Verso la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, nei locali della Fiera che si affacciavano su Sentierone fiorivano quattro splendenti caffè-ristoranti: il Gambrinus, verso la chiesa di San Bartolomeo, punto di ritrovo dei giornalisti e dei tifosi di sport: calcio e soprattutto ciclismo; il Centrale, all’ingresso della Fiera, frequentato da professionisti ed impiegati e più tardi trasformato in Cinema Centrale; il Bramati, ritrovo preferito di alcuni giornalisti, frequentato da pensionati e da studenti e sede di dibattiti e comizi politici. Ultimo, ma non ultimo, il Nazionale, presso il torresino che guardava verso Porta Nuova, più o meno nella stessa posizione in cui si trova l’attuale: era frequentato dalla gioventù “bene” e grazie al vulcanico Pilade Frattini divenne il centro della vita mondana della città, o meglio, il simbolo della Belle Époque in salsa orobica.
IL CAFFE’ GAMBRINUS
Presso il torresino della Giustizia, e proprio tra le ultime botteghe affacciate sul Sentierone, era il Gambrinus, vicino alla chiesa di San Bartolomeo. Caffè alla moda e punto di ritrovo dei giornalisti, era frequentatissimo dai commercianti ma soprattutto dei tifosi di sport: durante le corse di ciclismo, il Gambrinus era il centro delle informazioni sull’andamento delle competizioni.
Fra i giornalisti, alcuni si salutavano fraternamente, altri si guardavano in cagnesco dopo essersi lanciati accuse ed insulti sulle colonne dei rispettivigiornali. Tra i tifosi di sport invece, il più appassionato era certamente il Gamba, il suo eroe era Enrico Brusoni, allora campione italiano del ciclismo su strada.
Ma questo caffè era soprattutto rinomato per le battute umoristiche che partivano dal cosiddetto tavolo degli aristocratici, attorno al quale convenivano verso sera l’avvocato Giuseppe Brignoli, il dottor Francesco Negrisoli, il giornalista-scrittore Giovanni Banfi, lo scultore Alfredo Faino, che non era ancora partito per la Francia e che aveva il domicilio in Fiera.
La tavola del Gambrinus era la calamita di quei clienti che cercavano l’allegria come aperitivo all’ora del pranzo. La sorgente del buon umore partiva dalla triade Banfi, Faino Brignoli, quest’ultimo umorista più unico che raro.
Nella bella stagione aleggiava lungo il Sentierone il suono delle orchestrine che si esibivano all’aperto per i clienti dei Caffè. Si udivano i valzer viennesi di Strauss e quelli parigini di Waldteufel, la napoletana “Santa Lucia” e il “Sogno” di Schumann, le melodie della “Vedova allegra” di Franz Lehar, le note della celebre barcaiola di Offenbach; in certe sere domenicali si potevano ascoltare un tenore o un soprano intonare raffinate melodie, oppure un bravo violinista creare atmosfere piene di magia. Il blues, il dixieland e i ritmi sincopati erano ancora di là da venire (2).
I componenti di questi complessi musicali erano giovani professionisti diplomati, che avevano alle spalle anni di studi rigorosi e che tuttavia non disdegnavano di suonare nei café chantant o nelle sale cinematografiche quando si chiudevano i sipari sulle ultime rappresentazioni delle varie stagioni operistiche cittadine (quella di carnevale al Nuovo, quella di mezza quaresima al Sociale e quella di Fiera al Donizetti). Tra questi suonatori, Oreste Tiraboschi (che dal 1913 faceva parte dell’orchestra “Gaetano Donizetti” diretta dal maestro Achille Bedini), che aprì più tardi un negozio di strumenti musicali. Renzo Avogadri (Rasghì), celebre componente del Ducato di Piazza Pontida, era al violino.
IL CAFFE’-RISTORANTE CENTRALE
Il Centrale seguiva al Gambrinus. Caffè-ristorante di buona nomea, era frequentato da numerosi professionisti e da impiegati di concetto, che qui convenivano coi gruppi familiari per “ciacole” serali e per combinare lunghe partite a scopa, partite di “famiglia” che duravano fino alla chiusura dell’esercizio.
Ma un giorno del 1914 il Caffè Centrale, condotto da Bernardo Speranza e da Giuseppe Tiraboschi detto Dindo, cessò la sua attività. Nel locale, opportunamente riattato, il 15 agosto iniziarono le proiezioni del Cinema Centrale, diretto da Pietro Airoldi, lo stesso gestore del Cinema Salone Radium, il primo cinematografo di Bergamo. Dopo aver dato – fra l’altro – alcuni “numeri” di varietà, tutti sboccatucci e licenziosetti, il Centrale, acquisito da Giulio Consonno, ridimensionò i richiami erotici e dirottò la programmazione verso il repertorio poliziesco. Giulio Consonno darà nuovo spazio agli spettacoli di varietà prima rilevando il Teatro Nuovo e poi edificando il Teatro Duse.
Quando la vecchia Fiera verrà demolita e sorgerà il nuovo centro di Bergamo, il Cinema Centrale sopravviverà all’angolo del Quadriportico del Sentierone.
IL CAFFE’ BRAMATI
Il Caffè Bramati si apriva dopo il cancello della seconda tresanda. Il proprietario era il signor Camillo, un ometto sempre serio, dignitoso, con un berretto di seta nera con visiera in testa e leggermente claudicante. Di lui il Pelandi ricordava (anche) i gustosi spuntini: prosciutto cotto alto un dito, innaffiato da un certo vinello frizzante, al prezzo di una lira, mancia compresa.
Il “Bramati” era il ritrovo preferito di alcuni giornalisti di quel tempo e fra essi, Carlo Zumbini, il direttore della “Gazzetta Provinciale”, il battagliero competitore di Parmenio Bettòli, allora direttore-proprietario-fondatore della “Nuova Gazzetta”. La “Provinciale” parteggiava per il partito moderato conservatore, l’altra doveva essere l’organo del partito monarchico liberale. La lotta fra i due giornali, o meglio fra i due giornalisti, fu decisa, aspra, senza quartiere. Altro habitué era Francesco Scarpelli, che dirigeva il “Giornale di Bergamo” ma fu costretto a lasciare la nostra città perché inviso ai fascisti.
IL CAFFE’ NAZIONALE
Di tutti, il Nazionale era il più rinomato. Il caffè ristorante occupava parte del torresino rivolto verso Porta Nuova ed altre botteghe sino al primo cancello della Fiera.
Il locale era stato rilevato da Pilade Frattini, un impresario dotato di tanta originalità ed inventiva, geniale scopritore di talenti ed organizzatore impareggiabile di molti spettacoli teatrali.
Capitato a Bergamo intorno al 1900, l’aveva rilevato da Pietro Balicco, che a sua volta l’aveva acquistato nel 1894, trasformando la Trattoria della Speranza in Caffè Nazionale.
Il Frattini mise al banco della cassa Emilia, la consorte – un’affascinante bionda – e per richiamare gente assunse in servizio, in qualità di camerieri, degli autentici cinesi, vestiti all’orientale: tutta la città parlava divertita di questi camerieri esotici, che incuriosivano per le ciabatte dipinte, i paludamenti sgargianti e i capelli raccolti a codino.
Frattini introdusse i concerti musicali “senza aumento delle consumazioni”, si inventò svariate iniziative che ora definiremmo di marketing e cercò, riuscendoci, di far sì che il Nazionale fosse più di un esercizio pubblico, ma il centro della vita mondana, artistica e intellettuale, portandovi una ventata di aria metropolitana.
All’interno del locale, oltre a riservare alcune salette al gioco – sua perenne e fatale passione -, Frattini fece un teatrino di varietà, una specie di “cabaret” nel quale si esibì per una quindicina d’anni il fiore dei cantanti famosi, dei musici, delle soubrette, delle ballerine, dei comici e dei giocolieri dell’epoca. Per il suo teatrino aveva costruito persino i camerini degli artisti ed un apposito fondale.
Scriveva Geo Renato Crippa che a frequentare il locale erano “i ricchi di città e di borgate, la crème della nobiltà, i viveurs e gli elegantoni, quelli che portavano il cappello verde, gli abiti confezionati da Prandoni in Milano, calzavano le scarpe del classico Assuero Rota di Città Alta, frequentavano il Cappello d’Oro ed il Concordia di Viale Roma, magari sostenevano ‘donnette’ di qualche avvenenza, pagandole a ‘mesata’ (era molto chic), non mancavano ogni mattina, sul tardi, di sbarbarsi dal barbiere ‘Biffi’ di Via Torquato Tasso”. Questi signori, potevano in verità vantarsi di una visitina – una volta tanto – “al Cova, al Savini od al Bonola di Milano, ai Casinò di San Remo o di Montecarlo, celando tali scappate alle fedelissime consorti, alle fidanzate, alle madri intransigenti e sospettose.
Al Nazionale arrivavano, in gruppo, per l’aperitivo; non più il ‘bianchino’ delle trattorie, del Garibaldi o del Gambrinus, bensì il Campari, il Carpano, il Cinzano ed il Martini o, più fine ancora, il Costumé Cannetta , un rosé milanese di classe”.
Alle cinque del pomeriggio qualche elegante divetta ingaggiata dal Frattini si degnava di fare un’apparizione lungo il Sentierone per farsi ammirare dagli snob. Le dame dell’aristocrazia e le signore della borghesia sbirciavano passeggiando sussiegose e le loro occhiate tradivano fuggevolmente l’invidia.
Nel 1906 al Nazionale arrivò persino il cinematografo, o meglio, il Cinematografo Ungari, che proiettava “vedute modernissime, riflettenti fatti seri di attualità, educativi, istruttivi, nonché aneddoti umoristici”.
Al café chantant di Pilade Frattini giunse anche Gea della Garisenda, bella e agilissima. Il suo “Inno a Tripoli” fu un trionfo. Il pubblico andò in visibilio vedendo la brunetta emiliana entrare in scena con un cappello da bersagliere in testa, nuda sotto una grande bandiera tricolore, che l’avvolgeva tutta, ed ascoltandola effondere la generosa voce di mezzo-soprano nelle note marziali di “Tripoli, bel suol d’amore…”.
Pietro Mascagni, a Bergamo per assistere ad una recita della sua “Cavalleria”, che si dava al Donizetti sotto la prestigiosa direzione del napoletano Leopoldo Mugnone, volle godersi lo spettacolo della ”diva” seduto in prima fila nel teatrino del Nazionale.
Quando l’estroso e geniale caffettiere, che dal 1908 dispose di un aereo personale, diventò impresario, con Giovanni Ceresa, del Teatro Nuovo, non finì di far strabiliare. Da buon impresario teatrale (suo a Roma il teatro Frattini), gestì il Nuovo in prima persona, facendone uno dei teatri italiani più vivi e à la page, trasformandolo in un vero e proprio centro d’attrazione per ogni genere di spettacoli. Grazie a lui il teatro divenne la sala più polivalente della città, rendendo memorabili i primi anni del Novecento.
Quando a San Pellegrino si aprirono le sale da gioco, Frattini era il patron del Casinò: alla sua esperienza, alla sua vivace spregiudicatezza ricorsero i promotori e gli organizzatori. Fra lo sfoggio degli smoking e lo sciupio dello champagne, un fiume di denaro affluì da Milano al centro termale brembano. ll patron tentò qualche colpo al banco da gioco ed ebbe fortuna.
Poi venne la guerra del ‘15-’18, con le inevitabili restrizioni; bardature, oscuramento, tesseramento, limitazioni di generi di lusso. Il Nazionale languiva. Dopo la disastrosa rotta di Caporetto, arrivarono anche a Bergamo numerosi militari feriti e si allestì per loro una infermeria nella sede del vecchio Ricovero delle Grazie. La gente non pensava più a divertirsi.
All’inizio del 1917 Frattini pensò bene di disfarsi dell’esercizio, cedendo il locale al pasticcere Luigi Isacchi (1-1-1917), noto per avere creato il tipico dolce bergamasco della polènta e osèi. Nel vecchio café chantant, adibito a pasticceria, regnava ora un discreto silenzio; all’ora del tè qualche signora sedeva ai tavolini biancodorati in stile impero per sorseggiare compostamente un bicchierino di rosolio: Bergamo – scriveva Crippa – si trovava ora “spenta e muta, ricadendo nella sua monotonia, nei ritorni alle preferenze ineleganti. Quanti la sera vestivano lo smoking si persero come nebbia di pianura…. Il floscio riportò Bergamo alla sua semplicità ancestrale”.
Un giorno, richiamato dalla passione del gioco, Pilade Frattini andò a Stresa e puntò ostinatamente un numero alla roulette per tutta la notte: all’alba, disperato, dopo aver dilapidato una fortuna, stramazzò al suolo. Un colpo apoplettico lo aveva stroncato: era il 1920.
Di tutti i locali incontrati nel corso della nostra passeggiata, il Nazionale è l’unico dei quattro che ha continuato a vivere – dapprima come caffè-ristorante e poi solo come caffè – anche dopo l’abbattimento della Fiera e la costruzione del Centro piacentiniano: e lo si deve anche alla notorietà del vecchio locale e alle iniziative di Pilade Frattini.
Dopo Frattini, sarà Pietro Bardoneschi ad averlo in gestione, quando aprirà la nuova e attuale sede sotto i portici, che nel 1925 vedrà nascere anche il primo Rotary Club della cittadina.
Nel 1936, sotto quei portici prese posto ilcaffè Balzer, con la sua sobria e nobile eleganza, impostata da una famiglia originaria del Liechtenstein. Balzer e Nazionale, che non mancavano mai in ogni reportage dal Sentierone, accoglievano gli spettatori che uscivano dal Teatro Donizetti, tenendo aperto anche fino alle due di notte.
In quegli anni, quando la tradizione del caffè come luogo d’incontro era ancora viva e intellettuali, artisti e “bella gente” passavano le giornate ai tavolini, sul Sentierone c’era un dualismo alla Coppi e Bartali: dall’altra parte della strada, sempre nel ’36 nel palazzo della Popolare era stato aperto un caffè il cui nome ricordava l’euforia da Impero: il Moka Efti, famoso nel Dopoguerra per i concerti serali e diventato poi l’attuale Caffè del Colleoni.
All’estremo dei portici, verso Largo Belotti, era invece attivo il Savoia, chiuso in età repubblicana nel 1956 (?).
In quello stesso ’56, al Nazionale si erano ritrovati gli artisti che avevano firmato il manifesto del Gruppo Bergamo. Ma nel 1945 il Nazionale-Concordia era stato anche una mensa di guerra.
Tra alti e bassi, è arrivata la chiusura a giugno 2006. Il locale ha riaperto esattamente dopo un anno di ristrutturazione con un nuovo nome “212 barcode” (212 è il prefisso dell’area di New York) e un arredo postmoderno. Tra cambi di gestione e licenze contese, finite nelle aule del tribunale, il 1° settembre 2011 il locale a riacquisito il nome Nazionale, ma non la vecchia atmosfera: se oltre un secolo fa nelle sue eccentricità Pilade Frattini aveva preso come camerieri degli autentici cinesi, con vestiti orientali e tanto di codino (come dovevano essere nell’immaginario dell’epoca), i cinesi, senza codino, prendevano ora in gestione il locale, per tenerlo fino al 2015, quando subentrava un’altra società cinese, che ha chiuso i battenti alla fine del 2020. Si mormora che il Nazionale sia in procinto di rifarsi il look con importanti lavori di ristrutturazione, che puntano a farlo tornare tra i locali simbolo e più frequentati del centro.
Note
(1) Negli ultimi anni dell’Ottocento a Bergamo si pubblicavano tre quotidiani: “L’Eco di Bergamo”, d’ispirazione cattolica, diretto da Gian Battista Caironi; la “Gazzetta Provinciale”, organo indipendente diretto da Parmenio Bettòli; e l’”Unione”, foglio liberale diretto da Enrico Mercatali. L’”Unione”, fondata nel 1891, ebbe vita breve; cessò le pubblicazioni nel 1900. Vi aveva fatto le ossa Franco Armando Tasca, il quale poi diresse il “Giornale di Bergamo”, emigrando infine a Pavia dove diresse un altro giornale, spegnendosi in tarda età. Scrittore intelligente e fecondo, aveva anche trovato il tempo per scrivere una storia di Bergamo, che fu pubblicata a puntate dal “Gazzettino” di San Pellegrino Terme Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa. II. La strada Ferdinandea”. Banca Popolare di Bergamo. Co-Editore: Edizioni Bolis. Bergamo, 1963 (Collana di studi bergamaschi).
(2) “…in certe sere domenicali si potevano ascoltare un tenore nelle melodie di Tosti e di Denza e un soprano nella “Leggenda valacca” di Braga e nelle raffinate ariette in stile antico di Stefano Donaudy, nonché un bravo violinista nella “Serenata medioevale” di Silvestri, nella romanza andalusa di Sarzate, e in qualche virtuosa variazione su temi zingareschi (…) I componenti di questi complessi musicali erano giovani professionisti diplomati, che avevano alle spalle anni di studi rigorosi e che tuttavia non disdegnavano di suonare nei café chantant o nelle sale cinematografiche quando si chiudevano i sipari sulle ultime rappresentazioni delle varie stagioni operistiche cittadine (quella di carnevale al Nuovo, quella di mezza quaresima al Sociale e quella di Fiera al Donizetti). Tra questi suonatori, Oreste Tiraboschi, un violoncellista mantovano diplomatosi nel 1909 presso l’Istituto Donizetti; dal 1913 faceva parte dell’orchestra “Gaetano Donizetti” diretta dal maestro Achille Bedini. Il complesso (due pianoforti: Tironi e Briccoli; due violini: Avogadri e Pesci; due violoncelli: Airoldi e Tiraboschi) eseguiva musica da camera nella sede di via Pignolo. Il Tiraboschi aprì più tardi un negozio di strumenti musicali. Altri musicisti, Osvaldo Legramanti, contrabbassiste; Giovanni Marigliani, violinista; Eugenio Tironi… (“Umberto Zanetti, “Bergamo d’una volta”. Ed. Il conventino, 1983).
Riferimenti
Umberto Zanetti, “Bergamo d’una volta”. Ed. Il conventino, 1983.
Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa. II. La strada Ferdinandea”. Banca Popolare di Bergamo. Co-Editore: Edizioni Bolis. Bergamo, 1963 (Collana di studi bergamaschi).
Alle soglie del Novecento, all’approssimarsi del centenario della nascita di Gaetano Donizetti, si fa urgente il desiderio di celebrare degnamente il grande musicista bergamasco, intitolando il teatro più importante della città al suo nome.
In vista dei festeggiamenti, diventa necessario dotare il vecchio teatro di una facciata degna della sua importanza e a tal fine, l’11 maggio 1895, i nuovi proprietari si costituiscono in società promulgando un bando di concorso per la costruzione della facciata, datato 29 maggio 1895. Nel contempo viene bandito un concorso per un monumento a Donizetti.
Dopo una serie di vicende, l’incarico per la nuova facciata viene affidato all’architetto romano Pietro Via, che nell’estate del ‘96 presenta il suo progetto definitivo. I lavori dovrebbero essere compiuti per la stagione d’opera del 1897, anno del centenario, che sarà al centro di diverse manifestazioni di rilievo nazionale, vedendo sul podio il grande Arturo Toscanini (che già era stato a Bergamo a dirigere l’orchestra nel 1895 e che poi ritornerà più volte) che, nella grande ed elegante sala definita “un miracolo di acustica”, avrebbe dovuto dirigere La favorita, Lucia di Lammermoor e L’elisir d’amore.
L’interno del teatro sarà interamente completato nel 1903 con l’ariosa composizione di figure allegoriche della parte centrale del soffitto e le gustose decorazioni pittoriche dei parapetti e dei palchi, ad opera di Francesco Domenghini.
Ma per l’inaugurazione della stagione di Fiera la facciata non è completata e perciò, per la prima recita del 21 agosto se ne scopre solo la parte inferiore, che mette in mostra i tre portoni del nuovo ingresso, opera dei fratelli Questi di Borgo S. Caterina.
Terminata la stagione di Fiera, il teatro è sottoposto a lavori e quando riapre, nel 1897, si chiama Teatro Gaetano Donizetti, concludendo ufficialmente l’era di Bortolo Riccardi, costruttore ed impresario dell’originario teatro.
Al momento della riapertura per i festeggiamenti donizettiani, la nuova facciata del Via non è ancora pronta, ma il teatro viene comunque riaperto e il monumento a Donizetti, edificato nella piazza tra il teatro e il vecchio Municipio, inaugurato.
La facciata del teatro verrà scoperta, finalmente compiuta, alla vigilia dell’inaugurazione della stagione lirica di Fiera del 1898. Definita di stile sansovinesco, è ornata nella parte inferiore dal ceppo rustico di Brembate e nella parte superiore da un tipo di cemento fornito dalla locale ditta Ghilardi che imita il granito rosso di Verona.
I lavori all’interno del teatro vengono completati nel 1903 e riguardano il consolidamento del soffitto e alcune misure per la sicurezza del luogo, nonché il rinnovo totale dell’apparato decorativo. Di quest’ultimo compito è incaricato il pittore Francesco Domenghini (artista di origine e formazione bergamasca specializzatosi nella decorazione di teatri), che non si limita ad affrescar pareti ma interviene sull’assetto generale.
Poiché il soffitto del teatro poggia direttamente sulle pareti, senza cornice, il pittore forma un cornicione che figura come sostegno del soffitto e al quale si appoggia un grande semiarco che gira tutt’attorno alla volta, creando una forma ellittica che si salda con le file delle gallerie. Grandi conchiglie bronzee inquadrano putti che cantano e suonano o recano festosamente palme e ghirlande, in alternanza a figure dipinte a chiaroscuro, sedute sul cornicione e rappresentanti i geni della musica. AI centro di tutto, il grande affresco della volta, una allegoria che rappresenta il trionfo dell’arte musicale, con una fanciulla più in luce delle altre figure che, assisa su una nuvola in un cielo azzurro “cosparso da leggere ondate di nubi purpuree”, suona la cetra. La giovane donna è incoronata di lauro da un angelo (1). Al centro dell’arcoscenico viene posto un orologio sorretto da fanciulle.
Un altro intervento di pregio è effettuato sugli stucchi dorati, che impreziosiscono le pareti del foyer e che presentano, inseriti in bianche cornici, volti di fanciulle ornati da delicati rami.
IL CIRCOLO DELL’UNIONE E LA BERGAMO BY NIGHT
Al piano superiore dell’avancorpo del teatro, nel 1898 furono realizzate alcune sale, che divennero un luogo di ricreazione e ritrovo.
Sotto gli affreschi dei pittori Achille Filippini Fantoni e Fermo Taragni, che sul soffitto centrale avevano raffigurato Apollo sul carro e le Muse, dietro alle tende tirate dei grandi finestroni affacciati sul Sentierone, si ritrovavano i più importanti nomi bergamaschi: qui, nel Salone Riccardi ebbe sede per quasi un secolo il Circolo dell’Unione.
Fino agli anni ’80 il Circolo, che possedeva anche quattro palchi, ha ospitato feste indimenticabili e personalità del mondo artistico, da Mascagni a Toscanini a Giordano.
È stata soprattutto una vita notturna quella del Circolo dell’Unione che si affacciava sul Sentierone: la lunga passeggiata formatasi nel tempo nell’area dove un tempo si teneva la Fiera. Era una Bergamo attiva e gioiosa, presa dalla frenesia della ricostruzione. Andare a spasso lungo il Sentierone, tra negozi e locali, era un rito irrinunciabile. C’era anche qualche fotografo impegnato ad immortalare graziose fanciulle, baldanzosi gagà, coppie innamorate che avrebbero poi acquistato gli scatti.
Ai tavolini dei bar si vedevano i grandi intellettuali o i professionisti più affermati. Nella prima parte del secolo a farla da padrone era stato il Caffè Nazionale, il cui proprietario, il genialePilade Frattini, aveva organizzato non solo la ristorazione, ma anche spettacoli di divertimento, compresi di attraenti ballerine.
C’era sempre musica, anche quella jazz che piaceva ai soldati americani rimasti a Bergamo dopo la fine della guerra. Storie leggendarie parlano di concerti infiniti e jam session lunghe tutta la notte. Con il passare del tempo, aumentarono i locali affacciati sul Sentierone e principe dei caffè divenne il Balzer.
Il locale e i suoi camerieri offrivano un servizio di classe degno della nobiltà bergamasca e dell’alta borghesia, ma anche di attori e dive protagonisti al Teatro Donizetti.
Ora il salone Riccardi ospita eventi, incontri, conferenze, mostre e concerti. Uno spazio prestigioso ed elegante particolarmente amato dal pubblico per lo splendore dei suoi stucchi, degli affreschi e delle decorazioni in stile liberty.
I LAVORI COMPIUTI NEL TEMPO
Alla fine degli anni Trenta del Novecento, il Teatro divenne proprietà del Comune di Bergamo e con il decennio successivo cominciò ad essere oggetto di diversi interventi di manutenzione e ammodernamento, puntualmente annotati da Ermanno Comuzio (2).
Nel 1946 si erano compiuti lavori di rinforzo alla parte interna del sottotetto e di sistemazione della fiancata verso il monumento a Donizetti, e nel 1948 – chiudendo i portici aperti su tale fiancata – si erano ricavati nuovi locali per la direzione e gli uffici del teatro. Nel 1951 si rinnova tutta la struttura interna: si rifanno le scale che portano ai palchi, si allargano i corridoi d’accesso alla platea, si eliminano i retropalchi dando così respiro ai corridoi, si rifà la pavimentazione del ridotto, si sostituiscono le portiere dei palchi; nel 1953 si sostituiscono con pilastri in muratura le putrelle in legno che sostenevano il palcoscenico, si rammoderna l’apparecchiatura elettrica costruendo una nuova cabina al posto di quella vecchia, si installano acqua corrente e nuove fonti di illuminazione nei camerini, si ricavano tre sale di prova per gli artisti, le masse corali e il corpo di ballo. I lavori più importanti – consistenti in un ampliamento e in un rinnovamento di carattere radicale – interessano il teatro dal 1958 al 1964, anno della riapertura (3).
Tra i nuovi ambienti realizzati vi è il Ridotto (oggi intitolato al direttore d’orchestra e intellettuale bergamasco Gianandrea Gavazzeni), che viene ampliato a seguito di un significativo progetto (architetti Luciano Galmozzi, Pino Pizzigoni e ingegner Eugenio Mandelli) che ha modificato i contorni del fabbricato, ed arricchito da un affresco che rappresenta un “Teatro del Mondo”, una scena fissa in cui si muove la storia degli uomini e delle arti. L’inaugurazione ufficiale avviene nell’autunno 1964 con una Lucia diretta da Gianandrea Gavazzeni. Con la riapertura del teatro ristrutturato inizia un nuovo, fecondo periodo della vita del “Donizetti”.
Nel 1983 il teatro si abbellisce di una coppia di statue di bronzo rappresentanti due ballerine, opera dello scultore Piero Brolis. Le statue, alte due metri e quaranta centimetri, sono collocate nell’atrio, ai lati della porta d’ingresso alla sala; più tardi verranno spostate al centro del foyer grande. Nel 1984 si apre al pubblico, nelle sale superiori del teatro, la Biblioteca dello Spettacolo intitolata a Bindo Missiroli, che al “Donizetti” ha donato la sua cospicua raccolta di spartiti musicali ed altri libri (4).
Fra il 2007 e il 2008 sono stati infine effettuati lavori di varia innovazione nelle sale del secondo piano e interventi di restauro e illuminazione notturna della facciata, che hanno donato al teatro un nuovo aspetto suggestivo. Nel 2014 il Teatro passa in gestione alla neonata Fondazione Teatro Donizetti.
A febbraio del 2018 partono i nuovi lavori di restauro del Teatro Donizetti, un ampio progetto di ristrutturazione e rinnovamento che intende fare del teatro cittadino una casa della cultura, un luogo vivo e aperto, uno spazio unico di incontro e di socializzazione, un luogo veramente pubblico, prestigioso e insieme familiare.
Il progetto prevede il restauro e la conservazione di tutte le parti monumentali dell’edificio. Particolare cura è dedicata alla sala teatrale e al foyer d’ingresso. Gli arredi e le tappezzerie sono completamente rinnovati. Vengono realizzate nuove scale antincendio ed un ascensore che raggiunge tutti gli ingressi palchi e galleria; il Teatro è dotato anche di aria condizionata.
Le parti laterali dell’edificio (lato monumento a Donizetti e lato Porta Nuova) sono completamente ristrutturate e ospitano i nuovi uffici, i camerini e cameroni per il coro. I prospetti laterali sono disegnati ricercando una coerenza formale tra i volumi. Tutto è adeguato alle norme vigenti in materia di sicurezza.
Nel novembre 2019, il Cantiere del Teatro si è fermato per ospitare la prima messa in scena mondiale dell’opera L’ange de Nisida, lavoro di Gaetano Donizetti che si credeva irrimediabilmente perduto e che invece è rinato grazie ad una minuziosa ricerca musicologica. Opera comunque non ultimata dallo stesso compositore bergamasco e da lui stresso smembrata, ha trovato nell’allestimento all’interno del Cantiere ideato dal direttore artistico del festival Donizetti Opera il luogo ideale e un’occasione irripetibile, con l’azione nella platea ancora sgombera dalle poltrone e il pubblico nei palchi e in un’apposita tribuna in palcoscenico. Elogiato dal pubblico, ha ottenuto il Premio Abbiati dall’Associazione nazionale critici musicali.
Oggi il Teatro Donizetti è completamente adatto ad ospitare spettacoli moderni e un grande pubblico.
GLI SPETTACOLI
Tra la fine dell’Ottocento e l’affacciarsi del Novecento, accanto agli spettacoli tradizionali, tra i quali si afferma la corrente musicale verista (la Bohème, Andrea Chénier, Cavalleria e Pagliacci, Manon, Tosca, Fedora ecc.), il Teatro Donizetti ospita anche un nuovo tipo di spettacolo, il cinematografo.
Si tratta di alcuni film primitivi girati dagli operatori dei fratelli Lumière, portati al teatro dall’impresario Terzi nel 1899: avvenimento del tutto raro in un’epoca in cui gli spettacoli cinematografici erano mostrati nei baracconi delle fiere o nei caffé-concerto.
Probabilmente anzi si tratta di un primato poiché non si ha notizia che il cinema sia stato ospite, prima d’allora, di teatri. Il cinema tornerà poi diverse volte al “Donizetti”, come quando nel 1906 si proiettano pellicole sotto la complicata etichetta di Electro-Chrono-Projecteur; o nel 1907, quando sul telone del teatro si mostrano scene girate a Bergamo, per le strade; o nel 1913 quando si presenta il kolossal storico Quo Vadis? accompagnato dalla musica di un’orchestra sinfonica (il cinema era muto, a quei tempi); o nel 1914, anno in cui arriva il film italiano più famoso del periodo, Cabiria. Nel 1919 venne proiettato Christus. I tre film ottennero un successo clamoroso, sicuramente anche per l’ottimo adattamento musicale del maestro Tironi, che con Cabiria seppe adeguare le musiche a quanto accadeva sullo schermo, precorrendo così le moderne soluzioni del sempre più stretto rapporto sonoro-immagine.
Va ricordato che anche Rodolfo Paris, poeta e primo duca del Ducato di Piazza Pontida, accompagnò al piano alcune proiezioni e pare che fosse bravissimo nell’alternare i vari pezzi da eseguire in sincronia con le immagini. Dovette però inalberare sopra il pianoforte un enorme ombrellone rosso, di quelli ancora in uso sotto i pergolati delle osterie fuori porta, per schivare i lanci di bucce di arance e gusci di arachidi, lanciati dai ragazzi delle logge.
Fatto sta che il 23 luglio 1910 L’Eco di Bergamo prese decisa posizione contro l’inaugurazione di un nuovo locale che la sera stessa sarebbe stato inaugurato in piazza Santo Spirito con il nome di “Cinematografo Orobico (5).
LO SPETTACOLO INIZIAVA FUORI DAL TEATRO
Mimma Forlani ha offerto un bellissimo ritratto del pubblico bergamasco durante le prime rappresentazioni al Donizetti, agli inizi del Novecento: “La passione dei bergamaschi per la musica e per ogni genere di spettacolo era dilagante e per la buona riuscita delle manifestazioni liriche bergamasche gli organizzatori – tutti rappresentanti delle libere professioni – nulla lasciavano di intentato, come si può dedurre leggendo i manifesti del tempo. Ogni sera era stampato un manifesto nuovo in cui erano presentati i nomi di musicisti, librettisti, direttori d’orchestra e di coro, interpreti, registi, scenografi, ditte che avevano realizzato le scene, i costumi, le scarpe, le parrucche, i nomi degli elettricisti, attrezzisti e sarte. Si precisava il prezzo del biglietto, il numero dei posti disponibili, si raccomandava ai gentili signori l’abito scuro per la première. All’apertura del teatro, sul Sentierone si assiepavano le sartine, le parrucchiere, le guantaie, le stiratrici che guardavano come le signore portavano la mise; e le signore, senza soprabito, sfoggiavano il loro abito da sera. Lo spettacolo iniziava fuori dal teatro. Poi, una volta preso posto, c’era il rito (allora sì che era un rito) delle visite agli amici nei vari palchi, salotti di rappresentanza. Il chiacchiericcio si arrestava all’inizio dello spettacolo, poi continuava fino al momento delle arie. Allora si faceva silenzio. Quindi lo scroscio di applausi o di fischi del “pubblico rozzo, conciliante e sincero”.
Fu in quegli anni che il Donizetti, oltre a ospitare Toscanini (invitato a Bergamo “con tutti gli onori” da Pilade Frattini), vide salire sul podio anche Pietro Mascagni (che era già stato a Bergamo nel 1895 per dirigere la sua “Cavalleria”) per dirigere, nel 1905, una sua opera, l’Amica, in prima nazionale assoluta. Dopo lo spettacolo, il compositore fu portato in trionfo sul Sentierone. Luigi Pelandi annotava che “Il maestro diresse senza spartito, senza leggìo, in una contorsione qualche volta spasmodica, i capelli imbizziti nell’aria come tanti serpentelli. La sua portentosa bacchetta sempre in movimento vorticoso dava un’impressione coloristica di estrosità di sentimenti che soggiogava”.
Mascagni, il più grande musicista vivente, ritornò a Bergamo, settantaduenne, nel 1940, per dirigere la Cavalleria rusticana, superando ogni primato di entusiasmo, con un teatro stipato all’inverosimile. Si commosse fino alle lacrime quando gli vennero consegnati numerosi doni. Ringraziò e offrì il suo cuore ai bergamaschi (6).
LA SVOLTA DEL NOVECENTO CON BINDO MISSIROLI
Nel Novecento, compreso il periodo della prima guerra mondiale, continua la riproposizione delle opere liriche – spesso eseguite con i migliori direttori d’orchestra e i migliori cantanti – e del teatro di prosa.
Uno degli avvenimenti lirici di maggior spicco del primo Novecento è la prima (1917) di Liacle, opera del talentuoso musicista bergamasco Edoardo Berlendis, purtroppo mancato prematuramente. Tra i direttori d’orchestra del periodo, Leopoldo Mugnone, Franco Ghione, Ettore Panizza, Antonio Guarnieri, Tullio Serafin, poi Franco Capuana, Giuseppe Del Campo ed altri; fra i cantanti, il tenore, praticamene debuttante, Beniamino Gigli, i soprani Toti Dal Monte, Mercedes Capsir Rosetta Pampanini, Claudia Muzio, il baritono Riccardo Stracciari, il basso Nazareno De Angelis.
Tra gli artisti bergamaschi, attivi in vari importanti ruoli, il direttore d’orchestra Beniamino Moltrasio, il maestro dei cori Giuseppe Conca, il bravissimo comprimario Giuseppe Nessi, nonché il tenore diventato famoso in tutto il mondo: Alessandro Dolci.
Per quanto riguarda la prosa si possono fare i nomi, fra gli altri, di Flavio Andò, Emma e Irma Gramatica, Edoardo Ferravilla, Angelo Musco, Gualtiero Tumiati, Maria Melato, Tina Di Lorenzo, Ruggero Ruggeri, Ermete Novelli.
Negli Anni Venti il clima politico italiano segna una involuzione con l’ascesa al potere di Mussolini e del fascismo, mentre a Bergamo il vecchio centro cittadino, dove sorgevano le secolari baracche della Fabbrica della Fiera, viene demolito e ad esso si sostituisce – ad opera dell’architetto Piacentini – il complesso di nuove costruzioni che costituiscono tuttora il centro della città (tutta la parte prospiciente la facciata del teatro: il Sentierone, i Portici, Piazza Vittorio Veneto, la Torre dei Caduti).
Nel 1931, su mandato del Comune di Bergamo assume la direzione del teatro Bindo Missiroli, già critico musicale nativo della provincia milanese e presto trasferitosi a Bergamo. Missiroli organizza le stagioni operistiche insieme all’impresario Ciro Ragazzini fino al 1936, anno in cui diviene l’unico responsabile. Il ‘36 è anche l’anno in cui si scioglie la società privata dei palchettisti, ossia dei vecchi proprietari: misura che prelude al passaggio di proprietà del teatro al Comune (che avverrà nel 1938), quando il teatro cesserà di essere gestito da interessi privati, mettendo così al primo posto gli interessi della comunità.
MISSIROLI – GAVAZZENI E IL TEATRO DELLE NOVITA’ MUSICALI
In questa nuova atmosfera il Donizetti assume una struttura tecnica continuativa e può pianificare al meglio la sua attività. Missiroli può lanciare così una notevole iniziativa, il Teatro delle Novità, rassegna sperimentale di opere inedite per far conoscere le nuove energie musicali italiane, che ha grande risonanza in Italia e all’estero, e serve ad affermare il palcoscenico del Donizetti come laboratorio delle arti dello spettacolo. Fanno da preludio a questa gloriosa avventura (che dura dal 1937 al 1973) la stagione operistica 1935, in cui accanto ad opere di repertorio viene rappresentata Paolo e Virginia, novità assoluta composta da Gianandrea Gavazzeni, che di lì a poco inizierà una fulgida carriera di direttore d’orchestra e collaborerà con l’amico Missiroli al rinnovamento del Donizetti.
Alcuni spettacoli riscuotono grande successo come Ferrovia sopraelevata (1955) la prima opera composta da Luciano Chailly su testo di Dino Buzzati; La panchina (1956) con testo di Italo Calvino e musiche di Sergio Liberovici.
Nonostante il drammatico periodo della seconda guerra mondiale, si tengono stagioni operistiche, seppur ridotte, con la presenza dell’orchestra e dei cantanti del Teatro alla Scala, sfollato per ragioni belliche (sarà semidistrutta dalle bombe).
La mitica Scala approdò in blocco al Donizetti e la stagione lirica del 1944 costituì un fuoriprogramma eccezionale ed irripetibile: “un programma ricchissimo, mai prima d’ora immaginato in sogno”. Otto le opere in cartellone, ventiquattro le rappresentazioni (Iris, Il Barbiere di Siviglia, Werther, Mefistofele, Andrea Chénier, Il matrimonio segreto, Don Pasquale, Falstaff), rappresentative del ciclo evolutivo del melodramma italiano. E come ciliegina sulla torta due balletti: La gara e Visioni (7).
Il dopoguerra segna un risveglio nella vita intellettuale, sociale ed economica della città, con un risorgente interesse per ogni forma di spettacolo.
Nel 1948 il Donizetti svolge una importante stagione commemorativa per il centenario della morte del compositore bergamasco che dà il nome al teatro (accanto alle due opere “minori” Betly e Il campanello fondamentale appare il Poliuto, il cui spartito originale non era mai stato eseguito in Italia). Se si considera che nel 1948 vedono la luce alcune pubblicazioni donizettiane, si può dire che in tale anno, in vasta misura per merito di Bindo Missiroli, mette le radici la Donizetti Renaissance, ossia quel fenomeno che porterà al recupero delle opere poco rappresentate o scomparse dalle scene del musicista bergamasco, nonché delle sue composizioni concertistiche, sacre e da camera. Inizia nel contempo, ad opera di Missiroli la formazione di un patrimonio donizettiano oggi raccolto nella biblioteca del teatro.
Ancora a Missiroli si deve la presenza dei più celebrati musicisti e interpreti di chiara fama, come il soprano Maria Callas nella prima della Lucia di Lammermoor del 1954 (l’artista era già stata al Donizetti nel 1951).
Rinasce il Teatro di Prosa assente dal Donizetti dagli anni ’30, va in scena Le notti dell’Ira di Armand Salacrou. È il primo spettacolo di una lunga serie che vedrà impegnato Il Piccolo Teatro di Milano diretto da Giorgio Strehler.
Nel 1952 due concerti consacrano ufficialmente il jazz come genere degno d’essere ascoltato al Teatro Donizetti tanto quanto la musica classica o lirica. Il primo è programmato il 6 febbraio con l’Orchestra di Dizzy Gillespie. Il pubblico più snob non capisce la nuova proposta e abbandona la sala, ma chi decide di restare si scatena in applausi e fischi all’americana del tutto inediti per quel luogo. Il secondo concerto è fissato il 17 novembre con il gruppo di Sidney Bechet sax soprano e Claude Luter con la sua Orchestra ed è di nuovo un successo. Ma per Bergamo Jazz Festival bisognerà attendere il ’69.
Nel 1956 al Donizetti viene aperta una scuola di danza, voluta da Bindo Missiroli e chiusa dopo trent’anni di attività.
Dopo una chiusura durata qualche anno, il rinnovato teatro viene riaperto ufficialmente al pubblico, il 10 ottobre 1964 con la rappresentazione dell’opera donizettiana Lucia di Lammermoor, diretta da Gianandrea Gavazzeni, protagonista Renata Scotto.
IL TEATRO DELLE NOVITA’ DI PROSA DI FERRERI
Con la riapertura del teatro ristrutturato nei primi anni Sessanta (progetto degli architetti Luciano Galmozzi e Pino Pizzigoni e dell’ing. Eugenio Mandelli) inizia un nuovo, fecondo periodo nella vita del Donizetti. Nel 1966 il Comuneprovvede ad assumere in proprio la gestione del teatro, affidandone la direzione artistica al M.o Adolfo Camozzo (che la terrà fino alla morte, prematuramente avvenuta nel 1977, quando verrà sostituito dal M.o Riccardo Allorto). Assessore addetto alla gestione del teatro è il prof. Mario Traini, mentre una apposita Commissione ha funzioni consultive.
Un elemento vitale dell’attività che ha come punto di riferimento cittadino il Donizetti è la prosa assente dagli anni Trenta, questo settore ricomincia a rifiorire nel dopoguerra con la presenza del “Piccolo Teatro” di Milano, guidato da Strehler e Grassi, seguito da primarie compagnie italiane e da prestigiosi ospiti stranieri. Da notare che nel 1953, accanto al Teatro delle Novità musicali, si affianca per un certo periodo il Teatro delle Novità di Prosa, diretto da Enzo Ferrieri.
GLI ANNI SESSANTA/NOVANTA : LO SLANCIO IMPRESSO ALLA PROSA E AL JAZZ
Negli anni ‘60/’90 il ventaglio degli spettacoli e delle manifestazioni è molto vasto: prosa, opere e concerti dominano le stagioni, ma con presenze “nuove” come il Festival Pianistico Internazionale, commedie musicali, le operette, le rassegne di “Bergamo Jazz”, quelle delle “Canzoni d’Autore” ed altro ancora.
L’Amministrazione Comunale promuove una politica teatrale moderna, fondamentale è la consulenza di Benvenuto Cuminetti, docente di Storia del Teatro e dello Spettacolo presso l’Università di Bergamo e consulente artistico per la programmazione teatrale delle stagioni di prosa e delle attività collaterali.
Nel 1969 nasce la Rassegna Internazionale del Jazz, organizzata dall’Azienda Autonoma del Turismo e di cui l’attuale Bergamo Jazz Festival è l’erede naturale. Sul palcoscenico del Teatro Donizetti si esibiscono già da quell’anno musicisti di fama internazionale quali Cannonball Adderley e Maynard Ferguson. Seguiranno, fino al 1975, Gerry Mulligan, Herbie Hancock, Art Ensemble of Chicago, con un concerto che fece molto discutere pubblico e critica, Charles Mingus, Max Roach, Art Blakey e molti altri. Inizialmente accolta con scetticismo, la Rassegna scoppia letteralmente fra le mani degli organizzatori e il meraviglioso teatro Donizetti non basta più a contenere il pubblico, sempre più folto. Nel 1970 il festival è inaugurato da Dizzy Gillespie, che riscuote un grande successo e nel ’71, tra gli altri, è presente Chick Corea.
Dal 1976 al 1978 la Rassegna si trasferirà al Palazzetto dello Sport (registrando un record di pubblico nel ’76 con ben seimila spettatori all’ultima serata nonostante la pessima acustica) per poi interrompersi per alcuni e riprendere temporaneamente il suo cammino nel 1982 e 1983. Nel 1991 il varo di Bergamo Jazz da parte del Comune di Bergamo riporterà, dall’anno dopo, il grande jazz al Teatro Donizetti: Michel Petrucciani, Ornette Coleman, Chick Corea, Gato Barbieri, Brad Mehldau, John Scofield, McCoy Tyner, Bill Frisell, Dee Dee Bridgewater, gli italiani Enrico Rava e Paolo Fresu sono solo alcuni dei nomi che hanno riportato il festival jazz di Bergamo alle ribalta delle cronache musicali italiane ed internazionali.
IL DONIZETTI COME TEATRO DI TRADIZIONE
Il 1966 è l’anno in cui il Comune provvede ad assumere in proprio la gestione del teatro. Nel 1968 il Donizetti viene incluso, con provvedimento governativo, nel novero dei “Teatri di tradizione”, in riconoscimento della sua identità culturale. Il teatro svolge un’attività di produzione che non è soltanto genericamente lirica o concertistica ma viene convogliata in una direzione specifica, quella di salvaguardare, riscoprire, riproporre la produzione donizettiana, inserita però nella cultura dell’epoca. Nel 1973, con l’opera Il Sogno di Roman Vlad, si conclude l’esperienza del Teatro delle Novità.
Per la ricognizione del Donizetti meno noto fiorisce nel 1982 il Festival “Donizetti e il suo tempo”, che si propone di studiare e riscoprire il compositore bergamasco in rapporto con il contesto musicale, culturale e sociale degli anni in cui è vissuto. Viene inoltre istituito il biennale Premio Donizetti, quale riconoscimento a interpreti che nel corso della loro carriera hanno contribuito autorevolmente a far apprezzare l’arte del compositore.
Nel 1983, in occasione del secondo festival donizettiano il maestro Gianandrea Gavazzeni, assente dal prestigioso teatro dal 1964, ritorna sul podio con l’orchestra sinfonica della Rai, entusiasmando gli appassionati musicofili bergamaschi con Miserere di Gaetano Donizetti (“un’autentica discesa nelle tenebre”) e dello Stabat Mater di Gioacchino Rossini (8).
Nell’ambito del Festival Donizettiano, nel 1992 viene inaugurato il nuovo Ridotto, mentre nel 2015 inizierà la Donizetti Revolution, sulla scia delle manifestazioni dedicate alla figura di Gaetano Donizetti, che continua a lasciare un forte segno nella sfera culturale ed artistica di Bergamo.
NOTE
(1) Ermanno Comuzio, Il Teatro Donizetti: Due secoli di storia, Lucchetti editore, Bergamo, 1990.
(2) Ermanno Comuzio, Il Teatro Donizetti: Due secoli di storia, Ibidem.
(3) Ermanno Comuzio, Il Teatro Donizetti: Due secoli di storia, Ibidem.
(4) Ermanno Comuzio, Il Teatro Donizetti: Due secoli di storia, Ibidem.
(5) Pilade Frattini, Renato Ravanelli, “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. A cura di Ornella Bramani. Vol. II, UTET, Anno 2013.
(6) Pilade Frattini, Renato Ravanelli, “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. Ibidem.
(7) Pilade Frattini, Renato Ravanelli, “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. Ibidem.
(8) Pilade Frattini, Renato Ravanelli, “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. Ibidem.
Riferimenti
Ermanno Comuzio, ll Teatro Donizetti: Due secoli di storia, Lucchetti editore, Bergamo, 1990.
Nel cuore della Città Bassa, là dove oggi sorge il teatro dedicato a Gaetano Donizetti, c’era un altro teatro – il TeatroRiccardi -, che era sorto nel 1786 come primo teatro stabile a Bergamo, con un ritardo di oltre un secolo rispetto agli altri centri urbani della Terraferma veneziana.
Prima di quella data Bergamo aveva dovuto accontentarsi di teatri provvisorieretti occasionalmente, nonostante godesse da tempo di una discreta attività teatrale: le rappresentazioni operistiche venivano infatti allestite almeno dalla seconda metà del Seicento, mentre per tutto il Settecento vi era stata la progressiva ascesa del teatro musicale e si era affermata l’opera buffa (1).
L’unico edificio teatrale stabile di Bergamo eretto in epoca antecedente – il Secco Suardo -, risale alla seconda metà del Seicento, ma era stato ricavato in un palazzo privato di Città Alta ed ebbe vita breve; nella seconda metà del Settecento era invece attivo il teatro della Cittadella (documentato dal 1757), un teatro provvisorio costruito periodicamente nei saloni del Palazzo del Capitano e utilizzato in inverno; un altro teatro provvisorio è documentato sotto il Palazzo Vecchio della città. Dunque, se si eccettua la breve parentesi del Secco Suardo nella Citttà Alta – sede della nobiltà filo veneziana -, i primi spettacoli vennero allestiti in palazzi pubblici, opzione che permetteva alle autorità cittadine che vi risiedevano di esercitare un maggiore controllo.
Ma era nella Città Bassa e più precisamente nel grande quadrilatero della Fiera, che si era andata cristallizzando l’ “industria” dell’intrattenimento, una sorta di variegato sistema teatrale, basato sulla costruzione di diversi edifici provvisori, gravitanti intorno alla grande manifestazione commerciale che si teneva nel Prato di S. Alessandro.
In questo luogo, ogni anno, tra l’ultima settimana di Agosto e la prima di Settembre venivano montate delle baracche di legno, nelle quali i mercanti esponevano le loro merci e che vennero sostituite nel 1740 da una costruzione stabile in muratura, disegnata dall’architetto Gian Battista Caniana, di cui oggi resta – unica superstite – la fontana.
Com’era usanza in ogni città, nelle belle stagioni gli spettacoli e gli intrattenimenti gravitavano in gran parte intorno alle fiere, luogo di elevato afflusso di forestieri (16.000 persone alla fine del Settecento), richiamati anche dall’allettante invito dei cartelloni teatrali, come avveniva appunto anche presso la Fiera di Bergamo, dove il periodo dedicato agli spettacoli coincideva principalmente con la fiera d’agosto, caratterizzata da un fitto calendario di appuntamenti. Attorno ai banchetti fiorivano teatrini provvisori, chiamati appunto Provvisionali in quanto demoliti alla fine della stagione e riedificati, col materiale risposto in appositi magazzini, la stagione successiva.
Si trattava dunque di teatri effimeri, effimere sedi dove, al teatro regolare si affiancavano le più svariate forme d’intrattenimento, che ruotavano intorno alle due principali stagioni (Carnevale e fiera d’agosto): dalle mascherate alle esibizioni mimiche e buffonesche, dai burattini al circo, dagli ammaestratori di animali e dalle esposizioni di animali esotici alle esibizioni dei ciarlatani e dei saltimbanchi, dagli acrobati agli ambulanti con i loro apparecchi proto-cinematografici, dai tornei alle opere in musica le quali, fra tutti gli spettacoli, avevano largo campo: da quando l’opera in musica era stata inventata, costituiva certo l’esca più appetitosa: nel corso del Settecento dunque, il fecondo connubio di Opera e Fiera era ben noto e praticato anche a Bergamo: o meglio, nei suoi Borghi.
Con il passaggio alla Fiera in muratura, nel 1740, venne sancito il definitivo spostamento dellasede direzionale dell’economia dalla Città sul colle ai Borghi nella piana: la Fiera, con le aree circostanti, era ormai divenuta l’elemento centrale del divenire cittadino, il luogo dell’incontro del baricentro sociale e urbanistico tra l’antica città sul colle e la nuova città che si espandeva oltre le Muraine.
La mentalità bigotta e provinciale che voleva una Bergamo laboriosa, onesta e virtuosa, ma poco incline ai divertimenti del teatro profano, fu piegata dalla vitalità dei Borghi, fino ad essere definitivamente sconfitta dall’azione individuale di una persona che non apparteneva all’oligarchia cittadina, ma al ceto imprenditoriale emergente (2).
Si trattava di Bortolo Riccardi, scaltro impresario teatrale (3), che nel 1786, nel prato sant’Alessandro dove si teneva la fiera, prese l’iniziativa di sostituire al teatro provvisorio preesistente (il Teatro Bolognesi, un baraccone-teatro costruito in legno, su istanza di Francesco Bolognesi, e sorto in quest’area nel 1770) un teatro cittadino con caratteri un po’ meno effimeri di quelli che si innalzano e si demoliscono stagione dopo stagione, rinsaldando definitivamente il nesso Fiera-Teatro.
Il nuovo edificio doveva risultare talmente complementare alle installazioni commerciali, da essere situato perfettamente in asse rispetto a loro (era infatti posto fra le Muraine e il Sentierone, cui si rivolgeva), “in prospetto al rastello di mezzo di là della strada verso il portello delle Grazie”: insomma, una sorta di prolungamento, di loro appendice, come mostrano le piante d’inizio Ottocento.
Travagliate furono le vicende legate a questo progetto del 1786. Per edificare un teatro stabile, Riccardi dovette aggirare le norme del Comune e dell’Ospedale Maggiore (rispettivamente proprietario e usufruttuario del terreno presso la Fiera), che imponevano le caratteristiche della provvisorietà. Con decisione e spregiudicatezza, adducendo a pretesto l’umidità del terreno il Riccardi piantò le fondamenta in pietra e cominciò a erigere i piloni in mattoni.
Per finanziare la costruzione del teatro, Bortolo Riccardi fu costretto, con atto notarile del 30 giugno 1790, a vendere i palchi; gli acquirenti del tempo, così come nelle grandi città, erano i membri delle grandi famiglie nobili, talvolta dell’alta borghesia. I palchisti del Riccardi erano rappresentati dai tre nobili Giovanni Battista Vertova, Luigi Grismondi e Giovanni Giacomo Arrigoni: 930 lire per prepiano e primo ordine, 690 per il secondo e 360 per il terzo – fino al 7 novembre 1938, all’atto della cessione al Comune, all’insegna della dialettica tra pubblico e privato (la vertenza sui canoni arretrati, che Riccardi esigeva all’infuori della stagione di fiera, si trascinerà fino al 1884 cogli eredi dell’imprenditore).
La fabbrica venne sospesa perché l’iniziativa aveva suscitato un putiferio di polemiche, ma di sicuro Riccardi non ne attese il compimento per utilizzare il teatro (che per il momento veniva chiamato indifferentemente Teatro Nuovo al Prato di Fiera, o Teatro Nuovo, o Teatro di Fiera): fra polemiche e ristrettezze finanziarie, nel teatro sistemato in qualche modo con coperture di legno e di tela, ben prima dell’inaugurazione ufficiale s’incominciarono a tenere spettacoli e già nel 1784 si rappresentò l’opera in musica “Medonte” di Guseppe Sarti.
Il quinquennio intercorso tra la prima metà del 1786 (periodo in cui Bortolo Riccardi conseguì la licenza per la messa in sicurezza del vecchio teatro di legno) e il 1791 (anno della definitiva conversione in pietra dell’edificio) fu segnato da controversie di ogni tipo.
Prima ancora dell’apertura ufficiale, durante il Carnevale del 1791 al Riccardi venne organizzato il lancio di un pallone areostatico. Conclusi i lavori e completata la copertura, il 24 agosto del 1791 vi fu l’inaugurazione ufficiale, con l’intitolazione a Riccardi: come opera inaugurale fu scelta la “Didone abbandonata” di Pietro Metastasio. L’ellisse allungata della pianta garantiva una perfetta visibilità e un’ottima acustica; per la distribuzione ed armonia – affermava un testimone dell’epoca – può essere considerato fra i migliori d’Italia.
Negli anni successivi, il teatro restò regolarmente aperto nei periodi consentiti (Primavera ed Estate, oltre che per la Fiera), senza destare particolari preoccupazioni nelle autorità: all’opera seria, momento chiave della programmazione coincidente con la fiera, si affiancavano altri generi nei restanti periodi dell’anno: teatro in prosa, opera buffa e, in alcuni casi, spettacoli circensi.
Tuttavia venne sottoposto ad una vigilanza continua. Siamo infatti nel periodo seguente lo scoppio della rivoluzione francese, evento che indusse il potere veneziano a tenere un atteggiamento sempre più guardingo nei confronti di tutti i luoghi pubblici deputati al tempo libero e all’intrattenimento: dai teatri alle osterie, dalle accademie alle pubbliche piazze. Non sorprende quindi se nel 1796, anno che precede la rivoluzione bergamasca, il proprietario dell’unico teatro stabile cittadino, insieme a parte dei personaggi che ruotavano attorno all’attività del medesimo, figurassero tra i principali fautori della ribellione contro Venezia e propugnatori dei diritti di uguaglianza, libertà e fraternità diffusi dai francesi. Nel corso degli eventi che prepararono la rivolta Bortolo Riccardi assunse i tratti di una figura carismatica, così come il suo teatro sembrò diventare un punto di riferimento per un nuovo ceto cittadino.
A Bergamo, l’arrivo delle truppe francesi avvenne 25 dicembre 1796: occuparono e disarmarono il Castello di San Vigilio, punto militarmente strategico, in attesa del via libera da parte dei comandi generali per prendere ufficialmente possesso della città. All’assedio dei nemici Alessandro Ottolini non poté opporre alcun reale provvedimento bellico. I mesi che seguirono si contraddistinsero come un periodo di estenuante attesa da entrambe le parti. Le scelte del capitano furono perciò disperate. Dopo aver ottenuto il permesso da Venezia, la notte del 7 gennaio 1797 fece smantellare il Teatro della Cittadella, allo scopo di impedire l’ingresso nel proprio palazzo dei soldati francesi in veste di spettatori: spettacoli teatrali all’interno del fortilizio avrebbero permesso un facile accesso ai nemici in un luogo nevralgico per il mantenimento del potere militare sulla città.
Nel frattempo ordinò che la stagione invernale proseguisse nel Teatro Riccardi, situato all’esterno delle mura veneziane, nel prato di Sant’Alessandro. Cinque giorni dopo, nella notte del 12 gennaio 1797 (giorno prima del via della Stagione operistica nonché anno di nascita di Gaetano Donizetti), un furioso incendio distrusse irrimediabilmente anche questo edificio.
La demolizione di un teatro e l’incendio dell’altro apparirono immediatamente collegati. Dopo la caduta della dominazione veneziana il processo attivato dalla municipalità bergamasca individuò nel capitano Ottolini il vero responsabile ed ideatore della distruzione del Teatro Riccardi. La chiusura forzata dei due teatri avrebbe seguito una logica precisa da parte delle autorità veneziane, volta ad impedire la temuta rivoluzione.
L’abbattimento dei due teatri principali (Cittadella e Riccardi) non impedì che venisse immediatamente ristabilito il binomio Città Alta vs Borghi. Nell’agosto del 1797, sebbene in un edificio provvisorio, descritto come “nuovo Provisional teatro di Fiera”, si tenne l’opera buffa “L’Astuta in amore o li Raggiri scoperti”, con un cast quasi del tutto milanese (4). Nel frattempo Bortolo Riccardi progettava di ricostruire il suo teatro al più presto.
Per quanto riguarda la Città Alta, per sostituire il Teatro di Cittadella venne dato prontamente il permesso all’impresario Francesco Cerri di costruire un teatro nella Sala Maggiore del Palazzo della Ragione, con la riserva che restasse attivo per soli dieci anni 1797-1807(5). Il Teatro Cerri allestì opere serie e comiche; aveva 74 palchetti disposti su tre file sormontate da una loggia, il teatro, in legno.
Dopo la demolizione di questo teatrino la Città Alta non rimase senza un edificio consono agli spettacoli del Carnevale. Dopo lo smantellamento del Teatro Cerri, sarà ilTeatro Sociale ad imporsi definitivamente con questo ruolo (6).
Il rinnovato Teatro Riccardi, sempre per opera dell’architetto Gianfranco Lucchini venne ricostruito interamente in muratura e venne abbellito (parapetti dei palchi e soffitto) da pitture a chiaroscuro del Bonomini – pittore fra i più originali del periodo fra Sette e Ottocento -, che purtroppo si persero in occasione dei lavori di restauro del 1870. Riferisce Io storico Pasino Locatelli che il Lucchini, per probabili ragioni di economia, nel riedificare il teatro “non vi pose la solidità primitiva e fu [il teatro] anche lasciato non compito”, ed infatti rimase privo di facciata. Comunque “l’ampiezza, la forma interna, la bella e armonica curva furono però conservate, se non migliorate”. Così compiuto, il teatro venne riaperto al pubblico il 30 giugno 1800 con uno spettacolo di prosa.
Agli inizi dell’Ottocento, e precisamente dopo la vittoria di Marengo, Napoleone dominava la scena europea. Nasceva così la Seconda Repubblica Cisalpina: mentre le truppe francesi presidiavano Bergamo, al Teatro Riccardi si davano rappresentazioni di diverso tipo, in onore dei nuovi dominatori.
L’inizio del secolo vide l’affermazione al Riccardi di un illustre musicista bavarese, diventato bergamasco, Giovanni Simone Mayr; lo straordinario impulso da lui impresso alla vita musicale della città si esercitò pure negli spettacoli d’opera al Riccardi fin dal 1801 (“L’Equivoco” e, successivamente, “L’Elisa” e “Ginevra di Scozia”), anche se fu solo dal 1802 che il musicista si installò definitivamente in città, intervenendo direttamente per diversi anni nell’allestimento delle sue opere. Nello stesso anno fu nominato direttore della Cappella di Santa Maria Maggiore e nel 1805 fondò le Lezioni caritatevoli di musica, poi Istituto Musicale, nel cui ambito fu il maestro e padre spirituale di Donizetti. Nel secondo decennio del secolo venne il turno di Rossini: furono infatti le opere del musicista pesarese a dominare in tale periodo al Riccardi (7).
Ma a un certo punto, l’impresa economica del Riccardi dovette scontrarsi con le pretese di privilegio di nobili e ottimati, ai quali aveva dovuto vendere i palchi (1790) per raccogliere la somma necessaria a completare l’edificio.
E fu sull’obbligo o meno di pagare un canone per le stagioni fuori dalla fiera, che scoppiò, nel 1802, un contenzioso che portò “molte famiglie delle principali bramose di conservare il lustro alla parte della Città stata sempre in possesso dello Spettacolo Teatrale nella Stagione suddetta” ad unirsi e ad erigere – a loro spese – “un secondo Teatro in vivo emulo del Teatro Riccardi” (da una relazione del 1817) (8) .
L’iniziativa dell’imprenditore Riccardi – un uomo estraneo all’oligarchia cittadina – battendo sul tempo l’immobilismo della Città alta, aveva infatti sbilanciato sensibilmente gli equilibrî tra le due articolazioni urbane rivali, in favore di quella pedemontana. Il suo, infatti, era il primo teatro stabile cittadino, un edificio a destinazione teatrale eretto appositamente ed autonomo, mentre ogni altro precedente teatro bergamasco era stato ricavato in spazi preesistenti nati con altra vocazione; la fondazione stabile di quel teatro sanciva molto concretamente il protagonismo dei Borghi rispetto alla Città.
Il teatro Riccardi in effetti era molto frequentato ed apprezzato. Lo scrittore Stendhal, presente a Bergamo come sottotenente di cavalleria dell’esercito napoleonico, scriveva a casa che “la nostra città ha due teatri: uno molto bello nel borgo, che è la Bergamo situata in pianura, e l’altro in legno sulla piazza della città” (ossia di Città alta: si tratta del Cerri).
Sull’onda della competizione tra la Città e i Borghi, ilTeatro della Società (odierno Teatro Sociale) – inaugurato il 26 dicembre 1808 in Bergamo alta – nasceva dunque come iniziativa secessionista da parte della costola aristocratica del Riccardi, con il preciso intento di restituire alla Città quella supremazia che questi le aveva insidiato.
La competizione si palesava anche sul piano estetico, a partire dalla scelta del progettista (L. Pollack): nonostante si prospettasse su di una via piuttosto angusta (lo spazio era stato ricavato attraverso una serie di demolizioni), col suo prospetto elegante e decorato, il Sociale si presentava all’esterno con tratti di dignità ben diversi dal Riccardi che, visto da fuori, dava l’idea di un pachiderma goffo e sgraziato.
Nelle stagioni di punta, le sale del Sociale e del Riccardi entrarono immediatamente in concorrenza sul terreno dell’opera (tra il 1810 e il 1814), alimentando e rispecchiando al tempo stesso quella situazione di conflitto esistente fra gli abitanti di Città e quelli del Borgo. Tuttavia, sostanzialmente, a parte alcune deroghe, non venne messo in discussione l’avvicendamento gerarchico tra i due teatri: il Carnevale apparteneva al Sociale(9) (che per tradizione assicurava l’intrattenimento carnevalesco per nobili, patrizi e borghesi dentro i bastioni) e ovviamente la Fiera al Riccardi e per assicurarsene, il Sociale fece addirittura in modo che tale tregua venisse imposta d’ufficio (1819), evitando quantomeno la gara operistica nei periodi suddetti (in più limitando la propria offerta concorrenziale al teatro parlato, reputato di rango inferiore), ed evitando quindi un enorme dispendio economico che il Sociale non poteva sostenere.
Quest’ultimo chiese ed ottenne, dal 1825 al 1856, l’erogazione di un finanziamento comunale (dote), poi soppressa a causa delle difficoltà economiche dovute alle vicende belliche e politiche degli anni seguenti, cosa che diede avvio ad anni difficili per il Sociale, che in più di un’occasione dovette economizzare.
Nel frattempo erano cambiate le condizioni politiche: nel 1814 le truppe francesi avevano abbandonato Bergamo e al loro posto s’erano insediate quelle austriache. Il dominio dell’Austria durerà fino al 1859.
Nel 1830 l’amministrazione del Teatro Riccardi passò, da Bortolo Riccardi, suo fondatore, all’impresario Bartolomeo Merelli (che aveva studiato musica con Donizetti e che per i suoi metodi dittatoriali era soprannominato “il Napoleone degli impresari”), il quale organizzò stagioni teatrali di grande richiamo. Per merito suo Vincenzo Bellini fu ospite del “Riccardi” nel 1830 con “La straniera” e nel 1831 con “Norma”, curandone in proprio la messinscena (la recita bergamasca della “Norma” costituisce una trionfale rivincita di quest’opera, che l’anno prima, al suo debutto alla Scala, era stata accolta freddamente: merito anche dell’interpretazione del celebre soprano Giuditta Pasta).
Ed fu ancora benemerenza del Merelli se le opere di Gaetano Donizetti vennero rappresentate a Bergamo in gran numero, a partire dal 1837, collaborando ad affermare le fortune del compositore bergamasco, riconosciuto a ragione uno dei più grandi dell’Ottocento.
Nel 1840 per la prima volta Bergamo tributò una pubblica manifestazione (fu anche l’ultima, lui vivente) a Donizetti, presente in teatro per la rappresentazione della sua opera “L’esule di Roma”, interpretata da cantanti di grido come Domenico Donzelli, Eugenia Tadolini e Ignazio Marini. I bergamaschi avevano scelto questo melodramma eroico come omaggio incondizionato (si tramandano in quell’occasione inseguimenti della carrozza del Maestro).
A Bergamo il Maestro tornò definitivamente nel 1847 (al Riccardi si era appena rappresentata la sua “Maria di Rohan”), per morirvi l’anno successivo, proprio nei giorni più esaltanti del movimento bergamasco di liberazione dal dominio austriaco.
Il gusto musicale dell’epoca era molto esigente, nacquero in città diverse società filarmoniche (centri di cultura musicale), si creò la prima banda cittadina e, sebbene il bisogno di teatri stabili della città di Bergamo venisse ora soddisfatto pienamente, la diffusa attività di attori e compagnie teatrali dilettanti favorì la costruzione anche di altri piccoli teatri: ricordiamo il Teatrino di Rosate ed il Teatro di San Cassiano in Città Alta, nonché il Teatro della Fenice in Città Bassa.
Oltre ai citati, in quest’epoca si affermarono al Riccardi grandi cantanti, come Giuditta Crisi, Giuseppina Strepponi (poi moglie di Giuseppe Verdi), Domenico Reina, Erminia Frezzolini, Carlo Guasco, Napoleone Moriani, e i grandi bergamaschi Giovan Battista Rubini (rivale del già citato Domenico Donzelli), Giacomo e Giovanni David, padre e figlio, anch’essi tenori (il secondo fu soprannominato: il Paganini del canto), Angelina Ortolani Tiberini, soprano, e altri ancora. Nell’atrio del teatro – sistemato modernamente – si possono vedere tra gli altri busti quelli del Rubini e della Ortolani.
Vi fu poi il debutto di Giuseppe Verdi, presente al Riccardi con l’“Ernani” nel 1844. L’esito della rappresentazione, curata dallo stesso Verdi, fu positivo, in un teatro affollato da molti esponenti del mondo artistico del tempo.
Verdi tornò al Riccardi per curare la messinscena del “Rigoletto” (1854), per la sua “prima” in Lombardia, ma l’esecuzione fu mediocre, con disperazione del Maestro, che però si rifece in seguito con gli esiti trionfali delle tante sue opere rappresentate al Teatro Riccardi.
Ma al Riccardi erano presenti anche i balletti (in uno si esibì, nel 1840, la celeberrima danzatrice Fanny Cerrito), le pantomime, le commedie, e spettacoli vari.
Tra gli attori di prosa si avvicendarono sulle tavole del Riccardi i maggiori interpreti italiani del tempo, come Giuseppe Salvini, Francesco Augusto Bon, Luigi Romagnoli, tutti capostipiti di famiglie di grandi teatranti, e poi Romualdo Mascherpa, Giuseppe Moncalvo, Maddalena Pelzet, Adelaide Ristori, Gustavo Modena. Vi furono anche trattenimenti di vario genere come i vaudevilles(progenitori dell’operetta) e meraviglie scientifiche come l’Agioscopio e il Miriafanorama, sistemi di proiezioni luminose che precorrono in certo senso, nel 1846, il cinematografo.
Dal 1835 il teatro venne dotato di un nuovo sipario, dipinto da Carlo Rota, e il concorso di pubblico non mancò. Gli ingressi si pagavano in lire austriache. Per facilitare gli spettatori provenienti da Città alta, e per attirarli nel “Borgo”, si praticarono per loro riduzioni di prezzo.
Nel frattempo, l’insofferenza contro il dominio dell’Austria aumentava sempre di più; tra le province dell’Alta Italia, quella di Bergamo era la più decisa a pronunciarsi contro l’Impero. Nel 1847 si registrò al Riccardi una memorabile esecuzione dell’opera “I lombardi alla prima Crociata” di Verdi, con una interminabile commossa ovazione al famoso coro “O Signore dal tetto natio”, emblematica espressione di tutti i popoli che aspirano alla libertà.
La rivolta vera e propria scoppiò nel marzo del 1848: anche Bergamo ebbe le sue Cinque Giornate e mentre numerosi cittadini accorsero a dar man forte ai milanesi sollevatisi contro Radetzky, altri in città, contemporaneamente, promossero ed attuarono l’insurrezione contro il presidio austriaco, comandato dall’arciduca Sigismondo, costretto a cedere.
Per motivi di “politiche turbolenze” e poi per un’epidemia di colera il Riccardi restò chiuso durante le stagioni di Fiera del 1848 e del 1849, e per un certo periodo fu adibito a ospedale militare. Le illusioni di libertà intanto caddero ad una ad una; e dopo una campagna vittoriosa le forze patriottiche si sfaldarono e gli Austriaci ripresero il sopravvento.
Si succedettero anni senza storia, se si eccettua l’incendio che una notte del 1850 distrusse parte del palcoscenico, e i lavori di miglioria apportati nel 1856. Poi, finalmente, nel 1859Bergamo si liberò una volta per tutte dal governo straniero. L’Italia una e sovrana diventava una realtà. Il 12 agosto di quell’anno si tenne al Riccardi un concerto per la venuta a Bergamo di re Vittorio Emanuele II.
Con il cambio di regime – e l’annessione di Bergamo al regno di Sardegna (poi d’Italia) – divampò nuovamente la gara operistica tra il Riccardi e il Sociale; gara che di nuovo, però, si smorzò a causa di ragioni economiche: già nel 1861 e 1862 il Sociale tacque, nel 1863 organizzò al massimo una stagione di teatro parlato e nel 1864 addirittura solo qualche concerto di studenti del Conservatorio di Milano.
Circolava per la città un’ aria nuova, una sensazione di progresso e di benessere, oltre quella relativa alla libertà ritrovata. Già durante gli anni austriaci la costruzione dei propilei di Porta Nuova (1837), della strada Ferdinandea (1838) e della stazione e del relativo collegamento ferroviario con Milano (1857), costituivano altrettante tappe dell’emancipazione della Città Bassa.
Ora, sindaco Giovan Battista Camozzi, fratello di Gabriele amico di Giuseppe Garibaldi, e patriota lui stesso, la città venne illuminata a gas; entrarono in funzione le prime tramvie civiche e, con il 1872, col trasferimento del Municipio l’emancipazione della Città Bassa fu portata a compimento.
Anche al teatro Riccardi, nel 1868, arrivò l’illuminazione a gas, che sostituì quella ad olio grazie ad una grande lumiera di centoventidue fiamme per la sala, più un’altra più piccola per l’atrio. Nel 1869 vennero effettuati alcuni lavori di restauro interni, ad opera di Giuseppe Carnelli e di Angelo Rota. Tra i lavori di pulitura e riverniciamento – scrive Ermanno Comuzio – “spicca il nuovo assetto del boccascena. Sopra la ribalta fa bella mostra di sé un gruppo di cinque figure femminili in rilievo capitanate dalla Fama e servite da alcuni genietti i quali recano simboli dell’arte scenica. Le figure sono collegate fra loro da finti panneggi che arrivavano fino al lampadario centrale. Tutt’intorno si svolge un cornicione in ordine composto, diviso in sei parti, in ognuna delle quali sta un medaglione che rappresenta un ‘grande’ del teatro: Donizetti, Mayr, Bellini, Mercadante, Alfieri e Goldoni, mentre Rossini sta nel mezzo, vicino alla Fama. Sopra ogni medaglione, un putto in gesso mostra un simbolo delle opere degli autori raffigurati. II cornicione è ‘leggermente ma elegantemente decorato di cordoncini d’oro a fasce bianche, con graziosi ornamenti di meandri e rosoni in carta pesta’. I palchi offrono decorazioni alternate rappresentanti la tragedia e la musica, ed ‘i panni d’ornamento al palco scenico sono egregiamente dipinti in velluto rosso con ricca frangia di oro ed ermellino’. Inoltre il primo ordine dei palchi è dipinto a lucido imitante il marmo di Carrara”.
L’esterno era ancora quello delle origini, col suo angusto portichetto e i muri scrostati. Resterà cosi ancora per quasi trent’anni.
Nel 1877 si rifecero l’armatura e la copertura del tetto, si rinnovò la pavimentazione della platea e si sostituirono i sedili di platea (quelli esistenti, a parte la loro vecchiezza, erano talmente scomodi da “rompere le reni”).
In quello stesso anno (1887), l’apertura della funicolare, pur migliorando i rapporti tra le due città, non impedì il declino del Sociale; anche per il Riccardi in realtà il periodo non era molto brillante: a metà ‘800 il sistema fieristico bergamasco era entrato in crisi. Anche a causa della decadenza della Fiera e quindi delle minori entrate, nel 1855 il Consiglio Comunale aveva votato l’abolizione del contributo ai due teatri cittadini.
La cessazione della dote comunale acuì le difficoltà del Sociale, che diventarono l’emblema di quelle della Città Alta, mentre con la decadenza della Fiera entrò in crisi anche la gestione del Riccardi, che in mancanza delle sovvenzioni municipali fece decadere il livello degli spettacoli, registrando un calo della partecipazione di pubblico.
Un’epoca stava finendo ed un’altra doveva fare i conti col proprio futuro. S’incominciò a dibattere di un possibile cambiamento del centro di Bergamo e della possibilità di avere un unico teatro che fosse sintesi delle due città. La svolta decisiva arrivò con la fine del secolo.
Un primo segno di riscossa si ebbe quando la gestione del teatro venne affidata a un capomastro intraprendente, Luigi Dolci, attratto dal mondo dello spettacolo e impresario di un teatrino di legno che sorgeva provvisoriamente in Piazza dei Baroni, oltre che costruttore di due teatri nello stesso luogo dalla vita piuttosto breve, l’Ernesto Rossi e il Givoli.
Dal 1879 la gestione del Riccardi venne assunta da una donna, Giovannina Lucca, vedova di un importante editore musicale diretto rivale dei Ricordi, la quale presentò fra l’altro in teatro, in prima nazionale, l’opera SteIla del Nord del compositore tedesco Meyerbeer.
Nel 1895 il teatro passò ad una società di cittadini (che divennero proprietari secondo un sistema di quote dette carature) e vi fece per la prima volta la sua comparsa un’opera di Wagner, propugnatore di una nuova concezione del melodramma, che provocò anche a Bergamo violente polemiche. Insieme all’opera e alla prosa furono ospitati al Riccardi spettacoli e manifestazioni di vario tipo, compreso il “varietà” (con artisti di eccezionale valore, come il trasformista Fregoli), le “accademie musicali”, gli incontri sportivi (lotta, scherma, per citarne alcuni), nonché il circo (fece scalpore il Wild West Show di Buffalo Bill, già famoso cacciatore di bisonti).
Fra i meriti della citata Giovannina Lucca è l’aver Portato sulla scena del Riccardi, nel 1885, l’opera postuma e incompiuta di Donizetti “Il Duca d’Alba”, completata delle parti mancanti dal maestro bergamasco Matteo Salvi.
Fu nel nome di Donizetti che avvenne una svolta determinante nella vita del teatro: nel 1897, in occasione del centenario della nascita del compositore, il Teatro Riccardi assunse il nome di Teatro Gaetano Donizetti.
La solenne commemorazione culminò nell’inaugurazione del monumento dello scultore Francesco Jerace, posata nella piazza che fiancheggia il lato est dell’edificio.
Con l’occasione si provvide al completo rifacimento della facciata, la quale, edificata a cura dell’architetto Pietro Via, assunse l’aspetto – salvo particolari – che conosciamo oggi.
(3) Bortolo Riccardi apparteneva a una famiglia bergamasca vivace e intraprendente, arricchitasi con la produzione e il commercio della seta.
(4) Francesca Fantappiè, Ibidem.
(5) Francesca Fantappiè, Ibidem.
(6) Francesca Fantappiè, Ibidem.
(7) teatrodonizetti.it
(8) Il 3 marzo 1803 si costituì una società di 54 membri (una ventina almeno dei quali, proprietarî di palchi al Riccardi) che pochi giorni dopo elessero al proprio interno una deputazione teatrale, che si occupò della scelta del luogo, dell’acquisizione e predisposizione del terreno (con demolizione dei fabbricati preesistenti), della commissione di un progetto all’architetto prescelto (Pollack, che lo data 7 dicembre 1803). I lavori iniziarono a fine 1804, concludendosi nel 1808 (morto Pollack nel 1806, il cantiere passò ad Antonio Bottani). Il 16 aprile 1808 vi fu la stesura e l’approvazione del regolamento per l’estrazione dei palchi, effettuata il 30 luglio; il 26 dicembre 1808, vi fu l’inaugurazione del Teatro della Società.
(9) Va però precisato che l’inizio della stagione del Carnevale cadeva notoriamente il 26 dicembre, per cui ad esempio la dizione ‘carnevale 1810’ significava che i suoi spettacoli potevano principiare a partire dal 26 dicembre 1809.
Riferimenti
Paolo Fabbri, Le due città, in Luigi Pilon, “Il Teatro Sociale di Bergamo. Vita e opere”. 2009 Silvana Editoriale – Cinisello Balsamo (MI). Fondazione Donizetti – Bergamo.
L’edificio in cui nacque Gaetano Donizetti (Bergamo 1797 – 1848), è situato al n° 14 dell’antica via Borgo Canale, caratteristico assembramento medievale di alte case che si snodano su doppia schiera per buona parte del suo percorso.
Il Borgo, la cui struttura tradisce apertamente l’impronta medievale, era parte integrante del sistema urbano principale costituendo la continuazione diretta di via Arena, che attualmente parte dal retro di S. Maria Maggiore e s’interrompe all’altezza del Nuovo Seminario. Ma con la costruzione delle mura veneziane (1561) quest’importante asse viario subì una frattura, che lo trasformò in assembramento suburbano esterno alle mura, conferendogli quindi il connotato di “borgo”: si avviava così un processo di degrado e impoverimento, che non conobbe controtendenza fino a Novecento inoltrato.
Negli anni in cui nasceva Gaetano Donizetti il Borgo naturalmente aveva un aspetto esteriore e un insediamento sociale assai differenti da quelli odierni: le case, fatiscenti e umide, ospitavano famiglie che traevano magro sostentamento prestando umili servizi nei palazzi aristocratici e alto-borghesi posti all’interno del sistema murario. Manovali, stallieri, maniscalchi, lavoranti d’opificio e sarti – con i loro numerosi nuclei familiari – occupavano malsani tuguri.
E proprio da una famiglia di tessitori, o sarti, il 29 novembre 1797 nacque Domenico Gaetano Maria Donizetti, quinto dei sei figli messi al mondo da Andrea Donizetti (1765-1835) e Domenica Oliva Nava (1765?-1836).
Gli avi di Donizetti erano arrivati a Bergamo probabilmente dalla vicina Pontida nella prima metà del XVIII secolo.
La famiglia di Andrea occupò i locali in via Borgo Canale al numero 14 per vent’anni, dal 1786 al 1806.
Nel 1806 le condizioni di vita della famiglia cominciarono a migliorare, e così i Donizetti si trasferirono al numero 35 di Piazza Nova (l’attuale Piazza Mascheroni, 8). Dal 1808 Andrea diventò custode del Monte di Pietà, chiudendo definitivamente un increscioso periodo di assoluta indigenza.
Individuata grazie alle ricerche compiute da Ciro Caversazzi pubblicate nel 1924, la casa dove nacque Gaetano Donizetti è un edificio di 5 piani risalente all’epoca medievale. Il declivio del colle su cui sorge Borgo Canale fa sì che dalla via che l’attraversa si vedano solo 4 piani, mentre dalla strada a valle (l’attuale via degli Orti) i piani fuori terra sono 5.
I Donizetti abitavano appunto nel seminterrato, la parte più antica dell’edificio, di epoca tre-quattrocentesca, posto al livello della sottostante via Degli Orti.
Guardando la struttura si evince che nella loro prima destinazione i locali dovevano essere un antico, ampio, portico aperto e voltato. Si possono infatti scorgere le due doppie campate sostenute da pilastri, chiuse da più recenti muri in cotto che scandiscono la suddivisione attuale.
Nel suo epistolario, Donizetti scrive queste poche parole, scolpite in una lapide di marmo collocata nel pavimento dell’abitazione, rendendo perfettamente l’impressione che ancor oggi si ricava scendendo la ripida e angusta scala che conduce ai locali un tempo occupati dalla famiglia di Andrea: «Nacqui sotterra in Borgo Canale. Scendevasi per una scala di cantina ov’ombra di luce non mai penetrò. E siccome gufo presi il mio volo» (Lettera a Giovanni Simone Mayr da Monaco, del 15 luglio 1843).
Superato l’ingresso da via Borgo Canale e discesa la scala, ci si trova in un piccolo corridoio che separa gli ambienti in due zone: a destra si accede ai suggestivi locali che ospitano il pozzo e la ghiacciaia; a sinistra si passa invece alle due stanze in cui si svolgeva la vita quotidiana della famiglia: la cucina, con il semplice camino, e la camera da letto dove vide la luce Gaetano Donizetti. Non vi sono mobili: chi vi abitò era troppo povero per avere arredi di qualche pregio, e i cambiamenti di inquilini non hanno favorito la conservazione di ciò che c’era.
Le uniche fonti di luce dell’appartamento, una porta e una finestra, si affacciano sul piccolo e rustico giardinetto affacciato su via Degli Orti.
La botola visibile nella stanza immette ad una cantina-ripostiglio, in passato comunicante direttamente col pozzo. È inoltre ben evidente, sul pavimento, lo scolatoio che dalla ghiacciaia conduceva l’acqua al pozzo. Il ghiaccio e la neve, preziose riserve d’acqua pulita, venivano fatti scivolare in questi locali attraverso un’apertura a livello terreno sul Borgo Canale.
Acquistato dal Comune di Bergamo nel 1925 grazie ad una sottoscrizione pubblica promossa l’anno prima, nel 1926, per Regio Decreto N. 338 del 28 gennaio l’edificio venne dichiarato Monumento Nazionale in quanto «di interesse storico». Disabitato dal 1929 alla metà degli anni ’30, lo stabile tornò ad essere casa d’abitazione fino alla metà degli anni ’60.
In occasione del primo centenario della morte di Donizetti (1948), e poi nel 1973, si provvide a restaurare il seminterrato e ad aprirlo al pubblico. Nel 2007 dal Comune di Bergamo furono avviati i lavori di restauro e ristrutturazione dell’intero edificio, che hanno portato alla sua totale apertura nel 2009. Il suo riallestimento è stato affidato alla Fondazione Donizetti.
Con la convenzione realizzata tra Comune e Fondazione Donizetti si rende disponibile, stabilmente e continuativamente, questo prezioso bene, simbolo dell’attaccamento di Bergamo al suo più illustre figlio.
La prima e più certa notizia che si ha sulla famiglia di Gaetano Donizetti appare nello Status Animarum della parrocchia di S. Grata inter vites di Borgo Canale, dov’egli viene battezzato il 3 dicembre.
Da questo documento risulta che Ambrogio Donizetti, nonno di Gaetano, negli anni compresi tra il 1779 e il 1785 abita in ædibus Milesi, in prossimità della parrocchia. Non è chiaro né l’anno né il luogo della sua nascita, ma Ciro Caversazzi, che compone la tavola genealogica della famiglia Donizetti – esposta al Museo Donizettiano – afferma che sarebbe nato nel 1732.
È certo invece che Ambrogio Donizetti convola a nozze due volte, dapprima con Rosalinda Cereda e, dopo la morte di questa, con Maria Gregis. Dalla prima ha quattro figli, tra i quali è compreso Andrea, futuro padre di Gaetano; dalla seconda, nove. Andrea, quarto figlio di Ambrogio nato il 20 dicembre 1765, si unisce in matrimonio il 1° febbraio 1786, a 21 anni non ancora compiuti, con Domenica Nava, sua coetanea e concittadina. Dalla loro unione nascono sei figli: Giuseppe (1) (1788-1856), anch’egli musicista, Maria Rosalinda (1790-1811), Francesco (1792-1848), Maria Antonia (1795-1823), Domenico Gaetano Maria (1797-1848) e Maria Rachele (21 marzo- 5 aprile 1800).
Gaetano è dunque il quinto figlio di Andrea e Domenica.
(1) Corista in S. Maria Maggiore e nei teatri cittadini, nel 1815 entrò nell’esercito del Regno di Sardegna come capomusica. Assunto come «Istruttore generale delle Musiche Imperiali Ottomane», rimase a Costantinopoli fino alla morte (1856) essendo stato nominato pascià, colonnello onorario della Guardia Imperiale Ottomana, e generale di brigata dal successore di Mahmud II, il sultano Abdul Medjid.
All’epoca della nascita di Gaetano, da non molti mesi Bergamo non apparteneva più alla Repubblica veneta di S. Marco. Dopo un dominio durato ininterrottamente per quasi tre secoli, con la prima campagna napoleonica d’Italia la città era entrata a far parte della Repubblica Cisalpina. Gaetano nacque dunque cittadino di questo recentissimo stato, poi divenuto Repubblica Italiana (1802-1805), e infine Regno d’Italia (1805-1814), sempre con a capo Napoleone.
Verso la fine del ‘700 risiedono in Borgo Canale numerose famiglie di tessitori; anche Andrea – il padre di Gaetano – è operaio nel settore.
Nel 1808 Andrea, assunto in qualità di custode e portinaio del Monte di Pietà di Bergamo, sito in Piazza Nova (l’odierna piazza Mascheroni), si trasferisce con la famiglia in un nuovo alloggio nelle vicinanze del luogo di lavoro, lasciando quindi la vecchia casa di Borgo Canale.
Anche la moglie Domenica collabora nel sostentamento della numerosa famiglia: nel 1816 figura nei protocolli della Congregazione di Carità come cucitrice, lavoro svolto insieme alle due figlie sopravvissute.
Per i tre maschi papà Andrea nutre qualche ambizione; per Gaetano aspira addirittura agli studi di giurisprudenza, se dobbiamo prestar fede a una lettera spedita dal compositore all’impresario Alessandro Lanari il 6 agosto 1833: “… sappi che io […] doveva far l’avvocato e per quella via m’incamminarono li miei genitori….”.
In un primo tempo, infatti, Andrea si oppone alla decisione del figlio di intraprendere la carriera teatrale, ma successivamente se ne convince, regalando al figlio, in segno di riconciliazione, il raschietto d’osso oggi esposto in una vetrina del museo.
I due genitori muoiono a poche settimane di distanza l’uno dall’altro: il padre il 9 dicembre 1835, per affezione tubercolare, mentre la madre il 10 febbraio 1836, per insulto apoplettico.
Donizetti, impossibilitato a seguire personalmente le esequie, incarica l’amico Antonio Dolci di tutte le cure e spese necessarie che valgano a dimostrare la gratitudine di un figlio.
FORMAZIONE E APPRENDISTATO (1806-1821)
Dobbiamo in massima parte a Johann Simon Mayr (Mendorf, Baviera, 1763 – Bergamo, 1845), compositore e didatta di fama europea, se il genio di Donizetti si è potuto esprimere al meglio.
Le Lezioni Caritatevoli di Musica, da lui fondate nel 1806 (2), sono una scuola professionale con scopi benefici, germinate dallo spirito riformatore ed egualitario dell’illuminismo e della massoneria (eretta dunque nel quadro delle attività assistenziali promosse dal governo dopo la caduta degli antichi regimi e la nazionalizzazione dei beni ecclesiastici) di ispirazione romantico-risorgimentale (Mayr, dalla documentazione di polizia, ne risulta iscritto).
Le Lezioni Caritatevoli di Musica sono di fatto il primo conservatorio di musica dell’allora Regno d’Italia (3).
Con questi principi Mayr intende, oltre che dare un’istruzione e quindi un futuro ai figli delle classi meno abbienti, fornire di validi cantori professionisti la cappella musicale della Basilica di S. Maria Maggiore, da lui stesso diretta.
(2) A questo impiego stabile, Mayr affiancò quello parallelo di operista, che lo portò a Venezia, Milano (1800-1814) e in altre città del Regno d’Italia, nonché a Trieste (1801), Vienna (1802-1803), Roma (1808), e soprattutto a Napoli (1813-1815 e 1817). Nel 1807 ebbe da Napoleone la proposta di diventare «maestro e direttore del teatro e de’ concerti» della corte imperiale. Fino all’avvento di Rossini, Mayr senza dubbio fu il più stimato operista attivo in Italia. (3) L’eccellenza dei risultati raggiunti dalla scuola di Bergamo poté essere constatata nel 1811 anche ad altissimo livello politico: dopo aver assistito in forma ufficiale ai suoi saggi finali, i ministri dell’Interno e della Pubblica Istruzione del Regno d’Italia ne trassero la convinzione che i metodi didattici mayriani dovessero venire adottati in tutto lo stato.
Il regolamento della scuola prescriveva infatti, quale ineluttabile condizione, il possedere una “bella voce” adatta al coro di voci bianche per le funzioni religiose che avevano luogo in basilica. Donizetti fanciullo, quando nell’aprile 1806, accompagnato dal padre, chiede di esservi ammesso, non possiede una gran bella voce, se la commissione esaminatrice così lo giudica: “Ha buon orecchio, la voce non è particolare e sarebbe admissibile per la prova de’ tre mesi” (4).
Nel primo rapporto sull’andamento scolastico, datato 13 settembre 1806, Mayr, pur riconoscendo diligenza, buona disposizione e progressi nella lettura musicale, conferma che la voce è difettosa di gola. Passati i tre mesi di prova, il maestro bavarese, che già intuisce il talento del ragazzo, fa ogni sforzo per trattenerlo in scuola, anche se in contrasto col regolamento da lui stesso dettato: permette così al promettente allievo di rimanere alle Lezioni Caritatevoli per ben nove anni, sino all’ottobre 1815. Questo è infatti l’anno che segna il primo distacco del giovane Donizetti dalla città natale.
(4) Gaetano Donizetti si preparava ad affrontare la professione musicale in qualità di cantante, esibendosi nelle cerimonie religiose che si svolgevano in S. Maria Maggiore, nei saggi pubblici di fine anno scolastico (iniziati nell’agosto 1808 con La creazione di Haydn, e poi proseguiti anche con piccole opere vere e proprie), in qualche concerto straordinario.
Ben presto però Mayr si rese conto che questa carriera non faceva per lui. Piuttosto, il ragazzo dimostrava attitudini per la composizione (5):
“Dotato di propensione, talento e genio per la composizione…”: sono queste le parole utilizzate da Mayr in una supplica alla Congregazione di Carità per descrivere il talento del suo allievo, nell’intento di ottenere per lui una borsa di studio che gli permetterà il completamento degli studi a Bologna (dove rimase dall’ottobre 1815 al dicembre 1817 a studiare contrappunto e fuga) sotto la guida del celebre Padre Mattei, la più solida e perfetta, che vanta al giorno d’oggi l’Italia.
Padre Stanislao Mattei (1750-1825), frate minore, prima allievo e poi successore del più famoso Padre Giovan Battista Martini alla direzione del Liceo Filarmonico di Bologna, fu il più grande teorico e didatta nell’Italia del suo tempo. Oltre a Donizetti fra i suoi allievi d’eccezione figurano Giovanni Battista Velluti, Giovanni Pacini, Francesco Morlacchi, Giovanni Tadolini e, grande fra i grandi, Gioachino Rossini.
Sui metodi didattici di Mattei si ha qualche notizia proprio da quest’ultimo, suo allievo tra il 1806 e il 1810: Padre Mattei con la penna in mano aveva pochi uguali in abilità, ma d’altra parte era terribilmente taciturno; gli si doveva strappare dalla bocca per forza ogni spiegazione verbale. Quando chiedevo delle spiegazioni, mi rispondeva sempre: è uso di scrivere così.
(5) L’attitudine per la composizione è testimoniata da alcune sue acerbe prove: qualche pagina destinata al consumo domestico (una delle quali addirittura pubblicata a Milano da Ricordi, e certo grazie all’interessamento di Mayr), pezzi sacri da chiesa. Informato delle scelte del fratello minore, all’inizio dell’estate 1815 dall’isola d’Elba (dove si trovava al seguito di Napoleone in esilio) Giuseppe Donizetti così scriveva al padre, approvando la decisione: «Direte a Gaetano che mi fa piacere che diventi matto per la musica».
A Bologna Donizetti si specializzò negli studi superiori di composizione (per i quali ottenne premi scolastici) e sempre più familiarizzò con la composizione teatrale, facendosi apprezzare dall’ambiente musicale bolognese, nel quale ebbe modo di introdursi grazie alle lettere di presentazione del suo maestro Mayr.
Sfumata a fine 1817 la prospettiva di un primo impiego lavorativo ad Ancona, Donizetti lascia Bologna nel novembre dello stesso anno, facendo ritorno a Bergamo dove rimane sino alla fine del 1821: ad attenderlo è un’attività di compositore d’occasione, alla continua ricerca di scritture teatrali; collabora intanto con Mayr in veste di compositore di musica sacra e scrive, nel contempo, una gran quantità di musica strumentale da camera (quartetti, musica per pianoforte solo e a quattro mani, ecc.), eseguita nei migliori salotti cittadini dove è introdotto dal suo maestro.
Allo stesso tempo offre un saggio – per la prima volta – nel campo teatrale a livello professionistico.
Il bagaglio tecnico che Donizetti acquisisce grazie a tanti anni di alacre studio con Mayr e con Padre Mattei è sufficiente per permettergli di cimentarsi nel genere musicale più ambito e redditizio per un musicista della sua epoca: il melodramma. Tale propensione era comunque già emersa durante gli anni di studio a Bologna: risale infatti al settembre 1816 la composizione della sua prima opera, Il Pigmalione, atto unico per tenore e soprano su libretto di ignoto, rimasta non rappresentata sino al 1960.
Nel carnevale 1818 al teatro bergamasco della Società la compagnia dell’impresario Paolo Zancla (nella quale spiccavano la primadonna Giuseppina Ronzi De Begnis e suo marito, il basso Giuseppe De Begnis) rappresentava Agnese di Paer e La Cenerentola di Rossini. Certo per interessamento di Mayr, a Donizetti fu data la possibilità di scrivere alcuni pezzi per le cosiddette ‘beneficiate’: cioè le serate all’interno della stagione, stabilite per contratto, nelle quali i cantanti principali presentavano il meglio del loro repertorio col diritto di trattenere per sé l’utile del botteghino.
I brani del giovane compositore dovettero accontentare sia i De Begnis, sia il pubblico, se Donizetti fu sollecitato a seguire la compagnia a Verona, con la speranza di poter scrivere qualcosa di più impegnativo. Anche se ciò non avvenne, Gaetano si procurò un significativo ingaggio per la successiva stagione autunnale, in cui avvenne il suo debutto.
Zancla gestiva infatti a quell’epoca anche un teatro minore di Venezia, il S. Luca, per il quale Donizetti fu posto sotto contratto per la composizione di un’«opera semiseria spettacolosa». La stesura del libretto (Enrico di Borgogna) venne affidata ad un altro bergamasco e allievo di Mayr, Bartolomeo Merelli (1794-1879), più tardi famoso impresario, già in contatto con Donizetti almeno fin dall’autunno precedente.
Dopo il debutto (6) (14 novembre 1818) ed alcune repliche dell’opera, Merelli e Donizetti presentarono al pubblico anche la farsa Una follia, andata in scena con più successo.
L’esordio teatrale di Donizetti avvenne dunque sotto gli espliciti auspici di Mayr.
(6) Pur trattandosi del lavoro di un giovane esordiente, l’esito della serata è soddisfacente: un articolo apparso sopra un giornale dell’epoca giudica l’opera regolare, ragionata, ed opportunamente vivace e briosa (Nuovo Osservatore Veneziano, 17 novembre 1818).
Nelle stagioni successive, la carriera di Donizetti proseguì in teatri di secondo piano, e nei generi d’opera ugualmente meno importanti, cioè il semiserio e il buffo: con Le nozze in villa probabilmente a Mantova nel carnevale 1819 (o forse a Treviso, teatro Dolfin, nella primavera 1820), e al teatro S. Samuele di Venezia nel carnevale 1820 – dal 26 dicembre 1819 – con Pietro il Grande, kzar delle Russie. Su libretto del marchese Gherardo Bevilacqua Aldobrandini, scenografo e occasionalmente poeta teatrale, l’opera era tratta da una commedia francese di Alexandre Duval ben nota in Italia col titolo di Il falegname di Livonia. La stampa veneziana registrò con simpatia la conferma di quel giovane compositore, che in quell’opera dimostrava la sua piena e a tratti perfino originale assimilazione dei grandi modelli rossiniani.
Appena avviata, la carriera di Donizetti minacciava però d’interrompersi bruscamente a causa del servizio militare. Il governatore austriaco di Milano aveva fatto richiamare le classi 1795-1800, e dunque Gaetano ricadeva in pieno nel provvedimento. Nel dicembre 1820 sia lui, sia l’amico Dolci riuscirono ad evitare l’arruolamento grazie ad una possibilità prevista dalla legge: sborsando una congrua somma, si poteva essere stabilmente rimpiazzati da un sostituto.
A entrambi, che non lo avevano di certo, il denaro necessario fu fornito da Marianna Pezzoli Grattaroli, la quale mecenatescamente ritenne che non si dovessero sprecare quelle due giovani promesse musicali.
L’ASCESA: ROMA, MILANO, NAPOLI (1822-1838)
Intanto da parte di Mayr continuava l’attiva promozione dell’allievo: per Donizetti il 1821 è l’ultimo anno di permanenza nella città natale; risalgono infatti a giugno le prime trattative per la definizione del contratto con l’impresario Giovanni Paterni, riguardo un’opera seria da rappresentarsi al Teatro Argentina di Roma. Si rivelerà questo un contratto fortunato: Zoraide di Granata, andata in scena il 28 gennaio 1822, piace sempre più al pubblico romano, tanto da portare addirittura in trionfo l’incredulo compositore la sera della terza rappresentazione.
Questo primo soggiorno a Roma serve a Donizetti, oltre che a farsi conoscere professionalmente al di fuori del Lombardo-Veneto, anche a stringere rapporti con persone che avranno un’influenza sulla sua vita futura: il letterato Jacopo Ferretti, suo futuro librettista, la famiglia Carnevali e la famiglia Vasselli.
Il primogenito di quest’ultima, Antonio (confidenzialmente, Toto), sarà da allora suo intimo amico, e la sorella più giovane, Virginia (tredicenne nel 1821), nel 1828 diventerà addirittura sua moglie.
Il successo di questo esordio romano, la cui notizia si sparge velocemente per tutta la penisola, frutta a Donizetti nuovi contratti. Da Napoli il celebre impresario Domenico Barbaja gli propone la scrittura di due nuovi lavori, tra cui La zingara, tenuta a battesimo entusiasticamente il 12 maggio 1822 al teatro Nuovo.
Seguiranno le commissioni di una farsa per il teatro reale del Fondo (dedicato al repertorio comico e semiserio), La lettera anonima (29 giugno 1822), di un’opera semiseria per La Scala di Milano (Chiara e Serafina: 26 ottobre 1822), ed infine di una grande opera seria per il maggior teatro reale napoletano, il San Carlo (Alfredo il Grande: 2 luglio 1823).
Tuttavia, le incomprensioni e le difficoltà incontrate nella professione teatrale gli fanno scrivere in una lettera del 1825 a Simone Mayr: “Guardan la gente di teatro come infami e perciò nessuno di noi si cura […] Già il mestiere del povero scrittore d’opere l’ho capito infelicissimo sin dal principio, ed il bisogno solo mi ci tiene avvinto”.
In effetti, a prescindere dal valore musicale, la riuscita di un’opera in quegli anni è legata ad un’infinità di frangenti, quasi sempre non controllabili dal compositore: il cast di cantanti, il valore del libretto, la professionalità dell’orchestra, l’effetto delle scene, il periodo scelto per la rappresentazione. Donizetti nel 1827 mette in berlina il particolarissimo mondo teatrale scrivendo l’opera buffa Le convenienze e inconvenienze teatrali.
A questo punto, la sua carriera di operista è ormai definitivamente avviata: un primo, brillante traguardo di qualità lo conseguirà con l’opera comica L’aio nell’imbarazzo (Roma, teatro Valle, 4 febbraio 1824), notevole anche come riuscita ricerca di nuove strade rispetto ai dominanti modelli rossiniani, che s’impongono per circa un ventennio (7).
(7) Gli anni che vanno dal 1822 al 1830 coincidono con un periodo di estenuante lavoro per Donizetti: dopo aver pagato con le prime opere un tributo al “rossinismo” dilagante, emerge nel compositore bergamasco lo sforzo della ricerca di un linguaggio sempre più personale. Pur nella loro discontinuità, opere come Emilia di Liverpool (1824), Gabriella di Vergy (1826), L’Esule di Roma (1827), Il Paria (1828), Il diluvio universale (1829-’30), Imelda de’ Lambertazzi (1830) contengono elementi notevoli che aprono spiragli evolutivi nella drammaturgia musicale donizettiana.
Direttore del teatro Carolino di Palermo con un contratto annuale a partire dal marzo 1825, Donizetti si trasferì nella città siciliana curando l’allestimento di opere proprie e altrui, e tenendovi a battesimo il titolo serio Alahor in Granata (7 gennaio 1826).
Tornato a Napoli, nel 1827 si legò contrattualmente all’impresario dei Teatri Reali partenopei Domenico Barbaia, assumendo la direzione del teatro Nuovo.
Iniziò allora la lunga stagione napoletana di Donizetti, destinata a protrarsi fino all’ottobre 1838. Vi si situano avvenimenti famigliari centrali come il citato matrimonio con Virginia Vasselli (1828), e lutti non meno fondamentali quali la scomparsa via via di tre figli neonati, e infine (30 luglio 1837) della stessa moglie, durante un’epidemia di colera.
Professionalmente, questi sono gli anni in cui verrà chiamato alla cattedra di composizione nel Real Collegio di Musica, e durante i quali coltiverà una vivace e curiosa apertura nei confronti di nuove direzioni drammatiche: il mélo romanzesco (Otto mesi in due ore, teatro Nuovo, 13 maggio 1827), il teatro nel teatro (Le convenienze ed inconvenienze teatrali, Nuovo, 21 novembre 1827), la sperimentazione morfologica su larga scala (L’esule di Roma, Il paria, Fausta: teatro S. Carlo, rispettivamente 1 gennaio 1828, 12 gennaio 1829, 12 gennaio 1832), l’opéra-comique (Gianni da Calais, teatro del Fondo, 2 agosto 1828; Gianni di Parigi, 1831), la sensibilità romantica (Elisabetta al castello di Kenilworth, S. Carlo, 6 luglio 1829), il sublime biblico (Il diluvio universale, S. Carlo, 28 febbraio 1830).
Intanto, due grandi successi milanesi (entrambi su libretti di Felice Romani) posero Donizetti nel novero dei più importanti compositori europei d’opera italiana. Il primo di essi è Anna Bolena, andato in scena al teatro Carcano di Milano il 26 dicembre 1830 e considerata la vera svolta nella produzione donizettiana; l’altro, L’elisir d’amore (grande capolavoro del genere buffo), presentato a Milano, alla Canobbiana il 12 maggio 1832.
Lo straordinario successo di Anna Bolena, primo melodramma veramente “romantico”, fu di importanza capitale per l’avvenire di Donizetti, facendolo entrare di colpo nel novero dei più importanti operisti della sua epoca.
La vicenda dell’infelice moglie di Enrico VIII permise a Romani e Donizetti d’innestare i profili psicologici dei protagonisti su di uno sfondo storico in grado di dare verità e concreto spessore alle vicende rappresentate: nella Milano in cui era da poco uscito il romanzo a base storica I promessi sposi (1827), Anna Bolena dovette parere un suo analogo melodrammatico quanto a tinta, scontri tra i personaggi, conflitti interiori (ma solo in parte quanto all’ipoteca religiosa).
Il delizioso idillio campestre dell’Elisir d’amore metteva a frutto le frequentazioni dell’opéra-comique transalpino, incrociandolo con la tradizione comica goldoniana. Donizetti se ne avvantaggiò reinventando formulazioni melodiche e strutture, ma al momento buono dando saggio anche di un’infallibile intensità patetica che, collocata in nodi cruciali della vicenda, sa diventare anche grande leva drammatica.
Se questi capolavori incoronarono Donizetti drammaturgo musicale, inaugurarono anche una stagione ricchissima di titoli che costituiscono altrettante pietre miliari del teatro romantico italiano. Già le fonti letterarie di alcuni di essi sono eloquenti: Byron per Parisina (Firenze, La Pergola, 17 marzo 1833) e Marino Faliero (Parigi, Théâtre Italien, 12 marzo 1835); Victor Hugo per Lucrezia Borgia (Milano, La Scala, 26 dicembre 1833); Schiller per Maria Stuarda (1834); Walter Scott per Lucia di Lammermoor (Napoli, S. Carlo, 26 settembre 1835). Ad essi possiamo aggiungere Gemma di Vergy (Milano, La Scala, 26 dicembre 1834), Belisario (Venezia, La Fenice, 4 febbraio 1836), Roberto Devereux (Napoli, S. Carlo, 29 ottobre 1837), Maria de Rudenz (Venezia, La Fenice, 30 gennaio 1838), Poliuto (1838).
Si tratta perlopiù di drammi storici a tinte forti, foschi e grondanti sangue, con ambientazioni frequentemente notturne, cupe, spesso gotiche. I loro protagonisti sono preda di passioni violente, dilaniati da esplosioni di furore, spesso visionari. Le figure femminili offrono una galleria superba della voce e del personaggio di soprano: il tenore romantico vi trova i suoi prototipi in Ugo (Parisina) ed Edgardo (Lucia di Lammermoor). Baritoni e bassi si pongono spesso come antagonisti di contese senza vincitori, tragicamente disastrose per tutti. In questo panorama di rovine senza speranza fa eccezione Poliuto, dalla conclusione non meno funesta ma che, nella prospettiva religiosa della fede santificata dal martirio, attinge il suo riscatto se non altro ultraterreno.
Oltre a trovare i colori adatti, le delineazioni psicologiche giuste, il ritmo teatrale e i colpi di scena più efficaci, Donizetti piegò i propri mezzi tecnici e il suo stile per assecondare ed esaltare la natura drammatica di quei testi, sperimentando soluzioni nuove ed ardite. In qualche caso saggiò anche orientamenti di gusto fondati sulla mescolanza romantica degli stili e dei livelli espressivi: come mostrano Il furioso all’isola di San Domingo e Torquato Tasso (Roma, teatro Valle, 2 gennaio e 9 settembre 1833), e soprattutto Lucrezia Borgia. Altrove diede ulteriori prove di avvicinamento allo stile francese non solo in repertori minori e in campo comico (Il campanello e Betly: Napoli, teatro Nuovo, 6 giugno e 24 agosto 1836), ma anche nel gran genere serio (L’assedio di Calais: Napoli, S. Carlo 19 novembre 1836).
L’APOGEO: PARIGI E VIENNA (1838-1844)
Donizetti fu chiamato insieme con Bellini nella capitale francese, su indicazione di Rossini, che vi condirigeva il teatro che presentava opera italiana (il Théâtre Italien).
Mentre Bellini vi tenne a battesimo I Puritani, Donizetti compose Marino Faliero, dramma storico di forte spessore politico (molto ammirato tra gli altri da Giuseppe Mazzini, che vi vide un esempio di nuovo teatro musicale impegnato sul versante civile).
Rientrato a Napoli, Donizetti vi realizzò alcune delle vette massime della sua produzione seria: Lucia di Lammermoor, che ottiene un memorabile trionfo al Teatro San Carlo la sera del 26 settembre 1835), Roberto Devereux (1837), Poliuto (1838).
Giunto nuovamente a Parigi – 21 ottobre 1838 – Donizetti inizia un periodo di attività intensissima: le prove di Roberto Devereux (27 dicembre) e di Elisir d’amore (17 gennaio 1839) al Thêatre des Italiens, la rielaborazione di Lucia di Lammermoor, data al Thêatre de la Renaissance il 6 agosto 1839, la trasformazione dello sfortunato Poliuto in Le martyrs all’Opéra (10 aprile 1840), la composizione di Lange de Nisida (trasformata poi in La favorite), l’elaborazione di Le duc d’Albe, la creazione ex-novo dell’opéra-comique La fille du régiment (11 febbraio 1840), La favorite (Opéra, 2 dicembre 1840), Rita.
Ma questo fu anche un periodo di avversità, sventure e disagi psicologici. La scomparsa della moglie Virginia (30 luglio 1837) è causa di un periodo di profonda crisi; il divieto, da parte della censura, di rappresentare Poliuto, in quanto soggetto religioso e con un martire cristiano come protagonista. A questo incidente con la bigotta amministrazione borbonica si aggiunse l’insoddisfazione professionale per la mancata nomina a direttore del Real Collegio di Musica (Conservatorio di Napoli) dopo la morte del vecchio e venerato maestro Zingarelli, a cui succede Saverio Mercandante. Tutto ciò convinse Donizetti, nell’autunno 1838, a lasciare Napoli per Parigi, accettando le proposte che da tempo gli venivano dalla capitale francese.
Il ventaglio di proposte era ampio – dall’opera comica e seria italiane, all’opéracomique e al grand-opéra -, distribuito nelle maggiori sale teatrali parigine.
La concorrenza del nuovo arrivato era temibile: non si limitava infatti a presentarsi come campione del genere italiano nella sala teatrale tradizionalmente deputata a questo repertorio (il Théâtre Italien), ma entrava a competere coi musicisti locali sul loro stesso terreno, dando prova di pronta e felicissima assimilazione dello stile francese sia sul versante leggero, sia su quello del grande dramma storico.
Ciò non mancò di disturbare i settori più ‘nazionalisti’ della capitale, cui diede voce ad esempio il compositore (e giornalista) Hector Berlioz, che mise causticamente in rilievo tale frenetica attività con un articolo pubblicato nel Journal des débats nel 16 febbraio 1840: “Pensate un po’: due grandi partiture per l’Opéra, Les Martyrs e Le duc d’Albe; altre due per la Renaissance, Lucie de Lammermoor e L’ange de Nisida, due per l’Opéra-Comique, La fille de régiment e un’altra di cui non si conosce il titolo; e poi un’altra ancora per il Théâtre-Italien: queste sono le opere che nel giro di un anno saranno scritte o rielaborate dallo stesso autore! Il signor Donizetti ha l’aria di volerci trattare da paese conquistato, la sua è una vera e propria guerra d’invasione. Non potremo più parlare dei teatri lirici di Parigi, ma dei teatri di Donizetti”.
Donizetti replica a questa accusa prima con una dignitosa lettera apparsa su Le moniteur universel, poi si sfoga scrivendo il 20 aprile 1840 all’amico Innocenzo Giampieri di Firenze con un tono sottilmente ironico: “Leggesti il Debats? Berlioz? Pover uomo… ha fatto un’opera, fu fischiata, fa delle sinfonie e si fischia, fa degli articoli… si ride… e tutti ridono, e tutti fischiano, io solo lo compiango…ha ragione… deve vendicarsi…”.
Per Donizetti, come per ogni altro compositore dell’epoca, l’invito a comporre per il Thêatre de L’Opéra di Parigi rappresenta il culmine della carriera. Tuttavia, una volta esauriti i contratti in corso, Donizetti spera di ritirarsi ancora all’acme della carriera, prima di iniziare l’inevitabile declino.
Il protrarsi del suo soggiorno a Parigi – dovuto a vari motivi, tra i quali l’elaborazione di Les Martyrs che si trascina per un anno e mezzo – e la conseguente accettazione di nuovo lavoro, finisce per scatenare un’ondata di panico fra i suoi concorrenti francesi, abituati a ritmi di lavoro ben più tranquilli.
Due impegni coi teatri di Milano (Scala) e Vienna (Porta Carinzia) fecero allontanare temporaneamente Donizetti da Parigi.
Nel primo, il 26 dicembre 1841 debuttava Maria Padilla, scabrosa tragedia che dovette essere edulcorata per ragioni di opportunità.
A Vienna, altra capitale della musica e della cultura europea, Donizetti ottiene la soddisfazione di avere finalmente una sua opera in prima assoluta; l’occasione gli viene fornita da Bartolomeo Merelli, un tempo suo primo librettista, ora potente impresario alla Scala di Milano e al Kärntnerthortheater di Vienna. L’opera in questione, dedicata all’imperatrice Maria Anna Carolina, è Linda di Chamounix (opera semiseria essa pure di argomento ai limiti del decoro, caricata di forte polemica morale e sociale, e dai toni talora manzoniani): rappresentata il 12 maggio 1842 con enorme successo, frutterà al compositore, anche la nomina a Kammerkapellmeister und Hofkompositeur (maestro di cappella e di camera, e compositore di corte) presso la corte imperiale di Vienna.
Causa questo nuovo incarico, il maestro prese a dividersi tra Vienna, coi suoi impegni a corte e nei teatri cittadini, e Parigi.
Dopo aver riscosso un altro grandioso successo presentando il 3 gennaio 1843 al Théâtre Italien di Parigi l’opera buffa Don Pasquale (perfetta commedia da camera in cui Donizetti raggiungeva il culmine della sua abilità di finissimo drammaturgo comico-sentimentale, sapiente e vivacissimo inventore di soluzioni musicali, evocatore di atmosfere e tocchi psicologici), il 5 giugno a Vienna commuove il pubblico del Kärntnerthortheater (teatro viennese di Porta Carinzia) con Maria di Rohan (moderna tragedia in costume e dal taglio scenico inusuale, con personaggi che incarnano in pieno tipi vocali e teatrali che saranno alla base del melodramma verdiano), serata a cui è presente l’intera famiglia imperiale giunta appositamente dalla residenza estiva di Schönbrunn.
Significativa l’osservazione del critico della Allgemeine Wiener Zeitung: “…crediamo che Donizetti abbia voluto dare ad un’opera che egli ha scritto per tedeschi quell’aura di serietà e dignità che sono così vicine al carattere tedesco”.
Anche se un poco altezzosa, l’osservazione del critico è fondamentalmente giusta: grazie alla grande capacità di adattamento e assorbimento di diversi stili che lo contraddistingue, nella maturità Donizetti sa assimilare e fare proprio il gusto del pubblico straniero al quale di volta in volta si rivolge, fornendo quasi sempre “prodotti” che assecondano le aspettative.
Ma il vero testamento artistico di Donizetti si può considerare il monumentale grand-opéra in cinque atti Dom Sébastien, eseguito a Parigi (Opéra) il 13 novembre 1843. Opera di vasta concezione (monumentale affresco storico dalle tinte strumentali raffinate, con profili melodici ricercati e spesso sorprendente nel taglio scenico-compositivo) non ottiene però il consenso che Donizetti aveva sperato: un grandioso successo lo ha invece nell’allestimento di Vienna del 6 febbraio 1845, in una nuova versione tradotta in tedesco.
LA MALATTIA E LA MORTE (1844-1848)
Anche se di forte fibra, sin dalla fine degli anni Venti Donizetti a più riprese ha le prime avvisaglie della terribile malattia – un’infezione luetica (sifilide) – che anzitempo l’avrebbe portato alla tomba; ma è durante l’inverno 1843-’44 che la salute del compositore ha un improvviso tracollo.
Tutto il 1844 e parte del 1845 saranno caratterizzati da una decadenza fisica sempre più rapida, che avrà il culmine con la crisi dell’agosto 1845: il compositore è preso a Parigi da un improvviso svenimento, da cui ha grosse difficoltà nel riprendersi.
Purtroppo le scelte mediche successive, autorizzate dal nipote Andrea (frattanto mandato dal fratello Giuseppe da Costantinopoli a Parigi), non faranno che rendere irreparabile la situazione.
Un consulto di tre medici si tiene il giorno 11 agosto. Fra i tre è presente il dottor Philippe Ricord, noto per i suoi studi sulla sifilide.
Il 28 gennaio 1846 i dottori Juste-Louis Calmeil, il già citato Ricord e Jean Mitivié tengono un consulto finale che ha come risultato l’esortazione di un pronto ricovero del paziente in una clinica per alienati mentali, dal momento che Mr. Donizetti n’est plus capable de calculer sainement la portée de ses déterminations et de ses actes, come risulta dal referto.
È così che Donizetti viene ricoverato per oltre sedici mesi, contro la sua volontà, nella clinica per alienati mentali del dottor Mitivié a Ivry, poco distante da Parigi, dove le sue condizioni mentali, anziché migliorare, peggiorano sempre più velocemente.
Solo dopo molte pressioni di amici ed estimatori si ottenne di sottrarlo a condizioni di vita così penose e di ricoverarlo in un appartamento meno squallido, sempre a Parigi.
Dopo un lungo e travagliato iter burocratico curato da Andrea, nipote del musicista giunto appositamente da Costantinopoli, Donizetti può infine essere rimpatriato.
Accompagnato in treno fino a Colonia via Bruxelles, e in battello da lì a Basilea risalendo il Reno, compie il tratto alpino in carrozza, proseguendo poi per Bergamo, dove giunge la sera del 6 ottobre 1847, accolto nella casa della baronessa Rosa Rota-Basoni, sua amica e ammiratrice da oltre dieci anni e da lei già più volte ospitato.
Viste le condizioni generali del malato, appare subito evidente che tutto quello che si può ormai fare è mantenere attive le funzioni biologiche; non si rinuncia, comunque, a cercare di stimolare la memoria del musicista.
Giovannina Basoni, figlia della baronessa, passa ore e ore al pianoforte, lo stesso che Donizetti aveva personalmente scelto e fatto spedire per lei da Vienna nel 1844 – ed oggi esposto presso il museo donizettiano -, attenta ad ogni più piccola reazione del maestro all’ascolto della sua musica. Su quel pianoforte è appoggiato il dipinto eseguito da Giuseppe Rillosi quando il male, ormai nella sua fase più acuta, aveva prodotto conseguenze devastanti, e che oggi campeggia nel salone principale del palazzo, a ricordo degli ultimi giorni vissuti a Bergamo dal Maestro.
Si reca da lui anche il tenore Giovanni Battista Rubini – da tempo ritiratosi nella sua villa a Romano di Lombardia per cantare in duo con Giovannina -, ma apparentemente Donizetti non manifesta alcuna reazione. Rare volte riesce a pronunciare qualche parola spezzata, impossibile da comprendere.
Pochi giorni prima della morte del compositore, la baronessa chiamava in casa il pittore Giuseppe Rillosi affinché eseguisse un ritratto all’illustre ammalato.
Ai primi di aprile le condizioni del musicista hanno un pauroso tracollo. È Giovannina Basoni a raccontarne la fine in una lettera all’amica Margherita Tizzoni delle Sedie: “… Durante la sera del 5 la febbre ridivenne più forte. Nella mattinata del 6 si incominciò a praticargli l’alimentazione indiretta fortificata da rossi d’uovo. Il 7 e l’8 il signor Donizetti andò sempre più declinando in uno stato d’agonia. Il giorno 8 aprile 1848, alle 5 del pomeriggio, l’illustre ammalato rese l’estremo respiro, assistito dal sacerdote, attorniato da mia madre, da me, dal suo intimo amico Dolci e dal suo affezionatissimo domestico”.
I solenni funerali hanno luogo l’11 aprile 1848: la salma di Donizetti viene tumulata nella cripta della cappella della nobile famiglia Pezzoli presso il cimitero di Valtesse, sobborgo di Bergamo.
Qui vi rimane fino al 1875, quando, in occasione della prima commemorazione ufficiale del Maestro, le sue spoglie vengono traslate nella Basilica di S. Maria Maggiore, insieme a quelle di Simone Mayr.
In basilica gli viene dedicato un monumento, opera di Vincenzo Vela, mentre la città dedicherà al suo nome un teatro (in origine Teatro Riccardi) e l’Istituto musicale.
A memoria del compositore, oltre al nome della via (un tempo via Gromo), nei pressi dell’ingresso di palazzo Scotti furono collocati un medaglione con la sua effige e una targa commemorativa.
Il pianoforte, diversi elementi di arredo e i documenti, oggi si trovano all’interno del Museo Donizettiano.
Nel palazzo resta solo il ritratto di un maestro già sofferente a causa dello stadio avanzato della malattia, dipinto da Giuseppe Rillosi.
Il “mito” Donizetti è cominciato e ben presto la sua città natale gli tributerà il suo principale teatro.
LE OPERE PRINCIPALI
Anna Bolena
Opera seria in due atti su libretto di Felice Romani, composta nel 1830. Esposti il libretto originale della prima rappresentazione al Teatro Carcano di Milano (26/12/1830), un bozzetto originale di scenografia (1830), l’avviso teatrale per la prima rappresentazione all’Imperiale Teatro di Corte di Porta Corinzia in Vienna (26/02/1833) e la riproduzione di una pagina della partitura autografa (1892)
Elisir d’amore
Opera buffa in due atti su libretto di Felice Romani, composta nel 1832. Esposti il libretto originale della prima rappresentazione al Teatro della Canobbiana di Milano (12/05/1832), tre bozzetti originali di scenografia (1832) e la riproduzione della partitura d’orchestra autografa
Marin(o) Faliero
Opera seria in tre atti su libretto di Giovanni Emanuele Bidera (con alcune modifiche di Agostino Ruffini), composta tra il 1834 e il 1835. Esposto il libretto per una rappresentazione al Teatro Comunale di Ferrara, primavera 1839
Linda di Chamounix
Opera semiseria in tre atti su libretto di Gaetano Rossi, composta tra il 1841 e il 1842. Esposti la riproduzione di una pagina della partitura autografa (1892) e una riduzione per canto e pianoforte
Lucia di Lammermoor
Opera seria in tre atti su libretto di Salvatore Cammarano, composta nel 1835. Esposti la riproduzione della partitura d’orchestra autografa (1941), il libretto per una rappresentazione al Teatro Riccardi di Bergamo nell’estate del 1838 e il frontespizio della prima edizione francese dello spartito in riduzione per canto e pianoforte
Il Pigmalione
Opera in un atto, su libretto di autore ignoto, composta nel 1816. E’ la prima opera teatrale di Gaetano Donizetti, rappresentata postuma nel 1960 a Bergamo
Enrico di Borgogna
Opera semiseria in due atti, su libretto di Bartolomeo Merelli, composta nel 1818. Segna l’esordio di Gaetano Donizetti come operista
Zoraide di Granata
Opera seria in due atti, su libretto di Bartolomeo Morelli (prima versione); rimaneggiato poi da Jacopo Ferretti (seconda versione), composta tra il 1821 e il 1822. Rappresenta il primo notevole successo del giovane Gaetano Donizetti
L’ajo nell’imbarazzo
Opera buffa in due atti, su libretto di Jacopo Ferretti, composta nel 1824. E’ nota anche col titolo Don Gregorio, versione napoletana successiva trasformata in farsa.
Ugo, conte di Parigi
Opera seria in due atti, su libretto di Felice Romani, composta tra il 1831 e il 1832.
Belisario
Opera seria in tre atti, su libretto di Salvatore Cammarano, composta tra il 1835 e il 1836
Poliuto
Opera seria in tre atti, su libretto di Salvatore Cammarano, composta nel 1838. La proibizione da parte della censura napoletana induce Donizetti a trasformarla in Les Martyrs e a metterla in scena a Parigi, Opéra, 1840.
La fille du régiment
Opéra-comique in due atti, su libretto di Jules-Henry Vernoy de Saint-Georges e Jean-François-Alfred Bayard, composta nel 1839. E’ la prima opera data in lingua francese; la versione ritmica italiana del libretto fu curata da Calisto Bassi.
Dom Sébastien, roi de Portugal
Grand-opéra in cinque atti, su libretto di Eugène Scribe, composta nel 1843. Successivamente rielaborata in lingua tedesca insieme al librettista Leo Herz.