La Bergamo godereccia dei teatri di una volta, tra centro, borghi e periferie

Non si può certo dire che in passato Bergamo sia stata a corto di teatri, soprattutto negli anni della Belle Époque, quando erano in molti ad uscire la sera e a riempire teatri e ritrovi, in Città Bassa come in Città Alta.

A cavallo fra Otto e Novecento Bergamo Bassa poteva vantare, accanto al teatro massimo della città (il vecchio “Riccardi”, nel 1897 intitolato a Donizetti), la presenza di due teatri – l’Ernesto Rossi e il Givoli -, che  sorgevano in Piazza Baroni nei pressi dell’odierna Casa della Libertà, nello spazio tradizionalmente legato allo spettacolo e al divertimento che gravitava intorno all’antica Fiera.

L’immagine, antecedente al 1897, mostra una giostra in Piazza Baroni, affiancata dal Teatro (o Politeama) Givoli, visibile a sinistra (Foto Don Giuseppe Locatelli – Raccolta Domenico Lucchetti)

C’è una fotografia che li ritrae l’uno accanto all’altro, in quella Piazza Baroni che da secoli accoglieva tendoni e baracche provvisorie, allestite per ogni sorta di  spettacolo e divertimento.

Il Politeama Givoli (poco prima della demolizione, avvenuta nel 1897) e, sulla destra, il Teatro Ernesto Rossi di proprietà di Luigi Dolci. Quest’ultimo venne abbattuto nel 1894. La fotocartolina venne eseguita tra l’82 e l’84 (Raccolta D. Lucchetti)

Non molto belli ma abbastanza capienti, tra i due, il Givoli era il più grande e fu l’ultimo a scomparire (1897) per dare spazio, al di là della Roggia Nuova, al Teatro Nuovo (detto allora “Nuovo Politeama”, inaugurato nel 1901), da edificarsi secondo i criteri di eleganza dettati dal clima di modernità che ormai si andava respirando nel centro cittadino.

Un singolare documento del 1897 mostra l’abbattimento del Politeama Givoli e la costruzione del Teatro Nuovo (il Teatro Rossi era stato demolito tre anni prima) – (Raccolta D. Lucchetti)

Un paio d’anni prima dell’inaugurazione del Nuovo, e cioè nel 1899, il capomastro Antonio Dolci costruiva, a pochi passi dalla Stazione ferroviaria, il Politeama Novelli, che ebbe vita breve perché nel 1903 Nicolò Rezzara aveva proposto di edificare in quel luogo la Casa del Popolo, entro la quale venne ricavato il Teatro Rubini, sorto nel 1907.

Ne seguirono altri: il 1923 fu la volta dell’ Augusteo, costruito in Borgo Palazzo e rimasto in attività – pare – fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale, quando la sala venne requisita per ricavarne una mensa.  Nel 1927 fu invece  inaugurato il Duse, sulla Rotonda dei Mille: il teatro dei grandi spettacoli di rivista dell’epoca, demolito nel ’68.

Disseminati tra i borghi e le periferie,  oltre ai teatri di quartiere (il già citato  Augusteo, oppure il Del Borgo in Piazza Sant’Anna ), vi furono anche quelli dei collegi (in primis il teatro del collegio Sant’Alessandro) e degli oratori, fra i quali quello dell’Immacolata, dei Celestini in Borgo Santa Caterina, delle Grazie, di Boccaleone, di Redona (poi Qoélet) o del più recente S. Andrea, in via Porta Dipinta.

In Città Alta erano ormai in decadenza due teatrini che avevano funzionato per tutto l’Ottocento, quello di piazza Mascheroni e il San Cassiano; a partire dagli anni Trenta cominciò poi a funzionare il Teatro del Seminarino, mentre il Sociale chiuse nel ’32.

Rappresentazione teatrale al Teatro del Seminarino in Bergamo Alta

Vi erano poi i teatri del dopolavoro; importante fu la Sala del Mutuo Soccorso di via Zambonate nonché il teatro Minerva del dopolavoro ferroviario presso la Stazione.

Un locale di cui non si parla più, eppure ha fatto la storia: la sede del Mutuo Soccorso in via Zambonate, nel 1921. La fotografia rappresenta un momento di grande festa (con banda musicale) dell’Associazione Proletaria Escursionisica ospitata nel caseggiato del Mutuo Soccorso

Vi era un piccolo teatro anche in via Torquato Tasso, dove si esibiva l’Estudiantina, un’orchestrina di chitarre e mandolini (1).

Ritratto di gruppo di una classe dell’Estudiantina Bergamasca (prima metà del XX sec.) – (Archivio fotografico Sestini – Archivio Domenico Lucchetti. Fondo Ritratti bergamaschi)

Si è vagheggiato anche di un certo teatro “Smeraldo”, aperto negli anni ’40-’50 in Viale Vittorio Emanuele di fronte al civico 12, ma di questo non abbiamo certezza.

Tra i tanti , a fare la storia sono stati in cinque: il Sociale, il Donizetti (già Riccardi), il Nuovo, il Rubini e il Duse. I primi due realizzati in particolare per ospitare spettacoli d’opera lirica, anche se mai mancò la prosa seria, per la quale si accoglievano anche le compagnie di giro quando erano nei paraggi (come non pensare a Emma e Irma Gramatica, Angelo Musco, Gualtuero Tumiati, Maria Melato, Ruggero Ruggeri, Ermete Novelli). E poi il varietà, la danza, le riunioni pugilistiche, i trasformismi (Fregoli come grande richiamo), i comizi, le giocolerie, le donne barbute, le donne cannoni, le lotte con i tori, per poi approdare, in molti casi, al cinema.

Tanti teatri dunque, grandi e piccoli,  dalla cui storia emerge il ritratto di una Bergamo musicale e godereccia, straordinariamente vivace e vissuta: una geografia molto ramificata di locali, che ha regalato per molto tempo svago, cultura, occasioni di incontro e tanto, tanto benessere.

Alla fine del Novecento, il Rubini e il Duse erano morti e sepolti da un po’, mentre del Nuovo sopravviveva ormai il suo fantasma (non parliamo poi della strage dei piccoli teatri e del Sociale ancora da recuperare). In poco più di cinquant’anni Bergamo aveva distrutto un patrimonio artistico che fondava la sua identità sociale, culturale e civile, non preoccupandosi nemmeno di costruire un museo del teatro, a disposizione dei bergamaschi,  in cui fossero esposti disegni, cartelloni, biglietti, foto che documentassero la sua storia.

Resisteva l’Auditorium in Piazza della Libertà, che, sempre legato all’associazione cinefila Lab80, poteva contare sulla sua super sala che era anche perfetta come teatro.

Sparito l’Augusteo, il teatro Minerva del dopolavoro ferroviario, il Salone del Mutuo Soccorso in via Zambonate, il teatro della Casa del fascio e dei sindacati in via Scotti, “il bel teatrino liberty del Collegio Sant’Alessandro, ora un triste auditorium in cemento armato! Ma quando mai i teatri si fanno in cemento armato?!”, lamentava Mimma Forlani (2).

TEATRO ROSSI (GIA’ TEATRO DELLE VARIETA’)

Artefice della nascita del primo teatro stabile, dopo il “Riccardi”, fu un ex capomastro intraprendente, attratto dal mondo dello spettacolo: quel Luigi Dolci che già aveva gestito il “Riccardi” fino al 1879, per poi gestire il Teatro delle Varietà, del quale Luigi Pelandi ci ha tramandato notizie.

Teatro Ernesto Rossi, già Teatro delle Varietà, in Piazza Baroni

Il Teatro delle Varietà era una gran baracca fissa con basi in muratura, che si trovava in Piazza Baroni (presso il Torresino di mattina), dov’era presente almeno dal 1881 (3). La prima rappresentazione portata su quelle tavole era stata l’Aida, recitata da marionette.

Il teatro aveva subìto sensibili trasformazioni per cura del proprietario Luigi Dolci, su disegno del figlio Antonio. L’interno aveva due ordini di gallerie e poteva contenere un massimo di 1200 persone.

Narrano le cronache del tempo che il teatro doveva essere un ambiente “aristocratico”, e per quanto fosse disposto per qualunque produzione, doveva destinarsi soprattutto a trattenimenti di prosa. Vi si esibirono le migliori compagnie drammatiche del tempo, ma vi furono anche concerti celebri, pianisti e violinisti di cartello (4). Sta di fatto però che il popolino lo chiamava “ol filatòi del Dolci”, perché amene coppiette di innamorati “filavano” tranquillamente nell’oscurità della sala.

Il Teatro Rossi, in Piazza Baroni (Raccolta avv. D. Cugini) 

Nel 1883 questo teatro assunse il nome di Teatro Rossi, in omaggio al grande attore Ernesto Rossi, che vi aveva tenuto una serie di recite nella primavera di quell’anno. Il Teatro Rossi venne demolito nel febbraio del 1894 poiché il Dolci non volle saperne di pagare la tassa annuale di posteggio all’amministrazione dell’Ospedale.

L’attore Ernesto Rossi all’epoca in cui diede il nome all’omonimo teatro (Raccolta D. Lucchetti)

E’ interessante notare che il suo ultimo impiego fu per un congresso socialista, relativo all’approvazione dello statuto regionale (5).

Il Teatro Rossi, in Piazza Baroni, strutturato sul preesistente Teatro delle Varietà da Luigi ed Antonio Dolci, poteva contenere 1200 persone. Fu così chiamato in omaggio al grande attore Ernesto Rossi, che ne calcò le scene nella stagione di primavera del 1883. Doveva essere un teatro aristocratico, ma in verità veniva chiamato “ol filatòi del Dolci” perché frequentato da amene coppiette. Venne demolito nel febbraio del 1894, poiché i Dolci non vollero pagare all’Ospedale Maggiore un aumento di affitto per il terreno (tempera di G. Gaudenzi)

POLITEAMA GIVOLI

Vita breve ebbe poi il Politeama Givoli, che fu edificato nel 1882 accanto al Teatro delle Varietà, là dove ogni anno per la stagione fieristica stazionava un circo equestre, che in bergamasco si chiamava bal di caài. Costruito su progetto dell’architetto Gaetano Gallizioli, venne definito una “mostruosità” da un giornale del tempo.

Il Politeama Givoli al centro della fotografia, posto tra la Fiera e l’Ospedale di S. Marco (annullo postale 5 giugno 1899, fototipia – Raccolta Lucchetti)

Il teatro, costruito in muratura e legno, aveva tre ordini di palchi ed una vastissima platea che poteva contenere 2500 persone (6).

Il Politeama Givoli in una tempera del pittore G. Gaudenzi

Le cronache del tempo lo descrivono come un ambiente popolare e più che altro destinato a spettacoli di circhi equestri e di varietà: in quegli anni, il termine Politeama veniva usato di frequente e si riferiva ad un luogo dove venivano rappresentati spettacoli di vario tipo: prosa, lirica, varietà, concerti, circo equestre, comizi, esperimenti “scientifici” e, più tardi, anche il cinematografo.

Nel 1894 e nel ’96 Filippo Turati vi tenne due famosi discorsi: “i socialisti sono i veri conservatori” e “la politica del proletariato” (7).

La Fiera vista da Porta Nuova: sulla destra si riconosce il fronte del Politeama Givoli (Raccolta Lucchetti)

Il 2 novembre del 1897 vennero iniziati i lavori di demolizione perché l’amministrazione ospedaliera rivendicò a sé l’uso dell’area sulla quale sorgeva il teatro, e alla fine di quel mese la Piazza Baroni era completamente vuota! (8).

Una rivista militare davanti al Politeama Givoli, in una fotografia del 6 giugno 1897. Fu costruito nel 1882 su progetto dell’architetto Gallizioli. Venne definito una “mostruosità”; aveva però tre ordini di palchi e ben 2500 posti in platea. Si adattava perciò ad ospitare circhi e spettacoli popolari. Fu abbattuto nel novembre del 1897, poiché l’Ospedale Maggiore, proprietario del terreno, volle libera l’area (Raccolta Lucchetti) 

POLITEAMA NUOVO

Mentre si abbatteva il Politeama Givoli, su di un terreno situato al di là della Roggia Nova, che a quel tempo scorreva a cielo aperto, si edificava, sull’area dell’ex giardino Piccinelli, il Teatro Nuovo, detto allora “Nuovo Politeama”, in quanto avrebbe dovuto rappresentare un po’ di tutto.

Dalla Rivista di Bergamo n.48 Dicembre 1925

 

Teatro Nuovo. Progettato nel 1897 (anno in cui il “Donizetti” assume l’attuale denominazione) da Gattermayer e Albini sull’area del giardino Piccinelli (attuale angolo via Verdi/ Largo Belotti), sul modello del Dal Verme di Milano, fu inaugurato il 23 marzo 1901 con La sonnambula di Bellini. L’edificio, ampliato nel 1928 da Cesare Ghisalberti e Camillo Galizzi, fu successivamente trasformato in sala cinematografica da Alziro Bergonzo, che eliminò le quinte, i palchetti, le gallerie a ferro di cavallo e il grande palcoscenico

Ma la costruzione, iniziata nel giugno del 1897, andò per le lunghe a causa di diverse inadempienze degli appaltatori. Gli impresari appaltanti, Giovanni Givoli e Innocente Carnazzi, dopo aver ricorso a giudizio, furono felici di liberarsi del fabbricato, cedendolo a Carlo Ceresa. Questi fece portare a termine la costruzione e – poiché si eccepiva sulla stabilità delle gallerie – ottenne il permesso di agibilità con un singolare espediente, che viene così riferito da Luigi Pelandi: “Fatta caricare’ dai suoi coloni di Stezzano, su una lunga fila di carri, una innumerevole quantità di sacchi di frumento, li fece collocare vicinissimi gli uni agli altri. Poi mise per beffa il cartello: tutto esaurito, e una bella sera, sfolgorante il teatro di luce, chiamò la commissione dei tecnici per constatare la gravità, la quantità, la qualità ed eccezionalità del pubblico così pesantemente assorto. La commissione vide, commentò ed autorizzò a pieni voti l’esercizio teatrale” (9). E finalmente il 23 marzo 1901, il Teatro Nuovo fu inaugurato con una rappresentazione de “La Sonnambula” di Vincenzo Bellini.

L’interno del Teatro Nuovo da poco inaugurato (Raccolta D. Lucchetti)

Fu con il geniale e temerario Pilade Frattini, impresario del Nuovo dal 1904 al 1915, che si ebbero le rappresentazioni più stravaganti e variate: con Frattini divenne la sala più polivalente della città, ospitando opere liriche, operette, commedie e drammi, concerti, conferenze, comizi, balletti, esperimenti scientifici, giochi popolari, spettacoli circensi, incontri di pugilato e lotta…

Pilade Frattini, uomo singolare ed impresario geniale del primo Novecento. Gestore del Caffè Nazionale (divenuto “Frattini”), co-gestore del Teatro Nuovo dal 1904 nonché animatore del Teatro Donizetti. Ma fu al Nuovo che scaricò tutto il suo estro, portando persino una corrida di tori (riproduzione da Raccolta D. Lucchetti)

Fu proprio al Nuovo che nel 1913 si organizzò il primo incontro di Boxe, in una serata d’accademia di ginnastica e scherma, mentre nel novembre del ‘28 il teatro Duse iniziò ad ospitare importanti manifestazioni di pugilato, che interessarono poi anche altri locali cittadini: oltre che al Nuovo, presso la sala Vittoria in P.zza S. Spirito, nella palestra dell’Atalanta in via Verdi, al Teatro Sociale, al cinema varietà Augustus in Borgo Palazzo e al Teatro Minerva del dopolavoro Ferrovieri.

Sotto Frattini vi fu la storica esibizione (1911) della Compagnia Futuristica Marinetti & Co (due anni prima “Le Figaro” aveva pubblicato il famoso Manifesto del Futurismo), suscitando scandalo tra i benpensanti e invettive anticlericali durante lo spettacolo. Nel 1915 Il teatro ospitò Luigi Pirandello in veste di direttore artistico di una compagnia teatrale che si esibì in “Sei personaggi in cerca d’autore”.

Fra i nomi celebri, Pietro Mascagni, Emma Gramatica, Fregoli, il grande giocoliere bergamasco Enrico Rastelli, ma anche, per la gioia dei bambini, il “nano Bagonghi”, così come l’indimenticabile Ettore Petrolini, Tito Schipa, ma anche D’Annunzio e Mussolini. L’elenco potrebbe continuare all’infinito, in quello che per lustri è stato l’unico teatro popolare della Città, solo più tardi affiancato dal glorioso “Duse”.

Nel corso della sua storia il Nuovo ha avuto diversi assetti, determinati dalle necessità che di volta in volta emergevano nel mondo dello spettacolo e della vita sociale e culturale della città. Nel tempo l’edificio si è progressivamente ridotto ed ha perso quell’assetto tipico dei teatri di fine Ottocento/primi Novecento del secolo scorso.

Nel 1928 è stato ampliato e sistemato su progetto degli architetti Galizzi e Galimberti nonché abbellito con una decorazione dal severo gusto artistico, così da rendere il Teatro degno del nuovo centro cittadino. Nel 1965 si è messa nuovamente in atto una ristrutturazione massiccia, ad opera dell’architetto Alziro Bergonzo, che lo ha trasformato definitivamente in una grande e modernissima sala cinematografica (del vecchio e glorioso teatro resta ormai praticamente la facciata verso Largo Belotti), diventando una sala da Prime Visioni (‘Rocky’ e ‘Jesus Christ Superstar’ vi tennero il cartellone per settimane) ma tenendo anche qualche spettacolo musicale o di cabaret teatrale.

Dopo aver attraversato un periodo di decadenza e dopo ripetuti tentativi di riqualificare il locale con programmazioni cinematografiche di livello, nell’estate del 2005  il cinema Nuovo ha chiuso definitivamente i battenti.

POLITEAMA NOVELLI

Un paio d’anni prima dell’inaugurazione del Nuovo, e cioè nel 1899, sempre per merito di quell’Antonio Dolci (figlio di Luigi) già interessato alla ristrutturazione del divenuto teatro Rossi, nacque il Politeama Novelli, edificato all’inizio del “viale della stazione”, nel giardino Codali, acquisito dal Dolci. A inaugurarlo, la sera del 16 novembre, fu invitato Ermete Novelli, che mise in scena un  magistrale “Papà Lebonnard”, con la sua compagnia al completo.

Come ricorda Luigi Pelandi nella sua Bergamo scomparsa, “fu una bazza per la cassetta e un trionfo per il grande attore, già abituato del resto a imponenti ovazioni dei teatri italiani ed esteri per quella sua mimica ampollosamente espressiva eppur tanto spontanea, passante dalle note ilari e bonarie a quelle della più commovente drammaticità”. Come poi usava a quel tempo, il Politeama Novelli ospitò anche diverse conferenze. Una in particolare aprì sui giornali un dibattito acceso: l’aveva tenuta l’avvocato Federico Maironi “contro la convenzione per la trasformazione dei tram cittadini”. Gli oratori erano molto contesi dai teatri, che a Bergamo proprio non mancavano (10).

Il Politeama, nei pressi dell’attuale via Novelli, era sorto riadattando la grande e singolare serra di un giardino preesistente, che apparteneva al floricoltore Codali. Come mostrato dall’immagine sottostante, vi era anche un laghetto, alimentato dalla roggia Ponte Perduto, che d’’estate fungeva da “piscina”, rigorosamente riservata alla popolazione maschile e affittata a 10 centesimi, mentre d’inverno lo specchio d’acqua ghiacciava diventando pista da pattinaggio e rifornendo ghiaccio per uso domestico. La serra fu poi trasformata in teatro.

La ripresa mostra il Giardino e il laghetto del floricoltore Codali, che in questo luogo teneva una grande serra, trasformata in teatro da Antonio Dolci nel 1899. La ripresa fu effettuata all’altezza dell’attuale Palazzo Dolci intorno al 1890, tra l’attuale viale Papa Giovanni e via Ermete Novelli. L’edificio a destra dovrebbe corrispondere al retro dell’odierno Hotel Piemontese, mentre quello a sinistra è un ampliamento del piccolo bar-ristorante in fronte al piazzale della Stazione, dove ad oggi si sono avvicendati numerosi esercizi di ristorazione

Nel 1903, Nicolò Rezzara propose di edificare sull’area del giardino Codali la Casa del Popolo (attuale sede de L’Eco di Bergamo). Il teatro ebbe dunque vita brevissima: fu abbattuto nel 1904 e la Casa del Popolo (oggi conosciuta come Palazzo Rezzara) si inaugurò l’8 maggio 1908, nella vasta area oggi compresa tra viale Papa Giovanni XXII, via Paleocapa e via Novelli.

Il Politeama Ermete Novelli, sorto nel 1899 nei pressi di via Ermete Novelli riadattando la grande e singolare serra del preesistente Giardino Codali. In alto si riconosce la mole della Casa del Popolo, costruita agli inizi del Novecento cambiando la fisionomia del viale della stazione. Fu proprio l’attore Ermete Novelli, con la sua compagnia, a tenere lo spettacolo con il quale si inaugurò la nuova sala. Che tuttavia non durò molto venendo tutta la zona coinvolta nelle trasformazioni del nuovo centro, che interessarono anche i lati del viale della stazione (Archivio Fotografico Sestini – Archivio Domenico Lucchetti)

Era il periodo in cui l’area circostante la Stazione andava acquisendo la fisionomia che conosciamo, con la via Paleocapa già delineata e con in testa Palazzo Dolci e Casa Paleni in viale Roma, con la sua ricca facciata liberty.

Palazzo Dolci su Viale Roma nel 1920. Eretto negli anni ‘70 dell’Ottocento, l’edificio rappresenta un segno architettonicamente dominante dell’incrocio tra via Paleocapa e il viale della Stazione, dove esprime il linguaggio eclettico del tempo. Il viale è ombreggiato dalle grandi chiome degli ippocastani, ampie e non maltrattate da maldestre potature

 

La Casa del Popolo, progettata su incarico del Consiglio direttivo dell’Unione delle Istituzioni Sociali Cattoliche Bergamasche, presieduto da Rezzara. Virginio Muzio vi eseguì gli scavi e posa della prima pietra (1904), ma l’edificio venne variamente realizzato da Ernesto Pirovano e completato nel 1908, anno della sua inaugurazione

Nella Casa del Popolo, oltre alle istituzioni cattoliche erano presenti anche un albergo, un ristorante, negozi, appartamenti, la redazione de “L’Eco”, la Banca Piccolo Credito, la cappella, sale di lettura, biliardo e il teatro Rubini. L’allora Viale della Stazione fu ribattezzato viale Roma – denominazione che mantiene anche oggi nel tratto tra Porta Nuova e via Petrarca -, mentre il tratto tra la stazione e Porta Nuova fu intitolato a Papa Giovanni XXIII.

La Casa del Popolo, tra l’allora viale Roma e via Paleocapa, sulla quale si affaccia l’ingresso del Teatro Rubini

TEATRO RUBINI

Costruito all’interno della Casa del Popolo, con ingresso in via Paleocapa, fu inaugurato la sera del 16 novembre 1907 con l’opera “Poliuto” di Donizetti, per restare in attività per quasi 80 anni, guadagnando un posto d’onore nell’immaginario collettivo della città.

Interno del Teatro Rubini (Archivio Luciano Galmozzi). Aveva una grande platea e tre ordini di palchi; le logge erano sostenute da una serie di graziose colonnine, le balaustre erano di ferro battuto e le decorazioni, di stile floreale. Un teatro moderno, comodo, elegante, capiente e, grazie alla buona acustica, adatto a spettacoli di musica e prosa. Il ridotto del teatro era in comoda comunicazione con una sala da caffè annessa all’Albergo Moderno, che faceva servizio da buffet

In teatro approdarono spettacoli d’ogni tipo, dalla prosa al varietà, dalla commedia dialettale ai concerti, ma un mese dopo l’inaugurazione, il Rubini accolse anche il cinematografo, che fu, sin dall’inizio, l’attività più sistematica, risultando da questo punto di vista, in certi anni, il locale più attivo della città.

Fu rinnovato nel 1954, aumentandone la capienza e cancellandone l’impronta stilistica originaria e nel 1974, quando divenne “Rubini 2000” e – ahinoi – nel 1987, data anche la crisi delle sale cinematografiche, venne sostituito dal Centro Congressi Giovanni XXIII.

Con i suoi 1.500 posti a sedere fra platea e galleria, aveva offerto per decenni film per famiglie, le anteprime dei western di Sergio Leone e tutti i cartoni animati di Disney.

L’ingresso in via Paleocapa del cine-tetro Rubini, nel 1959

 

Il cinema teatro Rubini  negli anni Sessanta. La fotografia fu scattata in occasione del film “Questo pazzo, pazzo, pazzo, pazzo mondo”, pellicola americana del 1963. Erano gli anni in cui le sale cinematografiche andavano ancora forte in Italia, ma negli anni Settanta cominciò il declino che portò a una progressiva riduzione del numero di sale. Nella foto si vede anche la bottega del barbiere Algeri, aperta nel 1936 e ancora oggi in attività

 

Interno del cine-teatro Rubini negli anni Sessanta

Con il nome di Rubini 2000 divenne frequentatissimo negli anni Settanta  anche per una serie di importanti concerti, come la prima uscita ufficiale della Premiata Forneria Marconi in veste di supporto dei Procol Harum. Vi si esibirono inoltre gli Area, il Banco del Mutuo Soccorso, Arthur Brown, i Pooh e molti altri.

L’atrio del cine-teatro Rubini nel settembre del 1959, con tanto di locandina (“Un condannato a morte è fuggito”).

 

Austerity 1973: davanti al Teatro Rubini

TEATRO DUSE

Fra tutti il più amato e compianto. Intitolato alla grande Eleonora Duse, nacque nel travagliato clima del Ventennio grazie a una sottoscrizione fra amici facoltosi, per soddisfare il bisogno di un nuovo teatro dove poter rappresentare opere liriche e lavori drammatici; un teatro che avesse minori pretese rispetto al massimo della città – il Donizetti – e maggiori agi rispetto al Nuovo.

Affacciato su Piazza Garibaldi, il bel teatro dalla pregevole facciata in stile neoclassico vantava la bellezza di 2.500 posti a sedere e funzionava egregiamente sia da cinema che da teatro. Ospitò le più varie attività: dall’opera seria ai concerti, dalla prosa all’avanspettacolo, dai dibattiti politici e culturali ad esibizioni circensi e incontri di pugilato, da pregevoli concerti jazz a concerti di musica leggera, intrecciando la propria storia con quella personale di molti bergamaschi. Nonostante l’acustica fosse il suo tallone d’Achille, il Duse fu molto più di un teatro: fu per decenni un punto di svago, di ritrovo, di socializzazione, regalando a molti bergamaschi serate memorabili.

Il compianto Teatro Duse, alla Rotonda dei Mille. Inaugurato nel 1927, è stato il teatro dei grandi spettacoli di rivista dell’epoca, poi il declino: nel 1968 fu demolito

Calcarono il suo palcoscenico nomi importanti e sostituì degnamente il Donizetti quando chiuse per lavori. Indimenticabile anche il Teatro di Varietà, con ballerine e truccatissime soubrette – allora popolarmente chiamate le donnine – ma anche le Compagnie di Rivista di Totò, Wanda Osiris, Macario, Walter Chiari, Renato Rascel, Josephine Baker, Paola Borboni, Dario Fo.

Dopo oltre quarant’anni di onorata attività, nel 1968 fu demolito per essere sostituito da un edificio di architettura “Brutalista”, con parcheggio aereo e un cinema sotterraneo, mentre il monumento di Garibaldi continuava a fare bella mostra di sé nel bel mezzo della rotonda, ormai assediato dalle auto e declassato a spartitraffico.

Duse, interno

All’alba della sua demolizione, un cartello manoscritto affisso da un ignoto all’ingresso del Teatro, recitava: “Da domani, tra una diffusa sensazione di malinconia, si darà inizio all’opera di rimozione delle strutture del palcoscenico e, successivamente, si arriverà alla vera e propria demolizione dell’edificio: Bocca amara per la Città. Non è che gli altri teatri cittadini stiano meglio, anzi! Certo, non sono in via di demolizione, ma… In fondo anche questi cambiamenti sono il sintomo di una mutazione culturale e di costume che la Città sta vivendo. Al suo posto sorgerà un moderno edificio per residenze ed uffici ed un parcheggio: l’edificio, destinato a morire, e con esso il Teatro, oggi si può ancora guardare e fissarlo nella mente, a futura memoria, infatti, in questi giorni è meta di curiosi e di nostalgici… e pensare che solo domenica sera, due giorni fa, il Teatro era ancora pieno di spettatori i quali, alla fine dell’ultimo spettacolo, hanno salutato il loro Teatro con un fragoroso e prolungato applauso, e la malinconia: la si poteva toccare con mano” (11).

La storia di questo teatro è minuziosamente raccontata QUI.

TEATRO AUGUSTEO

In una laterale di via Borgo Palazzo, in via Anghinelli 23, c’era era un piccolo teatro, che dopo un abbandono durato oltre 40 anni, nel 2007 è stato demolito per costruire abitazioni di lusso. Vi si accedeva da un portoncino di Borgo Palazzo, al numero 28.

L’insegna dello scomparso Teatro Augusteo in via Borgo Palazzo. Il teatro si trovava in via Anghinelli

Un vecchio numero dell’ “Eco” riporta che la costruzione della palazzina che ospitava il teatro fu affidata all’impresa Crialesi da un certo Gentili e a giugno ’23 la ditta Camillo Roncelli fu “incaricata di eseguire gli importanti impianti elettrici di proiezione, illuminazione, ventilazione, aspirazione, effetti scenici nel nuovo grande Teatro Augusteo”.

Esterno Teatro Augusteo, via Anghinelli (BG) – (Proprietà Dario Cangelli)

Aggiunge che “per inaugurare il nuovo teatro l’impresario Rumor, incaricato della gestione, riuscì a portare a Bergamo addirittura uno spettacolo de Les Folies Bergères.  

Teatro Augusteo, via Anghinelli (BG) – (Proprietà Dario Cangelli)

E al taglio del nastro, il sabato 8 settembre 1923, c’era anche una celebrità dell’epoca”, il mitico nuotatore Enrico Tiraboschi, che aveva da poco compiuto la la memorabile traversata della Manica da Calais a Dover in 16 ore e 25 minuti, “tanto da meritarsi una copertina della Domenica del Corriere disegnata da Beltrame”.

Essendo un teatrino di quartiere ospitò gli intrattenimenti più vari: oltre a quelli “classici” (prosa, varietà ed anche proiezioni cinematografiche), organizzò anche spettacoli destinati ai militari così come diversi eventi sportivi, come gli incontri di pugilato che si disputarono nel maggio del ’25, cui parteciparono “molti tra i più forti pugilatori italiani, primo fra tutti l’aspirante al titolo europeo, Bosisio”. Quella della boxe nei teatri era una tradizione ereditata dal teatro Nuovo (dove il primo incontro in assoluto risaliva al 1913) e poi trasmessa al Duse, a partire dal novembre del 1928.

All’Augusteo si tenne anche un incontro di pugilato con Livio Minelli, che nel 1940 aveva debuttato al Teatro Duse da professionista, portando a Bergamo il titolo Europeo ed Italiano dei pesi Welter il 4 marzo del ‘49 per poi partire per una tournée negli Stati Uniti

Il teatro restò in attività per una ventina d’anni, poi – sembrerebbe -, allo scoppio della Seconda guerra mondiale la sala venne requisita per ricavarne una mensa. Finita la guerra “l’immobile fu venduto e utilizzato come sala per l’esposizione di mobili, infine nei primi anni 2000 passò a un’immobiliare e fu inserito nel progetto di ristrutturazione del palazzo, con la realizzazione di unità abitative” (12).

Teatro Augusteo, via Anghinelli (BG) – (Proprietà Dario Cangelli)

 

Teatro Augusteo, via Anghinelli (BG) – (Proprietà Dario Cangelli)

 

Teatro Augusteo, via Anghinelli (BG) – (Proprietà Dario Cangelli)

Il palazzo dell’insegna esiste ancora, pur senza il monumentale balcone. Come tanti altri teatrini scomparsi, anche questo ha animato per un certo periodo la vita di un borgo, in una città che traboccava di vita.

IL TEATRO MINERVA, UN TEATRINO (SCOMPARSO) PRESSO LA STAZIONE
Quella sottostante è una rara immagine del Teatro Minerva del dopolavoro Ferrovieri, presso la Stazione Ferroviaria di Bergamo, risalente al 1938. Sappiamo, grazie ad alcune testimonianze, che il locale era già attivo almeno dal 1928.

Il palco del Teatro Minerva del dopolavoro Ferrovieri, presso la Stazione Ferroviaria di Bergamo, nel 1938. La rara immagine, datata 14 ottobre 1938, riprende l’orchestra Imperial Jazz, con alla tromba il signor Luigi Nessi, che in quel teatro aveva suonato anche per l’orchestra di Gorni Kramer e che smise di suonare nel ’46 dopo la fine della stagione estiva al casinò di San Pellegrino (per gentile concessione della figlia, Laura)

Quella del Minerva è stata anche una delle due sale da ballo esistenti a Bergamo nel dopoguerra (l’altra doveva trovarsi in Borgo Santa Caterina, forse chiamata Cristallo), vocazione proseguita negli anni Sessanta, quando il locale, che era noto come Piper, era assai frequentato (sicuramente esistente negli anni 66/67).

Nel corso del tempo il teatrino ospitò spettacoli di vario genere: dagli incontri di pugilato a spettacoli di varietà e di magia, e nel biennio ‘57/’58 vi si tenne uno spettacolo ispirato al “Musichiere”. In seguito vi fu un periodo in cui la sala fu utilizzata per giocare con le “Policar”, macchinine elettriche che correvano sulle piste con il pattino.

Ma quello che gli adulti di oggi ricordano con particolare emozione era lo spettacolo organizzato in occasione dell’Epifania per i figli dei ferrovieri, dopo il quale i bimbi ricevevano un regalo.

Il teatro si trovava nel lungo edificio posto a destra rispetto la facciata della Stazione; visto dal lato dei binari, costeggiava molti metri del binario tronco, quello per Lecco. All’interno c’era anche una piccola mensa e bar per i dipendenti.

IL TEATRO GREPPI (ORATORIO DELL’IMMACOLATA) 

Merita di essere ricordato anche lo splendido e glorioso Teatro Greppi (ancora esistente), fondato nel 1903 nell’Oratorio dell’Immacolata – oggi Sala Greppi -, con la sua struttura decorativa di primo novecento, il suo affresco di gusto settecentesco che la avvolge tutta e la impreziosisce, la sua loggia e il suo palcoscenico profondo. Il teatro sopravvive nella memoria di tutti gli abitanti del borgo che abbiano frequentato l’oratorio da ragazzi,  se non più per la proposta di rappresentazioni da parte delle due compagnie esistenti, per l’uso del teatro come sala cinematografica fino alla fine degli anni ‘70 del ‘900. L’Associazione Sala Greppi, dal 1981, ha poi gestito la sala per proposte musicali di altissimo livello, curando il mantenersi della sala stessa in modo tale da essere vissuta.

Il Teatro Greppi, nell’Oratorio Dell’Immacolata, nel 1914. Nel 1903, nel cuore di Bergamo, grazie all’intuizione di don Luigi Palazzolo e di Giuseppe Greppi, nasceva l’Oratorio dell’Immacolata, primo di città e provincia. L’Oratorio custodisce al suo interno un prezioso Teatro di primo Novecento, un “piccolo Donizetti”, da più di un secolo a servizio delle giovani generazioni, che vi hanno trovavano casa tra musica, teatro, incontri, formazione, cinematografia. Il Teatro, insieme all’adiacente Chiesa, fu il primo nucleo dell’Oratorio a essere realizzato

 

Il teatro Greppi oggi

RINATO A NUOVA VITA: IL S. ANDREA IN CITTA’ ALTA

Il Teatro S. Andrea è stato ricavato nella cripta della chiesa omonima, in via Porta Dipinta, costruita fra il 1840 e il 1847 sulla base di un edificio dell’ottavo secolo d.C. L’ambiente ipogeo fu destinato per circa un secolo a conservare opere provenienti da altri luoghi di culto, oltre che da quello preesistente. Una prima versione del teatro fu realizzata per volontà del parroco Antonio Galizzi che, nel 1951, fece realizzare nella cripta un cineteatro completo di palco, quinte, sipario più una cabina per proiezioni cinematografiche. Nel tempo, l’attività cine-teatrale venne tuttavia meno e lo spazio fu destinato ad altri usi, principalmente oratorio e spazio sportivo, fino alla sua chiusura negli anni ‘90. Solo nel 2018 l’ambiente sotterraneo della chiesa è tornato ad essere a tutti gli effetti un teatro. La sala può ospitare fino a 100 persone e si sviluppa secondo un impianto unico: all’abside e al presbiterio della chiesa sovrastante corrisponde la platea, mentre sotto la navata si sviluppano sipario e palco. Ai lati del sipario campeggiano decorazioni raffiguranti le maschere di Arlecchino e Pulcinella, realizzate da Albano Pressato negli anni Cinquanta. Dal 2020 si è unito all’arredamento un altro pezzo d’eccezione: il pianoforte gran coda Steinway del 1932, già appartenuto a Giorgio Zaccarelli e donato al teatro dai figli, e posizionato nella parte absidale.

Il Teatro S. Andrea, in via Porta Dipinta, sorto  nel 1951 nella cripta dell’omonima chiesa, per volontà del parroco Antonio Galizzi.  Chiuso negli anni ‘90, è stato recuperato nel 2018

Siamo sicuri che questo lungo elenco potrebbe continuare  …e chissà cos’altro avrebbe da raccontare.

NOTE

(1) Pilade Frattini, Renato Ravanelli, “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. A cura di Ornella Bramani. Vol. II, UTET,  Anno 2013.

(2) Pilade Frattini, Renato Ravanelli, “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”, Ibidem.

(3) Luigi Pelandi assicura che il 14 agosto del 1881, le “Notizie Patrie” segnalavano la presenza di una baracca stabile, il Teatro delle Varietà. Aggiunge inoltre che nella Piazza Baroni non esistevano edifici in muratura ad uso teatri prima del 1880 (Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa II – La Strada Ferdinandea”. Collana di Studi Bergamaschi, a cura della Banca Popolare di Bergamo. Poligrafiche Bolis, Dicembre 1963).

(4) Il Pelandi trasse tale notizia da Elia Dolci, Spettacoli lirici nei teatri di Bergamo – 1784-1894 (Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa II – La Strada Ferdinandea”, Ibidem).

(5) L’ultima comparsa risale il 28 gennaio 1894, allorché in questo luogo di ritrovo si tenne un grande congresso socialista per la discussione ed approvazione dello Statuto della Confederazione Regionale appena allora costituita. Vi avevano aderito 77 società sopra le 107 costituite in Lombardia (Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa II – La Strada Ferdinandea”, Ibidem).

(6) Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa II – La Strada Ferdinandea”, Ibidem).

(7) Comune di Bergamo, Piano di Recupero ex Teatro Cinema Nuovo. Relazione illustrativa generale. Ottobre 2018.

(8) Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa II – La Strada Ferdinandea”, Ibidem.

(9) Luigi Pelandi, “La Rivista di Bergamo”, numero di giugno del 1926.

(10) Pilade Frattini, Renato Ravanelli, “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”, Ibidem.

(11) “La nostalgia senza tempo dei cinema a Bergamo negli Anni Ottanta”. L’Eco di Bergamo, 6 maggio 2021.

(12) “Sulle tracce dell’«Augusteo» Il teatro sparito di Borgo Palazzo”. L’Eco di Bergamo, 6 settembre 2016. E’ però scritto ne “Il Novecento a Bergamo” (Op. Cit.) che il teatro “fu chiuso nel 1933 e adibito a magazzino di mobili”.

Riferimenti principali

Umberto Zanetti, “Bergamo d’una volta”, Artigrafiche Mariani & Monti. Ponteranica – Bergamo, 1983.

Pilade Frattini, Renato Ravanelli, “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. A cura di Ornella Bramani. Vol. II, UTET,  Anno 2013.

Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa II – La Strada Ferdinandea”. Collana di Studi Bergamaschi, a cura della Banca Popolare di Bergamo. Poligrafiche Bolis, Dicembre 1963.

Domenico Lucchetti, “Bergamo nelle vecchie fotografie”. Grafica Gutenberg, 1976.

Il Teatro Duse, un’epopea breve ma intensa

Il compianto teatro intitolato a Eleonora Duse nacque nel travagliato clima del Ventennio, durante il quale, nonostante la crisi generale e in un momento poco adatto a trovare denaro, Bergamo sentiva il bisogno di un nuovo teatro dove poter rappresentare opere liriche e lavori drammatici; un teatro che avesse minori pretese rispetto al massimo della città e maggiori agi rispetto al Nuovo.

Teatro Nuovo, edificato tra il 1897 ed il 1901 su progetto degli architetti Gattemayer ed Albini. Vi si tenevano spettacoli di prosa, cabaret e avanspettacolo e vi tennero discorsi personalità come Cesare Battisti, Gabriele D’Annunzio e Tommaso Marinetti. Venne chiuso nel 2005

L’idea della sua realizzazione era sorta nel 1925 da un gruppo di amici che aveva avviato una raccolta fondi per l’acquisto di un terreno “adatto alla bisogna”, che fu trovato alla Rotonda dei Mille, il quartiere più signorile ed elegante della città.

Via Garibaldi, ai tempi via Mazzini, nel 1920, prima della realizzazione della Rotonda dei Mille, il cui spazio circolare trova riscontri a partire dalle carte topografiche che seguono il 1914. Prima veniva segnalata la chiesa evangelica pressoché isolata con immensi appezzamenti di terreno di proprietà Frizzoni, attraversati dalla via Giacomo Morelli, che sboccava a sua volta nella piazzetta Morelli

Il gruppo, che nel frattempo si era allargato, aveva trovato considerevoli appoggi nel Consiglio di Amministrazione ed in particolare nel presidente avvocato Cavalieri, un esperto in tema di aziende teatrali, che coadiuvato da Giulio Consonno diede vita alla Società del teatro: un poderoso sforzo economico che aveva spinto “La Rivista di Bergamo” a invitare la cittadinanza ad associarsi affinché ne fosse curato ogni dettaglio.

La Rotonda dei Mille nel 1925: il teatro Duse non è ancora edificato

Il progetto fu affidato agli ingegneri Stefano Zanchi e Federico Rota e la costruzione al cavalier Donati, che si impegnarono a risolvere tutti i problemi di visuale, servizio, comodità ed acustica. La gestione del teatro fu quindi affidata a Giulio Consonno, impresario del Nuovo ed amante delle scene (nonché nonno paterno dell’attore Giulio Bosetti), che per anni aveva gestito il Donizetti.

Bergamo, 1926: alla Rotonda dei Mille sono posate le fondamenta del Teatro Duse

Nella primavera del ‘27, a lavori ancora in corso l’ampiezza della costruzione si profilava già nella sua mole imponente e al suo completamento, Bergamo si dotava finalmente di un teatro degno di una città in via di costante progresso, che, “per decoro e per ampiezza” poteva “essere invidiata da molte città superiori alla nostra per la disponibilità finanziaria e per popolazione”, sentenziava L’Eco.

Teatro Eleonora Duse, un pezzo di storia della città, nel 1930: forse la più antica in circolazione. Fu inaugurato il 24 dicembre 1927 e demolito nel 1968

La vita del teatro fu breve ma intensa, come la passionale e tormentata avventura fra la Divina e il Vate, Gabriele D’annunzio, che suggerì l’intitolazione a Eleonara Duse, attrice simbolo del teatro moderno.

Teatro Duse, 1931

L’INAUGURAZIONE

L’inaugurazione, sul finire del 1927, fu preceduta da un mare di polemiche: le opere da rappresentare, in serate diverse (24, 25, 26 e 27 dicembre) erano tutte di D’annunzio (La figlia di Iorio, La fiaccola sotto il moggio, Parisina e Francesca da Rimini) e tutte messe “all’indice” perché erano considerate immorali ed offendevano fortemente la coscienza dei cattolici. La scelta poi di effettuare l’inaugurazione la vigilia di Natale, rendeva il contrasto ancor più manifesto.

Fu dunque la Voce di Bergamo a descrivere la serata dell’inaugurazione, durante la quale la sala presentò un magnifico colpo d’occhio: le poltrone erano occupate da quanto di più eletto e aristocratico contava la città – il fior fiore – ed erano presenti molti critici di giornali nazionali. Alle 21 in punto l’orchestra intonò la Marcia Reale e Giovinezza, ascoltate in piedi e calorosamente applaudite dal grande pubblico della platea e delle logge. Tra un atto e l’altro il pubblico si scambiava le impressioni su nuovo teatro – tutte favorevoli -, distribuito negli ampi corridoi, nella sala per fumatori e nel buffet.

Il foyer del teatro Duse

Solo un neo, ma enorme: l’acustica. Che comunque non impedì il susseguirsi di famose stagioni liriche, concerti, operette, spettacoli musicali vari e di prosa.

La lirica debuttò subito dopo le opere dannunziane con le due opere in cartellone, l’Aida e La Bohème, opere affascinanti, degne di una vera inaugurazione tanto da gareggiare con quelle che si davano al Donizetti ed in grado di penetrare nell’animo popolare per la ricchezza del sentimento e per la “provata teatralità”. Il maestro direttore e concertatore era Mario Terni, forte di un glorioso passato in molti teatri.

“Soprattutto da non confondere con quelli fin qui offerti abitualmente, in modo improvvisato, al Nuovo”, scriveva L’Eco.

E fu un successo strepitoso.

IL TEATRO

Un teatro splendido, fra i più grandi d’Italia, ricavato in un palazzo alto 26 metri e presentato alla vigilia dell’inaugurazione come rispondente ai migliori criteri di modernità e di sfruttabilità. E ciò a partire dalla notevolissima capienza: un’ampia platea con due “barcacce” e doppio ordine di logge e galleria, per oltre 2500 posti a sedere (stimati sino a 2700) fra poltrone e sedie e circa 300 posti in piedi.

Il Duse era il secondo teatro di Bergamo, dopo il Donizetti. Imponenti le sue dimensioni: 18 metri di larghezza, 25 di profondità e 25 di altezza. La platea era ampia, capace, sobriamente decorata e illuminata con un che di riposante ed intimo, che invitava al raccoglimento. Era capace di 550 comode poltroncine numerate, mentre altre 400 stavano nella prima galleria, la maggior parte senza sovrapprezzo e libere al pubblico; la seconda galleria aveva posti numerati al centro, mentre il loggione era completamente libero

Il palcoscenico, spaziosissimo, disponeva di tutti i moderni mezzi di illuminazione, di montaggio e scarico delle scene. i camerini per gli artisti, comodi e aerati, erano muniti di impianti sanitari quali si convenivano in ogni miglior teatro. I sistemi di riscaldamento e di areazione erano attualissimi ed anche l’illuminazione rispondeva ai più moderni criteri artistici dell’epoca. “Chi visita il teatro non può non provare un senso di ammirazione ed esserne letteralmente affascinato”, scriveva ancora L’Eco.

Concorso GIL FP V – 14 ottobre 1941

SERATE DI GLORIA

Data la scatola scenica, il Duse era in grado di ospitare qualsiasi spettacolo e poté annoverare non poche serate di gloria, che alla fine del Novecento facevano ancora rimpiangere calde lacrime a Mimma Forlani – ma ovviamente non solo – per la sua distruzione: “Qui vi era una stagione lirica, qui arrivarono le vedette del varietà, qui nel 1933 danzò e cantò la mitica Josephine Baker; qui i bergamaschi ascoltarono la prima esecuzione in Italia della Rapsodia in blu di Gershwin e qui diedero l’addio al grandissimo giocoliere Enrico Rastelli.

Al teatro Duse, a pochi passi dalla villa di Enrico Rastelli, giocoliere di fama mondiale, si tenne l’ultimo spettacolo dell’artista, scomparso trentaquattrenne nella notte fra il 12 e il 13 dicembre 1931 nella sua casa di via Mazzini, ora Garibaldi, poche ore dopo lo spettacolo. Nell’immagine, il corteo funebre in partenza dalla villa di Rastelli

Giulio Consonno, impresario del teatro, si avvalse per gli spettacoli della consulenza e dell’appoggio dell’illustre Suvini Zerboni di Milano, società che deteneva i maggiori teatri della città meneghina, di Roma e Pavia, e i cui rapporti con la società degli autori erano tali da assicurare a Bergamo, al pari delle città più importanti, il migliore e più aggiornato repertorio drammatico italiano e francese, con la minor spesa.

Vi si esibirono artisti del calibro di Tito Schipa, considerato tra i maggiori tenori di grazia della storia dell’opera, la soprano e attrice Margherita Carosio, la mitica Paola Borboni e Alberto Semprini, pianista e direttore d’orchestra inglese naturalizzato italiano, mentre nel 1938 Gianandrea Gavazzeni vi diresse l’orchestra della Scala per commemorare Antonio Locatelli.

Gianandrea Gavazzeni

Memorabile la serata del 17 aprile 1934, quando il compositore bergamasco Giuseppe Carminati, “un bergamasco puro sangue, del contado”, presentò coraggiosamente in anteprima mondiale l’opera Il Corso, attesissima in città e  seguita sin dalle prove dai quotidiani cittadini, di cui il critico Pinetti ebbe a dire fosse “scritta tutta di getto: con il cuore….. col solo intento di piacere al pubblico e prima di tutto al pubblico bergamasco”.

Impegnato a concertare l’opera il maestro De Vecchi, con un ottimo complesso orchestrale di 50 elementi e con artisti di non comune rinomanza, come il tenore Vito Binetti, il soprano Delia Sanzio, il baritono Angelo Pilotto, il basso Romeo Molisani, il mezzosoprano Rina Gallo e il baritono bergamasco Igilio Caffi.

Teatro Duse, 1938

Nel 1930 andò invece in scena una delle operette più famose, Il cavallino bianco, con la compagnia di Arturo ed Emilio Schwarz e fece letteralmente impazzire Bergamo: scesero anche dalle valli e salirono dalla Bassa per godersi quello spettacolo di lusso.

Da allora e per diversi anni l’operetta è stata di casa al Duse; in particolare con gli spettacoli della compagnia formata da Nora De Rios (ballerina, attrice e cantante) e da Nino Gandusio (capocomico brillante e pirotecnico vissuto nei suoi ultimi anni a Bergamo): una coppia dal vastissimo repertorio, ideale per questo genere teatrale.

Al piano terra, lungo via Crispi, c’era il bar del teatro, con annesso distributore di benzina, di quelli con la pompa a mano

Le storie del teatro ricordano poi che il Duse ha ospitato spesso manifestazioni di un’arte, quella oratoria, divenuta poi appannaggio dei talk show televisivi. In particolare sul suo palcoscenico sono passati tutti i maggiori uomini politici della primissima Repubblica, da Giuseppe Saragat a Giovanni Malagodi, Palmiro Togliatti, Pietro Nenni, Ugo La Malfa, Arturo Michelini…. ma non solo.

Riunione fascista al teatro Duse, nel 1941

Ma nel 1928, poco dopo la sua inaugurazione, al Duse era stato portato persino il circo, a Bergamo sempre gradito e tanto atteso. Era il Circo Equestre Fratelli Cristiani, che segnò l’inizio della rappresentazione con capriole, salti mortali, schiaffi, pedate, lazzi e grida di clown e nani; poi apparvero il grande giocoliere inglese Kremberser, le originali danzatrici auree che saltavano su un filo, una briosa cavallerizza spagnola, gli acrobati, tre bravissimi fratelli somiglianti “come gocce di rugiada”, i cani ammaestrati e le belve.

Era previsto che nel maggio del 1950 Duke Ellington si esibisse con la sua orchestra al teatro Duse, ma resta ancora da chiarire se si trattasse del Duse di Bergamo o del Duse di Bologna. In ogni caso a Bergamo il concerto non ebbe luogo. Ma a ricordo è rimasta la locandina

Un cenno particolare, secondo le cronache merita anche un cantante di secondo piano, Antenore Reali, perché fu abile a ridurre al minimo l’inquietudine del pubblico in platea e nelle gallerie in occasione del terremoto che la sera del 15 maggio 1951, con due forti scosse, sgomentò la città.

Bergamo – Rotonda dei Mille e Teatro Duse, 1935. Alla Rotonda dei Mille convergono vari raggi stradali dai nomi garibaldini: la via Vittore Tasca, che parte da viale Vittorio Emanuele, tratteggiata nel piano regolatore e indicata nella carta del 1912 dall’ingegner Fuzier; la via Francesco Crispi, che parte da Piazza Matteotti; la via Daniele Piccinini da via Borfuro; la via Garibaldi e la via Francesco Cucchi, che parte da via S. Benedetto.

GLI INCONTRI DI PUGILATO AL DUSE

A lungo furono di casa, al Duse anche gli incontri di boxe, e ciò a partire dal novembre del 1928: una tradizione ereditata dal teatro Nuovo, dove il primo incontro risaliva al 1913. Incontri di pugilato si tenevano anche presso la “sala Vittoria” in piazza S. Spirito, nella palestra dell’Atalanta in via Verdi, al Teatro Sociale, al cinema varietà Augusteo in via Anghinelli (Borgo Palazzo) e al Teatro Minerva del dopolavoro Ferrovieri.

L’insegna dello scomparso teatro Augusteo in via Borgo Palazzo. Il teatro si trovava in via Anghinelli 

Tra l’altro, nei sotterranei del Duse c’era una palestra di pugilato, a spese della Bergamo Boxe, una società fatta nascere da Anselmo Ravanelli – delegato provinciale della federazione di pugilato – con il determinante appoggio finanziario di Giulio Balzer. A carico della società e grazie al sostegno di ditte bergamasche vi era anche la voce “spese varie” per aiutare economicamente i giovani pugili, bravi ragazzi per lo più di umile famiglia, che la Società contribuiva a mantenere “sulla retta via”, in quel momento storico particolare.

Una rara immagine del Teatro Minerva del dopolavoro Ferrovieri, presso la Stazione di Bergamo, datata 14 ottobre 1938. Nel locale, noto come Piper negli anni ’60, quand’era assai frequentato come balera, si tennero in precedenza incontri di pugilato. Fra i componenti dell’orchestra jazz ritratti in fotografia, alla tromba il signor Luigi Nessi, che al “Minerva” aveva suonato anche per l’orchestra di Gorni Kramer (per gentile concessione della figlia, Laura Nessi)

Negli anni Trenta sul ring del Duse debuttò il sedicenne Aldo Minelli, fratello del più famoso Livio, e una schiera di sostenitori di Boccaleone fece un tifo assordante; il pugile è ricordato anche in una serata dove il teatro fece sold out con un gran tifo dal loggione, tanto che alle due di notte c’era ancora gente che commentava l’incontro all’esterno del teatro.

Il fratello, Livio Minelli, vi aveva debuttato da professionista nel 1940, portando a Bergamo il titolo Europeo ed Italiano dei pesi Welter il 4 marzo del ‘49 per poi partire per una tournée negli Stati Uniti.

Il pugile Livio Minelli

GLI INQUILINI DEL PALAZZO (E UN GIORNO SPUNTO’ TOTO’)

L’attore Giulio Bosetti, nipote del cavalier Giulio Consonno, era nato proprio in un appartamento del palazzo che ospitava il teatro, il 26 dicembre del 1930, a tre anni esatti dall’inaugurazione. Da bambino seguiva tutte le compagnie che suo nonno portava a Bergamo: da Ruggero Ruggeri a Elsa Merlini, da Renato Cialente a Dina Galli e alla Wandissima della rivista: ovvio che avesse il teatro nel DNA, mentre il fratello, avendo scelto la carriera di medico, nei primi anni Cinquanta andò in Corea come volontario.

Accanto all’appartamento dei Bosetti, al primo piano, c’era quello del nonno, Giulio Consonno.

Giulio Bosetti, scomparso il 24 Dicembre 2009. L’attore, nipote dell’impresario teatrale  del Duse, Giulio Consonno,  era nato in un appartamento del teatro il 26 dicembre del 1930

Alla fine del Novecento ingegnere in pensione, da bambino anche Mario Casirati ha abitato nel palazzo del Duse, al terzo piano: dal 1939 alla demolizione dell’edificio, con una parentesi nel ‘43, quando dovette sfollare con la famiglia perché l’appartamento era stato requisito dai tedeschi.

Il suo primo lavoro di ingegnere lo fece calcolando i cementi armati della doppia rampa del parcheggio aereo del nuovo edificio che prese il posto del Duse.

Alcune finestre davano su via Crispi, la sala aveva un balcone che si affacciava sul parco di palazzo Frizzoni, con le scuderie non ancora abbattute, mentre sull’allora via Mazzini, oggi Garibaldi, v’era uno splendido colpo d’occhio su Città Alta.

Veduta verso la fiera e il parco di palazzo Frizzoni, con a margine la chiesa evangelica

Proprio la finestra della cucina dava sul monumento a Garibaldi. “Nata in Piazza Vecchia con il monumento a Garibaldi sotto casa, mia mamma se lo ritrovò di nuovo sotto casa quando nel 1939 si trasferì nel palazzo del Duse”.

Il monumento a Giuseppe Garibaldi venne trasportato da Città Alta alla Rotonda dei Mille, il 20 settembre del 1922, tolto da Piazza Vecchia, dove era stato posto il 15 settembre 1885

Sempre al terzo piano abitavano il dottor Giraldi, presidente del tribunale, e i proprietari del bar.

Isaia Bramani con la moglie, Pierina Locatelli, in sella al suo sidecar Frera, davanti al Bar Duse da lui gestito negli anni Trenta 

Al piano di sotto c’erano la famiglia del dottor Elio Leni e due sorelle sarde, le signorine Batzella: Maria era un’apprezzata e temuta insegnante dell’Esperia. Parenti di Saragat, il 26 dicembre del ‘64 avevano festeggiato l’onorevole, eletto presidente della Repubblica.

L’ingresso agli appartamenti era in via Crispi; alle scale si accedeva attraverso una porta che si apriva nel lungo “corridoio” che metteva in comunicazione con il palcoscenico per lo scarico e il carico del materiale di scena.

Nel corridoio, dai ragazzini chiamato pomposamente “cortile”, si giocava a pallone: a Mario Casirati, unico maschio della cricca, si aggiungevano le due figlie del portiere, la figlia del Cavalier Consonno, le tre figlie del dottor Leni e le tre figlie – un po’ più grandicelle – del proprietario del bar, cui si aggregavano spesso le tre figlie del dottor Ciabò, che abitavano all’angolo di via Tasca con via Cucchi: tutte costrette a giocare a pallone dal Casirati, che nel frattempo era diventato abilissimo nel lavorare a maglia (!).

Un giorno…

“…stavamo al solito giocando al pallone quando nel “corridoio” passò Totò per raggiungere il palcoscenico. Si fermò e scambiò con noi un paio di calci al pallone, che in realtà era una palla di gomma. A un certo punto Totò ‘inventò’ una rovesciata volante e spedì la palla nelle scuderie di palazzo Frizzoni. Toccò poi a me andare a recuperarla affrontando gli arcigni e temutissimi vigili urbani di guardia alla sede municipale”.

Negli anni Trenta, in un appartamento del palazzo risiedeva anche l’ingegner Arturo Scanzi, direttore o gestore del teatro Duse, con la moglie Maria Paganoni e i figli Marialuisa (nata nel 1920) e Claudio.

La famiglia Scanzi al completo, con l’ing. Arturo Scanzi, la moglie Maria Paganoni e i figli Marialuisa e Claudio. L’ingegner Scanzi gestì o diresse il teatro Duse negli anni Trenta, finché non si trasferì con la famiglia nella vicina via Cucchi. Uomo poliedrico ed estremamente attivo, fu anche anche costruttore e dopo la guerra aprì una libreria (Foto A. Taramelli. Per gentile concessione di Antonella Ripamonti)

L’ing Scanzi, sin dalla sua apertura nel 1922 deteneva anche la proprietà del Cinema Diana, le cui locandine per un certo periodo rivestirono interamente la facciata del palazzo che ospitava il Duse.

Pubblicità di film programmati al Cinema Diana sulle pareti del Teatro Duse alla Rotonda dei Mille, nel 1949

In seguito la direzione del Diana passò al marito di Marialuisa, Gianfranco Ripamonti, poi divenuto direttore del Cinema Centrale, chiuso negli anni ‘70.

Il Cinema Diana, in via Borfuro, nel 1969. La gestione del Diana dalla fine degli anni Sessanta passò all’ECI (Esercizi Cinematografici Italiani), sino alla definitiva chiusura nel 1977. La consorte dell’ingegner Scanzi, Maria Paganoni, essendo fervente cattolica e molto vicina ai Padri Domenicani non voleva che il Cinema Diana funzionasse il venerdì Santo e fece in modo che per quel giorno restasse sempre chiuso per permettere anche al personale di seguire le funzioni religiose (da una conversazione con Antonella Ripamonti)

La figlia di Marialuisa, Antonella Ripamonti, racconta che dall’appartamento si accedeva al teatro ed era possibile vedere il palcoscenico, ma che i genitori facevano in modo che la porta restasse sempre chiusa per evitare che la ragazzina potesse assistere a peccaminosi spettacoli di varietà. La ragazza però, con alcune compagne di scuola aveva trovato un modo per guardare di nascosto attraverso un buco nella porta, e quando la tresca fu scoperta venne punita adeguatamente dai genitori.

FRA DECLINO E MOMENTI DI GLORIA

Dopo aver ospitato a lungo opere liriche e spettacoli di prosa, cominciò un lento declino, ma ancora con bagliori violenti, tanto che l’anno di grazia arrivò nel 1963, quando la chiusura del Donizetti per lavori di ristrutturazione portò al Duse i migliori spettacoli lirici.

Formidabili colpi di coda fra le migliori rappresentazioni di prosa, incontri di pugilato e avanspettacoli con cinema e varietà, chiaro sintomo di decadenza, che contrassegnò gli ultimi giorni di vita del teatro, ormai additato con la la pessima reputazione di “tempio del peccato”.

Il Teatro Duse in una immagine del 1955 (per gentile concessione di Antonella Ripamonti). Nel 1958, dieci anni prima della demolizione, sul palcoscenico del Duse Primo Carnera, il leggendario campione del mondo dei massimi negli anni Trenta, concluse la carriera di lottatore alla quale si era dedicato dopo aver abbandonato la boxe

Soprattutto famoso il Duse, negli anni ‘50/’60, per le riviste con Carlo Dapporto, Walter Chiari, Totò, Renato Rascel, Macario, la Wandissima e tante altre vedettes, ai tempi in cui le soubrettine venivano chiamate “donne di spolvero” per l’eleganza e la presenza scenica.

Il Duse è stato il teatro dei grandi spettacoli di rivista all’epoca di Walter Chiari, il protagonista del “Sarchiapone”, affiancato dalla sua storica ”spalla” Stella Maris (al secolo Ilvea Benatti), che ancora ricorda la platea bergamasca come la più calorosa, e amante delle riviste

Nell’ultimo periodo, all’uscita degli “artisti” non era infrequente che si appostasse il gruppo dei vitelloni, allora assai noto in città, per attendere le girls del balletto; otto ragazze (alcune anche donne mature) che senza il cerone sul viso, senza le lunghe ciglia finte, senza il rossetto marcatissimo, senza l’ombretto attorno agli occhi, senza – a volte – la parrucca bionda e senza la luce dei riflettori, erano per lo più una delusione.

Ad accompagnarne il declino, le proiezioni cinematografiche ricordate da Giorgio Bocca, quando il sabato sera e la domenica i valligiani calavano al cine-teatro, “dove i programmi variavano su un unico tema: ‘Baraonde di donne capovolte in trasparenza’. ‘Atomicamente nude’. ‘Nudevolissimevolmente’. ‘Grazia Yunko nei sexy peccati capitali’. E altre follie” (1).

Per un certo periodo I film venivano proiettati poco prima che si alzasse il sipario per una Lucia di Lammermoor.

VERSO LA FINE

Fra un lento declino e formidabili colpi di coda, il Duse abdicò ufficalmente con la rappresentazione serale della domenica che precedette il 4 marzo del 1968, La signora è da buttare, con Franca Rame e Dario Fo.

Con un titolo a caratteri cubitali “L’Eco” ne annunciava la scomparsa aggiungendo: “E’ l’ultima volta che vediamo la facciata del Duse, di questo vecchio edificio che la rapida trasformazione della città ha da tempo condannato”: una facciata che sul finire del Novecento Luciano Andreucci descriveva con toni nostalgici (“di colore grigio, austera, sobria, elegante, ornata con decorazioni in bassorilievo, per un palazzo di notevole pregio artistico e architettonico”), ma che altrove era considerata un esempio piuttosto scolastico di struttura neoclassica, dall’aspetto di insieme triste e dimesso, più che severo e importante, come forse era nell’intento dei suoi progettisti.

In quei giorni si stavano innalzando le impalcature che presto avrebbero coperto la vista del teatro, sulla cui area sorse quell’edificio avveniristico dalle ampie superfici vetrate, sorto due anni dopo prendendo il nome dal vecchio teatro e fra mille polemiche, in quanto per molti non armonizzava con l’aspetto degli altri edifici.

Il teatro Duse venne demolito nel 1968, per essere sostituito dall’attuale edificio di architettura “Brutalista”, con parcheggio aereo e un cinema sotterraneo, opera degli architetti Giorgio Zenoni, Giuseppe Gambirasio e Walter Barbero. Il monumento di Garibaldi continuava a fare bella mostra di sé nel bel mezzo della rotonda alla fine del Novecento, benché qualcuno già pensasse fosse ora che cambiasse aria, assediato com’era dalle auto e declassato a spartitraffico: una fine davvero ingloriosa per uno dei grandi protagonisti del Risorgimento, come lamentavano alcuni

Agli inizi di marzo vennero rimosse quasi tutte le strutture del palcoscenico e buona parte delle poltrone della platea. In seguito si diede il via alla vera e propria demolizione. Senza pietà.

Il Duse chiudeva così definitivamente i battenti dopo oltre quarant’anni di onorata attività; una decisione presa da tempo. La sua abdicazione lasciava la bocca amara a coloro che fino a pochi anni prima avevano vissuto i suoi momenti gloriosi e che ricordavano il suo ruolo importante nella storia della musica e della prosa bergamasca, il tempo il cui il teatro ospitava i più rinomati circhi equestri e le personalità più famose del mondo dello spettacolo, dello sport, della politica.

Scriveva indignato e perplesso un lettore del Giornale di Bergamo al direttore prima della demolizione: “Ma proprio nessuno difende ‘sto teatro? E non c’è forse una legge che tutela i teatri nelle città? Nessuno però se ne interessa, in testa sindaco, assessori e consiglieri comunali”.

Il teatro Duse alla Rotonda dei Mille. Quando ne fu decisa la sua demolizione, per far posto a un supermoderno caseggiato, mezza città insorse. Inutilmente. Negli ultimi suoi tempi era diventato il regno dell’avanspettacolo (Archivio fotografico – Fondazione Bergamo nella Storia)

Contro la demolizione protestò anche un collaboratore de L’Eco, Guerrino Masserini, che chiedeva “perché mai tocca al bel palazzo del teatro d’essere abbattuto quando ci sono, anche vicinissime (come nelle vie Sant’Orsola e Borfuro ndr), tante case a un piano cadenti e in cattive condizioni. E poi finiamola di definire ‘vecchio’ questo teatro! Ha da poco superato i quarant’anni, non già i cento! Ma è ora di dare del ‘vecchio’ a tutto ciò che si avvicina al mezzo secolo”.

Alcune delle costruzioni che gli erano sorte attorno nello stesso periodo vennero demolite nel quadro di un piano di riordino urbano facente capo al neoclassico Palazzo Frizzoni (oggi sede municipale), ideato per portare a compimento l’isolato a cavallo tra via Garibaldi e il Sentierone.

Guardate che meravigliosa palazzina c’era alla Rotonda dei Mille: demolita (!) per innalzare un anonimo palazzo condominiale con bar e negozio di parrucchiere sulla strada

Ma furono in molti a rimpiangere la sua perdita e ancor’oggi il suo ricordo è evocato con tanta nostalgia.

 

Note

(1) Giorgio Bocca, Fratelli Coltelli. 1934-2010. L’Italia che ho conosciuto. Feltrinelli.

Riferimento principale

“Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. Di Pilade Frattini e Renato Ravanelli. A cura di Ornella Bramani – Vol. II. UTET. Anno 2013.

Enrico Rastelli, bergamasco, il più grande giocoliere del mondo

A solo una settimana dal suo ultimo trionfo sulle scene del Teatro “Duse”, Enrico Rastelli, il più grande “jongleur” del mondo, moriva improvvisamente a Bergamo, a soli trentaquattro anni d’età.

La notizia non fu creduta, tanto inattesa e inverosimile apparve a chi lo aveva visto, poche sere prima, pieno di vita, di gaiezza, all’apice della sua forma artistica, trascinare la folla a un delirante entusiasmo.

Enrico Rastelli (1896-1931), il giocoliere bergamasco ribattezzato “l’ottava meraviglia del mondo” dalla stampa americana di inizio Novecento, è considerato il più grande“jongleur” di tutti i tempi. Simbolo degli anni Venti, fu velocimane fenomenale e signore dell’equilibrio, mito della giocoleria dalla fama pari a quella di Houdini nell’illusionismo

Non poteva essere possibile, non era giusto che una tale, fiorente vita, fosse tanto bruscamente troncata. E una teoria immensa di popolo, tutta Bergamo, dal più altolocato cittadino al più umile, si recò in mesto pellegrinaggio alla sua villa di via Mazzini per vederlo ancora, serbando nel cuore la speranza che la Morte, inesorabile sempre, si fosse una volta tanto sbagliata.

Bergamo, 1932: Villa Rastelli. Alla fine degli anni Venti, dopo aver attraversato l’Europa e l’America, grazie alla fortuna accumulata Rastelli aveva fatto costruire una sontuosa villa a Bergamo, in via Mazzini 9, oggi via Garibaldi, dove si era stabilito con la moglie e I tre figli. Si dice che da diverso tempo, la villa, posta a pochi passi dall’ex Istituto Matteo Rota (oggi Presidio sanitario), sia abitata dalla famiglia Praderio, nota in Bergamo per il negozio di lane in via XX Settembre, e che fu per un certo periodo molto trascurata(Foto Ogliari)

Ed invero, a vederlo là, nel suo letto, calmo, sereno, quasi sorridente, pareva a tutti che dormisse, che riposasse, in una delle brevi soste del suo lavoro febbrile, e che da un momento all’altro dovesse alzarsi e riprendere la serie fantastica dei suoi esercizi.

Enrico Rastelli nel sonno della morte, dal dipinto del pittore Ghirardelli (Foto Ogliari)

Ma le sue mani, le sue miracolose mani che avevano saputo infrangere le più possenti e rigide leggi della statica e della gravità, ceree, conserte, immobili, avvinte da una sottile coroncina di madreperla, si portavano nel silenzio della tomba il segreto della loro arte inimitabile.

Le mani di Rastelli (Foto Hehmke Winterer)

Che cosa fosse l’arte di Enrico Rastelli si può riassumere in una parola: miracolo.

Chiunque abbia visto il suo “numero”, eseguito con palle di gomma e di cuoio d’ogni dimensione, con bastoni e piatti, a cui sapeva imprimere i movimenti più inverosimili e diversi, non troverà esagerata la parola.

Se altri artisti presentavano più o meno elegantemente difficilissimi esercizi di acrobazia sul cavallo, al trapezio, alle pertiche, tripli salti mortali, volteggi nel vuoto, nessuno esibiva una personale impronta che distinguesse l’uno dall’altro; ciò che invece eseguiva Rastelli, non poteva essere fatto che da lui.

Il lancio delle candele (Foto Robertson)

Egli era riuscito, attraverso un particolare studio ed una pratica quotidiana di lunghi anni, a rendere i suoi esercizi inimitabili e ad ottenere in ciascuno di essi la massima prestazione; nessuno mai, prima di lui, aveva raggiunto una tale perfezione: in questo consisteva la sua peculiarità, ed egli incominciava il suo numero là dove altri si sarebbero accontentati di arrivare.

E ciò che maggiormente meravigliava il pubblico era la semplicità, la sobrietà e la spigliatezza con cui agiva, sicché il suo lavoro sembrava un gioco e non dava affatto l’impressione della sua enorme difficoltà.

C’era dunque l’arte, del sentimento in quello che apparentemente sembrava puro meccanismo.

Apprezzato per il candore e sorriso che il pubblico adorava, Rastelli, oltre che dal pubblico e dalla critica, fu stimato anche dai colleghi artisti per la sua disponibilità a dare qualche consiglio su come preparare un esercizio, o a regalare qualche attrezzo che a lui non serviva più (Ph Museo delle Storie di Bergamo)

Figlio e nipote di artisti circensi, scritturati nei circhi russi, aveva trascorso l’infanzia in parte con i genitori in giro per il mondo e in parte a Bergamo con gli zii materni e dove fu avviato allo studio del violino.

All’età di cinque anni aveva provato per la prima volta ad imitare il padre, dimostrando una precoce vocazione, contrastata da Papà Rastelli, equilibrista ed acrobata, che forse pensava a quali difficoltà si dovessero vincere per eccellere in quel genere di esercizi.

Enrico Rastelli a 5 anni.  Figlio di Alberto – equilibrista ed acrobata – e Giulia Bedini, era nato il 19 dicembre 1896 in Russia, a Samara sul Volga, dove il padre era in tournée con il Circo Ciniselli

Ma il desiderio di intraprendere la professione circense aveva preso il sopravvento e giovanissimo volle raggiungere ii genitori a San Pietroburgo, dove iniziò a  partecipare ai loro spettacoli in qualità di acrobata.

Nel frattempo coltivava segretamente la passione per la “giocoleria”, tenendo in equilibrio, lanciando e a riprendendo palle, cerchi, piatti, forchette, coltelli, cappelli, birilli, bastoni: non ci volle molto perché presto diventasse  l’amico e il signore di quegli oggetti umili, casalinghi talvolta, che dovevano ubbidire ciecamente alla sua volontà.

Compreso lo straordinario talento del figlio i genitori crearono il Trio Rastelli, in cui la piccola famiglia italiana si esibiva in un ‘numero’ di giocoleria ed equilibrismo.

Un giorno, mentre, camuffato da ragazza si esibiva in un ‘numero’ di trapezi, la parrucca gli rotolò a terra, con grande divertimento del pubblico. Ferito nell’orgoglio Enrico decise fermamente di darsi alla sua passione: la giocoleria; ma l’agilità degli equilibristi aerei e degli acrobati avrebbe avuto una grande importanza per la sua futura carriera.

Ben presto cominciò a coltivare il desiserio di emergere fino ad oscurare la fama di tutti i giocolieri che lo avevano preceduto. Iniziava così, per Enrico Rastelli, una vita oscura di fatica e sacrificio, attraverso un’applicazione intensa e continua. Più tardi, con quel lavoro avrebbe mantenuto i suoi vecchi e, a sua volta, si sarebbe fatto una famiglia.

Enrico Rastelli (Museo delle Storie di Bergamo)

I suoi modelli? L’americano Kara e il francese Pierre Amoros, una combinazione di fantasia e abilità, sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo.

Enrico Rastelli alle prese con una palla da rugby

L’artista trascorse la giovinezza tra la Russia e l’Oriente, dove ebbe modo di perfezionare la sua formazione. Prese lezioni di danza da Vaslav Nijinsky e scoprì, grazie al giocoliere giapponese Takashima, i giochi di Awata: su un bastone tenuto tra i denti, faceva rimbalzare, o teneva in equilibrio, una o più palle.

Enrico Rastelli: il più grande giocoliere del mondo

Rastelli entrava in scena con un kimono dai ricami sontuosi, sotto il quale indossava un completo di seta bianca. Alla sacralità del gesto appresa dagli orientali, fu capace di affiancare la spettacolarità occidentale e una velocità di esecuzione mai vista prima di lui.

Rastelli ha rivoluzionato il genere con la sua innovazione – compresi palloncini e bastoncini che ha preso in prestito a giocolieri giapponesi -, ma anche per la durata più lunga del suo numero

 

Rastelli in kimono (manifesto)

In Russia nel 1915, all’età di diciannove anni debuttava come solista nel circo Truzzi, ai tempi in cui quel mondo ai giocolieri preferiva di gran lunga gli acrobati e i domatori.

Enrico Rastelli (Museo delle Storie di Bergamo)

Nello stesso anno superò il record di nove palle detenuto dal giocoliere francese Pierre Amoros, riuscendo a giocolarne dieci: “Nessuno può immaginare quanta fatica ciò mi sia costato! Il pubblico non si accorse nemmeno che io giocavo con una palla di più, ma i miei colleghi lo capirono”.

Enrico Rastelli in alcuni suoi “numeri” (Foto Sacchi)

L’allenamento gli costava una fatica immensa. Il suo esercizio richiedeva una fissità estenuante di attenzione che logorava i nervi e creava una paurosa anemia. Pallido, esangue, eseguiva il suo “numero” con uno sforzo terribile, che ad ogni esercizio lo lasciava prostrato.

Enrico Rastelli (Museo delle Storie di Bergamo)

Ma anche un giocoliere può soffrire di quell’allucinante amore che è l’amore per l’arte, e giocolare esige un lavoro costante e tenace. Per imparare a mantenere l’equilibrio anche durante il sonno, si obbligò per un periodo a dormire su una branda appesa alle corde del bucato.

Rastelli e il numero delle tre palle verticali (Foto Atelier Stone)

Sapeva che in nessun mestiere la scala dei valori è così chiara e nettamente suddivisa come nel mestiere del jongleur, per il quale Strehly, il più grande storico della vita e del lavoro del circo, nel 1905 aveva stabilito una gerarchia, seguita a tutt’oggi dagli specialisti del genere: tenendo due oggetti in aria si è un bambino; tenendone tre si è, talvolta, il papà di quel bambino; ma è a partire da quattro palle che un giocoliere comincia ad essere degno di questo nome; a cinque è bravissimo; a sei si è maestri; a sette si è fuoriclasse. A otto palle credo che sia impossibile arrivare”.

La ruota con sei palle

Se il celebre Kara, il più famoso giocoliere dell’Ottocento, faceva roteare in aria sette palle, Enrico Rastelli al Palazzo d’Estate di Bruxelles superò quella barriera di ben due punti, immettendo nella ruota dieci oggetti. Egli aveva dunque conquistato il record mondiale. E lo tenne insuperato fino alla morte. Per riuscirci si allenava dalle 6 alle 12 ore al giorno – senza nemmeno fermarsi quando parlava -, e ciò fino a pochi giorni prima di morire.

“Rotondo, muscoloso, ondulato modellato con sottili attaccamenti, il viso come una mela rosa, il naso appena a malapena agganciato per affermare il maschio, Rastelli sorrise, incantato, volteggiato, balzò, instancabilmente. Le traiettorie variavano in ampiezza, distanza di forza, come intervalli. Era coperto di sudore ma si inchinò, ridendo, senza nulla di istrionico e ricominciò dopo ogni bravo, a donarsi di nuovo senza riluttanza, con la prodigalità degli ingenui eroi che non sanno contare sulla vita. E andò a ballare, come Tristan o Zarathustra, orgoglioso di aver superato Kara , il più famoso giocoliere che manipolava sette oggetti mentre lui ne maneggiava dieci … ” (Dr. A. Thooris)

Nel 1917 sposò Henriette Price, una funambola che aveva dovuto corteggiare per qualche anno prima che il padre di lei, un famoso clown, acconsentisse al matrimonio.

Henriette Price, moglie di Enrico Rastelli, componente di una famiglia circense (Foto L’Art Foto – Budapest)

Con l’arrivo della rivoluzione e della guerra, Rastelli e la sua famiglia furono costretti ad abbandonare Pietroburgo, perdendo quasi tutti i loro averi dopo un viaggio avventuroso fino a Odessa (1919), dove riuscirono a imbarcarsi sulla nave italiana “Roma”, inviata dal governo per recuperare i connazionali. Tornarono così in patria, dove però Rastelli era quasi uno sconosciuto.

Ritratto d’Enrico Rastelli, giocoliere italiano, 1920

La svolta che diede il via al suo successo mondiale avvenne nel 1921. Il giocoliere, scritturato in quel momento dal circo Gatti & Manetti, fu notato dall’agente inglese Henry Sherek, che lo ingaggiò per una tournée nei più importanti teatri di varietà europei, tra cui l’Alhambra di Parigi e l’Olympia Hall di Londra.

Questi ingaggi, che segnarono il passaggio dal circuito dei circhi quello dei teatri di vaudeville (un genere teatrale nato in Francia a fine Settecento, molto simile ai teatri di varietà), lo indussero a cambiare stile, giocolando contemporaneamente con cinque palloni da calcio.

E fu nel 1922, all’Alhambra di Parigi, che avvenne il suo grande battesimo. Aveva allora venticinque anni e il suo nome era pressoché ignorato dai parigini, appassionatissimi del genere ma anche molto intransigenti.

Rastelli alla Tour Effeil. La Francia dove Rastelli spopola e strappa contratti da favola è quella che nel 1928 sarà in grado di produrre un numero di automobili sei volte superiore rispetto al 1913. A Parigi Enrico fa in tempo a vedere la Tour Eiffel usata come supporto luminoso per l’enorme pubblicità della Citroen (Foto Lorelle)

Il successo fu trionfale. Folle enormi trassero a vederlo, di lui si occupò tutta la stampa proclamandolo senza indugio il primo giocoliere del mondo. Già fin d’allora si presentò con il famoso esercizio degli otto piatti lanciati in aria e ripresi, tenendo un bastone ed una palla in equilibrio sulla fronte.

Ma la sua arte non si limitava alla velocimania: egli complicò i suoi esercizi con equilibrismo ed acrobazia, dando appunto con questo la sensazione dell’impossibile.

I bergamaschi ricordano lo strardinario esercizio che consisteva nello stare sdraiato sulla schiena, con un’ampia stella in metallo girante sulla punta d’un piede, un anello girante attorno all’altro piede, un’altra stella su un bastone in bocca, nel contempo facendo volteggiare tre bastoni con le mani stando su un supporto roteante.

Egli era infatti anche un maestro di “combinazione” di stili, come giocolare con sei piatti facendo girare un cerchio con un piede e saltando la corda girata da due assistenti, anche se la base dei suoi “numeri” restavano i pezzi fondamentali – cerchi, bastoni, palle, piatti – lanciati nella “ruota”, quasi sempre combinati tra loro.

Enrico Rastelli (Museo delle Storie di Bergamo)

 

La scelta di questi oggetti – i più adatti ad essere afferrati e lanciati – era una peculiarità che lo distingueva dagli altri giocolieri della sua epoca, che erano soliti giocolare con oggetti di uso quotidiano.

(Eingeschränkte Rechte für bestimmte redaktionelle Kunden in Deutschland. Limited rights for specific editorial clients in Germany) *19.12.1896-13.12.1931+Varietekünstler, Jongleur, Italienbei Übungen im Hof der ‘Scala’ in Berlinundatiert (Photo by ullstein bild/ullstein bild via Getty Images)

Riuscì in tal modo a raggiungere un livello tecnico notevolmente al di sopra di quello dei suoi contemporanei, arrivando a giocolare con otto piatti, otto bastoni e dieci palline.

circus artist rastelli Opera di Immanuel Giel. L’ influenza di Enrico Rastelli è sentita ancor’oggi, con la maggioranza dei giocolieri che si limitano ad usare i pezzi fondamentali dell’artista: soprattutto clave (che sostituiscono i bastoni), anelli (che sostituiscono i piatti) e palline

Dopo aver spopolato in Europa, per Rastelli arrivò il momento degli Stati Uniti: nel dicembre del 1922 firmò un contratto con Herbert Marinelli, uno degli agenti più famosi d’America. Per 750 dollari a settimana e con il nome ben evidenziato in cartellone, fece una tournée nel circuito di sale Keith-Albee.

Enrico Rastelli (Museo delle Storie di Bergamo)

Ebbe un immediato, grandissimo successo e si esibì nei più importanti teatri di varietà americani, compreso il celebre Palace di New York, dove i giornali lo definirono l’”ottava meraviglia del mondo”.

Enrico Rastelli (Museo delle Storie di Bergamo)

Capitava a volte che qualcuno, tra il pubblico americano, salisse sul palcoscenico per controllare le palle ed i bastoni per constatare che non vi fossero trucchi: “Spesso volevano toccare me per assicurarsi che non fossi cosparso di gomma arabica. Se volessero capire che qui non c’è né miracolo né trucco! Un artista ha bisogno di talento e allenamento, nient’altro!”, affermava Rastelli.

Enrico Rastelli (Museo delle Storie di Bergamo)

Una volta ritornato nel vecchio continente, i teatri di varietà di tutta Europa fecero a gara per accaparrarsi il meraviglioso giocoliere che entusiasmava con I suoi “triks”; tra i tanti, anche il Wintergarten di Berlino – un esempio illustre dell’affascinante teatro vaudeville, vero e proprio ‘tempio’ per il mondo dello spettacolo, che lo accolse il 1 agosto 1926 nel leggendario Giardino d’Inverno.

Rastelli e la moglie

A Berlino si presentò al pubblico – che aveva prenotato i posti un mese prima – con tre piatti nella mano destra, due nella sinistra, uno in bocca, e due appoggiati alla cintura. Poi, in un attimo, gli otto piatti si staccarono dal suo corpo, salirono, rotearono in aria, composero tra la sua mano e il cielo del palcoscenico un cerchio magico, continuando in questa candida danza per venti secondi, per quanti cioè egli poteva, teso nello sforzo, tenere il fiato e reggere così questa giostra suprema. Per giungere a questo egli si era allenato sei anni, per quattromila ore.

E proprio qui, nel leggendario, antico Giardino d’Inverno, venne ritratto in una fotografia – perfetta sintesi della sua arte – che finì sulle locandine dei teatri di mezza Europa.

Debutto berlinese di Rastelli al Wintergarten, il 1 agosto 1926. La foto, prodotta su lastra di un bellissimo viraggio seppia, “ha la leggerezza dei film di Truffaut. I palloni di cuoio cuciti a corda, le braccia tese in equilibrio, le dita delle mani larghe a fermare l’aria. Una coreografia tutta sua, collezione di gesti assoluti, ridotti all’essenziale. Nello sforzo immane con cui, per un tempo che al pubblico doveva sembrare lunghissimo, lui si prende gioco della forza di gravità. Teatro puro, bellissimo. E lui irresistibile, con addosso qualcosa di elegante e insieme infantile. E una continua meraviglia negli occhi, con cui domina il vertice atletico-estetico di quello strano rito finale, punto d’arrivo di chissà quante iperboli, orbite, parabole e traiettorie. Esercizio di stile, certo, ma non gratuito” (da L’Eco di Bergamo, C’era una volta un mito, Op. Cit. nei Riferimenti)

Rastelli ottenne un successo dietro l’altro, sia di pubblico che di critica, e attirò l’attenzione di artisti e intellettuali del tempo: le sorelle Vesque, illustratrici, lo ritrassero in alcuni disegni;

Enrico Rastelli, juggler, at the Cirque Medrano, October 1930. Gouache on paper by Marthe and Juliette Vesque (1930)

il direttore della sezione teatrale del Bauhaus, Oskar Schlemmer, raccomandò ai propri studenti di studiarne gli allenamenti;

Rastelli (Ph Weitzmann)

lo scrittore Joachim Ringelnatz gli dedicò una poesia; e ancora: “Divenni superbo come un bimbo quando a Parigi il poeta René Bizet mi disse: ‘Lei ha istinto e naturalezza prodigiosi, come le foche del capitano Winston!’”.

Un’intervista per la radio dopo il lavoro nel camerino a Monaco di Baviera (Foto A. Gulliland)

 

Rstelli a Berlino all’UFA, fra la moglie del primo ministro d’Ungheria Contessa Bethlen e il Regisseur Joe Max

 

Rudolf_Heinisch, Der Jongleur Rastelli

Acclamato, celebrato in tutti i continenti, ormai ricco a milioni, l’artista italiano fu fotografato in ogni posa, sia durante i suoi esercizi, sia nella vita quotidiana; perfino dentro la vasca da bagno mentre leggeva il giornale tenendo in equilibrio un pallone sulla testa.

Popolare come nessuno in un mondo che ancora non conosceva la televisione, fu anche testimonial pubblicitario per diversi prodotti: calze di seta – capo d’abbigliamento che il giocoliere indossava in scena –, palloni, sigarette, addirittura macchine da scrivere.

Locandina pubblicitaria

Rastelli e la moglie ebbero tre figli: Elvira (1919), Anna (1921) e Roberto (1929).

La signora Rastelli con le figlie Elvira (1919) e Anna (1921)

Ogni estate tornavano a Bergamo, per trascorrere del tempo con i due vecchi genitori e i bambini, che egli non voleva portare in giro per il mondo perché potessero studiare e fare, un giorno, una vita differente dalla sua.

Enrico Rastelli con la sua famiglia (Foto Ferrari)

Nella torre della bellissima villa liberty di via Mazzini, Enrico allestì il proprio laboratorio personale, dove si divertiva a costruire gli attrezzi che poi avrebbe utilizzato in scena, a fabbricare piatti e bastoncini di legno, a colorare nuove palle.

Le ville liberty di via Mazzini (oggi Garibaldi) nel 1920

A chi gli chiedeva se a Bergamo dedicasse del tempo anche al riposo, Rastelli rispondeva perentorio: “Oh mai più! Mi metterò a giocolare all’aria aperta, nel mio giardino. Mi eserciterò a nuove idee, a nuove difficoltà.

(Eingeschränkte Rechte für bestimmte redaktionelle Kunden in Deutschland. Limited rights for specific editorial clients in Germany.) *19.12.1896-13.12.1931+Varietekünstler, Jongleur, Italienmit seiner Frau beim Waschen und Trocknen der Bälleundatiert (Photo by ullstein bild/ullstein bild via Getty Images)

Riposare, non mi dice proprio niente. Io voglio gettare palle in aria, fare un salto e riprenderle a volo”.

Rastelli a Bergamo (Foto Gentili)

Inoltre l’infaticabile giocoliere proseguiva i lunghi, quotidiani, allenamenti presso il teatro Duse, davanti alla platea vuota, alla presenza solo dei vecchi genitori, mentre i suoi bambini scoprivano finalmente qual era il lavoro di quel papà che era sempre lontano e che arrivava, con quei birilli e quelle palle di gomma, diritto diritto dall’America.

Il teatro Duse nel 1930. Forse la fotografia più antica in circolazione

Il genio di Rastelli si manifestò non solo nella ferrea disciplina con cui si allenava, ma anche nella curiosità insaziabile che lo portava alla continua ricerca di idee su cui costruire ‘numeri’ sempre nuovi. Nel 1930 debuttò in Germania come giocoliere ‘calciatore’.

1930: Enrico Rastelli in Germania (Archivio Federale Tedesco)

Con palle di cuoio cucito, eseguiva i suoi incredibili esercizi come se fosse su un campo di calcio: si faceva lanciare uno dopo l’altro una ventina di palloni senza toccarli con le mani, se li faceva passare dal calcagno alla nuca, di qui al ginocchio, dal ginocchio alla testa e li lasciava infine cadere a piombo, per calciarli con violenza nella rete allestita in fondo al palcoscenico.

In ogni esercizio c’era del meraviglioso che faceva pensare a qualche influsso magnetico che egli comunicasse ai suoi strumenti di lavoro: vederlo riprendere le palle di cuoio sulla testa, sulla nuca, sulle guance, sulla punta delle dita, su piedi, sui polpacci, in posizione verticale, prono, supino, seduto, e fermare la palla al punto giusto, privandola d’ogni suo minimo movimento, sembrava che fosse possibile solo in virtù di nascoste calamite o che addirittura le palle avessero una sensibilità ed obbedissero ciecamente al volere del loro padrone…. Il numero durava circa un’ora, in cui non un attimo di riposo, non una minima sosta: e un brio, una leggerezza, un’eleganza affascinante. E si può dire che un applauso solo accompagnasse tutto il tempo del suo lavoro il miracoloso artista. Ogni altro numero del programma impallidiva di fronte al suo, la gente non veniva che per lui, per il suo Rastelli.

Dopo l’ennesimo successo clamoroso, Rastelli fu invitato come ospite d’onore in diverse manifestazioni sportive: in un cine-documentario lo si vede in campo con i giocatori dell’Atalanta mentre fa passare agilmente il pallone dalla testa alle spalle e alla schiena, senza che questo rovesci a terra.

Rastelli con l’allenatore Simmy Hogan delle squadre nazionali

Le grandi metropoli se lo contendevano, i grandi impresari lo accaparravano con cifre favolose, sicuri del suo enorme successo e dei colossali guadagni.

Nel 1929 Rastelli era di nuovo al di là dell’ Atlantico, scritturato dal grande Zigfield per le sue “Follie di Broadway”, il massimo riconoscimento cui un attore di music hall o di circo possa aspirare (paga: circa 16 milioni di oggi alla settimana).

Tornò in Europa alla fine dell’ estate, anticipando di poche settimane il tuono di Wall Street e la serie di tempeste a catena che poco dopo avrebbero terrorizzato l’Occidente.

L’ADDIO

Nel 1931 si presentò finalmente l’occasione per uno spettacolo in Italia, dove Rastelli non si esibiva da 10 anni e dove la sua notorietà non era così grande come nel resto del mondo. Tornare, celebre, davanti al nostro pubblico che di lui, italiano nomade, doveva così poco rammentare, fu per lui una grande gioia.

Firmò un contratto con la ditta Suvini-Zerboni: il debutto era previsto per i primi giorni di dicembre proprio nella ‘sua’ Bergamo, al teatro Duse, che scelse come prima tappa della tournée. Poi sarebbe stata la volta di Milano.

Pochi giorni prima che arrivasse in Italia, durante una rappresentazione tenutasi a fine novembre al teatro Apollo di Norimberga, uno spettatore gli aveva lanciato con eccessiva violenza il pallone che lui doveva fermare con un bastoncino tenuto tra i denti.

Enrico Rastelli (Foto Studio Lorelle). Con un bastoncino, stretto tra i denti, Rastelli riceveva delle palle lanciate dal pubblico. Una di queste però, scagliata con troppa violenza contro il bastoncino, gli procurò una ferita

Il numero riuscì ma Enrico venne lievemente ferito al palato, tradito e colpito da uno dei suoi strumenti.

Non riusciva ad arrestare l’emorragia, che continuò anche durante il viaggio verso Bergamo.

Arrivato a Bergamo si sottopose ad alcune visite mediche: gli fu diagnosticata l’emofilia e consigliato un periodo di riposo. Ma a dispetto delle precarie condizioni di salute decise di continuare: nella sua Bergamo, che tanto adorava, voeva tenere uno spettacolo di beneficienza per aiutare I bambini poveri della città.

Teatro Duse: il foyer. In questo teatro, a pochi passi dalla villa di Rastelli, si tenne ultimo spettacolo dell’artista i cui proventi furono devoluti ai bambini poveri della sua città

Il teatro era gremito di gente; un pubblico insolito era accorso, chiamato dalla sua arte e dalla sua generosità. Applausi frenetici e riconoscenti lo accolsero al suo comparire, sorridente e lieto. C’erano tanti bimbi, felici, che lo chiamavano a gran voce, e Rastelli si prodigò: voleva che quella fosse una memorabile serata.

Ma in quel corpo gracile di maestro di equilibri. la piccola, lievissima percossa aveva turbato il suo, di equilibrio.

Calato il sipario sull’ultimo applauso, egli si accasciò, infranto: lo sforzo supremo aveva spezzato il suo fragile involucro di nervi, l’ombra già scendeva su di lui. Egli forse sentì, in quell’istante, qualcosa cadere, qualcosa che più non ubbidiva. La morte aveva toccato Enrico Rastelli con una mano che era anche più leggera della sua di giocoliere, come per una macabra sfida. Rastelli pensava di guarire.

Quel miracolo di equilibrio che è l’esistenza si scomponeva e si disfaceva in un baleno, nel buio della notte. La sua vita terrena non doveva aver più luce, il suo breve viaggio era compiuto. La mano magica di Enrico Rastelli non si muoveva più.

La morte lo colse nella notte fra il 12 e il 13 dicembre nella sua casa di via Mazzini. Aveva 34 anni.

Enrico Rastelli nella camera ardente allestita nella villa di via Mazzini (Foto Solza)

Della sua inimitabile arte non restava che l’eco dello sfolgorante turbinio di oggetti in movimento che le sue mani fatate sapevano ricomporre in armonioso ordine.

Ma di lui rimaneva ben altro, e restava l’esempio raro di una vita tutta spesa per il lavoro e per la gloria, conquistata tenacemente, lentamente, giorno per giorno, rinunciando a tutto, in uno sforzo continuo e sfibrante di nervi, con la volontà tesa ad un unica meta. Vent’anni di lavoro silenzioso, oscuro, metodico, accasciante, ignorato da tutti senza di che la sua apparente magia sarebbe stata inattuabile.

Funerali Di Enrico Rastelli, 1931. Il corteo in partenza dalla villa di via Mazzini

Al lavoro aveva sacrificato tutto: la ricchezza, il lusso, le gioie familiari; ogni conquista nel campo della sua arte non era altro che una spinta a intensificare la sua fatica, ad aumentare il suo lavoro. Aveva assicurato ai suoi genitori, alla consorte e ai figli una vita serena nella pace della magnifica villa di via Mazzini; per sé non aveva riservato che l’arena di un circo o il palcoscenico di un teatro per lavorare.

Si era sempre vantato del suo nome, disdegnando allettanti pseudonimi; volle essere apprezzato solo per quanto valeva.

Ma i suoi concittadini non ignorarono che il fato lo aveva colpito proprio in quel suo gesto generoso, e con le loro preghiere lo accompagnarono nel viaggio Eterno e lo deposero nelle braccia del Signore.

Funerali di Enrico Rastelli – Il corteo funebre in via Garibaldi (Foto Gentili)

La scomparsa di Rastelli ebbe una potente eco, la notizia fu rilanciata dalle radio e dai giornali nazionali e internazionali.

Nel dare la notizia, in critico tedesco si fece prendere dalla commozione e scrisse che Dio, lassù, avrebbe concesso a Enrico Rastelli il privilegio riservato solo al migliore di tutti i giocolieri: continuare il suo numero anche in paradiso. Usando le stelle invece dei birilli.

Talloncino stampato a ricordo di Enrico Rastelli (Lucio Paleari per Storylab)

I funerali si svolsero a Bergamo il 15 dicembre: il corteo funebre, che partì dalla villa di via Mazzini, era gremito di artisti e di persone comuni. Migliaia di persone. Il centro della città fu chiuso al traffico, le lezioni nelle scuole furono interrotte per permettere agli insegnanti e agli alunni di rendere omaggio al meraviglioso giocoliere, i teatri osservarono un minuto di silenzio.

La moglie di Rastelli ripose nella bara anche due bastoncini di legno e una piccola palla, il simbolo stesso della vita del più grande artista di circo del ventesimo secolo.

Cimitero Monumentale di Bergamo. La salma di Rastelli portata dai compagni di lavoro (Foto Gentili)

 

Cimitero Monumentale di Bergamo. Il corteo funebre per Enrico Rastelli (Foto Piero Gentili by Getty Images)

Venne sepolto al Cimitero Monumentale nella cappella di famiglia, dove una statua a grandezza naturale lo ritrae con un pallone in equilibrio sul dito.

Turisti tedeschi rendono omaggio alla memoria di Enrico Rastelli nel suo mausoleo, a Bergamo

 

La targa funebre a Enrico Rastelli nel mausoleo dell’artista

Il mausoleo del giocoliere è ancor’oggi meta di pellegrinaggio per gli artisti circensi di tutto il mondo. E proprio lì il 23 dicembre del ‘56, nel venticinquesimo anniversario della morte, il presidente dell’Académie du Cirque, giunto appositamente a Bergamo da Parigi, tenne un discorso di commemorazione.

La delegazione del Circo Equestre Williams rende omaggio al monumento funebre di Enrico Rastelli, il 12 novembre 1959. La visita al cimitero di Bergamo è stata fino a pochi anni fa una tradizione consolidata per moltissimi artisti, soprattutto internazionali.. Quando la tournée li portava a Milano, non mancavano mai di venire nella città natale di quello che viene considerato il più grande giocoliere del mondo

 

Festival Internazionale Giocolieri, Trofeo Rastelli (1967) – (Archivio Franco Colombo)

 

Riferimenti

Enrico Rastelli, il piccolo mago bianco

Abat-jour, di Orio Vergani, Collezione Olimpia, Longanesi & C., 1973.

C’era una volta un mito, L’Eco di Bergamo , 14 giugno 1995.

Adriano Lami, Enrico Rastelli. La Rivista di Bergamo

Rastelli, Enrico