“Fiorite da un innato sentimento estetico, il Cinquecento vide sorgere in Bergamo numerose abitazioni, nella costruzione delle quali i nostri padri profusero tesori, affinchè i nipoti fossero maggiormente radicati al suolo di nascita per virtù e in forza della bella casa, della avita amatissima casa, entro cui le generazioni dovevano succedersi a cuocere il loro pane e a riscaldarsi il loro cuore.
Una di queste – da circa vent’anni di proprietà della famiglia Pesenti di Alzano – completamente negletta per un lungo periodo di tempo ed ora, in seguito ad un lavoro paziente e giudizioso di ricostruzione e di adattamento, diretto dall’ing. Corrado Rossi di Milano, convenientemente ripristinata dall’attuale proprietario comm. Antonio Pesenti – richiama la nostra particolare attenzione per quell’affetto onde fra noi si circonda e si consacra tutto quanto ricorda tradizioni storiche ed artistiche bergamasche”.
E’ quanto scrive Angelo Pinetti nell’introduzione di un articolo apparso nel 1923 sulla Rivista di Bergamo, dedicato al ciclo d’affreschi rappresentanti episodi della vita di S. Giuliano ospitaliero, appartenente alla decorazione primitiva del palazzo posto al civico numero 7 di via Porta Dipinta, attribuito ad un artista ignoto, “che fiorì in Bergamo sulla prima metà del sec. XVI, alla cui formazione contribuì evidentemente in modo notevole la scuola del Lotto”.
Gli affreschi erano, in origine, collocati in un salone al primo piano, dove furono successivamente intramezzati da tavolati che, procurarandone il parziale deterioramento, indussero il nuovo proprietario al loro distacco e ad una nuova collocazione sotto il portico d’ingresso, dove poterono rivivere quasi nel loro primitivo splendore.
L’incuria e il lavorìo del tempo hanno purtroppo danneggiato irreparabilmente l’episodio più importante della narrazione – quella relativa alla tragica uccisione del padre e della madre – andata interamente perduta.
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L’ingresso del palazzo accoglie il visitatore con le colonne d’un portico “tutto leggiadrìa e snellezza, dai capitelli lavorati con la minuta diligentissima cura con cui un orafo fregia un suo oggetto di oreficeria”.
“Lungo la parete a destra corrono episodi affrescati che illustrano vecchie leggende; nel cortile alle antiche eleganze più squisite si disposano in una bifora marmorea e in un portale istoriato di rilievi ornamentali altre grazie cinquecentesche d’imitazione recente. E penetrando nelle sale, affacciandosi verso le mura di S. Giacomo, dalla magnifica trifora veneziana bellamente ripristinata liberandola dalla cortina di muratura che del tutto la occultava, scendendo nel piano sotterraneo, motivi architettonici rari e composti avvivano tutte le parti della costruzione con una varietà felice che il restauro odierno ha saputo fondere sapientemente, risolvendo problemi statici e problemi di luce, per creare un insieme elegante e sereno, tutto compreso di facile snellezza, senza sforzo di concepire, dove nulla è scenografico e tutto appare armonico e profondamente intimo.
Dopo le manomissioni e le illogiche trasformazioni con cui il palazzo soggiacque attraverso parecchi secoli, alcune parti consunte e cadenti ed altre deformate, storpiate e confuse nella loro struttura originaria dovettero necessariamente esser rifatte; e più non conservano perciò le antiche decorazioni, né la purezza onde avevale originariamente improntate il costruttore.
Ma le linee primitive si rivelano dovunque; come pure da elementi sparsi e da resti di pitture murali hanno potuto trarre profitto gli artisti Fasciotti e Taragni per intonare il rinnovamento pittorico dell’edificio al suo carattere iniziale.
La costruzione del palazzo si deve all’architetto Morgando, artista evidentemente attratto dalla classica compostezza veneziano-bramantesca, il quale solo da più fortunate ricerche d’archivio potrà in avvenire esser tolto da un immeritato oblìo.
Egli lo eresse nel 1529 per incarico del nobile giureconsulto Giampietro Da Ponte, come ce ne rende sicura testimonianza una lapide murata nel pilastro centrale sotterraneo, sorreggente l’impluvio superiore e impostato sopra avanzi dell’antica cerchia cittadina delle mura romane.
L’epigrafe che ivi si legge attesta che:
CURA. ET. AERE
IO. PETRI. PONTANI. JURIS. CONS.
MORGANDUS
OPERA. PERPETUA
STRUXIT. AN. MDXXVIIII.
Il nome del committente non è nuovo nei documenti bergamaschi. Giampietro Da Ponte vi appare più volte come membro della Bina degli Anziani e del Consiglio Maggiore della città; come ministro del Consorzio della Misericordia e come incaricato di uffici diversi (1).
Imparentato con famiglie ragguardevolissime aveva preso in moglie, il 5 luglio del 1523, Alba figlia del conte Davide Brembati; e in seguito diede in isposa (giugno, 1539) la propria figlia Paola al Magnifico d. Bartolomeo Martinengo-Colleoni (2) appartenente al ramo bresciano dela gloriosa discendenza di Bartolomeo Colleoni.
Da quel matrimonio nacque nel 1548 Francesco Martinengo-Colleoni che fu la maggiore illustrazione di questa famiglia e uno fra i più eminenti personaggi del suo tempo.
Fra i beni dell’eredità del nobile Giampietro Da Ponte pervenuti ai figli del conte Bartolomeo Martinengo-Colleoni e di Paola da Ponte, la casa di via Porta Dipinta toccò a Francesco.
Questi – salito rapidamente ai più alti gradi della gerarchia militare, successivamente cavaliere dell’Annunziata, colonnello di Emanuele Filiberto, generale di Carlo Emanuele I di Savoia, governatore del Piemonte, ambasciatore a Roma e quindi al servizio della Repubblica veneta – è una salda figura che emerge in primo piano sui fortunosi avvenimenti della seconda metà del secolo XVI.
Dopo aver goduto la fiducia dei Principi più illustri, ed aver partecipato alle imprese guerresche ed alle negoziazioni politiche più difficili delle maggiori potenze d’Europa, alternò la sua dimora fra il Castello di Cavernago, da lui innalzato, ex-novo, e questa casa di via Porta Dipinta, dove moriva nell’età di sessantaquattro anni il 3 febbraio 1621 (3).
Non conosciamo a quali vicende di trapassi fu soggetta la proprietà di questo stabile fino al 1803, anno in cui l’allora proprietario nob. Filippo Marenzi la cedette con atto 12 settembre al conte G. B. Pesenti, cui appartiene sino al 7 giugno 1845, quando la contessa Marianna Pesenti moglie del conte Paolo Agliardi l’ebbe a vendere per 51.000 lire milanesi al nob. Antonio Pezzoli.
Fu infine dei signori Ronzoni, ultimi proprietari prima dell’attuale.
Il palazzo non era stato subito finito del tutto all’epoca della sua costruzione; la facciata che non è coeva all’interno di esso, ma posteriore di almeno mezzo secolo, presenta un’impronta non priva di eleganza che la fa assegnare alla fine del Cinquecento o al principio del secolo seguente.
Ma alla decorazione primitiva appartiene di certo il ciclo d’affreschi, rappresentanti fatti della vita di S. Giuliano ospitaliero, che trovavansi in un salone al primo piano, successivamente intramezzato da tavolati che procurarono la rovina di alcuni di essi.
Pur troppo il tempo non eccessivamente crudele per cinque di quelle storie, non ha rispettato la più importante della narrazione – quella della tragica uccisione del padre e della madre – andata interamente perduta quando il nuovo proprietario provvide, per salvarle, al loro distacco e a collocarle sotto il portico d’ingresso, dove oggi rivivono quasi nel loro primiero splendore.
Queste pitture si rivelano al primo esame come il frutto d’un artista, che fiorì in Bergamo sulla prima metà del sec. XVI, alla cui formazione contribuì evidentemente in modo notevole la scuola del Lotto.
Sarebbe vana fatica il perderci ad indagare il nome del pittore, cui dobbiamo questo complesso notevole di affreschi; ma, lasciando da parte l’arduo problema dell’identificazione del loro autore, con più piacevole curiosità siamo riusciti a risolvere quello dell’identificazione del loro soggetto.
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Per ben comprendere queste storie dipinte dall’ignoto artista cinquecentesco è prima necessario di stabilire nelle sue linee fondamentali l’argomento leggendario del racconto che nel medioevo, attraverso le varie trasformazioni subite secondo i gusti e i capricci eruditi di vari scrittori, venne via via arricchendosi di particolari e sviluppandosi nelle diverse parti, senza che per altro fosse intaccato o snaturato il fondo della leggenda; precisamente come lo smilzo torrentello va ingrossando a mano a mano che si dilunga dalla sua sorgente e accoglie in sé nuove acque e nuova possanza fino a diventare nell’ampiezza del suo alveo un grande e maestoso fiume.
Narra dunque la leggenda, la quale sembra che rievochi a distanza di secoli tutta la tragica terribilità dell’ineluttabile fato Edipodeo, come Giuliano, nobile cavaliere e cacciatore, si sentì ripetere giovinetto la tremenda profezia – secondo una tradizione da un saggio astrologo, secondo un’altra da una cerva inseguita in caccia e rivoltasi d’improvviso a rivelargli il suo triste destino – che egli sarebbe stato uccisore del padre e della madre.
Per isfuggire al fato che incombeva su di lui, Giuliano partitosi segretamente dalla patria e da’ suoi se n’andò in lontane regioni al seguito d’un principe che lo rimeritò de’ servigi fedelmente prestati sia in guerra, sia in corte, col dargli in feudo un castello, e una vedova castellana in isposa.
Frattanto i genitori di lui, gravemente addolorati della partenza del figlio, l’andavano ansiosamente ricercando in ogni luogo, errabondi per le più opposte parti della terra.
Capitati un giorno pellegrini al Castello di Giuliano mentre questi trovavasi fuori a caccia, e confidatisi colla moglie di lui, esponendole i casi occorsi a loro e al loro figliolo, essa, che pure dal marito più volte aveva appreso un simile racconto, ne riconobbe nei due ospiti i genitori che accolse benignamente e pose a dormire nel letto matrimoniale, intanto che andava alla chiesa a pregare Iddio.
Giuliano, tornatosene a casa nottetempo e trovato il talamo, com’ei sospettoso credette, malamente occupato, compiè ignaro orrenda strage de’ suoi genitori.
Sopraggiunta poco dopo la sua donna a farlo persuaso del duplice delitto commesso, Giuliano vedendo oramai in sé avverato il luttuoso vaticinio gravante su di lui dalla prima giovinezza e al quale invano aveva cercato di sottrarsi, si ritirò con la moglie in un’isola d’un gran fiume, dove molti viaggiatori erano stati travolti dalle onde ed avevano corso pericolo di vita, e vi eresse un grande ospitale per albergo e rifugio di tutti i poveri che là capitassero.
Dopo molto tempo Dio in visione gli manifestò chiaramente come avesse accettato la sua penitenza e Giuliano pieno di bone opere si riposò nel Signore.
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La letteratura di questa leggenda, che ebbe larga diffusione del medio evo, risale tutta, come a prima e principal fonte, alla Legenda Aureadi Jacopo da Varagio, o de Voragine, morto arcivescovo di Genova nel 1298, all’età di 96 anni, che in quella sua vasta opera raccolse le innumerevoli leggende religiose del tempo.
Di là attinsero Vincenzo Bellovacense, Pietro de Natal, S. Antonino e il Bollando per le loro vite de’ santi; e di là trassero ispirazione i poeti popolari e i pittori che divulgarono coi versi e coi dipinti le scene della vita di S. Giuliano.
Ne fece una versione in volgare Nicolao Manerbi che, stampata per la prima volta a Venezia nel 1475 da Nicolò Jenson, ebbe tra il cadere del quattrocento ed il principio del secolo XVI l’onore di oltre 20 diverse e magnifiche edizioni, alcune delle quali – come ad esempio il Legendario, impresso per le stampe in Venezia nel 1505 e nel 1518 dai fratelli Nicola e Domenico del Gesù, così chiamati dall’insegna della loro bottega – sono accompagnate ed illustrate da numerose xilografie, belle manifestazioni artistiche di quel largo soffio di vita che animava nel Rinascimento anche la più umile produzone popolare (4).
Una così svariata leggenda piena di emotività doveva naturalmente diventare popolarissima fra i pittori, sicchè troviamo che assai presto ed efficacemente eccitò la loro fantasia.
Fra gli affreschi trecenteschi che in antico attenuarono la cupa severità delle volte e delle pareti di pietra nel duomo di Trento di fianco all’altar maggiore, l’unico che si possa ancora godere è costituito da una lunga fascia con la romantica leggenda di S. Giuliano, la quale anziché esser riassunta, come per lo più usavasi, nella sola scena della catastrofe, si svolge con bella minuzia di racconto.
A Castiglione Fiorentino in una predella che Bartolomeo della Gatta dipinse nel 1486 per una pala della vecchia Pieve, rappresentante la Madonna e i SS. Giuliano e Michele, si osservano quattro strorie della vita di S. Giuliano (L’oroscopo di un saggio astrologo sul destino del Santo – L’uccisione del padre e della madre – La moglie che sopraggiunta constata il doppio parricidio commesso dal marito – S. Giuliano che accoglie sulla soglia del suo ospizio i pellegrini) animate di semplice naturalezza e di vivacissimo brio.
Se ambedue queste illustrazioni pittoriche sembrano attingere nel complesso al racconto di Jacopo da Voragine, sebbene la diversa rivelazione fatta al giovane della cruda sorte che l’attende lasci intravvedere anche altre fonti agiografiche, gli affreschi di casa Pesenti invece derivano senza dubbio dall’unica fonte della Legenda Aurea.
Ma in essi l’ignoto artista cinquecentesco ha insieme la forza di avvivare il vecchio e arido racconto tradizionale con elementi narrativi nuovi in cui si sente il soffio della Rinascita, il gusto pittorico e l’istinto dell’arte e del lusso propri di quell’età.
Facciamone un esame un po’ minuto.
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La prima storia – contenuta come tutte le altre entro riquadri a marmore ficto – ci conduce all’aria aperta, ad una di quelle grandi scene di cacce che furono il sontuoso passatempo delle Corti principesche della Rinascenza, loro preferito e dilettevole trattenimento ed insieme esercizio, scuola e simulacro di guerra.
Assistiamo allo svolgimento su sfondo collinoso di una partita di caccia, cui partecipa passionatamente il nobile giovinetto Giuliano.
A suon di trombette e di corni, i montieri (cacciatori di montagna) scovano dai boschi le fiere che si vedono fuggire inseguite da mastini, levrieri, molossi, bracchi e segugi.
A sinistra due uomini procedono carichi della gran preda fatta, mentre a destra una cerva dalle corna ramose, spinta al largo è assalita da un esercito di cani che la trattengono fino all’arrivo dei cacciatori.
Prosegue la caccia anche nel secondo scompartimento.
Giuliano pieno d’ardore insegue colle sue saette la. bianca cerva che, in conformità della versione di Jacopo da Voragine, rivoltandosi improvvisamente verso di lui, gli annunzia che egli avrebbe ucciso il padre e la madre.
La scena si svolge fra alberi fronzuti; in lonananza spicca sul margine d’una riviera una città turrita.
Il terzo riquadro ci rappresenta la partenza di Giuliano dal castello avito per sottrrsi al fatale destino che grava sopra di lui.
Sulle acque dello specchio marino che stendesi attorno alla città si cullano diversi grandi vascelli, sopra uno dei quali sta per imbarcarsi il giovane, portato da spirito avventuroso, cui si accompagna un moisterioso personaggio, forse il diavolo che lo sta spingendo verso la sua rovina.
Lo sfondo con porticati ed edifici di bella architettura fa rivivere sotto i nostri occhi meravigliosamente dipinto un paesaggio veneziano del cinquecento.
Il quarto affresco ci riconduce all’aria aperta fra boschi e colline, teatro delle cacce a cui Giuliano si dedica interamente, anche dopo che è divenuto sposo della vedova castellana datagli in moglie dal suo Principe.
Egli sta riposando all’ombra d’un albero, circondato dai fedeli cani e dalla abbondante selvaggina di cui ha fatto strage.
Ma il demonio, sotto le spoglie d’un compagno di caccia, mentre s’intrattiene con alcune donne capitate ad una fontana, gli insinua nel cuore una fatale gelosia verso la sposa, la quale frattanto accoglie ed ospita nel castello e pone a dormire nel letto matrimoniale i genitori di Giuliano, capitati colà per ricercare il figlio.
La scena culminante di questo ciclo pittorico – quella della catastrofe, della tragica uccisione dei propri genitori fatta da Giuliano quando tornato nottetempo sospettoso al tetto coniugale crede di trovare il talamo malamente occupato – come già dissi, è andata perduta. Un muro divisorio del salone originario in cui erano stati dipinti gli affreschi, la rovinò talmente che non fu possibile conservarla nel distacco.
Nell’ultima storia campeggia l’isola solitaria e deserta, circondata dai gorghi pericolosi dove sono periti tanti viandanti.
Là Giuliano, ritiratosi a penitenza, accoglie nel suo ospizio i naufraghi che aiuta a scampare dai flutti infidi, sinchè giunge il giorno in cui gli appare a confortarlo una visione con l’annunzio del prossimo gaudio che in cielo l’attende.
Così con libertà di svolgimento e di esecuzione l’ignoto pittore cinquecentesco ha abbellito della sua facile, piacevole e colorita vena narrativa il soggetto leggendario che artisti a lui anteriori avevano riprodotto entro più ristretti limiti tradiziopnali di composizione.
Interessano l’osservatore la giocondità pittoresca delle scene, l’accento vivace degli episodi, l’ampiezza dei paesaggi in cui pare rivivano i tempi e i luoghi dell’artista”.
Note
(1) Cfr. in Civ. Biblioteca: ms Azioni del M. Consiglio, e Terminazioni del Consorzio della Misericordia, passim agli anni 1520-40.
(2) Cfr. Cronaca di MARCO BERETTA: ms. in Civ. Bibl.
(3) G. M. BONOMI: Il Castello di Cavernago, pag. 303.
(4) Tutte le edizioni del Legendario di Jacopo da Voragine illustrate da xilografie sono minutamente registrate e descritte nell’opera del PRINCE D’ESSLING: Les livres a figures vénetiens etc. Florence-Paris, 1908. Tom. II, Part. I, pag. 124 e segg. Uno spendido esemplare dell’edzione del 1505 di Nicola e Domenico del Gesù conservasi nella nostra Civica Biblioteca.
Fonte
Il testo è estratto dalla “Rivista di Bergamo” – Anno II – Num. 16 – Aprile 1923.