, Il Servalli continuava allora il suo proclama sottolineando la serietà degli argomenti ed esclamando “L’è roba internazionale!”.
Agghindato di stagnole e nastrini, girava l’intera città rullando su un tamburello che gli era stato donato dai componenti della fanfara degli alpini. Circa gli itinerari da percorrere non sbagliava giorno ed ora: alla periferia di dedicava il mattino, ai borghi il pomeriggio, al tramonto raggiungeva il centro cittadino picchiando a più non posso il suo strumento. Di tanto in tanto emetteva una parola di saluto e se incontrava persone di sua conoscenza, ma molto rispettate e riverite, il rullio del tamburo prendeva tono solenne, seguito da silenzi ritmati durante i quali, da fermo, pronunciava cenni d’ossequio ripetuti con calma dignitosa. Possedeva, il Servalli, regole di galateo di sua invenzione, sostenute con toni tra il religioso e il melodrammatico.
Appena faceva buio, se ne tornava in Borgo Palazzo, suo dominio incontrastato, e all’imbrunire si recava al ponte della Morla reggendo una scala pioli, che saliva per accendere una lampada ad olio innanzi alla statua di San Giovanni Nepomuceno, protettore dei ponti e delle acque.
Soddisfatto della sua buona azione quotidiana, rincasava con la scala a spalla; la sua stamberga era luogo di abituale convegno di topi e di gatti, educati – diceva egli stesso – ad un fraterno vicendevole amore. Si seppe poi, allorché egli passò a miglior vita, come la sua povera dimora, che era accanto ad una stalla, fosse pulita ed in ordine, il giaciglio tenuto con cura, le casse e le cassette per riporre la sua roba, linde e divise con accuratezza, giornali e cartoni ammucchiati con esattezza in un angolo. Lo stanzone era illuminato da una finestra che dava su un’ortaglia e la porta aperta sul retro di un “cortilone” d’osteria, con gioco delle bocce, usato nel passato per radunare greggi e mandrie di passaggio. Il silenzio non veniva rotto che la domenica, le sere d’estate e nei giorni di mercato. Appeso a un chiodo pendeva il tamburo. Accanto un tascapane zeppo di libriccini e foglietti che celavano poesie e canzoni che il Servalli cantava nei giorni di sagra, sugli sterrati dei paesini o sui sagrati delle chiese. Dopo lo strazio subito da suo cuore, di pretesti amorosi egli non volle mai saperne: bastavano le storie di re e regine, principi e principesse, marchesi e conti, castelli, foreste, ruscelli, fonti, uccelli variopinti. Fiabe leggere leggere, oneste, dense di umanità, umili, trasognate e innocue. Di lui si conserva ancora un vivido ricordo.
Più modesto un altro personaggio, “ol Fioruna”, che percorreva il borgo e lo stradale di Seriate tutto infagottato con un cappellaccio a piuma, sempre scuotendo un campanello. “Trin trin ‘l passa ol Fioruna, che quando ‘l viasa al suna”.
Anche lui raggiungeva il ponte della Morla ma, mentre il “Barba” Servalli vi si attardava con la sua barba profetica per accendere il lume sulla statua del santo, il Fioruna, che viveva di carità e si sborniava di frequente, utilizzava il ponte, o meglio, uno dei suoi archi, per passarvi la notte. Morì nel vicino manicomio.
E poi c’era “ol Roco de Borg Palass”, che aveva una propria dimora all’Albergo popolare. Era sempre infagottato in vestiti più grandi di lui, con certe calzature scalcagnate. Lo si vedeva sempre correre borbottando frasi, certo, nell’intenzione di erudire i passanti sui fasti o insuccessi della sua grande Atalanta; poi via di corsa svettando a destra e a sinistra, stralunando gli occhi. Si accontentava di qualche pezzo di pane, che condiva con l’immancabile “repubblica” che otteneva facilmente e con larghezza dai bottegai della città. Non si lamentava mai di questa sua vita grama. Gli bastava essere libero di borbottare le sue preferenze atalantine.
Ultimo di questi singolari personaggi che si addentravano dalla periferia nei borghi, ma raramente per giungere fino in centro, fu il “Gioanì de Tor”. Doveva risiedere a Torre Boldone, o esservi nato, ma nessuno lo seppe mai con precisione. Era un ometto che portava anche d’estate un cappotto sdrucito e un largo cappello. Più alto di lui, un grosso bastone intagliato gli conferiva come una statura diversa. Scomparve improvvisamente. Un giorno nessuno lo vide più. Forse era più vecchio di quanto non si credesse ed era finito in qualche ricovero. O forse non gli era riuscito di superare qualche malanno dell’ultimo inverno. Oggi per lui, sull’asfalto, nel traffico, nella periferia senza più orti e pollai, non ci sarebbe più posto.